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sabato 29 giugno 2019

Aleppo: con Binan ed Elia tra i bambini invisibili e i figli dell’Isis


di Daniele Rocchi
S.I.R.  29 giugno 2019

Donne anziane in strada che vendono pezzi di pane per sopravvivere, bambini e ragazzi che giocano tra cumuli di macerie non ancora rimosse. Auto e motorini che si muovono a suon di clacson fra la gente ferma davanti a improvvisate bancarelle e piccoli negozi dove si vende di tutto. La periferia orientale di Aleppo si presenta così dopo cinque anni di guerra (2012- 2017). In questa area si erano arroccati i jihadisti filo Al Qaeda di Al Nusra per contendere la città, capitale economica della Siria, all’esercito regolare del presidente Assad e ai suoi alleati russi e iraniani. Oggi la linea di fronte si è spostata di circa 20 chilometri, in piena campagna, dove si muovono ancora alcune milizie armate ribelli. “Fino a meno di sei mesi fa qui in queste strade non c’era vita. Le conseguenze ancora si vedono, manca acqua e anche l’energia elettrica. Si va avanti con i generatori” dice un negoziante. Ma ora qualcosa sembra muoversi, le famiglie provano a tornare. La gente pare più tranquilla, salvo ripiombare nel terrore, soprattutto di notte, quando razzi e bombe tornano a far sentire il loro frastuono.
L’incontro con Binan e Elia è qui, in mezzo a queste strade polverose che portano ancora i segni della guerra.
Binan Kayyali, psicologa e psicoterapeuta, Elia Kajmini, regista e autore teatrale, musulmana lei e cristiano lui, sono i due coordinatori del progetto “Un nome e un futuro”, voluto dal vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lutfi e dal Muftì di Aleppo, Mahmoud Akam. L’obiettivo? “Aiutare innanzitutto i bambini nati da donne vittime di stupri e abusi spesso perpetrati dai ribelli jihadisti, molti dei quali stranieri, durante l’assedio di Aleppo”.
L’Unicef stima che in tutta la Siria ci siano circa 29 mila bambini figli di foreign fighters, molti sotto i 12 anni. “Si tratta di bambini e ragazzi guardati con diffidenza, tacciati di essere figli dell’Isis o figli del peccato, e per questo abbandonati dalle proprie famiglie. Così anche le loro madri. Discriminati ed emarginati hanno bisogno di tutto, acqua, medicine, istruzione, supporto psicologico e soprattutto di un nome e di un futuro”. Già, un nome e un futuro, come recita lo slogan del progetto.
Avere un nome significa esistere se non lo hai non esisti, sei invisibile, esposto a violenze e abusi quotidiani. Se non esisti non hai un futuro” spiega Binan mentre indica una vecchia palazzina cadente crivellata di colpi. Su un balconcino campeggia un piccolo striscione con la scritta “Care center” sormontata da un logo con la sigla “Fcc” (Fcc, Franciscan care center). Due rampe di scale, invase da liquami, umidità ovunque, una porta che apre su un piccolo appartamento completamente rinnovato, imbiancato, luci al neon che amplificano gli spazi angusti. Un bianco che stride con l’esterno. E tanti sorrisi, quello degli operatori che qui prestano la loro opera, dei bambini che vengono assistiti e delle loro madri che li attendono fuori le aule. In una stanza un nutrito gruppo di donne, giovani e meno giovani, segue corsi di prima alfabetizzazione e di lingua inglese. Moltissime donne di Aleppo Est sono analfabete – spiega Elia – con questo progetto insegniamo loro a leggere e scrivere. Alla fine del corso riceveranno un attestato di frequenza”.


