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giovedì 14 marzo 2024

Il 15 marzo la Siria entra nel suo 14° anno di guerra: intervista al nunzio Zenari


di Daniele Rocchi- SIR

“Il prossimo 15 marzo la Siria entrerà nel suo 14° anno di guerra. Punto e a capo. Che altro dire: è una guerra interna, non contro altri Stati, ma che deve fare i conti con altri Paesi che vi si sono inseriti. Oggi in territorio siriano si muovono 5 eserciti stranieri, tra i più potenti al mondo, alle volte in collisione tra loro e ciascuno con il proprio interesse da difendere. Che cosa dobbiamo aspettarci, allora? Lo ripeto sempre: bisogna smettere. Tutto il resto, poi, verrà da sé”.

A parlare al Sir è il card. Mario Zenari, dal 2009 nunzio apostolico in Siria, dopo essere stato in Sri Lanka e Costa d’Avorio, Paesi anch’essi segnati da guerre civili. E dipinge un quadro realistico della situazione lo stesso riportato, ad inizio febbraio, da Martin Griffiths, Sottosegretario generale Onu per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti d’emergenza: “La situazione in Siria è peggiorata – afferma il nunzio – 16,7 milioni di persone necessitano ora di assistenza umanitaria. Parliamo di quasi tre quarti della popolazione, il numero più alto di persone bisognose dall’inizio della crisi. Un aumento del 9% rispetto all’anno precedente. La povertà la vediamo e la tocchiamo con mano ogni giorno. La gente fa fatica a mangiare. Non parliamo poi del campo sanitario: la popolazione non ha medicine. Tutto questo spinge la gente ad emigrare. Statistiche delle Nazioni Unite dicono che ogni giorno lasciano la Siria circa 500 persone. Chi emigra non sono gli anziani ma i giovani e le persone più formate come ingegneri e medici per esempio”. Sarà un caso, rivela il cardinale, “ma la lingua più studiata oggi in Siria è il tedesco, specie tra gli studenti di medicina, perché ancora prima della laurea, chi conosce il tedesco ha la possibilità di trovare lavoro in Germania. La fuga dei cervelli è un’altra bomba che sta colpendo la Siria”.

“La coperta si fa ogni giorno più corta. I cinque pani e i due pesci anziché moltiplicarsi diminuiscono anche per i riflessi della guerra a Gaza”.

Quali conseguenze sta avendo in Siria il conflitto di Gaza?
È un incendio divampato alle porte della Siria che provoca raid aerei israeliani. Mai come in questi ultimi tempi abbiamo visto così tanti attacchi aerei, anche in pieno giorno contro obiettivi militari. Neanche durante gli anni di guerra avevamo i mortai che cadevano qui nel centro della Siria. Prima accadeva di notte, ora anche di giorno e vicino alle ambasciate al centro di Damasco. Sul fronte militare la situazione è complicata. Il Governo non vuole scottarsi le dita con questo incendio anche perché non ha la forza di tenere a bada questi 5 eserciti stranieri che operano sul suo territorio.


A proposito di sanità, lei ha promosso, sei anni fa, il progetto ‘Ospedali aperti’ per offrire cure a siriani poveri e malati. Il progetto è gestito sul terreno dall’ong italiana Avsi che coordina le cure nell’Ospedale Italiano e in quello Francese a Damasco, e nell’Ospedale St. Louis ad Aleppo. Quali sono i risultati raggiunti fino ad oggi?
Oltre ai tre ospedali cattolici, il progetto si è ampliato con 5 ambulatori dove i malati possono ricevere cure adeguate ad alcune patologie comuni non gravi. Sono dispensari molto utili alla popolazione e prevediamo di aprirne altri. Gli ultimi dati riferiti al febbraio scorso parlano di circa 141mila malati poveri assistiti in questi sei anni. Appartengono tutti a diverse etnie, fedi e denominazioni. Nelle nostre strutture non facciamo nessuna distinzione. Il settore sanitario in Siria è tra i più colpiti, tantissima gente è malata. Abbiamo attivato anche le parrocchie per assistere i malati più anziani. Un fatto comprensibile visto che tanti giovani sono partiti lasciando i loro anziani qui.

 A maggio, a Bruxelles, è prevista l’ottava Conferenza sul futuro della Siria. Cosa ci si può attendere, visto che la comunità internazionale in questi anni non ha fatto molto per sviluppare un serio processo negoziale?

La crisi siriana non si risolve con le elemosine. Occorre la soluzione politica che è stata dimenticata. Quella di Bruxelles è una conferenza di Paesi donatori. Si parla di miliardi, 4, 5, una volta si è arrivati anche a 7. Ringraziamo tutta la comunità internazionale per questo aiuto, e tutti i benefattori che si ricordano della Siria e contribuiscono anche ai progetti delle Chiese. Siamo riconoscenti, ma così non si va da nessuna parte. Ripeto la coperta è sempre più corta: moltiplicare gli aiuti umanitari non basta, serve sbloccare il processo politico in conformità con la Risoluzione Onu 2254 (2015) del Consiglio di Sicurezza che chiede di ‘soddisfare le legittime aspirazioni del popolo siriano, ripristinare la sovranità, l’unità, l’indipendenza e l’integrità territoriale del Paese e creare le condizioni necessarie per il ritorno volontario dei rifugiati in sicurezza e dignità’.

Ha senso parlare di ricostruzione in un quadro come questo che sta descrivendo?

Non sto dipingendo un quadro nero ma realistico, che conta oltre mezzo milione di civili morti, tra questi 29mila sono bambini. Circa la metà della popolazione prebellica rimane sfollata all’interno o all’esterno della Siria. Per la ricostruzione è tutto bloccato. Immagini una macedonia dove dentro ci può stare di tutto, anche frutti ammalorati o avvelenati come la corruzione che imperversa, le sanzioni internazionali, i conflitti sparsi nella regione. Aggiungiamoci anche l’oblio, della Siria non parla più nessuno. Il terremoto del 6 febbraio dell’anno scorso aveva risvegliato un po’ di attenzione ma è stato un fuoco di paglia. Ripeto: non bisogna disperare ma questa è la realtà. 

In questa situazione come vive la comunità cristiana?
Le difficoltà non vengono tanto dai casi di persecuzione in ‘odium fidei’ subite durante l’occupazione dello Stato Islamico quanto dal fatto che in questo tipo di conflitti le minoranze sono l’anello più debole della catena. Basti pensare che i 2/3 dei cristiani sono emigrati. Questo esodo sta arrecando gravi danni alla società siriana che viene così a perdere una tradizione millenaria nel campo delle scuole, della sanità, della formazione. Tuttavia abbiamo ancora tre parrocchie nella Valle dell’Oronte (Governatorato di Idlib) controllata dai ribelli islamisti di Hayat Tahrir al-Sham (ex Al Nusra). Come Nunziatura cerchiamo di dare tutto quello che possiamo e coordinare per spartire al meglio questi 5 pani e due pesci. Come si possono sfamare 17 milioni di persone? L’11 marzo ha preso il via il Ramadan e tutta la gente qui, cristiani e non cristiani da 14 anni vivono una ‘Quaresima’ forzata, a causa della mancanza di cibo, medicine, beni primari. La gente ormai non spera più, non ha fiducia. Quando poi muoiono i bambini muore anche la speranza nel futuro.

