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lunedì 30 settembre 2019

Ancora si cerca di proteggere 'i ribelli' di Idlib, ma di chi stiamo parlando?

  Latamne, Idlib: una rete di grotte serviva da base per i ribelli

trad. Gb.P. OraproSiria

I tunnel si dispiegano per centinaia di metri nel buio, intervallati da grotte disseminate di materassi di paglia e immondizia: a Latamné, nel nord della Siria, le forze governative e il loro alleato russo ritengono di aver scoperto una vasta rete sotterranea usata dai gruppi jihadisti.
Il labirinto è scavato dentro una collina rocciosa, le auto e i blindati bruciati sono stati abbandonati lungo la strada sterrata che porta all'ingresso di questa rete sotterranea, che poteva dar rifugio fino a 5.000 persone, secondo l'esercito russo, organizzatore di una visita al luogo per un gruppo di media internazionali, tra cui l'AFP .
All'ingresso, un muro di mattoni con tracce di incendio introduce a una serie di tunnel, a volte abbastanza alti appena per starvi in piedi, e collega le zone scavate nella roccia: sala di preghiera, laboratorio di produzione di droni, servizi igienici e anche una prigione, situata su un altro lato.
"Riteniamo che il complesso sia stato scavato quattro anni fa con strumenti sofisticati, attrezzature che noi non abbiamo in Siria ", assicura il colonnello Rami dell'esercito siriano, durante la visita alla scena in mezzo agli artificieri dell'esercito russo.
"Coloro che erano qui hanno battuto in ritirata verso nord, prima a Khan Sheikhoun nella regione di Idleb, poi più lontano quando la città è stata catturata dall'esercito siriano alla fine di agosto", ha aggiunto.
Secondo le forze governative, il complesso la cui area totale non è stata ancora del tutto valutata, e che hanno trovato abbandonato, ospitava principalmente combattenti del gruppo Jaych al-Islam e jihadisti del fronte Fateh al-Sham, (ex ramo siriano di Al Qaeda).
L'immagine può contenere: 17 persone, persone che sorridono, persone in piedi
Una dozzina di grotte.
Sul pavimento, abbondano lattine di censerve e resti di bottiglie d'acqua di plastica che talvolta si mescolano con vestiti sporchi, piatti abbandonati o barili di benzina vuoti.
Alle pareti, pannelli di piastrellatura decorano alcune stanze, mentre i soldati siriani scrivono slogan pro-Assad su altri.
In una delle stanze, secondo l'esercito russo, sono stati installati cavi elettrici per l'illuminazione e per far funzionare un vecchio televisore con schermo a tubo catodico, portato qui dalla località di Latamné a poco più di un chilometro.
In quello che i soldati siriani pensano sia stata una prigione usata dai ribelli, a 400 metri dall'ingresso principale, il sangue macchia ancora il pavimento, mentre diverse celle anguste sono chiuse da vecchie porte arrugginite.

L'esercito russo afferma di aver trovato "una dozzina" di reti di grotte simili a queste nella regione, e altre in quella di Palmira, riconquistata nel marzo 2016 e di nuovo ripresa nel 2017 ai jihadisti del gruppo dello Stato Islamico.
 
  Brett McGurks (inviato speciale USA della coalizione globale contro l'ISIS) ha espresso un'opinione sulla presenza di al-Qaeda (... rinominato in al-Nusra e ora in HTS) in Idlib  "Nella provincia di Idlib, guarda , la provincia di Idlib è il più grande rifugio sicuro di Al Qaeda dall'11 settembre, legato direttamente ad Ayman Al Zawahiri. Questo è un grosso problema È stato un problema per qualche tempo... Abbiamo puntato i riflettori, i riflettori internazionali sull'ISIS ... ecc ... " 
L'esercito russo ritiene che il complesso vicino a Latamné servisse in particolare come laboratorio di produzione di droni per i ribelli.  Gli attacchi con droni artigianali sono attualmente una delle principali spine nei piedi delle forze russe in Siria, e la loro base a Hmeimim, nella regione vicina, viene periodicamente attaccata.
L'ultimo attacco è avvenuto all'inizio di settembre, secondo l'esercito russo.

martedì 2 luglio 2019

Ghouta: dopo gli anni di guerra, la lunga ricostruzione dei frutteti di Damasco


Afp Le Point
traduzione dal francese di Marinella Correggia

Sul suo terreno a Ghouta Est, vicino a Damasco, Radwan Hazaa si appresta a seminare centinaia di semi di melograno nella speranza di compensare la perdita di oltre 3.000 alberi, vittime dei colpi d’artiglieria e della mancanza di acqua, negli anni di guerra.