Sono due i Care center dei francescani che fanno capo al progetto “Un nome e un futuro”. I numeri sono di tutto rispetto: circa 500 persone seguite, 200 disabili e 300 ragazze madri. Un lavoro continuo, sette giorni su sette, per oltre otto ore al giorno, condotto da 15 operatori specializzati. Numeri che crescono man mano che nei due centri affluiscono “tanti orfani ‘invisibili’ trovati a vagabondare per i palazzi distrutti di Aleppo. I cosiddetti figli dell’Isis – dicono Binan e Elia – non sono nemmeno iscritti all’anagrafe. Praticamente ‘non esistono’. In gran parte si tratta di bambini e ragazzi molto aggressivi, poco propensi a relazionarsi con gli altri. Per questo motivo puntiamo alla socializzazione e all’inserimento scolastico grazie alla collaborazione con il ministero dell’Istruzione siriano.
Stare in una classe vuol dire avere un nome, studiare rende possibile un futuro. Ad oggi almeno venti di questi bambini sono stati iscritti nelle scuole pubbliche”.
L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi e scarpe
Nei due centri giungono anche numerosi ragazzi che non hanno potuto frequentare la scuola durante gli anni della guerra. “Cerchiamo di far recuperare le lezioni perse con un doposcuola in vista del loro reinserimento scolastico” dice Binan. Oggi è giorno di logoterapia e fisioterapia. Su un materassino Mahmoud, poco più di tre anni, fa fisioterapia. “È nato con difficoltà motorie sotto l’occupazione di Al Nusra e nel frastuono dei bombardamenti dell’esercito – dice Binan – del padre nessuna notizia. La madre non poteva uscire se non con il permesso di uno degli uomini della famiglia. La disabilità qui è uno stigma sociale. Suo figlio, costretto in casa, non ha potuto ricevere le cure adeguate”. In una saletta vicina le logoterapiste sono impegnate con due bambini. “Non parlano, sono traumatizzati dalla guerra – aggiunge la psicologa – uno dei due non riesce nemmeno a guardare la sua insegnante. La ascolta con il viso rivolto al muro. Sono bambini con un basso grado di concentrazione. Ogni minimo rumore li impaurisce. Sono gli esiti dei traumi vissuti sotto le bombe”. Ma ci sono due cose che, in prospettiva, spaventano la psicologa: la propensione al suicidio di giovani e bambini rimasti amputati durante i bombardamenti e la tendenza dei ragazzi a giocare in strada usando armi vere che vengono facilmente reperite nei quartieri della città. Hanno una familiarità con le armi al punto da riconoscerle dallo sparo che producono. La guerra sta provocando casi clinici e patologie che non si trovano sui libri scientifici. Non c’è bambino ad Aleppo che non abbia bisogno di aiuto e sostegno psicologico”.
Il lavoro di Binan e di Elia non si esaurisce  nei due centri ma prosegue nel Terra Santa College di Aleppo, guidato da padre Firas. Qui è attivo il centro “Arte e Psicologia” (Art and Psychology) dove tantissimi bambini e ragazzi vengono per frequentare corsi di teatro, di musica, di disegno, e praticare attività manuali e sportive. Lo sforzo di Elia e Binan, insieme a padre Firas, è arrivare anche alle famiglie di questi ragazzi. Il College è dotato di tante strutture, campi di calcio, di basket, piscina, palestre, laboratori, frutto della generosità della Chiesa italiana, di organismi come Misereor e di Ats, l’ong della Custodia di Terra Santa, in prima fila nel reperire fondi per alimentare la missione dei francescani.
L'immagine può contenere: 7 persone, persone che sorridono, folla e spazio al chiuso
Uno dei prossimi obiettivi, afferma Elia, “sarà aprire 10 centri in diverse zone povere della città. Assistere i bambini e le loro famiglie è il modo migliore per recuperare aree e zone della città altrimenti destinate a morire”. 
Aleppo oggi è un grande terreno reso arido dalla guerra – dice Binan – ma va irrigato e reso fertile piantando dei semi molto resistenti. Sono i semi della solidarietà, della vicinanza, della riscoperta dei rapporti interpersonali, del rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona.
Sono semi che crediamo possano ricostruire la società siriana e per questo portare alla pace e alla riconciliazione”.
Riedificare case si può e si deve, ma vanno prima ricostruite le vite dei loro abitanti”.
Resta solo il tempo di un breve saluto interrotto dal piccolo Mahmoud che ha terminato la sua fisioterapia. Si lamenta perché non vuole salire in braccio alla madre. Binan sorride. La prima volta che aveva visto Mahmoud entrare al centro era in braccio alla mamma. Ora vuole camminare da solo. La madre lo mette a terra e lo prende per mano. Sono i primi semi che germogliano.
https://www.agensir.it/mondo/2019/06/29/siria-con-binan-ed-elia-tra-i-bambini-invisibili-e-i-figli-dellisis/

giovedì 27 giugno 2019

Si parla di 400 miliardi per ricostruire la Siria, ma quanto per ricostruire le vite?

Un paese dissanguato: più di 400.000 morti, 13 milioni di sfollati e rifugiati, 2,1 milioni di bambini rimasti fuori dalla scuola e una scuola su tre distrutta. La vita "ordinaria" in Siria? Ecco a cosa assomiglia.
di Diane Antakli , Presidente dell'ONG 'Baroudeurs de l'Espoir'
20 giugno 2019
trad. Gb.P. per OraproSiria
8 anni di guerra, 8 anni di un quotidiano senza prospettiva del futuro, 8 anni di tristezza, disperazione. 8 anni di un'infanzia, di un'adolescenza, di una giovinezza che essi non hanno vissuto; un trauma che pesa sulla vita quotidiana di tutti. La cifra di 400 miliardi di dollari è stata ipotizzata per sperare di ricostruire un giorno la Siria. Ma quanto, per ricostruire le vite?

Ecco la mia cronaca di una settimana "ordinaria" vissuta di recente ad Aleppo con le squadre sul campo, con la nostra ONG 'Baroudeurs de l'Espoir' (Avventurieri della speranza).
Lunedì mattina manca un bambino all'appello. Aya, 5 anni, non è venuta a scuola. Il giorno prima, un ordigno è caduto sul suo edificio, uccidendo e ferendo gravemente i membri di una famiglia nell'appartamento sopra il suo. La paura si diffonde, i suoi genitori chiamano le insegnanti per dire loro che Aya non riesce a uscire dalla sua casa, paralizzata dalla paura. Una macchina viene immediatamente inviata a prenderla e cercare di farle vivere una normale giornata di scuola.
Martedì sera. Una cena è organizzata nel parco giochi. La musica è in pieno svolgimento. Al termine di una canzone, rimbomba tutt'altra musica, quella di bombe, mortai e colpi di fuoco missilistico, e l'aviazione che risponde. Poi la musica riprende, i telefoni squillano. Le famiglie sono preoccupate, il viaggio non è sicuro. Riusciranno a tornare tutti a casa?
Mercoledì. Lo scuolabus ha deciso di cambiare il tragitto, per motivi di sicurezza.
Giovedi. Si esita a cancellare una competizione sportiva che riunisce centinaia di adolescenti: un missile è caduto la settimana prima sulla casa di uno dei responsabili dell'evento, molto vicino al luogo della manifestazione. È lui però che vuole mantenere la competizione. Egli si rifiuta di cedere alla paura.
On parle de 400 milliards pour reconstruire la Syrie, mais combien pour reconstruire les
Venerdì sera. Sono nel piccolo giardino del cortile della scuola, un'esplosione mi fa sobbalzare. Qualche minuto dopo, il suono delle ambulanze molto vicino. Ma ci si abitua, davvero?
Sabato. Una bomba di mortaio cade a poche decine di metri dalla competizione sportiva per gli adolescenti. Quel giorno, il proiettile cade in una sabbiera, limitando gli impatti.
Domenica. Non scordiamolo. Le armi non si prendono un giorno libero.
Ad Aleppo come in tutte le città della Siria, come in tutte le città del mondo, i giovani desiderano vivere, uscire, amare, ascoltare la musica e godersi il silenzio, respirare, sognare. I loro sogni sono immensi, la loro sete di vita infinita. Non dimenticateli. Non dimenticateli perché loro stanno in piedi, non arresi.

lunedì 24 giugno 2019

Homs, germogli di speranza tra le macerie...


