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lunedì 24 marzo 2014

Elias Sleman, vescovo di Tartus: «Anche se resterò qui da solo, io non me ne andrò»


Reportage dalla Siria,  di Rodolfo Casadei 

TEMPI, 17 marzo

Tartus è il governatorato più tranquillo di tutta la Siria, l’unico dove la guerra non è mai arrivata. Grazie alla superficie ridotta del suo territorio (meno di duemila chilometri quadrati). Grazie al fatto che l’entroterra è occupato interamente da villaggi e cittadine alawite, più qualche enclave cristiana, e dunque difficile da infiltrare da parte delle formazioni ribelli a base sunnita. Grazie infine al fatto che nel capoluogo, affacciato sul mare, i rapporti fra le differenti fedi religiose non conoscono nessuna tensione. Con la sua base navale affittata ai russi sin dal 1971, l’unica detenuta da Mosca fuori dal territorio nazionale, dall’esterno Tartus potrebbe sembrare il bersaglio ideale per attacchi jihadisti; al contrario, si è trasformata nella méta di centinaia di migliaia di sfollati interni, in grande maggioranza musulmani sunniti, che hanno cercato e trovato qui riparo. Tartus è anche la regione siriana con la più forte presenza di cristiani maroniti. Sono 50 mila circa in tutto il paese, e l’80 per cento di essi risiede in questo governatorato. Col loro vescovo, monsignor Elias Sleman, abbiamo a lungo parlato del modo in cui i cristiani siriani stanno vivendo la dura prova della guerra civile, che dura già da tre anni e che il 15 marzo scorso è formalmente entrata nel quarto anno.

Eccellenza, cosa è cambiato nella vita delle comunità cristiane in questi tre anni a causa della guerra?
Ci sono stati cambiamenti dovuti a problemi pratici e cambiamenti molto più profondi. Anche se qui la situazione è tranquilla, come ha potuto vedere, le attività coi giovani sono state ridimensionate, perché non si può più viaggiare liberamente attraverso il paese e organizzare campeggi, e anche gli incontri e riunioni fra vescovi e fra sacerdoti si sono diradati. Ma il fattore che ha prodotto i cambiamenti più significativi è stato l’afflusso di sfollati da altre zone del paese nel nostro governatorato. Questo ha significato dare impulso alla Caritas, orientare le nostre attività alla solidarietà verso chi soffre. Ma ha significato anche incontrare tante persone, cristiani e musulmani. Abbiamo approfondito il dialogo ecumenico coi fratelli delle altre Chiese, soprattutto a partire dalla preoccupazione per i cristiani che soffrono: il destino dei due vescovi e dei due sacerdoti rapiti, delle monache sequestrate (rilasciate il 9 marzo scorso ), ha riavvicinato i cristiani delle diverse Chiese. E abbiamo incontrato i musulmani in fuga dalle zone dei combattimenti in modo estremamente positivo. A una nostra suora, una donna sfollata di famiglia musulmana ha detto: «È la prima volta che incontriamo dei cristiani, nella nostra zona d’origine non ce ne sono. Siete simpatici, non siete come ci avevano detto. Noi vi stiamo uccidendo e voi ci state dando da mangiare!».
Se devo descrivere le conseguenze spirituali della guerra sui cristiani, dico che in generale sono diventati più praticanti e più solidali. Abbiamo scoperto che il paese ha bisogno di noi e della nostra specificità cristiana. Il solo discorso valido in un momento come questo è quello che mette l’accento sulla pace, l’amore, la solidarietà, la carità, l’apertura verso l’altro, l’accettazione dell’altro, il rispetto assoluto per la vita che discende dall’assoluto di Dio. Ed è la testimonianza che stiamo cercando di dare. Noi accogliamo tutti, senza distinzioni. Dall’altra parte, sono cresciute in noi anche le virtù civili: è cresciuto il patriottismo, l’attaccamento a questa terra, per la quale ci doniamo disinteressatamente. Ma anche la virtù civile ha un sottofondo cristiano: questa è la terra della nostra tradizione, della nostra Chiesa, per questo restiamo.