Non vede una luce di speranza?
L’anno prossimo, nel 2025, celebreremo il Giubileo, che ha per tema “Pellegrini di speranza”. Voglio sperare che la Chiesa viva in comunione anche con tanta gente che non ha più speranza. Non lasciamo morire la speranza e quando il 15 marzo la Siria entrerà nel suo 14° anno di guerra facciamo che possa vedere una luce alla fine del tunnel. Non dimentichiamo la Siria.

https://www.agensir.it/mondo/2024/03/12/guerra-in-siria-card-zenari-nunzio-la-crisi-siriana-non-si-risolve-con-le-elemosine-serve-soluzione-politica-che-e-stata-dimenticata/

martedì 25 aprile 2023

“Radicati nella speranza”: la presenza, l’eredità, la testimonianza e soprattutto la fede dei cristiani del Medio Oriente

Si è chiuso ieri (dal 20), a Nicosia (Cipro), il simposio “Radicati nella speranza”, promosso dalla Roaco (Riunione delle Opere di Aiuto alle Chiese Orientali), per celebrare i 10 anni dell’Esortazione apostolica postsinodale “Ecclesia in Medio Oriente”. Le conclusioni del prefetto del Dicastero per le Chiese orientali, mons. Claudio Gugerotti.
“Noi occidentali abbiamo pesanti responsabilità nella destabilizzazione delle condizioni del Medio Oriente con la nostra tendenza a esportare la nostra cultura e a chiedere ai suoi popoli di conformare a questa le loro vite. Come cattolici occidentali ci scusiamo per aver supportato questa visione miope. Rendiamo omaggio ai vostri sforzi eroici di essere testimoni della nostra comune fede nelle difficoltà di ogni tipo”.

 da AGENSIR, 24 aprile 2023

(Nicosia) “Un evento che non deve restare isolato, ma diventare uno stile. In questi giorni ci siamo esercitati a sentire e ad ascoltare con rispetto, accettazione, tranquillità, amore reciproco come veri fratelli e sorelle. Questa è la Chiesa”. Con queste parole il prefetto del Dicastero per le Chiese orientali, mons. Claudio Gugerotti, ha chiuso ieri (dal 20), a Nicosia (Cipro), il simposio “Radicati nella speranza”, promosso dalla Roaco (Riunione delle Opere di Aiuto alle Chiese Orientali), per celebrare i 10 anni dell’Esortazione apostolica postsinodale “Ecclesia in Medio Oriente” firmata da Benedetto XVI ad Harissa (Libano) il 14 settembre 2012. Quattro giorni di lavori durante i quali oltre 250 rappresentanti delle Chiese cattoliche del Medio Oriente, patriarchi, vescovi, sacerdoti e esponenti di istituti religiosi e movimenti laici, hanno riletto il documento – definito dal patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, “una sorta di testamento consegnato alle Chiese del Medio Oriente” – alla luce dei fatti salienti che hanno segnato gli ultimi 13 anni e riflettuto sui possibili orientamenti e percorsi da intraprendere nel futuro.

Chiese forti e vibranti. Mons. Gugerotti, nelle sue conclusioni, ha parlato di Chiese di “una grande vitalità, vive e forti che vogliono essere sante, testimoni, libere, attive e vibranti. Sono così vicine a Gesù e al suo modo di parlare. Trasmettono il suo stesso respiro. La storia delle vostre chiese è una storia di miracoli. La vostra liturgia è uno di questi miracoli”. Gli eventi epocali accaduti, in particolare, negli anni successivi alla pubblicazione dell’Esortazione hanno visto le comunità cristiane pagare un prezzo alto ma, è stato il monito del Prefetto, “smettiamo di lamentarci. I vostri antenati – ha detto rivolgendosi ai presenti – hanno percorso la Via Crucis, cantando inni di lode al Signore. Gli stessi inni che cantate voi oggi. Sono il dono della fede dei vostri padri e delle vostre madri. Il Vangelo è la ragione del nostro esistere e per questo non va dato per scontato perché il rischio è quello di dimenticarlo”. Altro punto “importante” evidenziato da mons. Gugerotti è stato il contributo dei giovani: “abbiamo sentito dai giovani che tutto questo non deve essere un museo, ma una fonte di acqua pura, anche se scintilla nel deserto. Lasciamoci commuovere dal desiderio dei vostri giovani di lavorare insieme. Vescovi, sacerdoti e popolo, insieme ai disabili e ai poveri per evangelizzare. Alcuni di voi – ha aggiunto – hanno affermato che non è importante conservare i nostri privilegi o quelli di coloro che sono privilegiati tra noi. È importante mantenere i nostri cuori giovani, perché gli occhi giovani sono capaci di guardare i miracoli della fedeltà, del coraggio e delle scelte coraggiose dei nostri giorni”. Dal Prefetto anche l’invito a promuovere “la lode nelle vostre famiglie” e “a fare di tutto per mantenere la preghiera sulle labbra dei vostri migranti. Essi saranno fedeli a Gesù e alla sua Chiesa e voi non li perderete. Come cristiani saranno il seme buono per la società in cui vivono”.

Aiuto economico. Nel suo intervento mons. Gugerotti ha toccato anche il tema dell’aiuto economico alle Chiese orientali esortandole a “dividere con giustizia il denaro ricevuto, a creare fondi comuni, amministrati e distribuiti onestamente e a fare del vostro meglio per essere almeno il più possibile autosufficienti” ma “non mendicanti perché questo compromette la dignità che appartiene alla vostra storia e di cui voi e noi siamo orgogliosi”.

La cittadinanza. Circa il ‘nodo’ della cittadinanza, presente nell’Esortazione e richiamata spesso durante il Simposio, mons. Gugerotti ha ribadito “il pieno sostegno della Santa Sede” alla legittima richiesta delle Chiese locali di vedere “i cristiani riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Si tratta di uno sforzo è assolutamente giusto. La Santa Sede lavora per questo, ma il nostro stile è spesso silenzioso. Molti ci rimproverano di non fare nulla. Il fatto che non gridiamo nelle piazze non significa che non lavoriamo. Non vogliamo essere popolari. Vogliamo essere efficaci. Dobbiamo parlare con le persone giuste e nel modo giusto. Quindi, se non diciamo tutto quello che vorreste sentire, non è perché non siamo coraggiosi. È perché vogliamo essere efficaci. Il nostro incontro inizia ora – ha concluso – cerchiamo di essere fedeli a ciò che diciamo e facciamo del nostro meglio, tutti insieme, perché diventi realtà”.

Testo (in inglese) dell'intervento del Patriarca Pizzaballa all'apertura del convegno 'La Chiesa in Medio Oriente : 

https://en.abouna.org/content/text-patriarch-pizzaballas-address-opening-session-conference-church-middle-east

martedì 7 marzo 2023

Padre Bahjat, parroco di Aleppo: “Regna la paura e lo sconforto”

 

La paura e lo sconforto sono rimaste, insieme alle macerie, a fare compagnia alla popolazione terremotata” racconta al Sir padre Bahjat Elia Karakach, frate della Custodia di Terra Santa e parroco latino di Aleppo.  La speranza di una ricostruzione veloce non trova spazio nei cuori di una popolazione segnata da quasi 13 anni di guerra, dalla pandemia e dalla povertà.

   di Daniele Rocchi , SIR  6 marzo 2023

La maggior parte della gente che ha l’abitazione lesionata ma agibile non vuole rientrare perché le scosse continuano. Il timore di crolli è tangibile – spiega il parroco -. Il fattore psicologico in questo frangente ha un peso importante nella vita degli abitanti di Aleppo e delle zone colpite”.

