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domenica 20 maggio 2018

Frère Jean-Pierre di Tibhirine: "Restare, significava essere fedeli alla nostra vocazione"

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero dei Trappisti di Notre Dame dell'Atlas, sequestrando sette dei nove monaci che ne formavano la comunità, tutti di nazionalità francese.  Il sequestro fu rivendicato un mese dopo dal Gruppo Islamico Armato, che propose in cambio alla Francia uno scambio di prigionieri. 
Dopo inutili trattative, il 21 maggio dello stesso anno i terroristi annunciarono l'uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio; i corpi non furono invece mai ritrovati. Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher, e dopo la morte dei loro confratelli si trasferirono nel monastero di Fès in Marocco. L'assassinio dei monaci è avvenuto nel contesto della sanguinosa guerra civile algerina (Wikipedia) . Perciò i 7 monaci verranno beatificati insieme al gruppo dei 19 MARTIRI DI ALGERIA. 
Riproponiamo, nell'anniversario del loro martirio, la testimonianza di  Frère Jean-Pierre Schumacher, raccolta da Laurence Faure e pubblicata su La Vie 
Marzo 2012: P. Jean Pierre SCHUMACHER, ultimo sopravvissuto dei monaci di Tibhirine saluta un'impiegata musulmana del Priorato di Notre Dame de l'Atlas, Midelt, Marocco. © Bruno ROTIVAL / CIRIC