di Daniele Rocchi
S.I.R.  24 giugno 2019

Tra i quartieri distrutti di Homs la casa dei Gesuiti, nella parte vecchia della città, appare come un’oasi di pace. In fondo, dicono da queste parti, lo è sempre stata. Qui, durante i combattimenti tra l’esercito siriano regolare e le milizie dell’Esercito libero siriano e dei jihadisti di al Nusra, in un assedio durato anni, hanno trovato rifugio e ospitalità centinaia di persone di ogni fede e etnia, che avevano perso tutto a causa della guerra. È qui, nel quartiere di Bustan al-Diwan, che incontravano ogni volta padre Frans van der Lugt, gesuita olandese che ha pagato con la vita il suo impegno per i più poveri e vulnerabili.  
Un uomo di riconciliazione, un pastore con l’odore delle pecore – come ricorda spesso Papa Francesco – che non ha mai voluto abbandonare il suo gregge, fino alla fine. Forti le sue denunce contro la mancanza di cibo, medicinali e aiuti per la popolazione assediata. Il 7 aprile di cinque anni fa il gesuita fu freddato nel suo convento da un uomo con una maschera, dopo essersi rifiutato di seguirlo. Oggi riposa nello stesso piccolo cortile dove incontrava i suoi poveri che non lo hanno dimenticato. In tanti ogni giorno vengono a pregare sulla sua tomba.

Recuperare speranza. 
Padre Michel Daoud, “siro-libanese”, è uno dei quattro gesuiti che oggi abitano la casa portando avanti la missione pastorale che fu di padre Frans. “L’assedio è finito, non si spara più ma le macerie sparse ovunque – spiega – raccontano di una città che fatica a risollevarsi nonostante la voglia di rinascere. Cerchiamo di restituire un po’ di fiducia alle persone e forse questo può non piacere a qualcuno. Il nostro servizio è rivolto a tutti cristiani e musulmani, indistintamente”. Durante gli anni della guerra i gesuiti hanno assicurato acqua, cibo, energia elettrica, medicine, ma soprattutto una presenza umana costante. “Molta gente del quartiere e di altri limitrofi – ricorda padre Michel – veniva nella nostra casa a recuperare un po’ di fiducia e di speranza. I più giovani ritrovavano il piacere del gioco restando nel piccolo cortile. C’era chi ricaricava il cellulare per provare a chiamare i propri cari fuggiti all’assedio e chi invece riposava approfittando della quiete del convento. Neanche dopo il martirio di padre Frans la gente ha smesso di venire. Non ha paura e ha scelto la nostra casa come loro dimora, nella quale sentirsi al sicuro, questo per noi è motivo di grande speranza”.
Continuare a sperare per ricostruire l’uomo dalle macerie”.
È riposta in queste parole l’eredità di padre Frans che ora potrebbe avere un ulteriore riconoscimento. “Abbiamo iniziato, con la Curia generalizia, a raccogliere tutto il materiale necessario a istruire un giorno il processo per riconoscere il martirio – rivela padre Michel – nella speranza di arrivare alla causa di beatificazione”.
Oggi come allora.  La presenza dei gesuiti in questo quartiere nel cuore della città vecchia di Homs, dove ebbero inizio le prime manifestazioni di protesta contro il presidente Assad, si è rafforzata attraverso un impegno pastorale che passa per la cultura, la catechesi, l’arte, la carità, l’ascolto e la preghiera. Può accadere allora che in un cortile circondato da macerie e da palazzi crivellati dai proiettili possano ritrovarsi 800 persone a vedere un film, ascoltare un concerto di musica classica oppure, a piccoli gruppi, condividere versi e leggere poesie.
Nonostante la guerra, voluta dalle grandi potenze per i loro interessi, nei cuori delle persone c’è un desiderio di bene e di pace. La ricostruzione della Siria passa anche da qui. A che serve – è la domanda di padre Michel – costruire case se poi non abbiamo ricostruito l’uomo che le deve abitare e far rivivere? Questa è la sfida che ci attende”. Una sfida resa ancor più difficile dalla fuga all’estero di tante famiglie, molte delle quali giovani. Pochissime quelle che sono tornate. Siamo ben consapevoli – ammette il gesuita – che il destino della Siria non è tanto nelle nostre mani quanto in quello delle potenze che combattono sul nostro territorio. Ma restiamo per aiutare la gente a ricostruirsi una vita, a non perdere la speranza minacciata dalle sanzioni di Usa e Ue che ci costringono a una vita sempre più dura. Più dura delle macerie che ci circondano”.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto
Le spalle degli anziani. 
Homs resta così stretta nella morsa della guerra. Nessuno, nemmeno sottovoce, osa parlare di dopoguerra. Qui si è più preoccupati di vivere il presente soprattutto quando si è anziani soli, privi dei parenti emigrati all’estero e senza una casa. Gli anziani sono tra i più poveri di questa città un tempo sacra al Dio Sole.
È un quadro desolante” racconta suor Valentina, una vita passata in Siria al servizio dei più poveri secondo il carisma delle suore del Sacro Cuore. La religiosa gestisce con una sua consorella una casa di ricovero per persone anziane, nella zona vecchia di Homs, voluta dalla locale chiesa evangelico-presbiteriana, guidata dal rev. Yousef Jabbour. “Quello degli anziani soli è un problema gravissimo e non solo a Homs – spiega la religiosa – la guerra, e adesso anche la povertà, hanno spinto molte famiglie a partire lasciando qui i loro anziani. Sono pochi, infatti, quelli che hanno voluto seguire la famiglia. Chi è rimasto è malato, non ha di che vivere dignitosamente, con la casa ridotta a un cumulo di macerie”.
Nella struttura sono ospitati 52 anziani di età compresa tra i 60 e i 90 anni ma altri 37 sono in lista di attesa per entrare. “Non tutti possono pagare ma la Provvidenza non ci fa mancare nulla” dice la religiosa mentre si affaccia ad un balcone. Di sotto alcuni bambini giocano. Li indica e con un sorriso dice: “sono il futuro della Siria. Molti sono nati durante la guerra non hanno conosciuto altro che macerie e violenza. La Siria deve poter ripartire da loro”.
  Ma intanto bisogna occuparsi dei “nonni” della casa che durante la battaglia di Homs è stata attaccata e saccheggiata più volte dai jihadisti. “Sono stati anni duri, non avevamo acqua e cibo, al buio per intere giornate, ma siamo rimaste accanto alla popolazione” ricorda suor Valentina. “Poi quando i combattimenti sono finiti abbiamo cominciato a ricostruire. I nostri ospiti vengono assistiti, curati e stimolati con attività anche manuali. Ci sono dei giovani che vengono a fare animazione due volte a settimana. Sono diventati i loro nipoti. Qualcuno chiede dei parenti lontani, i più fortunati ricevono qualche visita dai familiari che abitano nei villaggi vicini”.
Tutti sanno che non rivedranno mai la loro città ricostruita, nemmeno la loro casa. Ma sanno anche che non sono soli. Staremo con loro fino all’ultimo per restituire dignità alla loro vita”.
A Homs la solidarietà e la speranza camminano anche sulle spalle dei più anziani.