Nel frattempo i centri di accoglienza allestiti dalle autorità locali sono pieni di terremotati e la convivenza comincia ad essere difficile. Si tratta di strutture in qualche modo improvvisate con servizi insufficienti per fare fronte ai bisogni di così tanta gente”.

L’aiuto delle Chiese.  Le Chiese locali continuano a offrire sostegno materiale e spirituale ai terremotati, grazie anche all’aiuto che arriva dalla Chiesa universale.

Nel Terra Santa College oggi sono ospitate circa 3mila persone, tra queste anche quelle che erano alloggiate nei locali della parrocchia latina che ha ripreso le attività pastorali e catechetiche. È importante, infatti, ridare ai nostri fedeli una parvenza di normalità, per quanto possibile. Dopo un mese, però, anche gli ampi spazi del College non bastano più. Non ci sono servizi igienici sufficienti per tutta questa gente e il rischio di problemi di natura igienico-sanitaria è alto. Ecco perché è importante riuscire a convincere le persone, quelle che possono, a fare rientro in casa. Il nemico principale è la paura, alimentata anche da alcune pagine social che predicono prossime scosse di grande magnitudo”. 

L’impegno della Chiesa, un mese dopo il sisma, non si esaurisce con l’accoglienza e il supporto materiale ma prosegue anche nel campo di una difficile ricostruzione. Ad Aleppo le undici comunità cristiane presenti (cattoliche, ortodosse e protestanti) hanno costituito una Commissione ecumenica – per coordinare le azioni di aiuto – che ha incaricato 15 ingegneri di verificare l’agibilità dei palazzi abitati da famiglie cristiane e di lavorare a progetti di restauro delle case. Per chi ha perso l’abitazione si pensa ad un aiuto per andare in affitto. “Si tratta di un lavoro che richiederà molto tempo – sostiene il parroco latino – perché le domande sono migliaia. A questi ingegneri se ne aggiungeranno altri 4 che arriveranno nei prossimi giorni dall’Italia. Sono specializzati in lavori post-sisma e hanno raccolto un appello che avevo lanciato tempo fa. Per consentire loro di lavorare in modo ufficiale abbiamo stipulato un’intesa con il Municipio di Aleppo. Si occuperanno dei casi più spinosi”.

La visita della Cei.  Dall’Italia, nei giorni scorsi, sono arrivati anche il Segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi, e don Leonardo Di Mauro, direttore del Servizio per gli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo”.

Per noi è stata una benedizione – dice padre Bahjat -. Vedere amici e fratelli italiani qui ad Aleppo è stato come rompere un senso di isolamento che andava crescendo con il passare dei giorni. È importante, infatti, tenere alta l’attenzione su quanto accaduto a causa del terremoto. Una tragedia che non va dimenticata”. A riguardo vorrei dire che mons. Baturi e don Di Mauro sono rimasti molto colpiti da quanto hanno visto e si sono resi disponibili ad una ulteriore collaborazione futura”.

Dal 2013 ad oggi la Cei ha destinato oltre 12 milioni di euro per realizzare 17 interventi in Siria, tra cui “Ospedali aperti”, gestito dalla Fondazione Avsi che dal 2017 rappresenta una risposta significativa alla crisi umanitaria, e oggi anche alle conseguenze del sisma.

Ricostruire.  La sfida, dunque, è cominciare a ricostruire. In attesa che l’allentamento delle sanzioni produca qualche frutto. A riguardo padre Bahjat è un po’ scettico: 

“Penso che la notizia dell’allentamento delle sanzioni contro la Siria abbia più una valenza mediatica che reale. Per verificarne l’efficacia e la veridicità ci vorrà del tempo, forse anni. L’embargo alla Siria ha provocato negli anni danni gravissimi all’economia, alle infrastrutture, causando povertà e aumento della corruzione. Un allentamento di soli sei mesi delle sanzioni non so se e quanto potrà incidere sulla vita reale delle persone”.

https://www.agensir.it/mondo/2023/03/06/terremoto-in-turchia-e-siria-padre-bahjat-parroco-aleppo-regna-la-paura-e-lo-sconforto/

sabato 22 ottobre 2022

Giornata Missionaria Mondiale: testimonianza dalla Siria occupata dai jihadisti


Padre Jallouf (Idlib): “L’esito della guerra nelle mani di Russia e Turchia”

di Davide Rocchi, SIR 

Seppur sparita dai radar dell'informazione, la guerra in Siria, scoppiata nel 2011, continua a fare morti. Di questi giorni la notizia di scontri tra milizie ribelli nella zona di Idlib per il controllo dell'area, unica rimasta in mano agli oppositori jihadisti del regime del presidente Assad. Nella zona vive una piccola comunità cristiana, con due frati della Custodia di Terra Santa, padre Hanna Jallouf e padre Luai Bsharat. Il Sir ha raccolto la testimonianza di padre Hanna.

“Da qui sono passati tutti i gruppi di ribelli e terroristi, Isis, al-Nusra oggi Hayat Tahrir al-Sham. Viviamo così dal 2011 quando ha avuto inizio la guerra”. A parlare al Sir è il francescano Hanna Jallouf, parroco di Knaye, uno dei tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte (gli altri due sono Yacoubieh e Gidaideh) distante solo 50 km. da Idlib, capoluogo dell’omonimo Governatorato, ultimo bastione nelle mani dei ribelli che combattono contro il regime del presidente siriano Bashar al Assad.

Non pare sorpreso, il religioso, davanti alla notizia che l’esercito turco, nelle ultime ore, ha dispiegato mezzi e uomini nel nord-ovest della Siria, dopo un accordo raggiunto tra Ankara e la coalizione di milizie qaediste – guidate da Hay’at Tahrir ash Sham (Hts) – che nei giorni scorsi avevano conquistato gran parte del distretto di Afrin allontanando le fazioni più vicine alla Turchia, in particolare il Fronte di Liberazione Nazionale (Faylaq Al-Sham). Duri combattimenti che avevano provocato decine di morti tra due milizie che pure avevano combattuto insieme contro l’esercito regolare siriano. L’area è interessata da più di due anni da una tregua russo-turca per la spartizione del nord-ovest della Siria in due zone di influenza: una russo-governativa siriana a sud e una turca più a nord.