Frère Jean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto di Tibhirine, parla della prossima beatificazione dei suoi sette fratelli, recentemente riconosciuti come martiri dalla Chiesa cattolica con altri 12 uomini e donne religiosi algerini. Come padre Amédée, morto nel 2008, Jean-Pierre Schumacher era chiuso nella sua stanza durante il rapimento degli ostaggi del 1996. Malgrado il dramma vissuto 22 anni fa, il monaco trappista che ora ha 94 anni ha scelto di continuare a vivere a Midelt (Marocco), nel Monastero di Notre-Dame-de-l'Atlas.
"Quando ho appreso della prossima beatificazione dei miei sette fratelli... ho sentito anzitutto una gioia grande e profonda! Ora essi sono potenti intercessori presso Dio. Questo riconoscimento conferisce un significato particolare al loro martirio, come a quello di Monsignor Pierre Claverie e degli altri loro compagni martiri in Algeria. Non hanno lasciato il paese. Nonostante i rischi. Perché non si abbandonano i propri amici quando sono in pericolo. Per arrivare a ciò, ovviamente, devi stabilire amicizie reali e profonde. È anche necessario che questi amici esprimano il loro desiderio di avere la nostra presenza al loro fianco.
"L'annuncio del Vangelo in silenzio", "essere da soli una Cristianità", diceva il Beato Charles de Foucauld ... È un po' quello che la Chiesa vive qui, in Nord Africa, nel suo rapporto con l'Islam. Abbiamo vissuto a Tibhirine qualcosa che illustra questo spirito. Eravamo in rapporto con una dozzina di membri della congregazione musulmana Alawiya, di obbedienza Sufi. Non potevamo pregare insieme, perché le nostre religioni sono diverse, ma ci incontravamo due volte all'anno nel 'Ribat es Salaam' (il Legame della Pace, un'associazione di dialogo spirituale con l'Islam supportata da Christian de Chergé con Claude Rault, padre bianco, vescovo di Laghouat in Algeria, dal 2004 al 2017, ndr). Una delle prime cose che ci hanno chiesto di fare, era di non entrare nelle discussioni teologiche. Senza negare la teologia cristiana, ovviamente - perché ne abbiamo bisogno e lo sappiamo - non ne parlavamo perché ciò avrebbe rotto qualsiasi dialogo.
Fede cristiana, fede musulmana
Così ci siamo riuniti in una stanza del monastero, con alcune panche e un tavolo, ma ognuno pregava separatamente, in silenzio: è assolutamente monastico, e ciò mi è piaciuto molto! Christian de Chergé chiedeva di accendere la candela. Era una candela rossa. Non c'era bisogno di spiegazioni teologiche, è risaputo cosa significa : Dio è presente. È anche uno dei più bei nomi di Dio, tra i 99 nomi dati a Lui dai musulmani: "Dio è luce" - "Allah e' Nur" in arabo. Così senza pronunciare parola eravamo silenziosi e ognuno stava alla presenza di Dio per circa mezz'ora. Poi ci scambiavamo una parola e quelli che lo desideravano condividevano la risonanza che assumeva questa parola nelle loro vite. Ad esempio, "Dio è luce": noi come loro, potevamo meditare questa frase secondo la nostra fede.
Conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita.
È difficile confrontare la fede cristiana con la fede musulmana. Eppure anche i musulmani hanno i loro martiri, in un senso vicino al nostro: conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita. E, naturalmente, non possiamo che provare grande ammirazione per quel padre di famiglia musulmano che ha dato la sua vita per salvare quella di Christian Chergé quando egli era un ufficiale in Algeria nel 1959. Un atto compiuto secondo la sua fede, la sua carità. E questo è proprio ciò che all'epoca ha interpellato Christian: quest'uomo, che non era un cristiano, ha vissuto ciò che è al vertice della nostra fede cristiana e del Vangelo! Dare la propria vita per coloro che si amano... Questo fatto ha riecheggiato nella vita personale del nostro priore di Tibhirine; egli pensava di non poter fare altro che dare la sua vita, a sua volta, per il popolo algerino. Non poteva sapere cosa poi sarebbe successo, ma era già la disposizione del suo cuore.
La bellezza e il lavoro dello Spirito SantoQuesta storia mostra, se uno lo vuol vedere - e crederci - che lo stesso Spirito agisce negli uomini di fede e di preghiera che si lasciano guidare da Dio. Era la passione di Christian scoprire la bellezza e l'operato dello Spirito Santo in ognuno, e di cooperarvi, incoraggiarlo. Senza alcun desiderio di proselitismo. Questa è la nostra specificità.
Una volta ho incontrato un uomo, in un eremo di Charles de Foucauld, che voleva attirare i musulmani a diventare Cristiani... Noi diamo un significato diverso alla parola conversione: anche noi abbiamo bisogno di convertirci a Dio, di ascoltare meglio la sua Parola e di viverla. Il primo punto, quindi, è diventare tu stesso migliore e più disponibile a Dio. Partendo da questo, lasciamo che il Signore agisca sull'altro, reciprocamente. Noi speriamo che questa azione dello Spirito cresca nell'uomo e gli consenta di rispondere fedelmente a ciò che Dio si aspetta da lui. Ma è opera di Dio, è Lui che fa il lavoro, in modo intimo. Esiste una forma di eguaglianza tra noi e colui al quale ci rivolgiamo: siamo tutti figli di Dio. A volte pensiamo che siamo più avanti, ma non è sempre sicuro ... a volte l'altro può essere più avanti di noi. Il Signore ci vuole tutti. Agisce nell'altro e in noi. Ciò deve essere incoraggiato da questa offerta di se stessi a Dio.
Dal 1993, dopo l'intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi d'opinione, abbiamo preso la decisione unanime di rimanere.
