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mercoledì 4 dicembre 2024

Tutte le grandi potenze coinvolte nella nuova guerra in Siria

 di Gianandrea Gaiani

L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste dell’Esercito Nazionale Siriano (ENS, la formazione delle forze anti-governative), incluse quelle dell’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo note come Fronte al-Nusra e inserite nella rete di al-Qaeda (sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib) va inserita nel più ampio contesto conflittuale che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria e da Israele all’Iran.

I miliziani raccolti intorno al gruppo islamico Hayat Tahrir al-Sham (HTS) con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un'offensiva contro le forze governative conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l'aeroporto militare di Abu Dhuhur, tra Hama e Aleppo, anche se in città sembra siano ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (FDS), impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori caduti nelle mani dei jihadisti.

L’offensiva ha visto coinvolte milizie jihadiste kirghize, uzbeke e di altre nazionalità inclusi i ceceni del gruppo salafita Ajnad al Kavkazgià impegnato nella guerra civile siriana, poi trasferito sul fronte ucraino ed ora rientrati nel nord della Siria. Proprio ai ceceni e forse agli uomini dell’intelligence militare ucraina (GUR) la cui presenza tra i ribelli siriani viene da tempo segnalata da fonti russe, ucraine, turche e curde, si devono alcune modalità tattiche adottate dai ribelli che hanno espanso il più possibile la loro presenza sul territorio utilizzando social e media per tentare di dimostrare la rapida conquista di diverse località.

Per questa operazione sono state di fatto riunite tutte le milizie dell’internazionale del jihad che costituirono la “legione straniera” di al-Qaeda e più tardi dello Stato Islamico, jihadisti che oggi con qualche imbarazzo vengono considerati combattenti legittimi o “ex terroristi” da turchi e occidentali.

Nulla di nuovo a ben guardare: durante la guerra civile che sconvolse la Siria tra il 2012 e il 2020 le milizie dello Stato Islamico ricevettero per un periodo ampio supporto dalla Turchia (dove l’ISIS vendeva il petrolio estratto clandestinamente in Siria e Iraq) mentre molte milizie “moderate” addestrate in territorio turco dai consiglieri militari di Stati Uniti e alcune nazioni europee appena attraversato il confine siriano confluivano nelle milizie qaediste o dell’Isis.

Per Bashar Assad l'offensiva dei ribelli jihadisti filo-turchi nel nord della Siria è un tentativo di "ridisegnare la mappa della regione" mentre il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan (ex capo dell’intelligence di Ankara), ha affermato che le attuali tensioni in Siria non sono dovute all'intervento di Paesi stranieri ma a questioni risalenti alla guerra civile iniziata nel 2011 che non sono ancora state risolte. «Damasco deve trovare un riconciliazione con l'opposizione» e ha sottolineato che la Turchia può aiutare a questo proposito.

Sul piano militare l’esercito siriano è stato costretto a ripiegare poiché indebolito dal ritiro delle milizie libanesi di Hezbollah che fornirono un ampio supporto alle forze di Damasco, ma erano state richiamate in Libano in vista del conflitto con Israele.

L’offensiva jihadista in Siria è stata scatenata, non certo casualmente, subito dopo il cessate il fuoco (più o meno stabile) tra Hezbollah e Israele. Del resto negli ultimi mesi le forze aeree israeliane si erano accanite sulle postazioni e i depositi di armi e munizioni di Hezbollah e dell’esercito siriano intorno alla città di Aleppo. Area distante dal confine israeliano a conferma che lo Stato ebraico ha volutamente indebolito le forze siriane e i suoi alleati in quella regione per favorire l’attacco jihadista.

Anche quella tra qaedisti e israeliani non è certo un’alleanza inedita dal momento che negli anni scorsi molti ribelli salafiti rimasti feriti negli scontri con le truppe siriane nel sud della Siria sono stati curati negli ospedali militari israeliani nelle alture del Golan, territorio siriano che Israele occupa dal 1967. Più sorprendente invece è l’intesa tra Israele e la Turchia, nazione che ha certamente chiuso un occhio sull’afflusso di armi e munizioni che hanno consentito ai miliziani jihadisti di scatenare l’offensiva, inclusi droni FPV e altri equipaggiamenti provenienti con ogni probabilità dagli arsenali ucraini.

Del resto Israele punta sulla caduta del regime di Bashar Assad per interrompere la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna sciita” che unisce Iran, Iraq, Siria e Libano consentendo l’alimentazione di Hezbollah. Allo stesso modo Recep Teyyp Erdogan sembra aver rinunciato a negoziare con Bashar Assad il rientro in Siria di almeno due milioni di profughi siriani da anni ospitati in Turchia, Vladimir Putin si era offerto di mediare la riappacificazione tra i due capi di governo ma la l’attacco jihadista certo non facilita colloqui.

Erdogan potrebbe quindi puntare sia a rimpatriare i profughi nelle aree sotto controllo dei miliziani sia a utilizzare questi territori per ampliare le operazioni militari contro le forze curde, schierate nel nord e nell’est della Siria che fanno parte del Fronte Democratico Siriano sostenuto dagli Stati Uniti i quali però sembrano avere interesse nel sostenere lo sviluppo dell’offensiva jihadista per colpire Assad e gli interessi russi.

Negli ultimi tempi l’amministrazione Biden ha ammorbidito le sue posizioni nei confronti della Turchia aprendo a forniture di armi fino a ieri negate, come i moderni aerei F-16 Viper o forse addirittura gli F-35, accettando quindi che Ankara schieri missili da difesa aerea russi S-400. Un ammorbidimento che Erdogan potrebbe aver compensato sostenendo senza troppo clamore l’offensiva jihadista in Siria o lasciando transitare armi dirette ad alimentarla.

Circa il ruolo degli Stati Uniti l’offensiva jihadista sembra rientrare tra i “colpi di coda” dell’Amministrazione Biden, intenzionata a lasciare in eredità il maggior numero possibile di crisi da gestire. Non è un caso che dopo la vittoria elettorale di Donald Trump sia stato dato il via libera agli ucraini per colpire il territorio russo con i missili balistici ATACMS, siano esplose rivolte anti-governative in Georgia e sia stata scatenata l’offensiva jihadista in Siria.

Peraltro in Siria gli Stati Uniti mantengono una presenza militare di occupazione, illegale per il diritto internazionale. Delle 4 aree che controllano quella meridionale di al-Tanf è a ridosso del confine giordano e permette di proteggere diversi gruppi di ribelli anti-Assad ma le altre tre nella Siria Orientale sono dislocate in prossimità di pozzi petroliferi. Truppe americane che hanno da anni il solo compito di impedire al governo siriano di sfruttare le risorse energetiche per la ricostruzione post-bellica.    

Vale la pena ricordare che nel suo primo mandato Trump si era espresso a favore del ritiro dei militari dalla Siria ma le pressioni del Pentagono bloccarono quell’iniziativa. Nei mesi scorsi però il governo iracheno ha stabilito che le truppe statunitensi e alleate schierate in Iraq dai tempi della guerra allo Stato Islamico dovranno ritirarsi entro settembre 2025. Senza le basi in Iraq non sarà più possibile mantenere quelle in Siria a meno che non vi sia un cambio di regime a Damasco.

Del resto la posizione assunta da Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania appare chiara pur celandosi dietro qualche ambiguità. «L'attuale escalation non fa che sottolineare l'urgente necessità di una soluzione politica del conflitto a guida siriana, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite», si legge in una dichiarazione congiunta rilasciata dal Dipartimento di Stato statunitense, che fa riferimento alla risoluzione Onu del 2015 che approva un processo di pace in Siria e cioè la fine del regime di Bashar Assad. 

Una posizione che sembra mutuata direttamente da quella di Washington, dove il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha detto che «i principali sostenitori del governo siriano - Iran, Russia ed Hezbollah - erano tutti distratti e indeboliti da conflitti ed eventi altrove».