“Non è una sofferenza nuova”. “Non è una sofferenza nuova” dice padre Hanna che, con il confratello, padre Luai Bsharat, tengono unita la piccola comunità cristiana locale – poco più di 1.100 ‘anime’, tra latini, armeno-ortodossi e greco-ortodossi – intorno ai conventi di san Giuseppe e di Nostra Signora di Fatima. I due, infatti, sono gli unici religiosi rimasti nella zona, perché ricorda il frate, “quando è scoppiata la guerra tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono andati via o fuggiti. Molte chiese e luoghi di culto armeni e greco ortodossi sono stati distrutti o bruciati. Tra questi il nostro convento di Ghassanie”. Padre Hanna nel 2014 fu anche rapito dai qaedisti, insieme a 16 parrocchiani e rilasciato dopo qualche giorno. Ma ora non serve rivangare il passato, perché, rimarca, “la guerra e le sanzioni hanno prodotto, non solo morti e distruzione, ma anche tantissima povertà. I bisogni di oggi sono impellenti, manca praticamente tutto, acqua corrente, elettricità, medicine, i prezzi sono altissimi, ma dobbiamo continuare a vivere”. “La popolazione tira avanti come può – racconta il frate – si cerca di risparmiare sui costi dell’energia. Un barile di 200 litri di gasolio necessario a mandare avanti un generatore elettrico arriva anche a 250 dollari, un’enormità per le tasche dei siriani. Così molti cercano di recuperare le vecchie stufe a legna, più economiche, che permettono di cucinare e di scaldarsi al tempo stesso”.

“Un qualcosa del genere – aggiunge il religioso – dovrà farlo anche l’Europa ora che i costi di gas e di energia elettrica, saliti vertiginosamente a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, stanno facendo lievitare le bollette. Potrebbe essere l’occasione per riscoprire stili di vita più essenziali e sobri”.

“Noi viviamo in guerra dal 2011 e queste scelte sono diventate la nostra quotidianità” sottolinea padre Hanna che pure non manca di evidenziare un qualche segnale positivo “almeno per noi cristiani che viviamo qui nella valle dell’Oronte”. E spiega: “Gli scontri dei giorni scorsi tra fazioni ribelli hanno provocato l’allontanamento di jihadisti che avevano preso di mira noi cristiani, rubando nelle nostre case, requisendo i terreni, con vessazioni di ogni tipo. Ora la situazione appare più tranquilla e questo ha spinto, nell’ultimo periodo, sette famiglie cristiane a rientrare in uno dei nostri villaggi, Gidaideh. Erano sfollate ad Aleppo e Latakia. Abbiamo parlato con i capi del posto e siamo riusciti ad ottenere indietro le loro case e i loro terreni. I rapporti con l’autorità locale sono impostati al massimo rispetto e dialogando riusciamo ad avere qualche margine di movimento”.

I problemi di sempre. Ciò non toglie che i problemi di sempre, per i cristiani, restano e sono quelli noti: celebrare i riti solo dentro la chiesa, i luoghi di culto non devono avere all’esterno croci, campane, statue e immagini sacre e anche padre Hanna e padre Luai non possono vestire il saio fuori dal convento. Se con le autorità qualcosa sembra muoversi lo stesso non si può dire per i rapporti con i musulmani locali: “in molti permane ancora una certa mentalità tipica dell’Isis che vede i cristiani come infedeli. C’è stato un imam – ricorda padre Hanna – che era solito, nei suoi sermoni in moschea, rivolgere parole di odio verso i cristiani fomentando i fedeli presenti. Abbiamo fatto le nostre rimostranze e l’autorità locale lo ha rimosso. Ora va meglio. Non c’è più chi ti sputa in faccia, chi ti calunnia e ti odia. La convivenza passa attraverso il rispetto e la conoscenza che costruiamo ogni giorno. È il senso della nostra presenza qui in questo lembo di terra”, dove la vita scorre in mezzo a tante difficoltà.

Le sorti della guerra. “In parrocchia non manca l’impegno pastorale. Abbiamo anche organizzato dei corsi scolastici per i nostri 21 alunni, di tutte le fasce di età, che riuniamo nel convento e anche nelle case delle maestre. Non vanno nelle scuole locali. Così li prepariamo e, a fine corso, quando devono sostenere gli esami, li portiamo a Latakia e Hama, cercando di aggirare il blocco che sbarra le strade da e per Idlib. Chi vuole uscire clandestinamente è costretto a pagare. Ma i nostri alunni sono ben preparati e ottengono ottimi risultati. Vale la pena fare questi sacrifici. Abbiamo tre ragazze che oggi studiano all’università a Latakia”. Gli aiuti non mancano, arrivano dalla Custodia di Terra Santa e dalla ong “Ats Pro Terra Sancta” e permettono a padre Hanna di aiutare i suoi cristiani. “Stiamo dando un futuro a questi giovani e le loro famiglie sono felici” dice con orgoglio. Sul futuro della Siria, invece, padre Hanna è molto più realista:

“le sorti della guerra e il controllo del territorio non sono più nelle mani dei ribelli oppositori di Assad e dell’esercito siriano, ma di Turchia, Russia, Iran e Usa. Sono loro a decidere.

E poco importa se la gente muore di fame per la povertà, se non può uscire dalla regione, se non riesce a curarsi e a vivere con dignità. Ma noi continuiamo a sperare”.

mercoledì 16 dicembre 2020

Natale in Siria. Card. Zenari: “La povertà in cui è nato Gesù è la stessa in cui versano oggi i bambini siriani”.

 

Le comunità cristiane della Siria si preparano a vivere il Natale.

Le testimonianze del nunzio apostolico, card. Mario Zenari, e dei parroci delle zone dove si combatte ancora, padre Antonio Ayvazian, parroco armeno di Qamishli, nel nord Est siriano (al confine turco) e di padre Hanna Jallouf, francescano della Custodia di Terra Santa e parroco latino del villaggio cristiano di Knaye (Idlib)

La povertà in cui è nato il Signore, a Betlemme, è la stessa in cui oggi versano tante famiglie, con i loro bambini, nella Siria in guerra da 10 anni”.

A 10 giorni dal Natale, è il card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, a descrivere le condizioni dei bambini siriani e delle loro famiglie. Un pensiero continuo, quello del nunzio, per i piccoli della Siria, accompagnato da un impegno strenuo sul terreno. “Il Papa – dice al Sir – mi ha donato questa fascia color porpora che è lunga e larga quanto è lunga e larga la Siria. Questa missione è un privilegio datomi da Dio: condividere le sorti della popolazione siriana martoriata”.

Damasco.

Sarà anche questo un Natale di povertà, al freddo, come nella grotta di Betlemme” afferma il cardinale che da tempo denuncia l’emergenza umanitaria in Siria che coinvolge circa 12 milioni di persone tra rifugiati fuori i confini siriani e sfollati interni. “Sono famiglie che vivono come possono, tante sotto le tende, lontano dalle loro case, alcune anche a cielo aperto. Mancano stufe e chi le ha non può accenderle per mancanza di gasolio. Spesso mi capita di vedere nelle strade file interminabili di gente in attesa di comprare del pane a prezzo agevolato dal Governo”. A Damasco e in altre zone della Siria non cadono più razzi e mortai ma è scoppiata, spiega, “la bomba della povertà”. Il nunzio cita dati Onu: “l’83% della popolazione vive sotto la soglia della povertà e questo uccide la speranza. C’è bisogno di pane, di latte, di gasolio, di medicine”. Il pensiero va ancora alla “sofferenza dei più piccoli che vedono tornare a casa i loro genitori solo con un po’ di pane spesso di scarsa qualità per la mancanza di farine adatte”. Anche la solidarietà paga il suo tributo alla guerra.