Molti ci fanno questa domanda: perché siamo rimasti a Tibhirine in quel momento? È un po' come quello che è accaduto a Christian: questo desiderio di scoprire l'anima musulmana, tramite una reciproca ricerca di Dio. Già nel 1993, dopo l'intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi di opinione, preso la decisione unanime di rimanere. Questo momento cruciale appare bene nel film "Uomini di Dio" (Xavier Beauvois, 2010, ndr). È la nostra vocazione, allora, che era in gioco. Rimani o parti? Rimanere significava essere fedeli alla nostra vocazione, al motivo per cui Dio ci aveva voluto lì. Andarsene, sarebbe stato come un soldato che lascia il fronte per paura del pericolo, quando lui non comanda, che la sua vita è al servizio di ciò per cui è stato mandato. Qualunque cosa costi. Non potevamo andarcene per questo: questa missione la riceviamo, la viviamo, l'abbiamo dentro di noi.
L'amore prevarrà sull'odio
Dopo il rapimento dei nostri fratelli nel 1996, quando rimanemmo soli con padre Amédée (morto nel 2008, ndr), eravamo determinati a continuare. Per prima cosa volevamo rimanere a Tibhirine per proseguire l'opera di Dio e accoglierla in mezzo agli eventi che ci avesse dato di vivere. Avevamo anche pensato che i nostri fratelli potessero essere liberati e quindi dovevamo aspettarli ...
Più tardi, quando la loro morte fu confermata, pensammo di accogliere altri fratelli, per rilanciare la vita monastica con lo stesso spirito. Ma le forze militari hanno insistito perché partissimo, per la nostra sicurezza.
Ci portarono ad Algeri, in una casa diocesana, poi raggiungemmo il Marocco, come era stato concordato con i nostri fratelli scomparsi: se, nonostante il nostro desiderio di rimanere, ci fossimo dispersi, avevamo deciso all'unanimità di incontrarci a Fez - un annesso di Tibhirine aperto dal 1988.
Quello che era certo, era che se fossimo stati costretti a lasciare l'Algeria, saremmo rimasti in un paese musulmano. Nel monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Midelt, viviamo come una continuazione di Tibhirine. È la stessa comunità che si è trasferita e vogliamo continuare a vivere di tali amicizie, perché è questo l'essenziale del nostro "dialogo islamo-cristiano". I nostri martiri in Algeria ci stimolano oggi - e probabilmente per molti anni a venire - a credere che l'Amore prevarrà sull'odio e sulla violenza che esso genera.
Un desiderio di condividere
I nostri legami con la popolazione locale si riassumono nella convivialità, attraverso tutte le questioni concrete della vita quotidiana. La nostra regola di solito impone una stretta clausura, ma non si può vivere qui come in un paese della cristianità: ci devono essere cose che passano tra le due comunità, per arrivare a una conoscenza e a una stima reciproca. Creare dei legami è essenziale per dialogare e accogliere lo Spirito che lavora in ciascuno.
Questo scambio è facilitato dall'ospitalità del popolo berbero ... Penso in particolare allo spuntino di mezzogiorno offerto dai dipendenti musulmani del monastero: non possiamo evitarlo, dobbiamo andarci! (Ride). Ci piace, ovviamente, è un desiderio di condivisione. Questa è la carità: il desiderio di piacere a Dio, che ci chiede di essere buoni con gli altri. Durante la nostra quaresima, alcuni amici musulmani agiscono anche verso di noi come agirebbero tra di loro: ci offrono la loro zuppa del Ramadan.
Qui siamo quindi oranti tra oranti.
Il nostro ruolo di monaci, è principalmente quello di essere oranti. La nostra vita deve essere tutta una preghiera: è l'obiettivo della vita monastica. Gli antichi Padri del deserto, nei primi secoli, insistevano molto sulla purezza del cuore, quella disposizione permanente dell'essere proteso verso Dio, un traguardo che si raggiunge solo alla fine della vita. Per questo, ci esercitiamo nel corso della nostra giornata ad essere presenti a Dio. Questo è l'essenziale.
Assomiglia un po' a questo ciò che fanno i musulmani: hanno cinque preghiere distribuite nella giornata, in momenti specifici. Noi ne abbiamo sette, dalle vigilie alla compieta. Lo scopo di questa distribuzione della preghiera è di santificare le altre ore del giorno: ci strappiamo dalle attività materiali per lodare e riempirci di Dio. Anche quella dei musulmani ha questo obbiettivo. Qui siamo quindi oranti tra questi oranti. Le persone tra le quali viviamo spesso ci danno questo esempio: qualunque cosa facciano nella loro giornata, la fanno nel nome di Dio - "Bismillah", dicono. "
Cosa significa la frase "Monsignor Claverie e i suoi compagni"?
La causa di beatificazione dei martiri d'Algeria porta il nome di "Monsignor Claverie e i suoi compagni". Il termine "compagno" ha attraversato la storia della Chiesa. "È la traduzione usuale, ricevuta dal latino socius (socii al plurale), che si riferisce al fatto che i missionari non sono di solito inviati da soli, ma sempre in gruppi di almeno due che si accompagnano (Marco 6, 7, Luca 10, 1)," ci spiega Jean Duchesne, membro dell'Osservatorio Fede e Cultura. Così, un gran numero di martiri non sono soli, ad esempio i santi Blandina e Potino "e i loro 46 compagni", martiri del II° secolo a Lione. "La fede non è mai solitaria: è sempre trasmessa da altri, messaggeri di Dio, e porta frutto in quanto esige di non essere tenuta per sé ma condivisa, prima ancora che venga messa alla prova nel martirio", dice Jean Duchesne. I martiri in Algeria non hanno vissuto da soli la loro chiamata, hanno dato la loro vita fino alla fine "in un unico corpo di membri di Cristo".
     Anne-Laure Filhol

