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domenica 26 novembre 2017

In Libano sale la tensione tra rifugiati siriani e libanesi

                      foto JC Antakli
 Nell'articolo di S.I.R. che sotto riportiamo, padre Paul Karam, presidente di Caritas Libano, esprime gravi preoccupazioni per la situazione nel Paese, in particolare a causa della presenza di due milioni di rifugiati siriani, il 35% della popolazione. Preoccupazioni che ci sono state ampiamente riferite anche da vari interlocutori durante il nostro recente viaggio in Libano. 
E con doloroso sconcerto abbiamo anche sentito nei discorsi dei Libanesi un diffuso sentimento di esasperazione verso i Siriani ...
 E' evidente come l'arrivo massiccio dei rifugiati abbia avuto un impatto destabilizzante per il Paese dei Cedri, già fragile dal punto di vista politico e socioeconomico.  Ma pensiamo che del dramma, foriero di tensioni, dei profughi siriani in Libano occorra cogliere anche altri aspetti. Infatti, i rifugiati non sono solo un onere finanziario che pesa sulle casse dello Stato libanese: rappresentano anche un'entrata economica, da parte di innumerevoli organizzazioni internazionali e a favore di enti assistenziali nazionali, che hanno inoltre l'opportunità di assumere personale libanese per i loro progetti.  Quanto al deterioramento del mercato del lavoro, i responsabili non sono i Siriani sottopagati ma piuttosto gli imprenditori libanesi che assumono i rifugiati senza contratto e con condizioni orarie e di lavoro irregolari.  E gli endemici problemi di traffico, blackout di energia, smaltimento dei rifiuti, risalgono a ben prima dell'arrivo dei rifugiati. I delitti sessisti contro le donne non sono appannaggio dei soli criminali siriani....
 E, soprattutto, davanti alle miserrime condizioni di vita della maggioranza dei Siriani nei cosiddetti 'campi profughi', abbiamo l'obbligo morale di ricordare chi ha causato questa situazione. Sono i Paesi e le entità che negli anni hanno sostenuto il terrorismo, alimentando in tal modo una devastante guerra. Una tragedia che ha distrutto un Paese, la Siria, dal quale ben pochi fino al 2011 avrebbero pensato di andar via...
      La redazione di OraproSiria


S.I.R., 24 novembre 2017

Libano, “un Paese accogliente e generoso che sta pagando a caro prezzo la sua generosità. Ne risentiamo in termini di infrastrutture, lavoro, servizi e welfare. Oggi il 36% della popolazione libanese vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. Il 60% di questo 36% è composto da giovani di età compresa tra i 16 e 27 anni. Crescono i disoccupati tra i libanesi a vantaggio dei rifugiati siriani che lavorano in nero, senza tutele e senza aggravio di tasse”.
È una disamina che va dritta al cuore del problema quella che padre Paul Karam, presidente della Caritas Libano, traccia della situazione nel Paese del Cedri, dove dal 2011, anno di inizio della guerra siriana, sono affluiti 1,2 milioni di rifugiati (dato Unhcr) “ma sono almeno 1,8 milioni, perché vanno calcolati quelli che non vogliono essere registrati, soprattutto tra i cristiani”. Ciò equivale a dire che “il 35% della popolazione libanese è composto da siriani, senza dimenticare circa 500mila palestinesi e 70mila iracheni e altre centinaia di migliaia di lavoratori stranieri”.

Bomba demografica. Complice una “frontiera porosa e scarsi controlli, almeno nella fase iniziale della guerra, i rifugiati sono entrati dalla Siria e oggi non c’è una località nel Paese dove non siano presenti con tutto il loro carico di bisogni” che rispondono al nome di istruzione, lavoro, sanità, casa, infrastrutture.
Non è facile per un Paese di 4 milioni di abitanti far fronte a queste emergenze, in particolare il lavoro che scarseggia per la crisi economica, i servizi sociali ridotti all’essenziale, le infrastrutture divenute insufficienti (scuole e ospedali). Per esempio, per permettere ai bambini siriani di andare a scuola è stata stabilita l’apertura pomeridiana delle aule con un ulteriore aggravio di spese di gestione e manutenzione scolastica”.
Crescono nel contempo anche le tensioni sociali tra libanesi e siriani, questi ultimi già accusati di “rubare il lavoro ai siriani” e al centro, sempre più spesso, di gesti di criminalità e di reati gravi come furti e rapimenti.