Rivela il nunzio: “Giorni fa un ecclesiastico è andato ad inaugurare un panificio a 30 km a nord di Damasco, donato da un Paese europeo. Il forno non funziona già più perché manca il gasolio”.

Alla povertà si è aggiunta la pandemia del Covid-19. “Non abbiamo dati ufficiali dei contagi, i tamponi sono molto pochi. Probabilmente fino ad ora il virus è stato contenuto anche grazie al fatto che la Siria è un Paese chiuso, dove non arriva nessuno”. Con il progetto “Ospedali Aperti”, portato avanti con la fondazione Avsi, in tre nosocomi cattolici, due a Damasco e uno ad Aleppo, “abbiamo cominciato a prestare cure domiciliari. Nell’ospedale italiano a Damasco le nove suore sono state contagiate e una è deceduta – afferma il card. Zenari -. Il sistema sanitario siriano è ridotto ai minimi termini a causa della guerra. Reperire dispositivi di protezione è difficile così come educare la popolazione a idonei comportamenti igienici. Molte famiglie vivono in case senza servizi. I rifugiati vivono in campi dove non c’è distanziamento.

La priorità in Siria oggi non è tanto la mascherina quanto il pane”.

Che questo Natale scaldi il cuore di tanti nel mondo, che nonostante la pandemia, possano davvero ricordarsi della Siria. Impariamo dalla nostra sofferenza per aiutare chi ne ha una più grande”.

Qamishli.

Le parole del nunzio sono raccolte da padre Antonio Ayvazian, parroco armeno di Qamishli, nel nord Est siriano e da padre Hanna Jallouf, francescano della Custodia di Terra Santa e parroco latino di Knaye, uno dei tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte (gli altri sono Yacoubieh e Gidaideh, tutti a circa 50 km da Idlib).

Si tratta di due aree ad alta tensione. “Qui nel nord Est ci sono 13 villaggi cristiani armeni sperduti nelle montagne. fa molto freddo ed è urgente trovare il carburante per le stufe” dice al Sir padre Ayvazian che punta l’indice contro “l’embargo e le sanzioni internazionali che stanno distruggendo la Siria e provocando l’esodo dei cristiani nel silenzio dell’Occidente. Solo la nunziatura apostolica ci è vicina”.

La speranza adesso è riposta nell’aiuto inviato da Papa Francesco a tutte le diocesi siriane, 60 mila euro ciascuna.

Le comunità cristiane si sono tirate su le maniche contro il Covid. “Insieme ai capi religiosi della nostra regione – dichiara il parroco armeno – ci siamo dotati di bombole di ossigeno e di presidi di protezione per 100 persone”. Ma la vera emergenza sono le famiglie: “sta arrivando il Natale e il senso di abbandono e di solitudine è ancora più grande. Le famiglie non hanno possibilità di fare l’albero e il presepe perché il loro primo pensiero e trovare il pane per i loro figli. Basterebbe un po’ di cibo per donare un po’ di festa a queste famiglie. Con uno stipendio mensile di pochi dollari non si riesce a comprare più nulla. La gente è disperata – denuncia padre Ayvazian – ci sono tantissime giovani donne che sono arrivate a vendere la propria verginità per avere di che vivere”. “A Natale non ci saranno il presepe e l’albero. Ci resta il dono più grande: la nostra fede cui ci aggrappiamo per continuare a sperare”.

Idlib. 

Da Knaye, nel nord-ovest della Siria, padre Hanna Jallouf racconta la vita dei pochi cristiani locali ora che si avvicina il Natale. I problemi di ieri – la guerra, la povertà, i ribelli jihadisti di Tahrir al-Sham, ex Fronte al-Nusra, legato ad al-Qaeda e alleato della Turchia – e quelli di oggi, come la pandemia, segnano giornate sempre più dure.

Da circa un mese – rivela il francescano – i miliziani che governano qui hanno imposto l’uso della lira turca. I prezzi sono quadruplicati e la gente è disperata. Non sappiamo come fare per aiutare le famiglie”. La tensione è altissima: “ci sono regolamenti di conti tra i leader delle fazioni islamiste. Coloro che sono contro Tahrir al-Sham vengono eliminati” dice il francescano. Nessuno entra e nessuno esce dall’area controllata dai ribelli.

Ci sono tanti sfollati e rifugiati. Qualcuno prova a rientrare ma i miliziani non lo permettono. Sono 11 mesi che le strade sono chiuse”.

Mancano 10 giorni al Natale e la comunità cristiana si prepara. Proibite dai jihadisti decorazioni esterne e luminarie, tolte le croci dalle chiese, e imposto il divieto di indossare il saio a padre Hanna e al suo confratello, padre Louai Bsharat, alle circa 300 famiglie cristiane della zona non resta che festeggiare dentro la chiesa e in casa.

Il 4 dicembre scorso – racconta padre Jallouf – abbiamo celebrato santa Barbara, che per noi è come il Carnevale, con le maschere. Abbiamo organizzato una mostra con prodotti dei nostri ragazzi creati con materiali di scarto come vecchie lampadine. Oggetti natalizi che i ragazzi hanno poi portato a casa in segno di festa. Abbiamo realizzato anche delle croci per abbellire alberi e presepi in casa. Quest’anno non abbiamo mandato i nostri ragazzi, una quarantina in tutto, nelle scuole dei jihadisti così abbiamo potuto anche cantare e fare teatro. Sono piuttosto felici. Grazie a loro possiamo dire di avere un futuro qui”.  Già sono pronte altre iniziative: “il 15 dicembre cominciamo la novena di Natale, il 23 distribuiremo piccoli doni ai bambini. Il 24 e il 25 dopo la messa ci scambieremo gli auguri con qualche confetto”.

Festeggiare il Natale è segno di speranza e di gioia per tutti. La Provvidenza non ci abbandona: quando non ho più nulla da dare dico al Signore, questo è il tuo gregge, chi deve pensarci? Ecco allora che arriva sempre un aiuto”.

https://www.agensir.it/mondo/2020/12/14/natale-in-siria-card-zenari-nunzio-la-poverta-in-cui-e-nato-gesu-e-la-stessa-in-cui-versano-oggi-i-bambini-siriani-testimonianze-da-idlib-e-qamishli/

domenica 13 settembre 2020

Siria, dalla peste al Covid continua la missione dei frati della Custodia

 

La metà dei frati francescani in Siria è stata contagiata dal Covid-19, due i religiosi morti. Nonostante la guerra e la pandemia nessuno di loro ha abbandonato la propria comunità continuando quella missione portata avanti nei secoli scorsi durante le epidemie di peste. A raccontarlo al Sir è il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton che denuncia le sanzioni "ingiuste" che impediscono ai siriani di reperire medicinali per curarsi. La speranza nella Colletta di Terra Santa di domenica 13 settembre per poter aiutare i più poveri

di Daniele Rocchi

Sono 407 i francescani morti di peste dal 1619 fino ai giorni nostri. A loro, in queste ultime settimane vanno ad aggiungersi, dalla Siria in guerra, anche padre Edward Tamer, 83 anni, una vita passata nelle scuole della Custodia, gli ultimi 20 anni ad Aleppo, e a tradurre in arabo testi di teologia. Con lui padre Firas Hejazin, 49 anni di cui 23 di sacerdozio. Ieri la peste, oggi il Covid. Padre Tamer e padre Hejazin sono morti dopo aver contratto il Coronavirus. Si stima che nel Paese arabo i casi Covid-19 siano oltre 3400, 147 i morti e 997 i ricoverati. Numeri che molti analisti danno in difetto.