L’Amministrazione Biden non sembra quindi aver perso l’occasione per contribuire alla destabilizzazione anche in questa regione colpendo così gli interessi di Russia e Iran, che però non restano a guardare.

Nella guerra che finora sembra aver provocato meno di 500 vittime le forze aeree russe basate a Latakya sono intervenute fin dalle prime ore dell’offensiva e del resto da settimane i velivoli Sukhoi russi colpivano le milizie jihadiste nella regione di Idlib, forse sospettando imminenti minacce.

Se l’obiettivo di Washington e Kiev era di indurre Mosca a ritirare truppe dall’Ucraina per inviarle in Siria, almeno per ora non sembra essere stato raggiunto. I russi stanno intensificando i raid aerei e forse invieranno altre unità di forze speciali ma la nuova guerra in Siria, al pari dell’attacco ucraino alla regione di Kursk, non sembrano costringere Mosca a ridurre la pressione offensiva sui fronti ucraini.

Il grosso dei rinforzi destinati ad affiancare le truppe siriane sta affluendo dall’Iraq dove le milizie scite di mobilitazione popolare (MUP) sostenute dall'Iran ma integrate nelle forze armate di Baghdad (e già protagoniste della guerra contro l’ISIS) stanno trasferendo molti combattenti oltre il confine, nell’ambito del trattato tra Damasco e Baghdad che impegna entrambi al mutuo soccorsi contro la minaccia terroristica.

Le truppe governative siriane hanno costruito una linea difensiva nel nord della provincia di Hama nel tentativo di bloccare lo slancio offensivo jihadista raccogliendo tutte le forze disponibili. Anche l’Iran potrebbe inviare reparti di pasdaran dopo il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha incontrato domenica a Damasco il presidente Assad annunciando il pieno sostegno di Teheran. Ma di certo la presenza di più truppe iraniane in Siria non sarà gradita a Israele. Anche per questo il conflitto riesploso in Siria rischia di rappresentare l’anello di congiunzione tra la guerra in Ucraina e quella tra Israele e gli alleati dell’Iran.  

Il Cremlino continua a sostenere Assad (anche se ieri si siano diffuse voci di un golpe militare a Damasco) come ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. «Naturalmente continuiamo a sostenere Bashar al Assad», ha detto Peskov: «Continuiamo i nostri contatti ai livelli appropriati e analizziamo la situazione. Sarà valutato quello che è necessario fare per stabilizzare la situazione».

https://lanuovabq.it/it/tutte-le-grandi-potenze-coinvolte-nella-nuova-guerra-in-siria

lunedì 10 febbraio 2020

Cosa succede a Idlib?


di Gianandrea Gaiani 

Scontri annunciati e poi smentiti o ridimensionati tra truppe regolari siriane ed esercito turco, tensione alle stelle negli avamposti turchi nel nord ovest della Siria ormai circondati dalle truppe di Bashar Assad e russe; ed infine l’Iran, che a conferma della gravità della situazione, si offre di mediare tra Ankara e Damasco.
L’ennesima fase di tensione tra turchi e siriani, dopo l’attacco di Ankara nel nord della Siria dell’ottobre scorso, si è aperta nella provincia nord-occidentale di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli jihadisti sostenuti con armi e truppe dalla Turchia.

L’Esercito Arabo Siriano ha lanciato da un paio di settimane un’offensiva che potrebbe rivelarsi risolutiva spazzando via le milizie qaediste e di altri gruppi estremisti islamici e riconquistando la regione di confine con la Turchia nel nord ovest.
L'8 febbraio l’esercito siriano, sostenuto da aerei e truppe russi, ha conquistato dopo due giorni di duri combattimenti Saraqeb, crocevia strategico nella regione all'incrocio delle autostrade Latakia-Aleppo e Hama-Aleppo.
Mercoledì scorso i media governativi avevano annunciato la presa di Saraqeb, ma fonti sul terreno e miliziani anti-regime avevano smentito la circostanza.
L' Onu ha documentato lo sfollamento di più di 200mila persone nelle ultime due settimane dalla zona di Saraqeb e dei distretti circostanti investiti dall' offensiva governativa e russa. In tutto, sempre secondo l'Onu, sono quasi 600mila i civili sfollati a Idlib da inizio dicembre scorso, quando prese il via l’operazione siriana che potrebbe concludere la guerra civile in atto dal 2012.

Nei giorni precedenti, l’offensiva siriana aveva determinato numerosi contatti con le forze turche. L’uccisione di 5 soldati e 3 contractors di Ankara (già quasi 150 i caduti turchi in Siria), dopo che i siriani avevano lamentato l’arrivo di un convoglio di 240 camion turchi carichi di rifornimenti per i ribelli, aveva determinato un bombardamento di rappresaglia che avrebbe ucciso 13 soldati siriani e ferendone una ventina, anche se il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, ha rivendicato l'uccisione di 76 militari di Damasco.
Le forze governative siriane avevano poi circondato la postazione di osservazione militare turca di Tell Tuqan, nei pressi di Saraqeb, a est del capoluogo di Idlib e teatro degli scontri tra turchi e siriani.

Consapevole delle ripercussioni interne di un inasprimento del conflitto siriano, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha annunciato prossime consultazioni con Mosca, un asse strategico che finora ha garantito un equilibrio lungo tutto il confine siro-turco. Un accordo che prevedeva anche la tregua a Idlib anche se il legittimo desiderio di Assad di chiudere la guerra con la vittoria nell’ultima roccaforte dei ribelli jihadisti non può essere messo in discussione, soprattutto sul piano giuridico.

È evidente che la presenza di milizie jihadiste così come di militari turchi nel nord e statunitensi (questi ultimi intorno a un paio di pozzi petroliferi nella Siria orientale) è del tutto illegittima e autorizza Assad a compiere ogni azione per liberare il territorio nazionale.
La posizione russa mostra ambiguità poiché da un lato tende a rassicurare i turchi circa gli accordi raggiunti nelle zone di "de-escalation" ma poi appoggia con truppe e raid aerei ed elicotteri le offensive di Assad a Idlib.

Il 5 febbraio Erdogan è tornato a minacciare i siriani promettendo che Ankara "interverrà" se gli uomini di Damasco non si ritireranno entro febbraio dalle aree di Idlib dove sono presenti i turchi. "Ne ho parlato con il presidente russo Vladimir Putin e ho detto che il regime deve ritirarsi dalle aree dei nostri check point entro febbraio, come stabilito dagli accordi di Sochi, se il ritiro non avverrà saremo costretti a intervenire", ha detto Erdogan. "A Idlib abbiamo dei check-point costituiti d'accordo con la Russia e non vogliamo avere problemi con i nostri alleati con cui gli accordi e i patti saranno mantenuti. Con la Russia abbiamo relazioni ottime e ci aspettiamo sensibilità da parte di Mosca nel capire la nostra posizione in Siria”.
Damasco ha risposto con un portavoce del ministero della Difesa che ha reso noto che "i militari risponderanno a ogni attacco proveniente dalle forze turche nella regione di Idlib”.
L’obiettivo di Assad (e di Mosca) sembra quindi essere quello di ottenere rapidi successi sul fronte nord occidentale ma senza attaccare direttamente gli avamposti turchi per mettere Ankara di fronte alla rapida riconquista della provincia e indurre le truppe turche al ritiro.

Non è certo la prima volta che Siria e Turchia si trovano ai ferri corti dall’inizio del conflitto civile (largamente ispirato da Ankara) e certo Erdogan può mettere in campo un discreto dispositivo militare, ma sul fronte interno non può permettersi ulteriori gravi perdite tra i suoi soldati che avrebbero un forte peso sociale. Anche per questo i turchi impiegano preferibilmente, in Siria come in Libia, volontari e mercenari siriani arruolati tra i disertori sunniti dell’esercito di Assad, le milizie jihadiste sunnite e la minoranza turcomanna.

