Il Paese terreno di scontro geopolitico
È quasi impossibile
tenere il conto dei massacri, ormai. Uno stillicidio di morti, stragi,
esecuzioni sommarie, accuse e controaccuse fra il governo di Bashar al-Assad e
le milizie dell’opposizione siriana, sempre più dominate dai gruppi jihadisti.
Uno scontro feroce e senza vincitori per il momento, ma con solo sconfitti,
primi fra tutti gli abitanti del Paese, ormai alla mercè di una violenza senza
freni.
Una guerra, quella siriana, che ha ormai perso la sua
caratteristica di guerra civile interna alla Siria per divenire una proxy
war, una guerra per procura che va al di là del confini siriani. Perché è
chiaro ormai come l’oggetto vero del contendere sul campo non sia più
l’abbattimento di una dittatura invasiva e sanguinosa, al potere da decenni, a
favore di un nuovo sistema politico più rappresentativo e democratico; la posta
in gioco è piuttosto il tentativo di isolare ulteriormente la repubblica
islamica dell’Iran e di frammentare l’arco sciita mediorientale. La
polarizzazione delle differenze fra sunniti e sciiti degli ultimi decenni e la
rivalità crescente fra Arabia Saudita (araba e sunnita) e l’Iran (persiano e
sciita) non si ferma al Golfo Persico. Si combatte in tutta la regione:
dall’Afghanistan e Pakistan in Oriente, a Libano, Siria e Iraq in
Occidente.
Di fatto, la Siria oggi sostituisce l’Iraq quale terreno di
scontro e di contrapposizione geopolitica. Lo dimostrano il sostegno di Teheran
e delle monarchie petrolifere ai due opposti schieramenti, la presenza crescente
di Hezbollah come "puntello militare" degli al-Assad e la crescita delle milizie
jihadiste e filo-qaediste fra gli insorti.
Molti dei combattenti (e dei
terroristi) che hanno insanguinato l’Iraq, facendo strage per anni di civili
sciiti, militari americani e soldati iracheni combattono ora contro il regime
alawita di Damasco, assieme a veterani dell’Afghanistan e della Libia. Si
moltiplicano le denunce, di ragazzi strappati a forza dai villaggi per finire a
combattere con le forze "della resistenza". Pochi giorni fa la stessa Turchia,
fra le potenze più attive nel sostenere le forze anti-governative, ha dovuto
muovere le proprie forze di sicurezza per liberare decine di ragazzi arruolati a
forza dalle milizie jihadiste.
In questo scenario, la capacità di
intervento della comunità internazionale sembra estremamente limitata. Da un
lato, la Russia ha troppo da perdere dalla caduta del regime baathista per
abbandonare al-Assad; dall’altro lato, gli Stati Uniti sembrano esitare nel
rafforzare il proprio sostegno all’opposizione siriana.
A Washington si
teme che la fine di un regime detestato spinga al potere gruppi estremamente
violenti e radicali. Di fatto, stiamo pagando la fretta con cui, all’inizio
delle violenze, l’Occidente ha voluto riconoscere le forze dell’opposizione
siriana quali interlocutori e, anzi, legittimi rappresentanti del popolo
siriano. Senza prima fare chiarezza e imporre l’accettazione di una piattaforma
condivisa e condivisibile.
Quali garanzie offrono oggi le milizie
dell’opposizione, ove emergono con forza i guerriglieri di Jabhat al-Nusra (il
Fronte al Nusra), la cui ideologia jihadista e filo qaedista non può non
inquietare? La Siria che essi immaginano è un emirato dominato da un islam
intollerante, che deve spazzar via gli alawiti – considerati alla stregua di
apostati – e la comunità cristiana. Come sempre accade – e l’Iraq ne è un triste
esempio – sono proprio le comunità cristiane, le meno settarie e prive di
milizie proprie, a finire travolte da questo regolamento di conti geopolitico
fra sunniti e sciiti, come viene tragicamente confermato dal rapimento di due
vescovi ortodossi perpetrato ieri.
Ma è tutta la Siria che rischia di
passare da un estremismo cattivo a uno peggiore. Dopo due anni di scontri
dovrebbe essere chiaro che la via per la fine delle violenze non passa dalla
"spallata militare" contro al-Assad. Quanto piuttosto dalla ripresa di un’azione
politica, senza precondizione, che punti a coinvolgere tutte le parti in gioco e
tutte le comunità siriane nell’elaborazione di una piattaforma di pochi punti
condivisi e di regole da accettare.
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