domenica 14 gennaio 2018

Verso la beatificazione dei 19 martiri di Algeria

19 religiosi e religiose cattolici hanno dato la loro vita in Algeria negli anni '90, tra cui sette monaci trappisti dell'abbazia Nostra Signora di Atlas di Tibhirine.
Benchè molto lungo, pubblichiamo quasi interamente il ricchissimo testo di padre Ivo Dujardin, prezioso documento per comprendere il cammino spirituale in cui maturò la loro offerta, il rapporto con l'Islam ed il messaggio di questi 'uomini di Dio'.
"Ognuno dei martiri algerini", riferisce il postulatore della causa di beatificazione padre Georgeon, "è stato un testimone genuino dell'amore di Cristo, del dialogo e dell'apertura agli altri, dell'amicizia e della lealtà verso il popolo algerino. Con immensa fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo. Non hanno dato la vita per un'idea, per una causa, ma per Cristo".



Nel giardino di Tibhirine : il dialogo della vita.
  Dopo alcune settimane di attesa angosciosa e di timore misto a speranza, arrivò la terribile notizia che i sette trappisti francesi del monastero algerino di Tibhirine, sequestrati nella notte dal 26 al 27 marzo 1996, erano stati crudelmente uccisi il 21 maggio. Qualche giorno dopo, lo sconvolgente testamento di fra Christian, il priore, era consegnato alla stampa dalla famiglia e diffuso in tutto il mondo. Non lasciò nessuno nell’indifferenza, neppure i musulmani.
In questo tentativo di lettura della vita e della morte dei monaci di Tibhirine, lascerò largamente la parola agli stessi fratelli, citandoli e anche approfittando degli autori che hanno riflettuto su Tibhirine e che possono aiutarci ad entrare nel mistero della loro Pasqua e del suo significato per la Chiesa e per il mondo di oggi.
Si tratta quindi di un florilegio, come è espresso dal titolo. Il film “Uomini di Dio” ha avuto un grande successo, ma da solo non spiega tutto. È necessario, da una parte, aver letto e meditato almeno alcuni testi per capire meglio il film e, d’altra parte, per completare il suo contenuto e il suo messaggio.
Una prima parte situa i sette fratelli di Tibhirine nel gruppo dei 19 religiosi che hanno dato la vita in Algeria dal 1994 al 1996. Una seconda parte vuole tratteggiare il tipo di dialogo interreligioso, come è stato praticato e vissuto a Tibhirine. La terza parte accenna alle condizioni basilari per tale dialogo: si tratta di due condizioni fondamentali anche per tutti quelli che nella loro vita vogliono lasciarsi ispirare da Tibhirine.

I fratelli di Tibhirine nel gruppo dei diciannove testimoni dell’Algeria e con una loro vocazione particolare
  Nel gruppo dei 19 religiosi che hanno dato la vita in Algeria fra il 1994 e il 1996, tutti erano francesi, tranne due suore spagnole e un Padre Bianco belga.
Nell’ordine cronologico della loro morte c’erano: un fratello Marista, una Piccola Sorella dell’Assunzione, due suore spagnole Agostiniane Missionarie, quattro Missionari d’Africa (Padri Bianchi) fra cui un belga, due suore di Nostra Signora degli Apostoli, una Piccola Sorella del Sacro Cuore, sette monaci Trappisti e da ultimo un domenicano, Monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano.
In tutto il gruppo i monaci trappisti occupano un posto speciale. Non certo perché il loro amore o il anche il dono della loro vita siano stati straordinari nel senso che siano stati i più grandi di tutti: non si tratta di questo! Ma perché le situazioni concrete, le circostanze in cui questo dono si è compiuto sono state molto particolari. Bisogna senz’altro evitare di mettere troppo in risalto queste “sette vite per Dio e per l’Algeria”. Sì, sarebbe un vero peccato monopolizzare questa grazia a favore dei sette. Il cammino degli altri dodici non si differenzia per nulla da quello dei fratelli di Tibhirine. Tutti hanno fatto lo stesso discernimento personale: tutti – ognuno nella fedeltà alla propria vocazione – hanno dato la loro vita per Dio e per l’Algeria.
Tutti hanno scelto non di restare, ma piuttosto di non partire. Preferisco formulare così la loro scelta. La distinzione può essere sottile, ma non è senza importanza. Hanno scelto l’amore, così come era stato definito da fra Christophe in alcuni versi: tutti hanno amato fino al segno supremo.
Ama fino a quando il fuoco si estingue
fino all’estremo
occorre benedire
offrire l’azione di grazie
e vincere mediante la lode.
Fino all’estremo
bisogna servire
fare la verità
e vincere mediante l’amicizia
Per guadagnare il cuore dell’uomo bisogna AMARE 