Fonte: https://lanuovabq.it/it/scontri-a-idlib-siria-e-turchia-non-si-tengono

I media non vi dicono perché la Turchia ha invaso la Siria. Facciamo chiarezza

Da parte dell’informazione su Idlib sembra in atto una congiura del silenzio. Anzi peggio: è in atto una distorsione delle notizie, una selezione e sostituzione delle parole (“ribelli” invece di pericolosi takfiri), la censura di altre. Finché a capovolgere in maniera diametralmente opposta i fatti, ci sono le campagne mediatiche dei soliti media center (in passato abbondantemente smascherati ma tornati magicamente alla ribalta).
Mentre questo fuoco di sbarramento informativo è per noi, la parte più dura la devono sopportare i siriani: le sanzioni internazionali rimangono, le centrali elettriche, i depositi di energia e impianti petroliferi siriani vengono attaccati frequentemente da droni di ”paesi” la cui tecnologia non è alla portata dei militanti jihadisti. Infine il simbolo ecco più efficace: Europa che si dice che lotta contro il terrorismo, ha minacciosamente mandato sulle coste della Siria la portaerei francese Charles de Gaulle. Non male per far sentire tutta la nostra amicizia, in un momento per la Siria di estrema difficoltà.
......
Poi c’ è un altro punto mai toccato riguardo alle tensioni tra Turchia e Siria di questi giorni. Nessuna testata giornalistica dice chiaramente cosa sta effettivamente facendo Erdogan,
 ovvero chi sono i soggetti che si combattono nella provincia di Idlib, chi la detiene, che tipo di vita conduce la popolazione e chi è l’aggressore. Non fornire mai questi elementi al giudizio pubblico, è molto scorretto da parte dell’informazione.

Il vero motivo per cui la Turchia non vuol mollare la Siria

Eppure è molto semplice : Erdogan”, fa ogni cosa, fa tutto ciò che sta facendo, ha preoccupazioni umanistiche perché semplicemente non vuol lasciare la Siria. Ed in questi giorni ha ammassato intorno ad Idlib una mole gigantesca di mezzi e truppe che vanno in crescendo. In questo contesto, gli Stati Uniti, già fanno per riavvicinarsi ad Erdogan mostrando il proprio sostegno. Nulla importa se in quell’area all’ufficio comunale siede il capo locale di al Qaeda, che ad amministrare la legge ci sia il tribunale della Sharia e che alle scuole i minorenni imparino solo la dottrina whabita. Non ci troviamo in Venezuela e non occorre un Guaido da contrapporre al cattivissimo Maduro, in Siria vanno bene i tagliagole di al Qaeda.
Ma lasciamo stare le ambiguità occidentali, alla sua lotta al terrorismo che serve solo a sfornare una nuova scusa utile all’occorrenza per intervenire dove si vuole o giustificare una sottrazione di libertà ai propri cittadini all’insegna della sicurezza. Torniamo a noi dicevo, torniamo ad Erdogan: a cosa mira Erdogan? Cosa si aspetta da tutto questo ”il Sultano”, a cosa mira? La risposta è semplice, anche se nessuno la proferisce: Erdogan semplicemente cerca di cambiare il quadro etnico nelle regioni del paese occupato dalla Turchia – per cacciare i curdi e gli arabi, per formare enclavi compatte per i turchi – Turkmeni siriani vicino ai turchi in lingua e cultura.
Nelle aree sotto il controllo dell’esercito turco, la lira turca è in circolazione e le scuole sono introdotte secondo gli standard turchi. Cosa c’è da capire? Viene a pensare che la stampa occidentale mentre si strappa le vesti per i civili che muoiono sotto i bombardamenti, sia in linea con Erdogan. Altrimenti caccerebbe le bande di Tharir al Sham da Idlib e restituirebbe la sovranità al paese. La stessa cosa farebbero gli USA la nord della Siria dove continuano ad uno stato sovrano (riconosciuto dalle Nazioni Unite), a distogliere risorse e a costruire basi.
L’Europa ed il mondo occidentale in genere, non parla chiaro, e questo non parlar mai chiaro non può uscire mai niente di buono anche se molti sono convinti del contrario. L’ambito che oggi detiene i principali diritti dell’uomo dell’uomo non si rende conto che agire in modo disonesto ed essere bravi solo con gli alleati ed agire in modo disonesto con tutti gli altri, alla lunga non paga. Agire in questo modo equivale a barare. Non si può intrattenere buoni rapporti solo con partner strategici: anche un piccolo paese deve poter essere sovrano, indipendente, rispettato  e vivere dignitosamente.

mercoledì 14 giugno 2017

La rimonta dell'esercito siriano

in rosso i territori retti dallo stato siriano

di Gianandrea Gaiani
La Bussola Quotidiana, 14 giugno 2017

Lo Stato Islamico sta crollando in Iraq e Siria, Abu Bakr al-Baghdadi è stato probabilmente ucciso, ma l’intera vicenda sta passando sotto un profilo fin troppo basso rispetto alla sua portata, forse perché la fine del Califfato non porterà la pace e la stabilizzazione da molti auspicata in quella regione.
Nell’area di Raqqa, venerdì scorso, sarebbe stato ucciso il Califfo nel corso di un raid aereo dei jet di Damasco. Lo ha riportato la tv di Stato siriana rilanciata anche dai media russi, ma la notizia non è stata finora confermata da nessuna altra fonte ufficiale. Le forze curdo-siriane sostenute dagli Stati Uniti sono entrate il 9 giugno a Raqqa, “capitale” dell’Isis nel nord della Siria, e hanno conquistato terreno nella parte orientale della città. Nelle ultime ore le milizie curde e arabe delle Forze Democratiche Siriane (SDF) sono avanzate dal quartiere Mashlab vero la zona industriale e sono in corso combattimenti a poche centinaia di metri dal perimetro orientale dell'antica cinta muraria della città sull'Eufrate.
L’offensiva che ha portato le SDF, appoggiate da forze speciali anglo-americane, a raggiungere la capitale del Califfato avrebbe provocato anche 653 vittime civili dal 15 marzo ad oggi a causa dei raid della Coalizione internazionale a guida Usa e dei bombardamenti dell’artiglieria delle milizie curde, secondo quanto riferito ad Aki-Adnkronos International da attivisti siriani. Come spiega Khalil al-Abdallah “negli ultimi due mesi il numero delle vittime civili è aumentato notevolmente, poiché l’amministrazione Usa ha consegnato armi alle milizie curde e ha allentato i vincoli imposti ai raid dei caccia della Coalizione".
L’aspetto più rilevante è però che l’offensiva sulla città è in corso su tre lati: da est, da nord e da ovest lasciando un corridoio a sud che consente ai 4mila miliziani, che si stima difendano la città, di ritirarsi verso le aree in cui lo Stato Islamico combatte contro le truppe di Damasco. Il comando russo in Siria accusa la Coalizione a guida Usa e i gruppi armati curdi di permettere ai miliziani dell’Isis di lasciare Raqqa e di “dirigersi verso le province dove sono attive le forze governative siriane. Invece di eliminare i terroristi colpevoli dell’uccisione di centinaia e migliaia di civili siriani – ha detto il comandante delle truppe russe in Siria, generale Serghiei Surovikin – la Coalizione a guida Usa assieme alle SDF, agiscono in collusione con i capibanda dell’Isis che lasciano senza combattere gli insediamenti che avevano preso e si dirigono verso i luoghi in cui sono attive le forze governative siriane”. Una valutazione resa ancora più credibile dalle reiterate azioni belliche delle forze aeree Usa basate in Giordania contro le unità militari di Damasco e dei loro alleati nel settore di al-Tanf.

