Sebastiano
Caputo, responsabile di SOS Chrétiéns d'Orient in Italia: i
bisogni dei Cristiani sono molto diversi in tutta la Regione.
di Edward
Pentin*, National Catholic Register
traduzione:
Gb.P.
Molti
cristiani hanno lasciato l'Iraq e altri vogliono andarsene, a
causa di conflitti apparentemente perpetui, instabilità e
mancanza di posti di lavoro. Ma in Siria la situazione è molto
diversa, e la ragione è da attribuire principalmente al
presidente Bashar Assad che garantisce la sopravvivenza dei
Cristiani. "Se ci fosse un cambio di regime in Siria",
avverte Sebastiano
Caputo, a capo di SOS Chrétiéns d'Orient in Italia, un ente
umanitario cattolico, "i Cristiani se ne andranno, come hanno
fatto in Iraq". "Ecco perché" aggiunge," è
molto importante offrire un aiuto umanitario, ma allo stesso tempo
rendere consapevole la gente in Occidente sulla loro situazione, e
portare il loro messaggio ai nostri paesi".
Recentemente,
Caputo ha contribuito a creare una filiale italiana dell'ente
benefico che è cresciuto rapidamente da quando è stata fondato
da un gruppo di giovani Cattolici Francesi nel 2013. Ora ha oltre
1.400 volontari che lavorano in cinque Paesi. In questa intervista
rilasciata al National Catholic Register a
Roma il mese scorso, Caputo ha chiarito meglio il lavoro di SOS
Chrétiéns d'Orient, su come i bisogni dei Cristiani variano
ampiamente in Medio Oriente e perché SOS Chrétiéns d'Orient
potrebbe, a un certo punto, anche indirizzare il suo aiuto ai
Cristiani in Occidente, dove dice che la persecuzione è
"psicologica" piuttosto che fisica.
SOS
Chrétiéns d'Orient si è espansa ora in Italia. Come è
successo, e come sei stato coinvolto?
Sono
un giornalista. Lavoro per Il quotidiano italiano "Il
Giornale" e la Treccani, un'enciclopedia in cui ho scritto
sulla politica estera e le relazioni tra stati, con particolare
attenzione al Medio Oriente. Quindi ho viaggiato molto negli
ultimi tre anni. Quando ero a Damasco nel 2015 - a settembre,
durante una conferenza - ero con il capo della missione di SOS
Chrétiéns in Siria. L'ho conosciuto durante tutto il viaggio che
ho fatto in Medio Oriente: Egitto, Libano, Iraq e Siria. Ho visto
come questa associazione ha lavorato con i Cristiani in Medio
Oriente. Così, quando sono tornato in Italia il mese scorso, ho
chiamato Charles De Meyer e Benjamin Blanchard, fondatori della
SOS Chrétiéns d'Orient con sede a Parigi, e ho chiesto se Parigi
fosse interessata a creare un ufficio di rappresentanza a Roma.
Come
hanno reagito?
Ne
sono stati molto contenti perché Roma è la città del Vaticano e
l'Italia è un paese nel mezzo del Mediterraneo ed ha
un'importante cultura mediterranea. Quindi mi hanno aiutato a
creare questo ufficio. Il 26 aprile, il co-fondatore di SOS,
Charles De Meyer, è venuto a Roma e abbiamo tenuto una conferenza
stampa per presentare i membri italiani. C'erano circa 100 persone
interessate all'iniziativa. Ora l'obiettivo è quello di inviare
una squadra di 10 volontari italiani per unirsi alle missioni
francesi in tutto il Medio Oriente dove è presente "SOS".
In secondo luogo, l'obiettivo è lavorare per costruire una rete
per i donatori, perché "SOS" lavora solo con donazioni
di privati. Raccolgono donazioni e i volontari cercano donazioni
sul campo. Quindi è molto trasparente: fa bene ai donatori, ma
anche ai volontari. Sono occidentali e molto giovani, stanchi di
non fare nulla per aiutare chi è nel bisogno, quindi queste
persone vanno in questi Paesi dove i Cristiani affrontano una
situazione difficile, la guerra principalmente, ma non solo.
Il
termine "persecuzione cristiana" è troppo generico?