Nel villaggio di Dier al-Asafir, Hazaa si avvale al tempo stesso del ritorno di una situazione di calma e di un inverno molto piovoso che ha gonfiato con generosità fiumi e falde freatiche.
Prima dello scoppio del conflitto siriano nel 2011, Ghouta Est era il frutteto della capitale Damasco. Ma quest’area agricola, famosa per i suoi campi, i suoi frutteti e le sue aziende agricole ha subito le ricadute di anni di combattimenti e di assedio.

I piedi nell’acqua, Radwan sta lavorando alla costruzione di un nuovo canale di irrigazione vicino al pozzo che ha fatto scavare alcune settimane fa e da dove l’acqua ora sgorga.

Quando ho visto la mia terra bruciata, mi sono inginocchiato piangendo, e ho capito che avrei dovuto rifare tutto da zero”, ricorda questo agricoltore fuggito da Ghouta nel 2012 per farvi ritorno l’anno scorso.
Risultati immagini per la Ghouta orientale, ancien grenier alimentaire de la capitale Damas,
La regione, ex roccaforte della ribellione contro il presidente Bashar al-Assad, è stata riconquistata dai governativi nell’aprile 2018, con l’aiuto di Mosca, al termine di una vasta offensiva. In seguito ad accordi di resa negoziati dai russi, decine di migliaia di combattenti e civili sono stati evacuati verso altre aree.

Dopo la fine dei combattimenti, “ho preso in prestito una piccola somma di denaro e mi sono rimesso a piantare, oltre ad allevare due vacche e alcune galline”, prosegue l’uomo, kefia rossa e bianca sulla spalla.
Come numerosi altri agricoltori della regione, egli ha perso gran parte del suo patrimonio di melograni, albicocchi e noci. Oggi punta sull’abbondanza di acqua per ridare vita alle sue terre. “Non ho mai visto piogge così abbondanti”, si rallegra. In passato, “dovevamo scavare fino a 150 metri per estrarre acqua. Quest’anno già a 40 metri ne abbiamo trovata in abbondanza”.

Perdite irrimediabili

Le piogge, proseguite fino in maggio, hanno alimentato il fiume Barada, che bagna Ghouta Est. Una benedizione anche per gli allevatori, fra i quali Bassam al-Laz, che ha colto l’occasione per rivitalizzare il suo allevamento. “E’ il primo anno che le vacche si nutrono direttamente dell’erba dei prati al posto del fieno che compravo”, dice l’allevatore cinquantenne.

Ghouta Est era nota “per l’abbondanza della produzione agricola e animale”, racconta, spingendo due vacche verso un grande recipiente metallico pieno di acqua. Uova, ortaggi, frutta, lebneh (una preparazione tradizionale a base di yogurt), bastavano per nutrire tutta la capitale, dice l’uomo con fierezza. Il suo volto, segnato dagli anni di guerra, si rasserena mentre guarda l’acqua tirata su dal pozzo, i germogli verdi che spuntano e gli alberelli disseminati sul suo terreno. Confessa di provare una “gioia sconfinata” ma non può che piangere le “perdite irrimediabili” dovute al conflitto. “Abbiamo perso ulivi vecchi di oltre 500 anni”.

Il “polmone di Damasco”

E, malgrado le promesse di questa primavera, sembra ancora lunga la strada per tornare agli anni dell’abbondanza.
Il sindaco Ahmad al-Hassan, nella sede del comune di Deir al-Asafir, ascolta le necessità degli agricoltori. Promette loro che “le terre torneranno a essere quelle di prima”, e prende nota delle necessità in materia di input e attrezzature.
Le persone erano depresse e tristi malgrado la fine del conflitto, ma le piogge abbondanti hanno indotto tanti a riprendere i loro affari”, commenta il sindaco, che descrive Ghouta come “il polmone di Damasco”.

La regione, che occupa una superficie di 10.400 ettari, per metà terre coltivate, ha perso l’80% degli alberi durante la guerra, secondo il direttore del dipartimento agricolo, Mohamad Medieddine.

Bruciati, inariditi, gli alberi sono anche serviti come combustibile per le case degli abitanti assediati e infreddoliti negli anni del blocco. “In certe località, per esempio Mliha, non c’è più nemmeno un albero in piedi”, si rammarica Medieddine.

Sotto un cielo di piombo, sulla strada che collega Deir al-Asafir alla periferia di Jaramana, il responsabile dice di rimpiangere l’epoca in cui l’abbondante fogliame degli alberi attenuava i raggi cocenti. Per chilometri, “gli alberi ombreggiavano questa strada (…). Ormai sembra un deserto”.
Secondo il funzionario, la regione avrà bisogno di “dieci anni” per tornare verde. E di “almeno cinque anni perché gli alberi tornino a dare frutti”.