Anche la decisione di Washington di vietare l’accesso alle forze di Damasco a quella porzione di territorio siriano è stata duramente condannata da Mosca. Secondo gli statunitensi tali forze pongono una minaccia alle basi Usa e ai campi per l’addestramento dei miliziani dell’opposizione nel sud della Siria, ma è evidente che è del tutto illegittimo impedire alle truppe siriane di completare il controllo del territorio nazionale. Nonostante i raid aerei americani, che vorrebbero impedire la saldatura tra le forze siriane e quelle sciite irachene che procedono a nord di Mosul verso il confine siriano, l’avanzata delle forze di Damasco lungo il confine giordano e iracheno ha di fatto circondato le milizie sostenute dagli anglo-americani e dalla Giordania.

“La guerra civile in Siria si è praticamente fermata” dopo che il 4 maggio ad Astana è stato firmato un memorandum per la creazione delle zone di de-escalation, ha dichiarato il capo del dipartimento generale operativo dello Stato maggiore russo, generale Serghiei Rudskoi che ha reso noto che 2.640 miliziani siriani hanno utilizzato le procedure di amnistia del governo siriano e hanno abbandonato le armi nel nord della provincia di Damasco, nelle città di Zabadani, Madaya e Buqeyn. "L’operazione per liberare il territorio siriano dai gruppi terroristici Isis e Jabhat al-Nusra continuerà fino alla loro completa eliminazione”, ha affermato il generale Surovikin precisando che le sue forze aeree hanno eseguito 1.268 raid in Siria nell’ultimo mese, colpendo 3.200 obiettivi terroristici tra cui stazioni di controllo, depositi di armi e munizioni, basi di trasferimento e campi di addestramento.
Il tracollo non solo dell’Isis ma di tutte le milizie anti-Assad rappresenta la più importante vittoria per le forze russe che hanno conseguito la vittoria militare in meno di due anni di campagna siriana. L’esercito di Assad continua ora ad avanzare su tutti i fronti: ha ripreso il controllo di 105 chilometri del confine con la Giordania, ha liberato 83 insediamenti nella parte nordorientale della provincia di Aleppo per oltre 500 chilometri quadrati uccidendo (secondo il comando russo) oltre 3.000 miliziani dell’Isis inclusi decine di comandanti e distruggendo 20 carri armati, 7 veicoli da combattimento e 9 pezzi di artiglieria pesante. Le forze siriane hanno inoltre raggiunto la frontiera con l’Iraq, nell’Est del Paese, per la prima volta dal 2015 coordinandosi con l’esercito di Baghdad per il controllo della frontiera.
Le forze armate irachene hanno l’ordine di non oltrepassare la frontiera siriana, ma le milizie sciite filo iraniane potrebbero avere mano libera ad unirsi alle forze di Damasco per chiudere la partita con l’Isis e liberare Deyr ez Zor dove la guarnigione siriana è sotto assedio da oltre due anni. “In cooperazione con i nostri alleati, le nostre unità hanno preso il controllo di numerosi siti e postazioni strategici nel deserto di Badiya, in una zona di circa 20.000 chilometri quadrati”, ha dichiarato il comando generale dell’esercito siriano. “Questa avanzata rappresenta una svolta strategica nella lotta contro il terrorismo e un trampolino per estendere le operazioni militari nel deserto della Badiya e lungo le frontiere con l’Iraq”, ha proseguito il comando.
I successi dei siriani rischiano quindi di provocare nuove tensioni con la Coalizione internazionale a guida Usa, che oggi appare preoccupata più dall’avanzata delle forze di Damasco e delle milizie sciite provenienti dall’Iraq che dalla lotta allo Stato Islamico, nell’ottica della linea strategica anti iraniana dell’Amministrazione Trump. Dopo che la Turchia si è schierata col Qatar nella diatriba in atto tra Doha e i sauditi, Riad potrebbe puntare sulla Giordania per riorganizzare l’opposizione armata al regime di Damasco e riprendere le ostilità con l’appoggio degli USA.

Tensioni non meno forti riguardano il futuro dell’Iraq dopo la caduta di Mosul dive i miliziani dell’Isis controllano solamente le aree della Città Vecchia, al-Shifa e Bab al-Sinjar. Il governo di Baghdad ha annunciato che respingerà ogni decisione unilaterale presa dalle autorità del Kurdistan iracheno per ottenere l’indipendenza. Lo ha sottolineato lunedì una nota del portavoce dell’esecutivo, Saad al-Haddithi, commentando la decisione presa due giorni fa dal presidente del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, di fissare un referendum per l’indipendenza dall’Iraq il 25 settembre.
Anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, sponsor del Kurdistan iracheno autonomo (ma non indipendente) ha definito il referendum sull'indipendenza della regione autonoma del Kurdistan iracheno da Baghdad "sbagliato e una minaccia all'integrità territoriale dell'Iraq. Un passo del genere in un processo così cruciale non serve a nessuno", ha aggiunto Erdogan. La Turchia, acerrima nemica dell’autonomia dei curdi di Siria alleati del PKK (i miliziani curdi di Turchia) si oppone da sempre con forza alla creazione di entità curde indipendenti.
Per questo se la guerra al Califfato sta per esaurirsi (ma non la  minaccia terroristica dell’Isis in Europa), non ci sono molte ragioni per credere che la conflittualità nella regione andrà scemando in tempi brevi.

giovedì 19 gennaio 2017

In piazza per i cristiani perseguitati


Sarà Philip Astephan  a portare dalla Siria la sua personale testimonianza al Rosario in piazza per i cristiani perseguitati, domani sera a Rimini.
Siriano di Aleppo, appartenente alla parrocchia dei francescani di padre Ibrahim, 39 anni, studi in psicologia, Philip Astephan è attualmente rifugiato e vive a Roma, dopo una serie di peripezie seguite a quella che in Occidente viene chiamata “primavera araba”, “ed io invece - dice Astephan - chiamo l’autunno arabo”.

Com’è la situazione oggi ad Aleppo?
E’ migliorata per l’intervento russo e dell’esercito siriano, che hanno liberato Aleppo dall’Isis, ma ancora non si può dire che ci sia la pace. Ci sono ancora esplosioni di bombe fuori città, nel territorio attorno ad Aleppo. Spesso non c’è acqua né elettricità, è difficile trovare le medicine e molte cose hanno prezzi alti”.

La situazione per i cristiani in Siria è migliorata?
Certo, perché con il regime ed anche con l’esercito siriano noi stavamo e stiamo bene. La maggior parte dei cristiani siriani è a favore del cambiamento, ma sia chiaro che il cambiamento è andare avanti, e non tornare indietro. Sapevamo dall’inizio che la guerra era un gioco che veniva da fuori, da conflitti di interessi fra Russia ed America. Tornando al tema del cambiamento, non è logico che venga favorito dai soldi dell’Arabia Saudita, che non ha la democrazia… Se pensiamo a queste cose, allora capiamo meglio la situazione”.

Per voi cristiani siriani, che cosa è utile che facciano i cristiani occidentali?
La nostra gente ha certo bisogno di medicinali e altri generi di necessità, quindi un aiuto economico è utile. Ma i cristiani siriani vogliono soprattutto che il mondo occidentale sappia la verità. Almeno un po’ di verità… Vogliamo che la verità diventi un po’ più chiara”.

Intende circa l’atteggiamento verso l’Islam?
Io ho tanti amici musulmani buoni, ma bisogna capire con chi parliamo.. Ad esempio, vengono chiamati «ribelli» quelli che dall’Occidente vanno in Siria a combattere. Ma quali ribelli… Sono stranieri andati a pagamento in Siria, sono strumentalizzati per fare un gioco politico, perché la Siria è importante geopoliticamente”.