Sì,
è molto semplice parlare di persecuzione cristiana, ma tutti i
paesi sono diversi: alcuni soffrono per guerra e discriminazione,
ma il Libano è un paese multiconfessionale. In Iraq, il problema
sussisteva durante l'occupazione di Daesh (ISIS). La maggior parte
dei Cristiani ha lasciato la Piana di Ninive, ma in Siria i
Cristiani hanno una buona posizione sociale. La cosa buona di SOS
[i volontari] è che quando vanno in un Paese, rispettano quella
società e cercano di non mettere i Cristiani in pericolo.
Rispettano la società e la società multiconfessionale. Lavorano
per la sopravvivenza di una società multietnica e
multiconfessionale.
Anche
alcuni Musulmani lavorano con SOS, giusto?
Sì,
quando lavorano con la popolazione locale, è spesso con i
Cristiani, ma anche con i Musulmani, per esempio in Siria e in
altri Paesi musulmani, quindi non trovano discriminazione.
Rispettano tutte le persone lì, e questa è una buona cosa.
Che
aiuto pratico date, per esempio, in Iraq piuttosto che in Siria?
Una
parte è il lavoro umanitario: diamo cibo alle persone e aiutiamo
altre comunità cristiane a ricostruire chiese, scuole o ospedali
o sostenere progetti come gli scout. E quando ricostruiscono
ospedali e scuole, non è solo per i Cristiani, ma per tutta la
popolazione. Non chiediamo loro se sono battezzati. Le differenze
tra Iraq e Siria non sono notevoli, poiché entrambi i Paesi sono
stati in guerra con Daesh. Quindi si trattava più di aiuti di
emergenza, cibo e acqua, mentre in Egitto e Libano, che non sono
in guerra, offriamo aiuto per insegnare l'Inglese e il Francese ai
giovani, o semplicemente viviamo insieme a loro. È importante che
essi sappiano che l'Occidente è con loro, è importante che ci
conosciamo reciprocamente e loro sentano la nostra presenza lì.
I
cristiani in Iraq e in Siria vogliono restare?
Questa
è una domanda molto importante perché l'Iraq ha vissuto la
guerra fin dal 2003. Molti hanno sempre e solo conosciuto la
guerra e non sanno cosa sia la pace, quindi vogliono andarsene
perché oramai non hanno più un passato. In Siria è diverso.
Hanno avuto la guerra per otto anni, ma prima, la società era
molto tollerante, multiconfessionale e pacifica. Quindi le persone
hanno un ricordo di come era la vita prima della guerra e vogliono
restarvi. Perciò è completamente diverso: tutti i cristiani
Irakeni vogliono andarsene, mentre in Siria la maggior parte dei
cristiani vuole restare. Ciò è molto interessante. L'ho notato
quando sono stato in Siria. Prima e durante la guerra, essi hanno
sempre avuto un buon rapporto con il governo e il governo rispetta
le comunità cristiane.
Finché
il presidente Bashar Assad è al potere, vorranno restare?
Sì,
per otto anni hanno cercato di trasmettere un messaggio al mondo
occidentale: cioè che se ci fosse un cambio di regime in Siria, i
Cristiani se ne andrebbero, come hanno fatto in Iraq. Ecco perché
è molto importante offrire loro aiuto umanitario, ma allo stesso
tempo rendere consapevole la gente in Occidente della loro
situazione e inviare il loro messaggio ai nostri Paesi.
Pensi
che i Cristiani torneranno in Iraq?
Difficile
a dirsi. Per anni, i cristiani sono diminuiti in gran numero, una
caduta pazzesca. Inoltre, tutti i Cristiani che incontro lì
vogliono andarsene. Quando andai in una casa di Cristiani,
chiedemmo loro di cosa avevano bisogno. Tutti hanno detto:
"Abbiamo bisogno di un biglietto aereo per partire", ma
la missione di SOS è di aiutarli a rimanere, a non partire. Penso
a Benedetto XVI°, che ha dato un principio importante: tutti
hanno il diritto di vivere nel loro Paese perché è il loro
Paese.
I
Cristiani iracheni continueranno ad andarsene finché non avranno
un capo che protegge i Cristiani?