Metà dei frati in Siria contagiati dal Covid-19. Attualmente i frati presenti in Siria sono 15, in 9 parrocchie, due di queste sono al confine con la Turchia, a Knayeh e Jacoubieh, nella valle dell’Oronte, ancora sotto controllo delle milizie jihadiste.

La metà dei frati in Siria – rivela al Sir padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa – ha contratto il virus riuscendo poi a guarire. Frati che hanno sacrificato la propria vita per rimanere al fianco dei malati in tempo di epidemie. Tutti hanno scelto di restare con il popolo, senza abbandonare nessuno”.

Come accadde durante le grandi epidemie di peste del 1347 e del 1370. “Allora l’attività dei medici francescani in Terra Santa – riferiscono dall’Archivio Custodiale – fu determinante, grazie alle alte conoscenze dei frati. La Custodia di Terra Santa, infatti, fece venire dall’Europa frati competenti in materia di scienza e medicina. I medici francescani erano molto stimati dai locali e anche dalle autorità musulmane”, come racconta la storia del Gran Mufti di Gerusalemme curato dal medico del convento di San Salvatore, fr. Giovanni da Bergamo, o del pascià di Acri, Muhammed al-Gezzar, che chiamò molte volte a palazzo fr. Francisco Lopez, medico di Gerusalemme.

Oggi curarsi in Siria, dove si combatte da 10 anni, è molto difficile anche a causa delle sanzioni economiche imposte da Usa e Ue – denuncia il Custode –. Il Coronavirus è una delle tante difficoltà che i siriani affrontano ogni giorno per sopravvivere. Basti pensare che per reperire medicinali la popolazione deve spesso ricorrere al mercato nero.

Le sanzioni sono ingiuste e disumane.

Invito quei Paesi che le hanno imposte a rimuoverle ora che siamo in piena pandemia. Diversamente avranno sulla coscienza tanti morti dei quali dovranno rispondere davanti a Dio”. “Nonostante tutte le difficoltà imposte da guerra e Covid– rimarca padre Patton – i frati non si sono tirati indietro e hanno continuato la loro missione pastorale e caritativa. Chi ha contratto il virus è tornato, una volta guarito del tutto e in piena sicurezza, tra la popolazione”.

Il ‘rinserro’ e il ‘comunichino’. Un modus operandi che, spiegano dalla Custodia, ricorda quello dei secoli scorsi quando, durante le epidemie di peste, i francescani si imponevano delle misure precauzionali per limitare il contagio. In questi casi il Discretorio custodiale, l’organo di governo della Custodia, decretava il cosiddetto “rinserro”: a nessuno era concesso lasciare il convento e tutti i contatti con l’esterno erano mediati da un responsabile, incaricato anche di sorvegliare il rispetto di questa norma. Tuttavia vi erano dei religiosi che rimanevano fuori durante la peste, solitamente il parroco e il collaboratore parrocchiale, chiamati in gergo gli “esposti”, perché correvano più degli altri il rischio di contrarre la malattia e morire. L’isolamento dal resto dei confratelli, chiusi in ‘rinserro’, “rendeva la loro morte ancora più dura. I francescani, però, si offrivano per la cura del gregge con spirito di carità, cercando di tutelarsi come potevano”. Un esempio è l’uso del “comunichino”, una pinza in argento terminante con una specie di piattino che serviva per distribuire l’Eucarestia senza entrare in stretto contatto con il fedele.

Vicini alla gente. “Oggi siamo vicini alla gente con le parrocchie che hanno continuato la loro attività pastorale fornendo, attraverso una rete di carità interna, supporto materiale. Un aiuto reso possibile anche dalla Colletta per la Terra Santa che si celebra domenica 13 settembre. Confidiamo molto nella generosità della Chiesa universale. Le nostre fraternità si prendono cura non solo delle piccole comunità cattoliche rimaste ma anche dei musulmani, molti dei quali profughi a causa della guerra. Con noi – precisa padre Patton – sono rimasti accanto alla popolazione sofferente anche tanti altri istituti e congregazioni religiose, come i salesiani, i gesuiti, le suore di Madre Teresa, le dorotee, le suore del Rosario, quelle del Verbo Incarnato e altre ancora. Tantissimi religiosi e religiose, consacrati laici e laiche, che sono il segno della presenza della Chiesa in questo tempo di sofferenza”.

Un pensiero che il Custode allarga anche ad altri Paesi, come il Libano in grave crisi economica e sociale. “Preghiamo per la stabilità di questi Paesi. Bisognerebbe che l’Europa fosse un po’ più presente in Medio Oriente con progetti di aiuto e di sviluppo e proposte concrete per la riduzione del debito. Senza l’aiuto dell’Europa il Libano sarebbe in balia di instabilità e di altri poteri. È pericolosissimo lavarsi le mani pilatescamente della situazione in Medio Oriente da parte dell’Europa. Non bastano certo le visite dei Macron e dei Conte per risolvere la crisi libanese. Se l’Ue è in grado di istituire un Recovery Fund per i suoi Paesi membri lo potrebbe fare anche per aiutare i Paesi più in difficoltà in Medio Oriente”.

sabato 20 giugno 2020

padre Ibrahim Alsabagh in collegamento da Aleppo “il Covid-19 incombe ma qui la gente adesso muore di fame”


S.I.R. 19 giugno 2020


“La situazione peggiora giorno dopo giorno. Il Covid-19 incombe ma ciò che spaventa di più la popolazione è la fame, la povertà. La gente muore di fame”
Così padre Ibrahim Alsabagh, parroco di Aleppo, ha descritto la situazione in Siria durante l’incontro on line “Siria: la speranza che costruisce”, promosso dall’Associazione Pro Terra Sancta. 


Il francescano, collegato da Aleppo, ha parlato di “economia al collasso, con il Governo che, nonostante la paura del Covid-19, ha permesso la riapertura delle attività nella speranza di far ripartire l’economia e soprattutto l’occupazione.  Oggi in Siria la gente muore di fame, non ha soldi e quei pochi che ha, a causa delle sanzioni internazionali e della svalutazione incredibile di queste ultime settimane, non bastano a comprare il necessario per vivere. Ai bambini serve di tutto, pasti e vestiti”

“La gente va al mercato e acquista prodotti non a peso ma a pezzo. L’incertezza per il futuro non risparmia niente e nessuno e questo è peggio della stessa fame”, ha rimarcato padre Alsabagh. “In questi giorni si stanno fermando anche le industrie più grandi perché è difficile reperire la materia prima da lavorare, soprattutto ferro e legno. I commercianti  stanno perdendo il loro capitale e così preferiscono chiudere i negozi per non svendere e andare in perdita”