Quello del 20 gennaio 2017 è il trentesimo Rosario in piazza. L’“Appello all’umano” del Comitato Nazarat si tiene ogni 20 del mese, ininterrottamente dall’agosto 2014, quando un gruppo di riminesi - fra loro anche alcuni laici - diede vita all’iniziativa di preghiera e di testimonianza a favore dei cristiani e delle altre minoranze religiose perseguitate in Medio Oriente, Africa e Asia. Nel corso dell’estate le milizie agli ordini dell’autoproclamato Califfato erano dilagate nella piana di Ninive, nord dell’Iraq, ed in Siria. Popolazioni cristiane fra quelle di più antica data, erano state costrette a lasciare case, terre, villaggi e città dove si erano stabilite da quasi due millenni: si ricorderanno le cronache di esodi forzati a piedi, minacce, violenze, stupri, massacri e distruzioni di chiese. Anche gli Yazidi fecero le spese dell’avanzata dell’Isis, e particolarmente le donne.

La lettera “nun”, iniziale di Nazarat (o Nassarah), veniva dipinta dagli invasori sugli stipiti delle porte o sui muri delle case dei cristiani: nata come marchio spregiativo, la lettera è divenuta un simbolo distintivo dell’identità cristiana che tenta, malgrado mille difficoltà, di rimanere in vita, per il bene stesso delle società siriana e irachena.
Questa stessa lettera contraddistingue il Comitato Nazarat e il manifesto di invito al rosario in piazza, tanto a Rimini quanto nelle altre 15 città. In contemporanea con l’iniziativa in pubblico, 26 comunità religiose femminili e maschili - in Italia, altri paesi europei, Medio Oriente e Africa - tengono la preghiera dentro i rispettivi conventi e monasteri.

GLI APPUNTAMENTI 
19 gennaio (solo questo mese) Bologna, ore 19,30 Piazza S. Stefano

20 gennaio
  • Rimini ore 21 Piazza Tre Martiri
  • Cremona ore 21,00 Piazza Cittanova
  • Andora (SV) ore 21,00 Piazza Santa Maria
  • Loreto ore 21,30 Piazza della Madonna
  • Cesena ore 19,00 Piazza Giovanni Paolo II
  • Milano ore 19,00 piazza della Scala
  • Busca (CN) ore 19,00 Piazza della Rossa
  • Prato ore 21,15 Piazza Santa Maria della Pietà
  • Portomaggiore (FE) ore 20,20 Piazza Giovanni XXIII
  • Cattolica (RN) ore 21,00 Piazza Roosevelt
  • Lugano (CH) ore 20,00 Piazza San Rocco
  • Siena ore 18,00 Piazza Tolomei
  • Perugia ore 21,00 Chiesa di San Costanzo
  • Damasco (Siria) ore 20 Casa Sant’Anania
  • Erbil (Iraq) ore 20,00 Campo Profughi

domenica 25 settembre 2016

Quel popolo di Aleppo che non merita solidarietà


di Robi RonzaLa N Bussola Q, 24-09-2016

Avendo avuto occasione di visitare la città un paio d’anni prima dello scoppio della guerra, Aleppo non è per me qualcosa di remoto. Sono luoghi ed edifici conosciuti, monumenti ammirati, gente incontrata. Perciò la notizia, diffusasi ieri, della ripresa dei bombardamenti aerei sui suoi quartieri orientali mi tocca anche personalmente. 
Tuttavia, più che mai in questa guerra, l’informazione è così strumentalizzata e distorta che in fin dei conti ancora una volta l’unica cosa certa è che le sofferenze degli abitanti della città non accennano a finire; che il mistero del male di cui la strage degli innocenti è paradigma non cessa di riproporsi.  Sappiamo, insomma, che Aleppo è di nuovo un campo di battaglia. Al di là di questo dato complessivo tutto il resto è confuso ed incerto, fermo restando un fatto sin qui sempre confermato: il grosso delle notizie sulle sofferenze dei civili a causa dei bombardamenti e dei cannoneggiamenti proviene dai quartieri orientali sotto il controllo degli “insorti”. 

Delle bombe e dei tiri di mortaio che invece prendono di mira i quartieri occidentali sotto il controllo dei governativi, dove tra l’altro vive la maggior parte dei cristiani, si sa poco, tardi e male. Come si ricorderà, infatti, la malaugurata rivolta senza prospettive contro il regime di Assad, che ormai cinque anni fa precipitò la Siria nella guerra, si fondava su una strana alleanza fra Stati Uniti, ambienti della borghesia progressista locale e movimenti integralisti islamici, questi ultimi incautamente ritenuti da Washington non determinanti. Nonostante tutto quello che da allora a oggi è accaduto, l’occhio di riguardo verso gli “insorti”, con cui l’ordine costituito dei media e delle grandi Ong cominciò a guardare alla crisi siriana, non è più venuto meno. 

Perciò – osserviamo per inciso -- le grandi agenzie e i grandi giornali continuano tra altro a definire “insorti” quella che invece è in larga misura una grande “legione straniera”, armata e rifornita attraverso la Turchia; in realtà una forza di invasione costituita da jihadisti provenienti da circa quaranta diversi Paesi di ogni parte del mondo.  Nel convulso conflitto che ne è derivato, anche a seguito del successivo intervento della Russia, con le potenze della coalizione che mentre fanno la guerra ai jihadisti (dell’Isis e di altre sigle) si fanno anche la guerra tra loro, chi paga le spese del conflitto è innanzitutto la popolazione civile. 

Non però soltanto quella che si trova nelle aree sotto il controllo degli “insorti”; e quindi subisce i bombardamenti aerei russi e governativi di cui poi le grandi agenzie e gli uffici  stampa delle grandi Ong distribuiscono a piene mani informazione e servizi video. Non sta meglio, infatti, quella che si trova nelle aree sotto il controllo del governo di Damasco, e quindi subisce i tiri  indiscriminati di mortaio e gli agguati dei cecchini degli “insorti”. Ad Aleppo, che aveva circa tre milioni di abitanti, si stima che ne restino ancora circa un milione e mezzo; si tratta in genere dei più poveri tra i poveri, di coloro che non hanno né i mezzi economici né la possibilità pratica di allontanarsi dalla città. 

Di questi circa tre quarti vivono nell’area sotto il controllo del governo e il resto in quella sotto il controllo degli “insorti”.  In quanto ai cristiani, dei 150 mila che vi abitavano ne restano ad Aleppo circa 30 mila. Rimane in funzione una sola parrocchia, quella di San Francesco, cui provvedono cinque frati della Custodia di Terra Santa, fra cui padre Firas Lufti e padre Ibrahim, che molti in Italia e altrove in Europa hanno avuto modo di conoscere. La parrocchia è divenuta un centro di soccorso, di aiuto sanitario e alimentare e di assistenza aperto a tutti, cristiani e musulmani. 

Sembra purtroppo che le potenze coinvolte nella crisi non riescano a risolverla con un accordo diplomatico. In tal caso siamo inevitabilmente alla vigilia di una grande battaglia per la definitiva conquista di Aleppo, chiave di volta del conflitto. E perciò alla vigilia di altre distruzioni indiscriminate e di altre sofferenze di innocenti e di indifesi, in particolare donne, vecchi e bambini. Attendiamoci tra l’altro la consueta informazione unilaterale, ricca di immagini e di particolari con riguardo alle sofferenze causate dai bombardamenti aerei delle forze della coalizione e del governo di Damasco, e muta invece sulle sofferenze causate dalle armi degli “insorti” ai civili che vivono nei quartieri sotto controllo governativo. 

Le tv, le grandi Ong francesi e inglesi, e gli inviati dei grandi giornali ci parleranno molto delle prime. Le seconde dovremo per lo più immaginarcele, ma nella realtà non saranno da meno.

mercoledì 14 settembre 2016

Omelia oggi papa Francesco: “Quanto piacerebbe che tutte le confessioni religiose dicessero: 'Uccidere in nome di Dio è satanico'”.