sabato 22 giugno 2019

La guerra per l'oro giallo nella Jazira

 SOS Chrétiens d’Orient 


In questo paese del Levante, la guerra sconvolge i cuori. Le bombe piovono, le vite si spengono. Crea orfani sradicati, vedove in lutto, nonni in lutto. L'idra è sempre imbattuta.
Oggi nuove piaghe economiche stanno cadendo sui siriani. In un mese, il prezzo di un litro di benzina è aumentato del 50%. Il tasso di cambio oscilla a scapito della valuta nazionale; un tasso che naturalmente influisce sui costi di importazione. 
[N.D.T. oggi il dollaro si cambia a 610 lire siriane, due mesi fa a 520].

Ma l'impatto ferisce principalmente nel campo agricolo, garanzia di pace sociale. "E' l'intero paese si fa morire di fame", dice Alexandre Goodarzy, capo della missione in Siria. 
Per tutti i prodotti compresi i cereali, l'inflazione è al galoppo. 
In causa, gli incendi dolosi * delle terre nel nord-est della Siria. Muri di fiamme e campi di grano che se ne vanno in fumo lasciano solo una terra annerita dietro di loro. 
350.000 ettari ** di terreni agricoli a est dell'Eufrate, in passato la principale zona di produzione di cereali ***, sono già andati in fumo, specialmente nella Jazira, la regione dei tre ori, gialla per il grano, bianca per cotone e nero per l'olio. Già, la penuria di fertilizzante aggiunta a quella di carburante e di elettricità, essenziali per far funzionare le pompe dell'acqua, aveva ridotto i rendimenti.
Le ultime mandrie di bovini che pascolano su queste terre diventate inadatte alla pastura, sono avvelenate. "Uccidere la terra è uccidere il bestiame. Ma per andare più in fretta, uccidono direttamente il bestiame abbattendo gli animali. Dopo anni di siccità e guerra civile, il raccolto di quest'anno sarebbe stato eccezionale grazie alle precipitazioni record. Il granaio ora è quasi deserto. "
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Isaac Aysho anziano cristiano assiro
di Hasakah ha visto il raccolto di grano
nella terra del vicino arabo musulmano
bruciare, così è corso in mezzo al fuoco
 nonostante la vecchiaia e il fuoco forte
 gli ha bruciato il volto e le mani..
Grazie per aver dato una lezione
su come i fratelli erano in Siria e
 come abbiamo vissuto e come vivremo.
Questa è la Siria e tale rimarrà.
(Tweet di Fares Shehabi)

 La situazione già drammatica potrebbe peggiorare. 
L'oro delle spighe di grano è adiacente ai pozzi d'oro nero. Le fiamme si stanno avvicinando pericolosamente.
"Gli ultimi cristiani della Jazira, che sono rimasti in Siria nonostante tutti questi anni di pressioni, non tarderanno a partire se la situazione non cambierà. "
L' oro giallo è la chiave per garantire il fabbisogno alimentare di milioni di siriani. 
La Siria corre incontro a una grave carenza di cibo?

Nei prossimi giorni, Alexandre Goodarzy andrà nella Jazira per fare donazioni di pacchi alimentari. Un'azione di emergenza che "in questi momenti ha pieno significato." 
Per questo,  SOS Chrétiens d’Orient  ha bisogno del tuo sostegno finanziario. Supporta questa azione di emergenza, dona.

* Non abbiamo alcuna certezza sugli autori di questi fatti.
** Secondo il capo dell'autorità curda per l'agricoltura, Salmane Baroudo.
*** Ha fornito il 50% della produzione di cereali e l'80% della produzione di cotone.

mercoledì 19 giugno 2019

La sfida dei cristiani di Maaloula, che provano a rinascere dopo la devastazione

di Daniele Rocchi
S.I.R.  18 giugno 2019

Un villaggio gemellato con le sue rocce rossastre, quelle del massiccio al Qalamoun, mimetizzato come se ne avesse rubato i colori. Ti si apre davanti man mano che la strada sale fino a toccare i 1500 metri di altezza. Buche e crateri disseminati ovunque ti obbligano a una sorta di gimkana con la polvere che si alza ad ogni manovra di guida. Damasco è lontana solo 60 km, il confine con il Libano anche meno. 
È Maaloula roccaforte cristiana della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, abitato da poche migliaia di cristiani che vegliano sulle sue chiese e monasteri come quello greco ortodosso di santa Tecla, discepola di san Paolo, e quello melkita del VI secolo Mar Sarkis, dei santi Sergio e Bacco. I due santuari rupestri sono uniti da una gola scavata nel corso di millenni da pioggia e vento. È qui, secondo la leggenda, che Santa Tecla avrebbe trovato rifugio dai suoi persecutori. Prima della guerra Maaloula era una meta di tanti pellegrini che da ogni parte del mondo ogni anno venivano a pregare tra queste montagne, in una delle culle del cristianesimo siriano.