Situazione drammatica anche per la sanità: “Covid-19 a parte – ha spiegato il francescano della Custodia di Terra Santa -, stanno crescendo patologie gravi come i tumori e quelle che riguardano i bambini. Per questi ultimi stiamo cercando di riorganizzare l’oratorio estivo, nel rispetto delle norme anti Covid-19″. 
“La parrocchia di Aleppo  sostiene le cure mediche di 250 persone ma la chiusura delle farmacie sta creando forti preoccupazioni. Senza dimenticare che gli ospedali pubblici sono tutti destinati ad accogliere i malati di Covid-19. Tutti qui aspettano lo scoppio della pandemia. Così chi è malato si dirige verso cliniche private ma i prezzi aumentano giorno dopo giorno e diventa impossibile curarsi”

Ad addolorare padre Alsabagh è anche “l’aumento di chi afferma che non c’è più speranza per la Siria. I siriani sono stressati dai missili, dalle bombe, dalla fame, dalla povertà, da 10 anni ormai vivono in condizioni disumane”. 
“Da parte nostra – ha concluso il parroco – cerchiamo di dare conforto materiale e anche spirituale. Il bisogno di vicinanza spirituale è altissimo, basti pensare che durante la pandemia le messe festive sono state seguite in streaming da oltre 13mila fedeli. La gente cerca segnali di speranza, sa che Dio sana le ferite e cura lo spirito. 
Speriamo che tutto finisca presto e che il mondo venga in nostro aiuto.   La Siria ha bisogno di aiuto e non di guerra”.

https://www.agensir.it/quotidiano/2020/6/19/siria-padre-alsabagh-aleppo-il-covid-19-incombe-ma-qui-la-gente-adesso-muore-di-fame/

Potete contattare questo indirizzo per avere le informazioni  per sostenere i bambini di Aleppo:  g.sassoli@proterrasancta.org

mercoledì 10 giugno 2020

L’impiego arbitrario delle sanzioni contro un popolo innocente e fiero.


Opera dello scultore siriano: Nizar Ali Badr





Di Maria Antonietta Carta
Il popolo siriano, che patisce indicibili tormenti da oltre nove anni a causa di una guerra iniqua ed efferata, è anche vittima di una vile e crudele coercizione morale e fisica. Utilizzando il ricatto delle sanzioni, disonorevole arma di una Civiltà incivilissima, l'Occidente ne oltraggia la dignità e la fierezza e lo condanna all'annientamento con la deprivazione del soddisfacimento dei bisogni essenziali: salute, istruzione, e nutrimento.
Dopo l'usurpazione dei campi petroliferi, gli incendi di campi di grano, il furto dei raccolti e dei tesori archeologici a opera dei complici turchi, ecco in arrivo, per completare l'opera, il cinico ''Caesar Syria Civilian Protection Act'', sadicamente elaborato e inflitto dai nostri governanti criminali alla Siria.

Maen, commentando queste mie parole in un post contro le sanzioni alla Siria, mi ha offerto la sua preziosa testimonianza. Egli vive e patisce in una zona che i terroristi occupano devastandola, saccheggiandola, esercitando ogni genere di abusi, ma soprattutto distruggendo l'armonia e l'unicità del tessuto sociale frutto di una preziosa cultura plurimillenaria. Tutto ciò per le mire neocolonialiste ed espansionistiche di un Occidente cinico, avido, prepotente al guinzaglio del Sionismo. Un Occidente che pretende ipocritamente di voler offrire ai Siriani libertà e democrazia mentre li condanna a morte con le bombe e con sanzioni inique e illegali. Il “Caos costruttivo''!
Maen scrive:  ''Per pochi mesi di chiusura [a causa del COVID19] il mondo intero ha sofferto. Noi, in Siria, oltre alla distruzione della guerra da dieci lunghi anni, dobbiamo affrontare l'odio occidentale che sta accrescendo la miseria, le malattie, la fame. Tutti ci domandiamo: Quando questo Occidente sarà finalmente sazio del nostro sangue? Perché tanto odio? Cosa abbiamo fatto di male all'Occidente per essere ripagati con tutta questa brutalità? Popoli cosiddetti civili, che parlano di libertà, democrazia e diritti umani, impongono al mondo intero di applicare le più severe sanzioni contro pochi milioni di pacifici abitanti. Feriti, ammalati, affamati, sfollati in nome dei ‘diritti umani’ e 'per aiutare il popolo siriano’! Ci chiediamo anche: Non è ora che i popoli occidentali si sveglino e si liberino da queste menzogne americano-sioniste e tornino a essere liberi di praticare la loro umanità?''.

Nel 2011, Nibal era un ragazzo gentile con tanti sogni da realizzare, ma da anni fa il soldato e non vede crescere le sue due splendide bambine che adora e che anche quando giocano o ridono hanno gli occhi tremendamente tristi per l’assenza del loro papà e per il timore di perderlo. Sono stata insieme a loro l’estate scorsa e con l’emozione per il dono della loro tenerezza affettuosa, perché mi hanno adottata come nonna, conservo il ricordo lancinante dell’angustia profonda celata dietro i loro sorrisi.
Nibal in un commento allo stesso post scrive: ''La guerra economica è più crudele della guerra militare. La gente muore di fame e di miseria. Cosa vogliono da noi? Noi non ci arrenderemo mai.''
Due giorni dopo, in un altro messaggio mi confida: ‘’Pensavo che questa guerra fosse quasi finita, ma adesso ho capito che sta ricominciando. Questa guerra tocca il popolo direttamente’’.

Certo, caro Nibal. Questa guerra è contro l'anima della Siria, e l'anima della Siria che resiste è il suo popolo. Se ha resistito tanto, si deve molto alla vostra forza di carattere. Coloro che intendono distruggerla e frammentarla temono ormai la vostra resilienza civile e morale forse più della resistenza armata. Ecco perché sono disposti a immolarvi.

La situazione è oggi più tragica che mai. Mentre sto terminando questo articolo, ricevo una telefonata da Latakia. È una cara amica: ‘’ Maria, non ho avuto mai paura e poche speranze quanto ora – mi dice – In alcune zone sono riprese le proteste pilotate, come nel 2011, in altre la popolazione è davvero ridotta alla fame, i prezzi continuano a salire follemente e in pochi giorni si sono moltiplicati anche per cinque. Molti negozi ormai restano chiusi. Sono tutti coalizzati contro di noi. Non vogliono che la Siria continui a esistere’’.

In Europa, si crede che la Siria sia lontana, invece è vicinissima. La sua immane tragedia colpisce anche noi (pensiamo per esempio al blocco degli scambi commerciali) e ci colpirà sempre più, anche se ci illudiamo di esserne immuni. Non possiamo permetterci di essere indifferenti.