“Dobbiamo pregarlo - è un martire!
E i martiri sono beati
– dobbiamo pregarlo, che ci dia la mitezza,
la fratellanza, la pace,
anche il coraggio di dire la verità:
uccidere in nome di Dio è satanico”.
Così il Papa alla Messa per p. Hamel
Sono sincero: I Musulmani in Chiesa (con tutti gli abusi e gli equivoci che si sono creati) e i Cristiani in Moschea non mi convincono. Detto questo, ritengo importanti i gesti che i Musulmani,tramite le loro autorità, stanno compiendo qui in Italia e in altre nazioni. Di particolare importanza l'incontro ceceno a Grozny, dove circa 200 personalità musulmane di Egitto, Russia, Siria, Sudan, Giordania, Europa si sono incontrate per condannare la dottrina Wahhabita dell’Arabia saudita (Qui).
Come cristiani o come laici, li abbiamo continuamente sollecitati a gesti e assunzione di posizioni di rottura verso l'islam violento e fondamentalista e tutti i gesti che vanno in questo senso sono da apprezzare e valorizzare come segni di speranza e di buona volontà. Sono importanti per almeno due motivi: il primo è politico e riguarda tutti i focolai di guerra che vedono l'islam come movente (o pretesto) per conquistare aree sempre più vaste di territori in molte parti del mondo (Medio Oriente, Africa, Asia..). Sentir dire da parte di autorevoli imam che l'islam non può essere usato per combattere gli "infedeli" e vessarli in ogni modo, ha risvolti politici che potrebbero innescare sviluppi importanti in ordine alla pace e alla pacifica convivenza tra popoli e religioni diverse. Il secondo aspetto, non meno importante è una riflessione interna all'islam stesso, che potrebbe avere sviluppi relativi a una possibile rilettura di molte parti del Corano. Riguardo a questo secondo aspetto uso molto prudentemente il condizionale in quanto l'autore del Libro ritiene prescrittive, immodificabili e non interpretabili le Sure e gli Hadit che ne fanno un tutt'uno come parola autentica di Allah. Non sono il solo ad avere dubbi in tal senso, mi rifaccio piuttosto a scritti "profetici" di Charles de Foucauld o di Sant'Alfonso Maria de Liguori che riguardo all'Islam hanno espresso seri dubbi sulla sua evoluzione e riformabilità.
Ricordo che i Musulmani possono ricorrere in particolari situazioni alla dissimulazione (Taqqya): laddove siano minoranza e debbano carpire la benevolenza delle comunità contigue alla loro, possono accettare anche leggi e modi di vita a loro non proprio graditi, finché non siano essi ad essere maggioranza con la possibilità di farsi valere anche a livello politico e quindi legiferare islamicamente (Sharia).  Io faccio conto soprattutto sui musulmani che, prescindendo da quelle parti del Corano che vorrebbero gli infedeli combattuti e sottomessi, assumono posizioni pacifiche a fraterne nei confronti di tutti. In Egitto ci sono Musulmani che proteggono le Chiese insieme ai Cristiani quando queste sono nel mirino dei fondamentalisti. A Lahore, Musulmani hanno aiutato i Cristiani a ricostruire chiese. 
La Speranza è una virtù cristiana, l'ingenuità e il buonismo non sono invece virtù: "puri come colombe e scaltri come serpenti".
Mani tese ed occhi aperti quindi. Incontriamoci e dialoghiamo, poi preghiamo per la Pace e la fraterna convivenza. Non dimenticando che, come dice il Vescovo Negri,anzitutto "noi siamo sfidati sulla evangelizzazione e sulla educazione di un popolo cristiano capace poi di interloquire efficacemente con tutti i nostri fratelli che vivono con noi nelle varie situazioni della vita, e dare perciò il nostro contributo originale e significativo a una società in cui le differenze di cultura, di identità, di professione, di fede, devono esprimere la ricchezza della vita umana".
Gb.P.

Charles de Foucauld: "Così l'islam ci dominerà"

Forse nessun europeo è stato così vicino ai musulmani d’Africa come il beato Charles de Foucauld (1858-1916), che a loro ha dedicato la vita fino al martirio. A distanza di quasi cent’anni, una sua lettera a René Bazin, scritta due mesi prima della morte, suona come una vera profezia che fa riflettere: 

"Ritengo che se, lentamente, dolcemente, i musulmani del nostro impero coloniale del Nord Africa non si convertono, sorgerà un movimento nazionalista simile a quello della Turchia. Si formerà un’élite intellettuale nelle grandi città, educata in Francia, ma senza lo spirito né il cuore francese, un’élite che avrà perso la fede islamica, ma che ne conserverà il nome per influenzare attraverso di essa le masse.
D’altra parte, la massa dei nomadi e dei contadini resterà ignorante e distante da noi, fermamente maomettana, portata all’odio e al disprezzo contro i francesi, contro la nostra religione, contro il nostro dominio, non sempre benevolo. Il sentimento nazionalista e barbaresco crescerà nell’élite colta. Quando troverà l’occasione, per esempio durante qualche situazione difficile per la Francia, interna o esterna, utilizzerà l’islam come una leva per sobillare le masse ignoranti e così cercare di creare un impero musulmano indipendente in Africa.
L’impero francese in Africa — Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale — ha 30 milioni di abitanti. Grazie alla pace, potrà averne il doppio in meno di cinquant’anni. Questa crescita demografica sarà accompagnata da un grande sviluppo materiale. I Paesi si arricchiranno, saranno solcati da ferrovie, popolati da persone agguerrite e addestrati all’uso dei nostri armamenti, guidati da un’élite educata nelle nostre scuole. O noi impariamo a fare i membri di questa élite dei francesi, oppure prima o poi ci cacceranno via. E l’unico modo per diventare francesi è diventare cristiani.
Non si tratta di convertirli in un giorno, né tanto meno con la forza, ma dolcemente, in silenzio, con la persuasione, l’esempio, la buona educazione e l’istruzione, attraverso un contatto stretto e affettuoso. Questo è un lavoro soprattutto per i laici, che possono avere con i musulmani dei contatti assai più numerosi e più intimi che non i preti.
I musulmani possono diventare dei veri francesi? Eccezionalmente sì, ma in generale no. Molti dogmi fondamentali dell’islam si oppongono ai nostri principi. Con alcuni, e penso ai musulmani liberali che hanno ormai perso la fede, ci sono accomodazioni possibili. Ma con altri, e mi riferisco a coloro che aspettano il Madhì, non v’è nessuna possibilità di accordo. Escludendo i liberali, i musulmani credono che, giungendo i tempi del Giudizio Universale, verrà il Madhì che proclamerà una guerra santa per stabilire l’islam su tutta la terra, dopo aver sterminato o soggiogato tutti i non-musulmani.
Secondo la loro fede, i musulmani ritengono l’islam come la loro vera casa e i popoli non-musulmani come destinati a essere sopraffatti da loro o dai loro discendenti. Considerano la sottomissione a una nazione non-musulmana come una situazione transitoria. La loro fede li assicura che usciranno vincitori da questo scontro con gli europei che oggi li dominano. La saggezza consiglia loro di patire con calma questa prova: “Quando un uccello intrappolato si agita, perde le piume e si spezza le ali, invece se resta tranquillo sarà integro il giorno della liberazione”.
Loro possono preferire un Paese a un altro, come preferiscono la Francia alla Germania perché ci ritengono più miti; possono intrecciare amicizie con tale o tal’altro francese; possono combattere con grande coraggio per la Francia, per sentimento o per onore; possono dimostrare spirito guerriero, fedeltà alla parola, come d’altronde i mercenari dei secoli XVI e XVII. Ma, di norma, esclusa qualche eccezione, finché saranno musulmani, non saranno dei veri francesi. Aspetteranno con più o meno pazienza il giorno del Madhì, quando allora attaccheranno la Francia.
Ecco perché sempre più musulmani algerini si mostrano così ansiosi di chiedere la cittadinanza francese. Come possono chiedere di far parte di un popolo straniero che sanno sarà irrimediabilmente sconfitto e sottomesso? Diventare francesi davvero, implicherebbe una sorta di apostasia, una rinuncia alla fede nel Madhì.
(Lettera del beato Charles de Foucauld a René Bazin, dell’Accademia Francese, 29 luglio 1916)"

http://www.lanuovabq.it/mobile/articoli-la-profezia-di-de-foucauldcosi-lislam-ci-dominera-16853.htm#.V9BvHvmLSM9

venerdì 19 febbraio 2016

Adesso appoggiamo Al Qaeda?