Ferite ancora aperte. Oggi Maaloula è un villaggio che porta ancora addosso, chiari, i segni della guerra, ferite profonde inferte contro la comunità locale, sfregiata come le sue chiese, le sue icone, i suoi quadri, le sue statue. Qui si è combattuto per circa nove mesi, da settembre del 2013 a maggio del 2014. A ricordare quei lunghi giorni è padre Toufic Eid, parroco melkita della chiesa di san Giorgio. E lo fa dall’alto della grande roccia che sovrasta il villaggio, a ridosso del monastero dei santi Sergio e Bacco, dove non manca di pregare il Padre Nostro in aramaico:
“Maaloula era lo specchio della convivenza siriana – ricorda il sacerdote indicando il villaggio e le sue macerie -. Lo hanno voluto mandare in frantumi per dare un segnale forte. Militarmente e strategicamente Maaloula non aveva particolare importanza. Ma hanno attaccato un simbolo della cristianità, il luogo dove gli abitanti parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”.
La notizia della caduta di Maaloula in mano ai jihadisti fece il giro del mondo. Il villaggio fu conquistato e preso come base militare dai miliziani dell’allora Jabhat al Nusra (oggi Hay’at Tahrir al-Sham, ndr.), vicini ad Al Qaeda. Con loro, all’inizio, anche membri dell’opposizione armata del Free Syrian Army, che si erano accreditati come difensori dei cristiani locali. “Controllavano il villaggio dall’alto – spiega il sacerdote –. I terroristi, infatti, avevano occupato l’hotel al-Safir, divenuto il loro quartier generale arrivando a distruggere anche una statua della Vergine Maria, Signora della Pace, messa dai cristiani locali a protezione del villaggio”. L’hotel non esiste più, delle stanze nessuna traccia, solo una giostra piegata dalle bombe, piena di ruggine. Fu l’inizio della devastazione.  “Da quel momento in poi – aggiunge il parroco – furono solo distruzioni di case e di chiese, profanazioni, incendi, saccheggi, esecuzioni sommarie. Le suore di santa Tecla furono prese in ostaggio per circa 4 mesi. Lo stesso destino toccò a 6 giovani cristiani, cinque dei quali ritrovati poi morti. Del sesto, invece, non abbiamo più notizie. Non sono stati gli unici martiri di Maaloula”. 
Ma i ricordi del sacerdote non si fermano qui. Emerge anche un particolare “l’accanimento dei terroristi verso le immagini sacre: Le icone sono state tutte sfregiate, avevano paura di guardarle. Hanno sfregiato i volti dei santi, del Cristo, mandato in frantumi le statue. Hanno fatto a pezzi gli altari, le iconostasi, il fonte battesimale”. “Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato il rogo dei registri dei battesimi. È come se avessero voluto azzerare la nostra fede, ma non ci sono riusciti, perché siamo ancora qui”, afferma con orgoglio padre Toufic.  Poco distanti i resti di una statua di san Giorgio posta nel cortile della chiesa omonima dove da poco è stata rimessa una statua di santa Rita da Cascia, “restaurata da uno dei nostri giovani purtroppo morto in guerra”. Arrivano dei bambini che sfidando una pioggia inattesa si mettono a giocare nel piazzale. Il parroco li guarda e sorride: “sono un segno di vita da preservare. Il futuro di Maaloula passa per loro”. È anche per questi piccoli che si danna l’anima per riparare i danni della guerra.  Cinque anni dopo essere stata ripresa dall’esercito regolare siriano, Maaloula oggi si presenta quasi disabitata: “la popolazione è fuggita e ancora non ha fatto ritorno. Le case hanno bisogno di essere rimesse in piedi velocemente. La comunità cristiana – dice il parroco – è composta adesso da circa 800 persone, poche rispetto alle oltre 3mila di qualche anno fa.  Abbiamo restaurato la chiesa e, grazie anche alla Chiesa cattolica italiana, rimesso in piedi 190 abitazioni. All’appello ne mancano ancora 130, per una spesa totale di un milione di dollari. Stiamo ricominciando da zero grazie all’aiuto di tanti benefattori sparsi nel mondo.  La priorità è dare un tetto a chi non ce l’ha più e trovare il modo di continuare a vivere.  Quest’anno ho celebrato solo un matrimonio, nessuno nel 2018. I battesimi si contano sulla dita di una mano. La vita qui è una grande sfida, sperare è una sfida. La ricostruzione delle abitazioni sta favorendo la ripresa del lavoro”.  Ne è un esempio “un piccolo ristorante che ha riaperto i battenti da poco”. Un buon viatico per qualche pellegrino “che timidamente si sta riaffacciando da queste zone ora pacificate. Lo scorso marzo – rivela padre Toufic – sono arrivati qui sei occidentali. Sono stati accolti da alcune famiglie che per pochi dollari hanno offerto loro un letto e del cibo. Era accaduto anche in passato ma poi la guerra ha impedito di proseguire nell’accoglienza. Ma speriamo di riprendere”.

Una speranza condivisa con l’archimandrita Matta Reza, priore della comunità delle suore ortodosse di Santa Tecla. I mesi passati nelle mani dei jihadisti che le avevano prese in ostaggio non hanno tolto il sorriso alle religiose che continuano la loro missione nel monastero “ripulito dal sangue dei combattenti, rimesso in piedi e reso di nuovo agibile”. “Si sono lasciate il passato alle spalle per avere pace nel cuore e per aiutare la gente a superare il momento. Guardano avanti nonostante tutto” afferma il priore che non esita a citare il passo evangelico di Luca, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. Non c’è tempo a Maaloula per guardare indietro. “Nonostante tutta la distruzione la luce del Sepolcro ci ha illuminato. Le porte degli inferi non si sono aperte. Per questo incoraggiamo le famiglie, le pietre vive di questa terra, a restare saldi nella fede”  ribadisce l’archimandrita Reza. Un attimo di pausa prima di riprendere il discorso per dire quello che non ti aspetti: "anche tra i jihadisti vi era gente buona, il bene è dappertutto":  “I nostri cristiani in fuga da Maaloula sono stati salvati dai musulmani dei villaggi confinanti. Ricostruire è possibile, lo stiamo già facendo. Siamo figli della vita e chi crede nella vita può farlo. Ogni parola buona, ogni gesto di pace contiene un germe di Dio”.  È quasi sera quando, uscendo da Maaloula in direzione Homs, sale il desiderio di lanciare un ultimo sguardo alla cima più alta, a quella roccia dove è tornata la statua di Maria, Signora della pace. A riportarla lassù sono stati cristiani e musulmani, insieme. 
Maaloula è tornata in buone mani.