Sì.
La loro società è completamente diversa dalla nostra società;
dobbiamo rispettare che la loro è una società tribale. Per le
società tradizionali, la religione è molto importante per tutti;
la cultura del leader è molto importante. Ecco perché è
importante innanzitutto rispettare questo: anche la volontà delle
persone e il leader che loro vogliono.
Vorresti
che i giovani americani iniziassero un SOS negli Stati Uniti?
Sì,
naturalmente. Ora stiamo costruendo un ufficio qui a Roma, ma
forse in futuro altri Paesi potrebbero costruire qualcosa di
simile, in modo che tutti i Paesi abbiano l'opportunità di fare
volontariato e inviare denaro a queste persone. Sono cose
importanti, e magari networking (fare rete), contatto e ascolto
delle opinioni degli altri e conferenze nel Paese, incluse.
Abbiamo molti problemi da affrontare.
Ritieni
che anche in Occidente i Cristiani siano minacciati? Parliamo di
Cristiani perseguitati in Medio Oriente, ma dovrebbe esserci anche
un SOS Chrétiéns anche in Occidente?
Sì,
naturalmente; lo spero, perché a volte parliamo dei Cristiani
perseguitati in Medio Oriente, ma questa persecuzione è fisica.
Nel mondo occidentale, è psicologica, morale e anche una
persecuzione da parte dello Stato. È anche contro i simboli:
vietare la croce, gli attacchi contro la famiglia. Quindi è molto
importante lavorare insieme. E penso che i Cristiani in Oriente
possano aiutare i Cristiani in Occidente a migliorare e viceversa,
perché l'Occidente non è più cattolico o cristiano
culturalmente parlando; siamo una minoranza. Le ideologie
dell'Occidente sono il capitalismo, il consumismo e l'edonismo. I
giovani che fanno volontariato in Medio Oriente sono spesso
cattolici tradizionali, e questo può aiutare molto: l'interazione
tra culture per riscoprire la nostra identità.
*Edward
Pentin è il corrispondente del National Catholic Register di
Roma.
http://www.ncregister.com/daily-news/aid-worker-persecuted-christians-in-middle-east-continue-to-need-aid-suppor
Chi volesse partire come volontario può richiedere il modulo a : roma@soschretiensdorient.fr |
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domenica 24 giugno 2018
Nasce SOS Chrétiéns d'Orient anche in Italia: intervista a Sebastiano Caputo
mercoledì 6 settembre 2017
La geopolitica scrive la storia del calcio siriano.
Undici soldati |
di Sebastiano Caputo
Chi lo avrebbe mai detto che la Siria avrebbe vinto anche sul fronte calcistico. Improvvisamente, non uno, ma due eserciti sono avanzati parallelamente per riprendersi tutto. Così mentre i valorosi soldati della Syrian Arab Army hanno appena rotto l’assedio di Deir Ezzor, una città sperduta nel deserto orientale letteralmente accerchiata per tre anni dai miliziani dello Stato Islamico, la nazionale di calcio ha conquistato per la prima volta nella sua storia la qualificazione ai playoff per i mondiali che si disputeranno in Russia nel 2018. L’epopea individuale dell’eroico Issam Zahr al Din, druso eretico, comandante della 104a brigata paracadutisti della Guardia repubblicana, ora si intreccia con quella di Ayman Hakeem, allenatore delle “Aquile di Qasioun”, riuscito nell’impresa sportiva dopo aver pareggiato con l’Iran (già qualificato) nell’ultima sfida del girone. Hard e soft power si mescolano, fino a confondersi, per ridare speranza ad un intero popolo devastato da una guerra sporca scoppiata nella primavera del 2011 e che ormai dura da oltre sei anni. Perché le lacrime di chi ha perso parenti e amici sacrificati sull’altare della patria possono asciugarsi per un attimo di fronte ad un passato che si allontana sempre di più. Il ritorno del calcio in Siria è anche sinonimo di ritorno alla normalità.