Questo non toglie che il cammino di questa comunità monastica - senza compiti pastorali individuali, in un luogo abbastanza deserto, lontano da ogni città, circondato soltanto da alcuni contadini - sia stato speciale.
Era un gruppo di monaci fra altri due gruppi in conflitto, con i quali essi hanno avuto contatti diretti e regolari: da una parte l’esercito algerino nella pianura e dall’altra il GIA nella montagna.
Se gli altri religiosi hanno ricevuto un avvertimento globale, che era stato formulato per tutti gli stranieri alla fine del 1993, i monaci hanno ricevuto proprio a casa loro una visita-avvertimento durante la notte di Natale del 1993
Tutti erano ben coscienti del rischio che correvano per le loro vite. I monaci, però, hanno ricevuto un avvertimento consegnato direttamente alla porta del monastero con una parola d’ordine: “Signor Christian”.
Dietro questo cammino speciale io presumo e sospetto una vocazione speciale, supplementare, la vocazione cioè di “rendere visibile esteriormente”, direi di “spiegare” quello che è stato il fuoco interiore di tutti gli altri in Algeria, sia che vi siano morti o che siano rimasti in vita, come per esempio i fratelli Amedée e Jean-Pierre, scampati al sequestro. I sette hanno scritto in chiare lettere, attraverso un cammino documentato, quella che è stata la storia “interiore” degli altri dodici, come se in questa maniera il Signore avesse voluto garantire per le generazioni future una “tradizione” scritta da un fuoco interno che abitava questa presenza cristiana e missionaria in Algeria.
Non si potrebbe dire che Tibhirine, pur restando fedele in una maniera creativa al carisma monastico cistercense, è divenuto un simbolo, una “parabola” della presenza missionaria multiforme sparsa in tutto il mondo, sia in situazioni di pericolo, sia in situazioni più pacifiche?
Oggi, a fatti avvenuti e dopo un film che ha già raggiunto milioni di persone di ogni tipo e religione, si può affermare senza troppi rischi di sbagliarsi: mediante la loro vita e la loro morte, i fratelli e il cammino che hanno fatto hanno ricevuto la vocazione di essere una ‘parola’, ‘parola universale, un messaggio per un mondo in cerca di una pace interculturale e interreligiosa.
Il film esteriorizza dunque l’impegno missionario in Algeria e ovunque nel mondo. Il film è una parola per tutto il mondo nelle sue diversità di culture e di religioni in questo momento storico importante.

Il dialogo interreligioso a Tibhirine
   Il « Ribât es Salâm »
  Sì, c’è stato a Tibhirine un dialogo fra cristiani e musulmani, ma un dialogo di un genere diverso da quello che si svolgeva ad alto livello. Avveniva soprattutto negli incontri del Ribât es Salâm, « il legame della Pace », a cui partecipavano alcuni monaci. Era un gruppo islamo-cristiano i cui membri si incontravano due volte all’anno, ma le cui condivisioni non avvenivano a livello teologico. Veniva condiviso il vissuto dei sei mesi trascorsi su di un tema comune alle due tradizioni religiose, scelto nella riunione precedente.
Christian era il cofondatore di questo Ribât-es-Salâm. Il sequestro dei monaci avvenne proprio durante uno di questi incontri.
Nel 1989, in una comunicazione data nel corso delle Giornate di Roma, Christian spiegava così il senso di questo Ribât : 
«Sì, possiamo veramente aspettarci qualcosa di nuovo ogni volta che facciamo lo sforzo di decifrare i ‘segni’ di Dio negli ‘orizzonti’ dei mondi e dei cuori, mettendoci semplicemente in ascolto e anche alla scuola dell’altro, in questo caso, musulmano. È proprio questo l’obiettivo del nostro Ribât che, fin dagli inizi dieci anni fa (marzo 1979), si era riconosciuto nell’intuizione di Max Thurian, così vicina a quella dei nostri amici di Medea: «È importante che la Chiesa assicuri a fianco dell’Islam una presenza fraterna di uomini e di donne che condividono il più possibile la vita dei musulmani, nel silenzio, la preghiera e l’amicizia. Solo così, a poco a poco, si preparerà ciò che Dio vuole a proposito delle relazioni della Chiesa e dell’Islam».