martedì 18 giugno 2019

Testimonianza: "I Caschi Bianchi sono più pericolosi dei terroristi"


Scopri perché, ascoltando questa importante testimonianza dalla città di Mesyaf che è stata recentemente attaccata da Israele e dai terroristi sostenuti da Israele, nel nord di Hama e Idleb.  Ali Habib, un insegnante in pensione, eloquentemente descrive il crescente antagonismo di Europa e Stati Uniti dopo otto anni di una guerra punitiva imposta al popolo siriano dai governi occidentali e dai loro alleati regionali.
Queste sono le voci del popolo siriano che non sono mai state ascoltate in Occidente. I media di stato occidentali le hanno deliberatamente messe a tacere. Se fossero state ascoltate, questa guerra non sarebbe mai potuta accadere, per non rimarcare che è durata otto anni terribili ed ha lasciato la Siria danneggiata e sanguinante..

      Trascrizione completa:
"In primo luogo, mi chiamo Ali Habib. Vengo da un villaggio vicino a Mesyaf, ma trascorro la maggior parte del mio tempo a Mesyaf. Ho assistito a numerose aggressioni terroristiche su Mesyaf, durante una di queste ero a soli 50 metri di distanza quando hanno preso di mira l'ospedale pochi giorni fa. Quindi, questo ospedale che sta curando i residenti di questa regione, nonostante tutta la pressione e l'embargo imposti alla Siria, e che sta trattando pazienti e feriti, è stato colpito da tre missili. L'ho visto con i miei occhi. Qual è lo scopo di bombardare un posto del genere? Qual è lo scopo del bombardamento di un ospedale? Perché quella gente (l'Occidente) non scrive dei terroristi che prendono di mira l'ospedale? Perché non scrivono sull'assedio economico che ha colpito tutti noi psicologicamente, socialmente e moralmente? Il nostro stato psicologico non è più normale, il nostro stato psicologico non è più normale!
Perché tutto il mondo parla di Caschi Bianchi e armi chimiche e "useranno il CW ..." e "il governo siriano ha usato il CW ..."... Di quali armi chimiche stanno parlando? Ci prendono di mira quotidianamente usando veleni psicologici, sociali ed economici. Ci hanno appesantito in tutti i sensi e sono loro che lo hanno causato e ora sostengono che ora vogliono proteggerci e proteggere il popolo siriano. No, non è giusto. Vogliono distruggere il popolo siriano, non vogliono distruggere il Governo siriano, vogliono distruggere il Paese, distruggere la Siria come Paese.
Ieri, hanno bombardato (lì) e ho visto le persone ferite con i miei occhi, cosa hanno fatto di sbagliato questi civili innocenti? Perché al-Jazeera e al-Arabia e France 24 e i media americani non riferiscono di questi civili che sono stati uccisi? Perché non riferiscono sull'ospedale che è stato bombardato? Hanno preso di mira l'ospedale per circa sei mesi, ma non erano riusciti a colpirlo direttamente. Certo, i proiettili erano atterrati lì intorno, ma alla fine hanno colpito l'ospedale e alla fine hanno ferito persone e medici che stanno salvando la gente. Ma tutto ciò, sfortunatamente, gli occidentali non lo vedono ...
Siamo abituati... Io sono uno di quelli che erano soliti credere che i Francesi, gli Inglesi e i Tedeschi avessero un po' di moralità. Sappiamo già che gli Americani non hanno morale, ma vedere che i Francesi, i Tedeschi e gli Europei in generale sono subordinati all'immoralità americana - questa è una novità per noi e per noi è frustrante. Onestamente, si sta diffondendo un antagonismo interno (siriano) nei loro confronti e noi non eravamo così. Li amavamo. Quando vedevo uno straniero come te qui, sarei corso da te per vedere di cosa potresti aver avuto bisogno. Parlo bene il francese, userei la mia conoscenza del francese per aiutarti. È così che eravamo soliti mostrare il nostro amore agli stranieri quando venivano nel nostro Paese. Ora non vogliamo vedere nessuno di loro perché tutti loro sono bugiardi e tutti loro sono ingannatori, tutti ci stanno assediando e tutti stanno stringendo il cappio su di noi e tutti ci stanno strangolando a morte, i cittadini, noi - i civili... o io come civile, sono un civile, sono un insegnante in pensione. Che crimine ho commesso per essere colpito da un missile? O perchè la mia macchina deve essere distrutta da un ordigno o essere rubata dai miliziani? Gli Europei non vedono questo, gli Europei hanno in mente solo che vogliono rovesciare il regime di Bashar al-Assad. Noi, il popolo, siamo soddisfatti di Bashar al-Assad. Cosa c'entra questo con voi? cos'è per voi? Siamo soddisfatti di lui. Presto Bashar al-Assad farà nuove elezioni e noi forse lo eleggeremo o no. Decidiamo noi, non voi.
Io capisco così questa questione, della manipolazione delle persone e dei pensieri delle persone, che indebolisce le persone in questo modo. È assolutamente anormale! È inaccettabile! Spero che la nostra voce raggiungerà gli Europei. Li amavamo molto. Eravamo abituati a trattare con loro. Sono stato in Europa spesso. Sono stato in Europa 11 volte. Ho visitato tutti i paesi europei e sono stato contento di loro, ma ora, sinceramente, non provo buoni sentimenti nei loro confronti a causa delle loro posizioni sbagliate nei nostri confronti. Quindi spero che la nostra voce raggiungerà alla fine gli Europei e che sappiano la verità su ciò che sta accadendo in Siria.
Le persone sono come le vedi ... il livello di sicurezza in Siria era migliore di qualsiasi altro posto al mondo. Sono stati spesi miliardi per creare questo e sfortunatamente, gli Europei e gli Americani hanno partecipato alla distruzione di questo paese.
Perché? Quali reati abbiamo commesso? Quali crimini hanno commesso queste persone, che vivevano in completa sicurezza? Avrei potuto dormire in strada e nessuno si sarebbe avvicinato a me. Ho dormito per le strade di Parigi e nessuno mi ha rapinato, si poteva dormire nelle strade qui e nessuno lo avrebbe derubato. Eravamo così al sicuro qui, ma voi, Europei, siete venuti da noi e avete fatto quel che ci avete fatto! Spero che la nostra voce vi raggiunga. Spero che la nostra voce raggiunga la gente... Credo che il popolo europeo sia diverso dai suoi governanti, ma per loro essere subalterni agli Americani in questo modo, è scioccante. È increscioso. Una disgrazia. Gli Europei sono noti per la loro moralità mentre gli Americani sono noti per essere dei gangster. Sì, sto parlando di un'esperienza culturale personale. Quindi, è così che amavamo gli Europei, ma purtroppo, ora non li amiamo affatto.
Un deposito dei White Helmets a Yarmuk, un sobborgo di Damasco, nella zona allora controllata dall'ISIS. Con un uomo davanti che sventola la bandiera ISIS. E il segno dell'indice alzato.