Quella che i commentatori sportivi chiamavano la “Nazionale parallela”, una squadra nata nel luglio del 2014 a Tripoli (Libano) in cui figuravano ex giocatori professionisti, molti dei quali provenienti dalla ribelle Homs, è di fatto scomparsa qualche mese dopo insieme a tutti quei guerriglieri “moderati” sponsorizzati dal mondo occidentale e arruolatisi col passare degli anni nelle fila di Daesh o nelle costole di Jabhat Al Nusra, il ramo siriano di Al Qaeda. Oggi a sventolare negli stadi asiatici e nelle strade in festa c’è solo il tricolore nero-bianco-rosso con le due stelle verdi al centro, anche se la squadra rimane in esilio per motivi di sicurezza dall’inizio del conflitto. A causa della situazione economica dell’intero sistema-calcio siriano (premier league siriana interrotta poi ripresa con metà delle squadre, stadi vuoti per paura degli attentati, stipendi dei giocatori congelati, sanzioni, giovani talenti morti in guerra o arruolatisi nell’esercito) la nazionale stava per abbandonare la competizione, fino a quando il governo di Damasco è riuscito a firmare un accordo in extremis con la Malesia: l’Hang Jebeat Stadium di Malacca deciderà di ospitare tutte le partite casalinghe.
Da quel giorno è iniziato il volo delle 23 “Aquile di Qasioun” che le ha portate a sconfiggere nelle ultime gare del terzo round, l’Uzbekistan (1-0) e il Qatar (3-1) e a pareggiare con la Cina di Marcello Lippi (2-2) e l’Iran (2-2) qualificatosi di fatto come primo del girone A. E’ la geopolitica a scrivere la storia del calcio siriano. La Repubblica Araba di Siria si è ritrovata sola contro Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Con la scusa della violazione dei diritti umani, dopo le prime insurrezioni legittime e spontanee della popolazione, le cancellerie occidentali e i loro alleati della regione avevano puntato sulla destabilizzazione di un governo non allineato, quello di Bashar Al Assad, che è riuscito col passare degli anni a tessere una rete di alleanze da Beirut fino a Teheran passando per Baghdad.
Senza dimenticare la discesa in campo della Russia di Vladimir Putin che il 30 settembre del 2015 ha ribaltato il tavolo militare per tutelare l’accesso ai mari caldi (le basi di Tartous e Latakia) e difendere il suo più grande alleato in Medio Oriente. Paradossalmente, nel mondiale che avrà come epicentro Mosca, la nazionale siriana raggiunge i playoff (sfiderà l’Australia e per poco non prendeva l’Arabia Saudita) battendo il nemico statuale qatariota – tra i Paesi sponsor dei jihadisti insieme a Riad – e pareggiando all’ultimo secondo con l’Iran – membro anche lui del cosiddetto “asse della Resistenza” – nella sfida decisiva del girone. Il telecronista più famoso di Damasco che grida “Allah” incarna la voce di un intero popolo che la sera della qualificazione è sceso a festeggiare ad Aleppo, Homs, Tartous, Latakia, unito, come se non si fosse mai diviso.
“Apparteniamo a tutte le confessioni – aveva dichiarato prima della partita il trequartista Abdelzaraq Al Hussain – cristiani, sciiti, e sunniti siamo tutti una famiglia, giochiamo per una squadra e per un solo Paese”.
E’ lo specchio di quello che era la Siria prima delle infiltrazioni terroristiche foraggiate dalle nazioni menzionate sopra, un vero e proprio mosaico laico e multiconfessionale che, con tutti i suoi problemi interni, aveva sempre tutelato le minoranze etnico-religiose. Ma gli interessi privati di pochi sono diventati gli obblighi della comunità internazionale. Eppure Mister Hakeem – insieme ai tanti generali dell’esercito che in tutti questi anni non hanno mai disertato – ha ribaltato tutti i teoremi, persino quello sugli italiani di Winston Churchill: i siriani vincono le partite di calcio come fossero guerre e vincono le guerre come se fossero partite di calcio. Ai playoff ci vorrà il mancino dell’ala Kharbin, la tenacia del capocannoniere Al Soma, la classe di Al Mawas, la grinta e le lacrime della saracinesca Almeh, erede dello storico portierone Mosab Balhous, per scrivere dentro e fuori dal campo la storia della liberazione della Siria.
http://www.rivistacontrasti.it/calcio/undici-soldati/
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