Tra sanzioni, pandemia e guerra, la lotta dei siriani per la sopravvivenza

Continua l'agonia del popolo siriano segnato da una guerra lunga ormai 10 anni, piegato dalla crisi economica e da sanzioni internazionali di cui paga gli effetti devastanti. Non è la pandemia a preoccupare ma la priorità oggi è: "sopravvivere".
Testimonianze da Damasco e Aleppo. L'appello: "rimuovete le sanzioni"

di Daniele Rocchi,  S.I.R. 10 giugno 2020
Siamo entrati nell’oblio. Chiediamo alla comunità internazionale di rimuovere le sanzioni che impoveriscono ogni giorno di più i siriani. Sono contro i diritti umani, sono disumane perché penalizzano tutta la popolazione. Qui la gente sta morendo di fame. Non ci sono medicine. Non c’è lavoro”. 
È il monito di mons. George Abou Khazen, vicario apostolico latino di Aleppo, città martire della guerra siriana, entrata ormai nel suo decimo anno. 
Non è solo il conflitto a preoccupare l’arcivescovo, e nemmeno il Covid-19. A strangolare progressivamente la popolazione siriana, dice, sono “le sanzioni internazionali e i suoi effetti”. L’Ue ha prorogato, il 28 maggio scorso, le misure restrittive contro il regime siriano per un altro anno, fino al 1 giugno 2021. Dal 17 giugno, invece, dovrebbero entrare in vigore quelle decise dal presidente Usa, Donald Trump, contenute nel “Caesar Syria Civilian Protection Act”.  Le sanzioni Ue, introdotte nel 2011 “in risposta alla repressione del regime siriano della popolazione civile”, colpiscono aziende e imprenditori che hanno rapporti commerciali con il regime e con l’economia di guerra. Le sanzioni, tra le altre cose, vietano l’importazione di petrolio, impongono restrizioni su determinati investimenti e su attrezzature e tecnologia che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna. Il “Caesar”, dal canto suo, imporrà sanzioni sui leader siriani, società, Stati e individui che appoggiano militarmente, finanziariamente e tecnicamente il governo di Assad e i suoi alleati Russia e Iran. Altre sanzioni Usa sono in vigore già da prima dell’insurrezione del 2011.
La comunità internazionale si faccia un esame di coscienza: per noi le sanzioni sono un crimine” rimarca il Vicario - “Siamo molto delusi dall’Ue. Chissà cosa accadrà con l’entrata in vigore del Caesar Act di Trump. Abbiamo bisogno della pace, ma adesso la priorità è sopravvivere”.
La vera paura e la crisi del Libano.  A confermare al Sir la gravità della situazione in Siria sono alcune fonti locali che vogliono restare anonime:
Ad oggi la vera paura dei siriani non è la pandemia ma la povertà generata da anni di guerra, di sanzioni e di crisi economica”.
Il termometro della crisi oggi è la svalutazione della moneta locale che sta provocando un’impennata dei prezzi per tutti i beni compresi cibo e medicine. A giocare un ruolo determinante nella svalutazione della lira siriana è la crisi finanziaria libanese. Per la Siria, infatti, il Paese dei Cedri è sempre stato una strada aperta verso il mondo esterno, soprattutto dopo l’imposizione delle sanzioni occidentali. In Libano sono depositati i conti e i risparmi di tantissimi siriani e le banche libanesi hanno favorito i commercianti e imprenditori siriani nei loro affari. Almeno fino a pochi mesi, quando le avvisaglie della crisi che avrebbe portato il Libano al default nel marzo di quest’anno, hanno di fatto provocato restrizioni bancarie nella vendita di dollari, nel ritiro dei risparmi e causato il blocco dei depositi siriani nelle banche libanesi. Al crollo della sterlina libanese ha fatto seguito anche quello della valuta siriana.
Così ogni giorno assistiamo ad un calo della nostra moneta con conseguente salita dei prezzi – dichiarano le fonti -. La gente non ce la fa a comprare da mangiare. Nelle ultime sei settimane la lira siriana ha perso circa il 65% del suo potere di acquisto. Se prima un dollaro era scambiato a 1000 lire siriane, adesso ce ne vogliono oltre 3000. All’inizio della guerra (2011) per un dollaro servivano 50 lire”.
E chi sperava che con la fine del lockdown i locali e negozi delle città siriane tornassero a riempirsi si è dovuto ricredere. Per il rilancio dell’economia bisognerà attendere ancora: “Con i prezzi è cresciuta anche la disperazione e la rabbia della gente”.
Mancano medicine e chiudono le farmacie. Gravi le ripercussioni anche sul sistema sanitario, già disastrato dalla guerra:  “Le industrie farmaceutiche siriane hanno smesso di produrre per mancanza di materie prime molto costose da reperire. Il prezzo di produzione è più alto di quello fissato dal Governo per la vendita. Dunque produrre medicine significa perdere denaro. Ne deriva una carenza di medicinali e la corsa all’accaparramento specie di quelli per le malattie croniche. Molte farmacie hanno chiuso per mancanza di forniture. Ci sono ospedali che faticano a rifornirsi anche di carta igienica e di presidi medici di uso comune”. 
In questo quadro a tinte fosche, chi continua a curare gratuitamente i più vulnerabili di Damasco e Aleppo sono i tre nosocomi cattolici del progetto “Ospedali Aperti”, ideato dal card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, che ne ha affidato la gestione ad Avsi, organizzazione internazionale che opera su più fronti per dare sostegno alla popolazione siriana. Nell’Ospedale Italiano e Francese di Damasco, e in quello di St. Louis ad Aleppo, spiegano da Avsi, “si continua a curare la popolazione. L’impegno è cercare di accogliere un numero sempre più alto di malati e salvare più vite possibile. In questi anni sono cresciute patologie gravi come i tumori, specie tra i giovani”.
Contro le sanzioni. Chi si sta battendo contro le sanzioni alla Siria è l’ong New Humanity, con la sua associata Amu – Azione per un Mondo Unito, che ha lanciato un appello per chiederne l’immediata sospensione “almeno per le forniture sanitarie e i materiali destinati alle cure mediche e per i fondi necessari per pagarle”. I destinatari dell’appello, firmato fino ad oggi da oltre 17 mila persone, sono tra gli altri António Guterres, Segretario Generale Nazioni Unite; Donald J. Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America e David M. Sassoli, Presidente Parlamento europeo.
Un’iniziativa, spiegano al Sir le ong promotrici che fanno capo al movimento dei Focolari, “al di sopra di qualsiasi orientamento politico o ideologico con l’obiettivo di salvaguardare la popolazione civile siriana”. “Le sanzioni – dicono le ong – bloccano investimenti e transazioni finanziarie rendendo difficili i commerci, importazioni e esportazioni. I siriani che sono all’estero non riescono più a far arrivare soldi ai loro parenti”. Le ong non mancano di segnalare “un velo di ipocrisia sul tema delle sanzioni:
hanno posto l’embargo all’acquisto del ferro perché potrebbe essere usato a fini bellici e poi fanno arrivare qui in Siria armi da ogni dove. Piuttosto che impoverire il popolo siriano con le sanzioni, Ue e Usa dovrebbero trovare strade di dialogo per una soluzione negoziata del conflitto. In Siria prima d’ora non abbiamo mai visto gente che cerca cibo nell’immondizia e persone che vendono reni per avere soldi”.
Anche l’Associazione pro Terra Sancta, che fa riferimento alla Custodia di Terra Santa, invoca lo stop all’embargo alla Siria, così come le Trappiste siriane. In una lettera le religiose chiedono la fine delle sanzioni che pure, affermano, “non sono l’unica causa di tutti i problemi in Siria. Ci sono tante responsabilità, anche interne. Ora c’è una guerra economica in corso, una guerra di spartizione di aree di potere, di privilegi economici, di influenze sul territorio”. Per questo il sistema politico-economico interno è chiamato a combattere la corruzione e a promuovere la crescita, facendosi carico dell’interesse del paese aiutando tutti i cittadini”.