I Caschi Bianchi poi sono molto più pericolosi dei militanti che massacrano la gente. Quello che è successo riguardo ai militanti, non te l'ho detto, esiste la pratica della decapitazione nel nome dell'Islam, in nome della religione, mentre la religione non ha nulla a che fare con tutto ciò ma i Caschi Bianchi sono più pericolosi. I militanti hanno usato coltelli e pistole esplicitamente, mentre i White Helmets stanno lavorando politicamente. Voglio dire che stanno montando messinscene per far venire più missili a bersagliarci. Siamo stufi dei razzi e siamo stanchi di uccisioni.

I Caschi Bianchi sono più pericolosi di quelli che hanno massacrato la gente, questo è un fatto innegabile. Loro (gli Elmetti Bianchi) stanno spingendo gli Americani e gli Europei a bombardarci con il falso pretesto che stiamo usando armi chimiche contro la nostra stessa gente. Noi, il popolo… Quindi, i Caschi Bianchi sono molto più pericolosi di quelli (i terroristi) che macellano la gente nelle strade. I White Helmets sono un'organizzazione terroristica, più terrorista e più sanguinaria di quelli che massacrano le persone nelle strade - e questa è probabilmente l'opinione pubblica qui. Sappiamo chi sono i Caschi Bianchi. I Caschi Bianchi sono più pericolosi di qualsiasi terrorista.
Tu sei benvenuto.."
       Fine della trascrizione.

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sabato 15 giugno 2019

I mattoni della ricostruzione siriana tenuti insieme con la malta della sofferenza.


Viaggio negli ospedali cattolici di Damasco e Aleppo

di Daniele Rocchi
Sir, 13 giugno 2019

Un crocifisso insanguinato, privo di arti, coronato da proiettili e bossoli sparati durante la guerra. Che non è ancora finita. Impossibile non guardarlo mentre si passa nel lungo corridoio che dalla cappella porta ai padiglioni dell’antico (1905) ospedale cattolico di Saint Louis di Aleppo (60 posti letto), città martire siriana, gestito dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione. Un’immagine che meglio di ogni parola descrive quanto avviene in questo nosocomio e in altri due, quello italiano e l’altro francese – sempre dedicato a Saint Louis – di Damasco, gestiti rispettivamente dalle suore salesiane e dalle Figlie di san Paolo. Veri e propri “ospedali da campo”, per dirla con Papa Francesco, che fanno parte del progetto “Ospedali aperti”, avviato in Siria nel 2017, per iniziativa del nunzio apostolico, card. Mario Zenari, con l’apporto sul campo di Avsi. Lo scopo è uno solo: offrire cure gratuite ai più poveri e ai più vulnerabili. Bombardati, danneggiati, vessati dalle sanzioni di Usa e Ue, ma sempre aperti e pronti a curare.