Raymond Mengus e il dialogo interreligioso
  Il carisma dei fratelli di Tibhirine si è situato al livello della gente semplice. Lascio la parola al teologo di Strasburgo Raymond Mengus. Nel suo libro « Le signe sur la montagne », che descrive la continuazione della comunità dell’ Atlas di Algeria nella piccola comunità che vive oggi in Marocco, lo esprime in modo molto chiaro: 
«Il culmine delle relazioni fra le religioni si chiama ‘dialogo’. La causa sembra chiara; bisogna mirare ai più alti gradini del dialogo: è là che devono salire specialisti, responsabili e fedeli.
Ma in mancanza e in attesa di ciò, si potrà curare di più le relazioni che si generano attraverso dati elementari, che si chiamano: rapporti di vicinanza, attenzione alle persone, aiuto reciproco, conversazione ordinaria, contatti che avvengono per strada.
Sono realtà umili, alla portata di ogni uomo e donna di buona volontà. A volte potranno essere abbellite con il bel nome di ‘dialogo della vita’, considerato come un anticipo, nella speranza di meritare qualcosa di più nel futuro.
E se questo tipo di dialogo meritasse già ora pienamente il suo nome? Se fosse una vetta, invece di una preparazione? La vetta, cioè il luogo dove si vede in maniera più giusta, dove tutto si decide, nel modo migliore, della portata dei testi come della loro virtù esistenziale, della credibilità degli argomenti e della purezza delle intenzioni.
Perché, in fin dei conti, il confronto intellettuale delle nostre idee religiose potrebbe essere solo dogmatico, nel senso peggiorativo del termine, se si fermasse a se stesso e si compiacesse solo di se stesso. Mostrami piuttosto la tua umanità (e io ti mostrerò il mio Dio).
Evidentemente le tue rappresentazioni di Dio mi interessano, ma quello che importa ancora di più è ciò che esse producono e costruiscono in te.
Per andare ancora oltre: non saremo giudicati sulle nostre idee e meno ancora sulle nostre appartenenze. La prima e l’ultima parola dipendono da ben altro. Noi saremo giudicati sull’amore. E dall’amore ".

In un altro brano l’autore cita anche questa riflessione, tratta dalla corrispondenza di Louis Massignon (1883-1962): 
"Quello che sarebbe necessario fare, è andare da solo come ha fatto Foucauld, ma non nel deserto, ma in un villaggio dove si potrà pian piano, con le relazioni di aiuto reciproco quotidiano, agire sulle donne e sui bambini. È nella vita quotidiana e semplice che si può raggiungere in maniera profonda una società: non è nelle chiacchiere intellettuali degli uomini, dove tutti, una volta fuori, riprendono le loro posizioni di ripiego. Non credo, però, che nessun Ordine religioso tolleri che uno dei suoi membri si dia a questo tipo di azione, e dove trovare una vocazione per questo tipo di vita se non in Ordini religiosi? Ciò che serve in sostanza è dare l’esempio di una vita semplice, accettando il momento presente e le reazioni degli eventi inattesi in un certo spirito. Tutto il resto è letteratura per congressi di missiologia" .