La Bussola quotidiana, 19-02-2016di Gianandrea Gaiani

Le truppe siriane e curde avanzano in tutto il nord  e Ankara perde il controllo mostrando il suo vero volto e soprattutto il suo vero ruolo nel sostenere da ormai cinque anni i movimenti armati contro il regime di Bashar Assad, inclusi quelli jihadisti.
Sembrano confermarlo i bombardamenti aerei e d’artiglieria turchi che da cinque giorni cercano di fermare l’avanzata delle milizie di difesa popolare curde (Ypg), armate e appoggiate dai russi e alleate di Damasco che stanno strappando ai qaedisti di al.-Nusra e dello Stato Islamico gli ultimi tratti di confine. Nonostante dichiari di combattere l’Isis e abbia reso noto di aver ucciso almeno 200 combattenti del Califfato nelle ultime settimane, Ankara preferisce evidentemente condividere i 900 chilometri di frontiera con la Siria con i jihadisti piuttosto che con i curdi dell’Ypg, che considera alleati dei curdi turchi del Pkk e accusa dell’attentato che mercoledì ha ucciso una trentina di soldati turchi.

L’Ypg nega ogni coinvolgimento in un attentato che sembra voler regalare al presidente Recep Tayyp Erdogan il pretesto per un “casus belli” ma del resto il timore del governo turco ha radici antiche ed è legato al rischio che venga proclamato uno Stato indipendente curdo anche se le intese tra Ypg e Damasco prevedono solo una larga autonomia. Promessa da Bashar Assad e accettata dai curdi, consapevoli che l’alternativa, cioè la caduta del regime e l’avvento al potere dei movimenti jihadisti, non li vedrebbe cancellati con l’imposizione della sharia.

I turchi, nostri alleati nella NATO, non si sono limitati ad aiutare Isis e i qaedisti del Fronte al-Nusra con i bombardamenti ma per cercare di respingere i curdi che si avvicinano alla città di confine di Azaz hanno fatto entrare in Siria tra i 500 e i 2mila combattenti islamisti che combattono sotto le bandiere di al Qaeda che a quanto pare erano ospitati in Turchia,  probabilmente nei campi di addestramento protetti dai servizi segreti di Ankara. I rinforzi jihadisti disporrebbero di armi pesanti e mezzi blindati, come riferiscono media locali, a conferma del peso rappresentato dal supporto turco.

Contemporaneamente il Califfato ha lanciato però una controffensiva contro i curdi nell’area di Ayn Issa, tra Raqqa e il confine turco a conferma dei sospetti che esista un coordinamento tra qaedisti, Isis e Turchia. La rabbia di Ankara è legata anche al fatto che i curdi stanno occupando quel settore del nord siriano, tra Marea e Jarablus in cui i turchi premono da tempo sugli alleati per poter istituire una “zona cuscinetto” protetta da una no-fly zone in cui schierare 10 mila militari e trasferire 2 milioni di profughi siriani attualmente ospitati in Turchia.


Una proposta che porterebbe la Turchia a schierare forze militari in Siria creando i presupposti per trascinare nel conflitto l’Alleanza Atlantica e che, ciò nonostante, viene oggi sostenuta con forza anche dalla Germania, ormai appiattita sulle posizioni turche nel timore che Erdogan apra le frontiere dell’Europa ad altri due milioni di profughi e immigrati clandestini. Il Cremlino ha ovviamente bocciato l’ipotesi di no-fly zone precisando  che intende continuare a colpire i “terroristi” (termine con cui Mosca definisce tutti i gruppi islamisti dell’opposizione a Bashar Assad) nell’area di Aleppo e lungo il confine turco.

Quello che dovrebbe indurre a serie riflessioni sul ruolo strategico dell’Europa non è solo il sostegno della Merkel a Erdogan che aiuta ambiguamente lo Stato Islamico oltre ad ospitare, addestrare e alimentare le forze qaediste di al-Nusra e le milizie islamiste alleate dell’Esercito della Conquista, ma soprattutto il fatto che il Consiglio europeo ha deciso di chiedere alla Russia e al regime siriano di interrompere subito gli "attacchi contro i gruppi dell'opposizione moderata, che minacciano le prospettive di pace, avvantaggiano l'Isis e provocano la crisi dei rifugiati". Espressione sibillina che non tiene ambiguamente conto della realtà. 
L’avanzata delle truppe siriane appoggiate dai russi sta travolgendo le difese dei qaedisti, delle milizie salafite, dei fratelli musulmani e dello Stato Islamico: tutti movimenti che si pongono l’obiettivo di instaurare la sharia in Siria.

Sono questi i “moderati” che l’Europa vuole salvare dalle bombe russe?  Al Consiglio d’Europa fingono di non sapere che i ribelli cosiddetti “moderati” ormai non esistono più o sono ridotti a piccole milizie di nessuna importanza militare e politica con l’esclusione  delle Forze Democratiche Siriane guidate dai curdi e appoggiate dagli USA che però non vengono attaccate dallo schieramento russo-siriano.
Allora i casi sono due: o alla Ue la politica estera continua ad essere un optional affidata a improvvisati che non sanno ciò che dicono oppure a Bruxelles qualcuno ha deciso che in Siria siamo schierati al fianco dei jihadisti, alleati di al- Qaeda e Califfato. Forse con la speranza che se li aiutiamo contro Assad smetteranno di compiere attentati a casa nostra.


domenica 13 settembre 2015

Il dramma di Aleppo: manca tutto

Gli scontri, migliaia di morti, 7 milioni di sfollati: è questa la Siria oggi. La città più colpita diventa però il simbolo della rinascita: tre coraggiosi frati francescani aiutano la gente portando acqua, cibo e aiutando gli studenti.

di Maria Acqua Simi

Quattro anni di guerra, oltre sette milioni di sfollati, metà del Paese in balìa di gruppi di briganti e ribelli islamisti o delle milizie dell’ISIS. Mentre l’altra metà - quando non si combatte nelle città, quartiere per quartiere - è ancora sotto il debole controllo dell’esercito regolare del presidente Bashar al Assad. È questa la Siria da cui centinaia di migliaia di persone stanno fuggendo: cristiani, musulmani, curdi. È la Siria di Aylan, il bambino annegato al largo delle coste turche e la cui foto (vedete l’editoriale) ha fatto il giro del mondo.

La grande fuga
Qualcuno cerca di arrivare in Europa, altri in Canada o in Australia. Ma sono i più ricchi. I poveracci muoiono per strada, rimangono intrappolati sui confini o nelle città siriane teatro di violenze indicibili. Senz’acqua, elettricità, lavoro, medicine. Sia le forze di sicurezza che i gruppi “ribelli”  hanno condotto diverse operazioni  su larga scala in villaggi e città, sfociate in esecuzioni di  massa, uccisioni, arresti,  conversioni forzate, rapimenti  e torture. In questo caos molte imprese, specialmente esportatrici  e importatrici, hanno chiuso i battenti.
Le folle di turisti che erano la linfa di un’industria moderna e fiorente che aveva creato milioni di posti di lavoro nei trasporti, nel settore dei servizi e degli alloggi, non vengono più. L’embargo internazionale sta impedendo qualunque possibilità di esportare, mentre i prezzi si sono impennati. Aleppo è forse l’esempio più grande di tutto questo. Proviamo a raccontarlo, con gli occhi di un amico francescano che è laggiù, padre Ibrahim, e che vogliamo provare ad aiutare nei prossimi mesi con una colletta del GdP, proprio come è stato ed è per i cristiani iracheni in fuga dall’ISIS, a Erbil, qualche mese fa.