Dal novembre 2017 ad oggi i tre nosocomi hanno erogato 22.779 servizi medici gratuiti con moderne attrezzature sanitarie. E adesso, per la fine del 2020 si punta a quota 50 mila. “Poche gocce nell’oceano”, verrebbe da dire, guardando la drammatica situazione sanitaria della Siria, dove a causa della guerra più della metà degli ospedali pubblici e dei centri di prima assistenza sono chiusi o parzialmente agibili e dove quasi due terzi del personale sanitario ha lasciato il Paese. Ma poi camminando nelle corsie di questi ospedali ci si accorge che non è così.
Tre gocce. Una di queste gocce è Ibrahim. Oggi balla, salta, solleva le gambe, muove la caviglia. E sorride. Il tempo di risistemarsi i capelli impomatati e poi torna a sedersi a terra sui cuscini. Quel giorno, di due anni fa, nella zona di Ghouta, alle porte di Damasco, quando un razzo gli fece crollare la casa addosso provocandogli fratture scomposte alla gamba, sembra oramai solo un brutto ricordo. “Sono stato lunghi mesi fermo, non potevo camminare e lavorare – ti racconta mentre si carezza la gamba operata piena di cicatrici – non avevo soldi nemmeno per comprare una caramella a mio figlio. Se oggi posso tornare a sognare un futuro per me e per la mia famiglia è anche grazie a chi mi ha permesso di curarmi e ai medici dell’ospedale francese di Damasco”.
Un’altra goccia è Evangelina Strambouli, anziana signora di origini greche, cristiana ortodossa. All’ospedale cattolico di Aleppo le hanno salvato la vita due volte. Non ha più nessuno, il marito è morto, ed è vegliata ogni giorno dal suo vicino di casa musulmano dal nome che è tutto un programma, Fadi, ovvero “Angelo”. E poi c’è Ahmed che dal suo letto non cessa mai di ringraziare i medici che lo hanno curato invocando su di loro la benedizione di Allah, seguito a ruota dal figlio, Imaad. Vengono da Hama, nella Siria centrale. Senza le cure nell’ospedale cattolico di Aleppo, dice “sarei già morto. Non ho parole per ringraziarvi”.
 Il primario dell’ospedale aleppino, George Theodory, risponde a tutti con un sorriso. Ma poi non nasconde le difficoltà che ci sono nel portare avanti questa missione. “Dei 141 ospedali e centri clinici attivi ad Aleppo prima della guerra ne sono rimasti funzionanti solo 44. I pazienti sono tanti e l’embargo Usa e Ue li costringe a lunghe attese per avere esami diagnostici. I nostri macchinari hanno bisogno di manutenzione e di pezzi di ricambio che non arrivano. Ma grazie al progetto del nunzio Zenari ora possiamo disporre di nuove apparecchiature, molte delle quali donate dalla Conferenza episcopale italiana. Cerchiamo di curare al meglio con ciò che abbiamo”.
Il sogno dei siriani. Ibrahim, Evangelina e Ahmed sono solo alcune delle migliaia di siriani che hanno ricevuto cure gratuite nell’ambito del progetto “Ospedali aperti”. I loro sogni sono quelli di tutti i siriani: “vedere la fine della guerra, tornare a condurre una vita serena con un lavoro e una casa”. A raccogliere questi sogni sono un team di assistenti sociali, tra loro Dhalia, Boshra, Shaza, Rama, Tala e Rima, guidate dal coordinatore del progetto, George N. e dalla capo progetto Flavia C. Sono loro per prime ad accogliere le persone che vengono a chiedere assistenza medica e ad ascoltare i drammi della guerra, della povertà. Ma anche i loro sogni, il primo su tutti: guarire e vedere il nostro Paese risorgere”.

E sono sempre loro ad accompagnarle nel percorso di cura che non è solo fisica ma anche morale e spirituale. La cosa più bella? “Vedere la persona guarita e pronta a ripartire con nuova forza e speranza”. Come il piccolo Amer, 11 anni di Deir Ezzor, rimasto ustionato dopo un bombardamento, impossibilitato a camminare e oggi sulla via della guarigione grazie anche ai sacrifici della madre che per restare con lui a Damasco si alza all’alba per vendere pagnotte di pane in strada. Non mancano i ringraziamenti che a volte assumono le sembianze di piccoli dolci o di profumi. “Il loro grazie – dichiara George – è anche per tutti quei donatori, piccoli e grandi, che da ogni parte del mondo contribuiscono al progetto. Senza di loro non potremmo fare molto”.

Tra disperazione speranza. Lo sanno bene suor Carol Tahhan, salesiana, e suor Fekria Mahfouz, vincenziana, che dirigono rispettivamente l’ospedale italiano (55 posti letto) e quello francese della capitale siriana. Quest’ultimo con i suoi 101 posti letto è il più grande dei tre nosocomi del progetto che ha da pochi giorni avviato la sua seconda fase che pone tra i suoi obiettivi anche un software gestionale per mettere in rete i tre ospedali e la formazione tecnica con corsi di aggiornamento e training per il personale sanitario. “Con il progetto del card. Zenari abbiamo aumentato le prestazioni mediche” afferma suor Fekria mentre scruta il display con le immagini delle 36 telecamere a circuito chiuso messe a protezione del nosocomio colpito da 40 colpi di mortaio (ben 4 volte nel gennaio 2018) durante gli ultimi anni. Nel suo pc mostra anche le foto dei feriti e dei morti portati in ospedale dopo un attacco, le fasi concitate nel pronto soccorso, le cure, le operazioni di urgenza, “la disperazione per una vita persa e la gioia per una salvata”.
Oggi – racconta – la situazione è molto cambiata. Non si combatte più se non nella zona di Idlib, ma c’è un’altra guerra che stiamo fronteggiando e si chiama povertà. Nel Paese il salario minimo mensile si aggira sui 50 dollari, circa 18 mila lire siriane (government salary). Una miseria”.


Anche la religiosa punta l’indice contro le sanzioni Usa e Ue che di fatto, afferma, “hanno conseguenze pesanti sulla popolazione. Elettricità, gas e benzina sono razionati. Problemi anche a livello sanitario dove il divieto di transazioni con banche internazionali impedisce a molte aziende farmaceutiche estere di commerciare con la Siria provocando mancanza di medicinali e difficoltà nel reperire forniture e macchinari sanitari. Nonostante tutto andiamo avanti, il nostro carisma è quello di accogliere i poveri. La popolazione si fida di noi, ha rispetto della nostra missione. Cerchiamo di stare al loro fianco curando e dando conforto e ascolto”.
Curare la persona significa anche curare la sua famiglia – conferma suor Carol, direttrice dell’Ospedale italiano.
La sofferenza accomuna tutti senza distinzione. Può diventare la malta per cementare la ricostruzione del nostro Paese”.
Le prime medicine che somministriamo sono la fraternità e l’accoglienza. Tutti vengono trattati con la dignità che meritano, sono malati bisognosi di cure” ribadisce il primario del nosocomio italiano, Joseph Fares, specialista in chirurgia generale e laparoscopica, mentre compie il suo giro tra le camere e i laboratori molti dotati di nuovi macchinari donati dalla Cei grazie ai fondi dell’8×1000. “La guerra lascia segni e ferite difficilmente rimarginabili. La medicina più efficace è l’umanità. Trattare le persone con umanità rispettando la loro dignità. Il bene è contagioso, si trasmette e ricostruisce corpo e anima. Nei nostri ospedali cattolici combattiamo la povertà e la guerra a colpi di bisturi, medicine e tanto amore”. Se vinceremo questa guerra? “Stiamo già vincendo. Ogni volta che un malato viene curato nel corpo e nello spirito per noi è una vittoria”.
  Come ricorda il Crocifisso insanguinato di Aleppo…