Charles de Foucauld e fra Christian meditano il mistero della Visitazione di Maria a Elisabetta 
  Partendo dalla condivisione della vita, il Beato Charles de Foucauld, il fratello universale, ha riconosciuto nel mistero della Visitazione di Maria ad Elisabetta nel Vangelo di Luca (Lc 1,39-56) il simbolo della sua vocazione nel Maghreb. Ha dedicato a questo mistero tutte le sue fraternità, quando ancora non ne esisteva neppure una! In una meditazione su questo passaggio, lascia la parola a Gesù:
Appena incarnato, ho chiesto a mia M(adre) di portarmi nella casa dove nascerà Giovanni, per santificarla prima della nascita [...]
... A tutte coloro che mi possiedono e vivono nascoste, che mi possiedono ma non hanno ricevuto la missione di predicare, dico loro di santificare le anime, portandomi tra loro in silenzio; alle anime di silenzio, di vita nascosta, che vivono lontano dal mondo in solitudine, dico: “Tutte, tutte, lavorate per la santificazione del mondo, lavorate come mia Madre, senza parole, in silenzio; Andate a stabilire i vostri pii ritiri in mezzo a quelli che mi ignorano; portatemi in mezzo a loro stabilendo un altare, un tabernacolo, e portate loro il Vangelo, non con la predicazione della bocca, ma con la predicazione dell'esempio; santificate il mondo, portatemi al mondo, anime pie, anime nascoste, e silenziose, come Maria mi ha portato a Giovanni ... 
  Partendo da questa ispirazione, il Beato Charles de Foucauld, il fratello universale, ha già dedicato tutte le sue future fraternità alla Vergine Maria nel mistero della sua Visitazione... e non ne esisteva ancora nessuna! Fra parentesi, fra Christian ha cominciato a scrivere il suo testamento il 1° dicembre, anniversario della morte dell’eremita di Tamanrasset.
Non meraviglierà nessuno che la figura dell’eremita di Tamanrasset sia stata fonte di ispirazione per la comunità di Tibhirine. Questo era particolarmente vero per il priore. Prima di prendere la decisione di impegnarsi in modo definitivo nella comunità di Tibhirine, egli aveva fatto un viaggio di 1500 km a sud e, a 80 km da Tamanrasset, era salito sull’Assekrem, per fare durante più di un mese un cammino di discernimento, prima di prendere la decisione definitiva. Il fatto di iniziare a scrivere il suo testamento il 1° dicembre 1993, anniversario della morte di Charles de Foucauld, non è stato certo un caso. Anche per fra Christian "il mistero della Visitazione è una festa quasi patronale della comunità, fin dalle sue origini". E' tornato più volte su questo argomento.
Anche lui, in questa pagina del Vangelo, si identifica con Maria che porta Gesù nella casa di Elisabetta. Ma lo esprime con il suo accento personale. Per Charles de Foucauld, Maria "porta" Gesù da Elisabetta, mentre Christian si identifica con Maria, come colei che "riceve" da Elisabetta una parola inaspettata. Il priore di Tibhirine vuole essere aperto alla parola che “l’altro”, il musulmano, può dire a lui e alla Chiesa.
Christian immagina di essere nella situazione di Maria durante la sua visita a Elisabetta. Egli sa che Maria porta un mistero vivente, una buona notizia vivente, ma non sa come fare per annunciare questo mistero, che è anche il mistero di Dio. 
Noi siamo quindi invitati a essere costantemente in uno stato di Visitazione, come Maria con Elisabetta, per magnificare il Signore per quello che ha fatto "nell’altra"... e in me”. (Quando Christian usa "l'altra" in questi passaggi, si tratta del musulmano).   

Tra gli altri, ecco un testo [Ritiro alle Piccole Sorelle di Gesù, registrato nel novembre 1990] :
  “E noi siamo arrivati ​​un po' come Maria... Prima di tutto per rendere servizio..., perché è stata la sua prima ambizione, ma anche per portare questa buona notizia (ricevuta dall'angelo al momento dell'Annunciazione) ... E come comportarci per dirla?... E sappiamo che quelli che siamo venuti "ad incontrare" sono un po' come Elisabetta, sono portatori di un “messaggio”  che viene da Dio ... E la nostra Chiesa non ci dice, non sa qual è il legame esatto tra il Vangelo che portiamo e questo “ messaggio”che fa vivere l’altro. Insomma, la mia Chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e l’Islam. E io vado verso i musulmani senza sapere qual è il legame...
Questo è ciò che Christian vuol dire quando descrive la sua presenza come "una presenza di Visitazione", una presenza come quella di Maria durante la visita a sua cugina Elisabetta.

Fra Christian conversa con degli amici musulmani 
  Fra Christian ci ha lasciato dei begli esempi di questa “presenza di Visitazione”, che ha potuto vivere nei contatti con qualche amico musulmano.  
Da quando, un giorno, mi ha chiesto inaspettatamente di insegnargli a pregare, M. ha preso l'abitudine di venire a parlare con me. Abbiamo così una lunga storia di condivisione spirituale. Spesso è stato necessario tagliar corto con lui, quando gli ospiti diventavano troppo numerosi e assorbenti. Un giorno ha trovato la formula per richiamarmi all’ordine:È parecchio che non abbiamo scavato il nostro pozzo!”. La usiamo quando sentiamo il bisogno di scambiare in profondità. Una volta, a titolo di scherzo, gli ho chiesto: “E in fondo al nostro pozzo che cosa troveremo? Acqua musulmana o acqua cristiana?”. Mi ha guardato, un po’ sorridente e un po’mortificato: “Ti poni ancora questa domanda? Sai, in fondo a questo pozzo, ciò che si trova è l'acqua di Dio” .