La vita ad Aleppo
La casa di Bassam e della sua famiglia si trova a Middàn, che in arabo significa “campo”. Da quando è scoppiata la guerra in Siria, quattro anni fa, questo quartiere di Aleppo si è trasformato in un campo, sì, ma di battaglia. La zona è abitata prevalentemente da famiglie cristiane di origine armena, con molti figli ed è un dedalo di strade strette e case costruite una sopra all’altra, i negozi incollati alle abitazioni, le finestre piccole, gli edifici invece alti anche cinque o sei piani.
La casa di Bassam è a metà di una di queste: uno spazio modesto, due stanze e una cameretta dove si possono sedere quattro persone strette strette.  Era così, prima che una bomba di gas, seguita da alcuni colpi di mortaio, distruggesse lo sgabuzzino e incendiasse l’edificio vaporizzando in pochi secondi le povere cose che arredavano gli interni». La zona di Middàn ha subìto e continua a subire la sorte peggiore.
Le famiglie, in maggioranza poverissime, non ce la fanno ad abbandonare le case poiché non hanno altro luogo in cui rifugiarsi. Se ne stanno rintanate nelle loro case a distanza di solo 100 metri dalle milizie armate. la casa di Bassam ora ha un tetto di zinco, perché rifarlo in muratura è troppo rischioso». Ce lo racconta padre Ibrahim Alsabagh, 44 anni, francescano siriano parroco della comunità latina di Aleppo.  È grazie all’amicizia con lui e ai suoi racconti che possiamo entrare nel cuore della città, incontrare la famiglia di Bassam e la gente di Middàn. Che poi sono le famiglie di Maloula, Raqaa, Latakia, Knayeh, Yakoubieh e di altri nomi antichissimi che popolano i villaggi di questa bella e antica terra. Una terra che oggi ha bisogno di tutto.

L’emergenza sanitaria
Ad Aleppo la parrocchia di San Francesco, quella di padre Ibrahim, si trova nel quartiere di Azizìeh, zona ancora sotto il controllo del l’esercito regolare di Damasco. I frati - che in Siria vivono da secoli - sono presenti anche nella chiesa di Sant’Antonio di Padova, e poco lontano a El Ram, nel Convento di San Bonaventura.
Nonostante la linea del fronte sia ad un passo, con bombe e cecchini in ogni angolo, ospitano dalle 7 di mattina alle 20 di sera studenti universitari e liceali che vogliono studiare ma non hanno più un luogo dove farlo. Accolgono tutti: cristiani, musulmani, curdi.
Aiutano a distribuire l’acqua e il cibo, hanno realizzato un oratorio per i bambini, cercano di aiutare la gente a  pagare gli affitti e le rette scolastiche anche se ora si è aggiunta la drammatica emergenza sanitaria.
Occorrono nuovi fondi per fornire cure mediche e comprare medicine: molti medici  hanno abbandonato il Paese o sono stati uccisi e imprigionati. Ad Aleppo molto spesso è quasi impossibile eseguire interventi per la mancanza di acqua ed elettricità.  Per mancanza di farmaci chemioterapici i trattamenti sono sospesi e i prezzi delle operazioni più banali lievitati: oggi una semplice appendicite costa 1500 dollari invece di 400.  Sono in grave aumento le epidemiie e così l’impegno più grande dei francescani di Terra Santa è quello di riparare uno dei pochi ospedali rimasti in piedi nella città. Padre Ibrahim e i suoi fratelli non hanno però paura.

«Nonostante i nostri sensi ci dicano che non c’è più speranza e che Aleppo non avrà un domani, con gli occhi della fede continuiamo a vedere una salvezza per il nostro popolo. Continuiamo a sperare che, là dove gli uomini falliscono nella ricerca della pace, il Signore Risorto riuscirà. Noi saremo lì fino all’ultimo, punto di riferimento per i nostri e forse anche per gli altri. Basta guardare a come siamo diventati amici di tanti musulmani che prima - quasi - non guardavamo in faccia.  E poi tutta la solidarietà internazionale, che ci permette di sopravvivere. Anche se a volte non è sufficiente, ogni giorno sperimento il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci».

«Ne vale la pena»
Chiediamo a Ibrahim se vale la pena di rimanere, se c’è qualche segno di speranza. Ed è con la sua risposta che vogliamo chiudere questo articolo. «Valeva la pena di visitare le case semi-distrutte con gli uomini, le donne, i ragazzi e i bambini  che le abitano? Ho continuato a pormi questa domanda fino a quando il buon Pastore stesso ha mi dato la risposta, con un’altra domanda che spiega tutto: “Valeva la pena di toccare il lebbroso, prima di guarirlo? Non si poteva cioè guarirlo senza toccarlo?”.
Se si tratta di manifestare la tenerezza di Dio che distrugge tutte le divisioni e le barriere fra l’uomo e il suo Dio, se si tratta di manifestare il Suo Amore verso la Sua creatura colpita e martoriata, sì, stare qui vale la pena, perché ci ricorda come anche oggi Gesù non si vergogna di toccare la lebbra, pur di manifestare quanto Lui è presente».

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I 14 frati della Custodia di Terra Santa non hanno mai lasciato il Paese in guerra e operano in diverse zone: Lattakia, Damasco, Aleppo e in alcuni villaggi della valle Orontes.
Portano aiuti alla popolazione locale senza distinzione di appartenenza religiosa o nazionalità. Hanno anche creato quattro centri di accoglienza, che provvedono ai bisogni più immediati dei più poveri della popolazione: acquisto di cibo, indumenti e coperte in vista dell’inverno.  Si cerca anche di tamponare l’emergenza sanitaria dispensando medicine e provvedendo all’assistenza medica fondamentale, specialmente attraverso l’ospedale di Aleppo e i dispensari medici dei monasteri francescani. Cercano poi di offrire  sostegno agli sfollati trovando loro soluzioni di alloggio in caso le loro abitazioni non siano più accessibili, o ricostruendo le loro case.



«Aleppo, i martiri di una guerra che è artificiale»


Appesi alla speranza

Intervista  Padre Rodrigo Miranda
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«La Siria non è divisa. Si mantiene come un blocco e quello è ciò che dà loro forza. Quello fa anche arrabbiare chi la vuole distruggere. Il popolo non ha mai chiesto questa catastrofe in nome di chissà quale libertà. Chi vuole la distruzione della Siria? Gruppi terroristici finanziati e, spesso, composti da stranieri, appoggiati dalle potenze dell’Occidente, con un gruppo manipolato e minimo di siriani. In quelli che vengono chiamati “ribelli” ci sono circa 33 diversi gruppi, composti da quasi 83 Paesi diversi. Dall'altra parte si trova il governo e il popolo siriano. Il conflitto in Siria è stato conformato in questo modo fin dall'inizio e non con l'arrivo di Isis. Per questo dico che è un conflitto “artificiale”, perché è stato creato ad hoc da vari anni, premeditato da amministrazioni di Paesi che oggi tentano di apparire come i salvatori del Medio Oriente, ma che sono i colpevoli (identificati da tutti laggiù) della sofferenza». 
......     LEGGI QUI L'INTERVISTA:
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-aleppo-i-martiri-di-una-guerra-che-e-artificiale-13745.htm

PER SOSTENERE LE OPERE DEL VICARIATO APOSTOLICO DI ALEPPO:
Delegazione di Terra Santa - Banca CARIGE Agenzia 11 - ROMA
Iban:  IT48A0343105018000000155180
CAUSALE: Vicariato Apostolico di Aleppo