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martedì 17 gennaio 2017

Il futuro della Siria passa per Astana

 Piccole Note, 17 gennaio 2017

Il futuro della Siria passa per l’incontro che si terrà il 23 gennaio ad Astana, capitale del Kazakistan. Qui si sono dati convegno russi, iraniani e turchi per dare avvio ai negoziati tra il governo di Damasco e i suoi oppositori, assenti ovviamente i gruppi terroristi Isis e al Nusra, mentre non è ancora del tutto chiaro se parteciperanno i curdi, che i turchi non vogliono.

Significativo che sia stato scelto un giorno successivo all’insediamento di Donald Trump, che diventerà formalmente presidente il 20, a rimarcare l’importanza che ha per Mosca l’inizio di una nuova fase della politica estera americana.
Trump dovrebbe mollare la presa sulla Siria, questo almeno nei suoi propositi elettorali, lasciando maggior libertà di azione ai russi e abbandonando al loro destino i cosiddetti ribelli siriani (ovvero le bande dei jihadisti ivi scatenate).
Questi ultimi ne sono consapevoli, ed è il motivo per cui si sono convinti ad accettare l’invito al tavolo di Astana, che comporta un’accettazione previa della sussistenza di Assad al potere, cosa prima inaccettabile (anche se forti saranno ancora le resistenze sul punto).
Negoziati senza Stati Uniti, a indicare il nuovo ruolo russo nella regione e la parallela perdita di influenza di Washington. Ma Putin ha tentato la mossa del cavallo, facendo filtrare la notizia di un possibile invito indirizzato agli americani. Ipotesi che non ha trovato risposta nella controparte e che ha pure incontrato la netta e pubblica opposizione iraniana.
Tra Iran e Stati Uniti pesa la controversia legata all’accordo sul nucleare stipulato tra Teheran e l’amministrazione Obama, accordo che Trump ha detto di voler denunciare. Una controversia esplosiva, che evidentemente non poteva che essere motivo di scandalo anche ad Astana.
Con gli americani l’appuntamento è rimandato ai primi di febbraio, a Ginevra, dove si valuterà in chiave più globale quanto emergerà in Kazakistan.

Detto questo, è probabile che Trump dia il suo placet alle iniziative patrocinate dalla Russia di comune accordo con la Turchia, che da tempo ha legato il suo destino a Mosca.
Trump troverebbe in questa disposizione un certo consenso nell’apparato militare americano che, nel segreto, da tempo valuta positivamente il ruolo di Mosca nella crisi siriana, al contrario dei suoi dirigenti, come aveva rivelato in un ponderato articolo il premio pulitzer Seymour Hersh.
Ma avrebbe contro tutta quella parte di America che ha puntato tante delle sue fiches sul regime-change siriano, in particolare i neocon, gran parte dell’apparato militare industriale (che ha fatto buoni affari con questa guerra) e parte degli apparati di sicurezza.
Per Trump, quindi, si tratterà di far fronte a non poche resistenze interne, che però non dovrebbero influire sull’esito finale della trattativa, che nel medio periodo dovrebbe chiudersi positivamente (almeno in certa misura ché ri-stabilizzare la regione sarà durissima).
Questo perché Trump non può rischiare di rimanere impantanato nel conflitto siriano: si è ripromesso di fare una vera e propria rivoluzione in America e la Siria è l’ultimo dei suoi problemi. Cosa che dovrebbe facilitare l’iniziativa dei russi e dei suoi alleati.

Resta appunto l’opposizione sorda degli apparati americani, ma anche quella aperta delle Monarchie del Golfo, anzitutto l’Arabia Saudita, che rischia di essere l’unica sconfitta di questa partita di giro. Tenterà di vender cara la pelle attraverso un rinnovato attivismo delle sue pedine locali, leggi milizie jihadiste.
Favorite da queste resistenze pubbliche e meno pubbliche, anche le formazioni dichiaratamente terroriste sono tornate all’offensiva, cercando di sfruttare al massimo le opportunità loro spalancate negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama.
Oltre a perseverare nei consueti crimini contro la popolazione civile, i terroristi di stanza in Siria hanno inquinato l’acqua di Damasco, avvelenando le risorse idriche di milioni di persone…
Ma la situazione che li vede più attivi è presso la città chiave di Deir Ezzor, contro la quale l’Isis ha scagliato una massiccia offensiva. Da tempo la città è sotto assedio, e la sua resistenza è diventata una sorta di leggenda del conflitto. Ma stavolta sembra sul punto di cadere, attaccata da circa 14mila attivisti del terrore.

Val la pena, en passant, ricordare che sulle postazioni difensive della città aveva infierito proditoriamente l’aviazione americana, uccidendo oltre sessanta militari e consentendo all’Isis un attacco che ne aveva minato nel profondo le difese, oggi messe nuovamente a durissima prova.
Se capitolerà, l’Isis riuscirebbe ad aprirsi un corridoio strategico per congiungere i suoi domini siriani con quelli in Iraq, nella speranza di ritagliarsi il sedicente Califfato la cui nascita, bizzarria del destino, coinciderebbe con la realizzazione di quel sunnistan tanto agognato dai profeti neocon (basterà in futuro cambiare nome alla gang criminale per tentare di rendere la nuova entità politica accetta al mondo, come ha fatto di recente al Nusra).

A complicare le cose il convitato di pietra di questo conflitto, Israele, la cui destra, e non solo quella, da tempo vede questa guerra come un’opportunità irripetibile per sbarazzarsi dell’odiato Assad, da sempre percepito come nemico esistenziale.
Non si rassegnerà facilmente al fallimento di tale prospettiva. Come ha dimostrato l’inspiegabile, o spiegabilissimo, attacco compiuto una settimana fa dalla sua aviazione contro una base aerea militare situata nei pressi di Damasco.
Segno di pervicacia nella sua posizione anti-Assad, ma anche di nervosismo per il cambiamento di scenario (val la pena accennare che si tratta di un atto di guerra, al quale per fortuna Damasco non ha reagito: si sarebbe incendiata la regione).
Sviluppi tutti da decifrare, dunque, e però, nonostante tutto, ad Astana si aprirà una nuova fase del conflitto, dove a dar le carte per la prima volta sarà Mosca.

Ad oggi quanti hanno sperato di rovesciare in maniera irrimediabile il tavolo dei negoziati sono andati delusi, al massimo hanno prolungato il conflitto. E la permanenza di Assad al potere rende tale prospettiva stabilizzante sempre più provvisoriamente definitiva.