L’ambiente di vita della comunità: presenza e comunione. 
  Nel 1995 l'Unione dei Superiori Maggiori d'Algeria (USMDA) invitava tutte le comunità a riflettere insieme sul tema e sulla domanda: "Come, nella situazione attuale, stiamo raggiungendo il carisma del nostro Ordine?  La prima espressione con cui i fratelli di Tibhirine cercano di dire e spiegare il loro carisma è "Presenza".
Garantire una presenza, non missionaria apostolica, ma contemplativa e orante in ambiente musulmano, grazie ad una comunità stabile, unita e fraterna, laboriosa (con gli associati).
Una presenza discreta, misteriosa, separata dal mondo e in comunione con le persone, umilmente attenta ai bisogni materiali e spirituali di chi ci circonda .

É interessante rileggere ciò che fra Christian aveva detto durante le giornate di Roma nel settembre del 1989, sei anni prima, in particolare quello che aveva detto nella sua introduzione, una specie di 'carta d'identità' della comunità. Già il titolo è molto significativo: i fratelli si consideravano "oranti in mezzo ad altri oranti". La preghiera era il livello più profondo della loro convivenza.
   «Le poche riflessioni che tenterò di balbettare qui hanno senso solo a partire da quel luogo in cui ci sforziamo, giorno dopo giorno, dal 1934, di vivere in società. Parlerò quindi come testimone, ma il testimone che parlerà è anzitutto una comunità, anche se, di fatto, mi è stato concesso dai miei fratelli, nell’ambito di funzioni diverse, di trovarmi in prima fila nell’incontro e nella condivisione. Nulla potrebbe spiegarsi al di fuori di una presenza comunitaria costante e della fedeltà di ciascuno all’umile realtà quotidiana, dalla porta al giardino, dalla cucina alla lectio e alla liturgia delle ore.
Il dialogo che è così venuto a costituirsi ha le sue modalità, caratterizzate essenzialmente dal fatto che noi non ne assumiamo mai l’iniziativa. Mi piace qualificarlo come esistenziale. È il frutto di un lungo “vivere insieme” e di preoccupazioni condivise, a volte molto concrete. Questo significa che raramente è di ordine strettamente teologico. Abbiamo piuttosto la tendenza a fuggire le diatribe di questo genere: le considero limitate.
Dialogo esistenziale quindi, cioè concernente il materiale e lo spirituale nello stesso tempo, il quotidiano e l’eterno, a dimostrazione di quanto sia vero che l’uomo o la donna che ci sollecitano possono essere accolti solo nella loro realtà concreta e misteriosa di figli di Dio “creati prima in Cristo” (Ef 2,10). Cesseremmo di essere cristiani – e anche semplicemente uomini – se dovessimo mutilare l’altro della dimensione nascosta per incontrarlo solamente “da uomo a uomo”, cioè in una umanità depurata da qualsiasi riferimento a Dio, da ogni relazione personale e perciò unica con il Totalmente-Altro, privata di qualsiasi sbocco su un aldilà sconosciuto .

  La parola chiave dei monaci di Tibhirine è proprio "presenza". Una presenza che era accoglienza, nella fede di essere accolti anch’essi dai propri vicini. Presenza che era anche attiva e prendeva delle iniziative: "oranti in mezzo ad altri oranti", che rendono disponibile un locale nel monastero per una moschea. Presenza in un'associazione in cui fra Christophe condivide con alcuni musulmani il lavoro e i prodotti dell’orto. Presenza nel dispensario, dove fra Luc a volte ha 150 consultazioni al giorno: i malati dei dintorni o di un po' più lontano, i feriti dell'esercito così come del GIA, il gruppo terrorista. Presenza di fra Paul, l'idraulico, che lascia immediatamente il suo lavoro quando un vicino chiede di dargli una mano. "Presenza" degli altri fratelli in moltissimi altri modi.
Abbiamo caratterizzato questo "vivere ‘l’incontro con l'altro’ nella vita di tutti i giorni "come" il cammino privilegiato del dialogo islamo-cristiano". Ecco, in una sola frase, il dialogo interreligioso a Tibhirine: "il dialogo della vita", inter-culturalità e inter-religiosità in pratica.
Per raggiungere il macrocosmo si prepara il terreno mediante tanti contatti a livello teologico e politico. Come comunità pilota, i fratelli di Tibhirine lo praticavano nel microcosmo della loro umile comunità, nascosta in Algeria. Dopo aver condiviso sei mesi di vita nella comunità dell'Atlante in Marocco, un giornalista belga annota: "Il dialogo della vita, ecco il nome più adatto per il dialogo interreligioso come è stato vissuto a Tibhirine ".