Ma la vera bomba a orologeria per il Libano è rappresentata dalla demografia che rischia di far saltare il confessionalismo, sistema che premia le 18 confessioni presenti nel Paese e riconosciute dalla Costituzione che affida a ciascuna ruoli e incarichi istituzionali, Presidenza della Repubblica ai cristiani, Capo del Governo ai sunniti, presidente Parlamento agli sciiti e via dicendo. “Solo negli ultimi tre anni – secondo dati di Caritas Libano – sono nati circa 150mila bambini che non sono stati registrati né in Libano né in Siria. Ufficialmente non esistono, non hanno carta di identità, ma provengono da famiglie in larghissima maggioranza sunnite.
Questi nuovi nati sono destinati ad alterare i rapporti di forza delle confessioni.
Sunniti, infatti, sono anche i palestinesi che già vivono nel Paese dei cedri”.
                                                 foto JC Antakli

Quale soluzione?
È tempo di programmare il ritorno dei siriani in patria, almeno nelle zone pacificate”, sostiene padre Karam, per il quale il rientro dei rifugiati è una  delle risposte principali da dare per alleggerire il carico dell’accoglienza sulle spalle dei libanesi. “Si tratta – afferma – di un lavoro da pianificare nei prossimi anni, concertato tra organismi internazionali e nazionali con l’ausilio di Ong, agenzie umanitarie impegnate sul terreno come la stessa Caritas”.

Questo non significa, sottolinea il presidente di Caritas Libano, “un passo indietro nella scelta dell’assistenza e dell’accoglienza ai rifugiati. Tutt’altro. Bisogna però dare anche spazio a quei libanesi, e sono tanti, che hanno bisogno di aiuto materiale”.
A tale scopo la Caritas ha proposto che “il 30% di ogni progetto o programma di solidarietà destinato ai siriani vada ai libanesi quindi alla comunità ospitante”. Un’istanza che dovrà essere presentata ai donors. Nel caso venisse accettata “finanziare progetti di sviluppo per la comunità locale diventerebbe più facile e la popolazione, specie dei villaggi, sarà spinta a restare”, dice padre Karam. “Cosa che non accade oggi. Ai nostri centri di ascolto, infatti, sono sempre di più i libanesi che vengono a chiedere aiuto di ogni tipo, pagamenti bollette, cibo, vestiario, e anche visite mediche. Le richieste sono praticamente raddoppiate in ogni Centro. In collaborazione con Caritas straniere abbiamo attivato delle cliniche mobili che servono separatamente libanesi e siriani. Sono sempre più frequenti, infatti, le tensioni tra i due gruppi con i primi che accusano i secondi di non pagare nessun ticket sanitario. Oggi i libanesi vogliono essere considerati alla stregua dei rifugiati”.
Una guerra tra poveri che, per padre Karam, “va assolutamente evitata, anche perché a rimetterci per primi sono soprattutto i giovani che scelgono così di emigrare privando il Libano delle sue leve più forti e istruite”.

Un miracolo. “Come il Libano abbia potuto fino ad oggi sostenere tutto il peso dell’accoglienza dei rifugiati si può spiegare solo con un miracolo. E devo dire – aggiunge il presidente della Caritas – che molto aiuto è arrivato dai libanesi della diaspora che hanno inviato aiuti e denaro ai loro connazionali qui. Grazie alle loro rimesse anche lo Stato è rimasto in piedi. Ma tutto questo sarà vano se non si trovano vie diplomatiche per dare soluzione giuste e sostenibili ai conflitti che si avvitano uno con l’altro in questa area mediorientale. Senza pace e giustizia il rischio di implosione di questa Regione è dietro l’angolo. Con effetti tragici per tutto il mondo”.