Chissà in quante storie speciali vi siete imbattuti in questi tempi difficili. Qual è la storia più umana che ha ascoltato e quale quella più disumana che avete incontrato?
Le storie più orribili, sono quelle che conoscete anche voi: gli omicidi a sangue freddo, le persone sgozzate e decapitate, gli atti di cannibalismo sui corpi degli uccisi. Le storie che danno speranza hanno il timbro di quella che le ho raccontato prima: la donna musulmana che scopre chi sono veramente i cristiani. A me è capitato di essere visitato da un religioso sunnita sfollato da Aleppo che mi ha chiesto di aiutarlo a trovare una sistemazione in città. Io gli ho chiesto: «Ha già parlato col muftì?», e lui mi ha risposto: «Io ho fiducia in voi». Cristiani e musulmani si incontrano e si aiutano in un contesto di difficoltà e di insicurezza: ciò fa parte dei frutti straordinari della guerra. Ci ritroviamo nella comune opzione per la moderazione e contro il jihadismo. Cristiani e musulmani, quando si accolgono l’un l’altro, appartengono allo stesso campo. Quando abbiamo costituito un centro per la distribuzione degli aiuti presso il vescovado, abbiamo visto arrivare soprattutto donne musulmane. Tutti, nella nostra comunità, hanno dato con generosità senza guardare alla religione dei bisognosi. Attualmente seguiamo circa mille famiglie attraverso la Caritas. Noi diamo quello che possiamo e vorremmo ricevere più aiuti dall’esterno da trasferire ai bisognosi di qui.

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Di fronte alla durezza della prova della guerra, come reagiscono i cristiani? La accettano come una circostanza che Dio dà da vivere o si ribellano?
Non c’è unanimità di reazioni. I credenti più maturi non protestano, colgono le opportunità che la guerra offre per praticare la carità, l’ecumenismo con tutte le Chiese e la solidarietà verso tutti. I meno credenti ci sfidano: «Perché Dio non ferma queste atrocità? Perché non fa morire gli assassini?». Noi diciamo loro: «La prima vittima dell’ingiustizia è Dio stesso, lo vedete lì sulla croce». Cerchiamo di correggerli proponendo una fede più profonda in Cristo. Quando a porre quelle domande sono coloro che hanno perso persone care, coloro ai quali la guerra, un’autobomba o un cecchino hanno portato via un figlio o una figlia, noi non rispondiamo. Li ascoltiamo, li facciamo sfogare e stiamo accanto a loro. Dopo si sentono sollevati e ci ringraziano di essergli stati vicini. Allora noi gli diciamo: «Dio ti ha ascoltato, Dio è con te».
I giovani sono gli interlocutori più difficili. Per la loro indole e per il fatto che molti non hanno ricevuto una vera educazione cristiana si ribellano più facilmente. In certi momenti alcuni di loro dicevano: «Prendiamo le armi! Combattiamo anche noi!». Io mi sono opposto: «No», ho detto. «Non otterremo altro risultato che di uccidere e farci uccidere». Un po’ alla volta hanno capito. Io faccio tutto quello che posso perché la catechesi sia all’altezza dei tempi che viviamo, perché sia chiaro a tutti cosa si esige dalla fede in un momento carico di atrocità come questo. Abbiamo tante persone che hanno perso tutti i beni materiali a causa della guerra. Li aiutiamo a procurarsi di che vivere, ma anche a comprendere il senso della povertà, a cogliere nella spoliazione la circostanza che ci permette di riscoprire l’essenziale, ad essere grati a Dio perché comunque ci ha conservato la vita e possiamo ricominciare a costruire. Se si sta vicino a queste persone nel modo giusto, se si dice loro la parola giusta, a poco a poco comprendono il senso degli avvenimenti e ricominciano ad impegnarsi. Dunque alla sua domanda rispondo che il risveglio della fede e la protesta contro Dio a causa delle atrocità sono entrambi presenti nelle nostre comunità, sono reazioni e atteggiamenti che convivono mescolati.

Molti siriani hanno abbandonato il paese, anche molti cristiani. Cosa dice di questo?
Circa il 10 per cento della nostra comunità maronita è passato all’estero, e si tratta per lo più dei benestanti. Ma la maggioranza è restata e vuole restare, per fedeltà alla terra e per fedeltà alla nostra storia. La Chiesa fa di tutto perché la gente resti. Io dico sempre a loro: «Anche se resterò qui da solo, io non me ne andrò». Ed è quello che penso veramente.

Un fatto che mi ha molto colpito è l’accoglienza che gli sfollati sunniti ricevono qui a Tartus. Probabilmente molti loro parenti stanno combattendo in questo momento dalla parte dei ribelli contro i governativi, cioè contro i figli della gente che abita qui. Eppure non ho avvertito ostilità nei loro confronti.
Tutti i bambini hanno diritto a essere nutriti e vestiti. Non possiamo dire: «I vostri padri combattono, quindi noi non vi diamo da mangiare». E poi non possiamo fare a meno di mostrare a questa gente il volto di Cristo. Per questo abbiamo deciso di aiutare tutti senza porre condizioni. Fame e povertà non hanno religione. Le autorità dello Stato sono perfettamente d’accordo con noi e si comportano nello stesso modo. Noi non chiediamo a questi ragazzi e a queste donne: «Dov’è vostro padre? Dov’è tuo marito?». A volte sono loro stessi che ce lo dicono. E io mi sono persuaso che molti di loro combattono non per convinzione, ma per denaro. Il bisogno li ha spinti a prendere le armi in cambio di denaro, non un’idea politica.

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