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mercoledì 7 febbraio 2024

Non cali il silenzio

 

Un anno fa il terribile terremoto che rase al suolo il sud della Turchia e il nord-ovest della Siria, con un bilancio di quasi 60.000 vittime.


L'Osservatore Romano, 6 febbraio 2024

«È importante che non cali il silenzio sulla tragedia». È l’appello del vescovo Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente di Caritas Turchia, a un anno esatto dal terremoto che il 6 febbraio 2023 rase praticamente al suolo il sud della Turchia e il nord-ovest della Siria. Attraverso Caritas internationalis, in una nota, monsignor Bizzeti parla delle «conseguenze» che ancora oggi la popolazione vive: «Purtroppo non siamo fuori dall’emergenza: il numero degli sfollati è alto e la ricostruzione richiederà del tempo e l’aiuto di tutti», dice.

Nello spazio di sessantacinque secondi, 53.537 vite — secondo gli ultimi dati pubblicati dalle autorità di Ankara — vennero inghiottite dai cumuli di cemento degli edifici crollati su sé stessi, accartocciati, polverizzati. Ad esse vanno aggiunti i 6.000 morti registrati nella vicina Siria, Paese già insanguinato da oltre un decennio di guerra, dove una stima precisa dei danni è difficile da concretizzare ancora oggi. Un’unica certezza: quasi 60.000 vittime totali.

La «peggiore catastrofe della storia moderna», titolarono allora i giornali turchi. Undici province della Turchia vennero colpite. Più di 100.000 edifici crollati, 2,3 milioni danneggiati, 700.000 persone vivono tutt’oggi nei container, gente di Antakya, Gaziantep, Kahramanmaraş, solo per citare alcune delle città maggiormente danneggiate.

Secondo Save the Children, in Turchia un bambino su tre di quelli che hanno perso la casa per la violenza delle scosse — dopo la prima di magnitudo 7.8 del 6 febbraio, ne seguirono centinaia di altre — vive ancora in rifugi temporanei. Con essi, le loro famiglie. Per tutti i terremotati, la risposta all’emergenza della rete Caritas si è inizialmente concentrata sulla distribuzione di aiuti alimentari e kit igienici e sulla fornitura di alloggi. Si è poi estesa — spiega il comunicato di Caritas internationalis — al miglioramento delle condizioni di vita degli sfollati e ad attrezzature per gli alloggi temporanei, come ventilatori, frigoriferi, stufe. Stessa sollecitudine anche in Siria.

Lì, in base a dati dell’Onu, circa 265.000 persone sono state private delle loro case dal terremoto: 43.000 vivono ancora in rifugi. Centinaia i bambini rimasti orfani. Tra loro anche la piccola Aya, nata proprio il 6 febbraio e trovata viva tra i resti di un palazzo a nord-ovest di Aleppo, ancora attaccata al cordone ombelicale della mamma, morta per il crollo. Lo zio Khalil al-Sawadi, che ne è il tutore e la chiama Aafraa in memoria della madre scomparsa, in questi giorni ha mostrato alla stampa internazionale la foto che lo ritrae mentre, un anno fa, portava in salvo la piccola. Oggi Aya-Aafraa compie un anno. Di vita e, nonostante tutto, di speranza. (giada aquilino)

Siria, un anno dopo il terremoto: ad Aleppo la gente ha ancora paura

La testimonianza del religioso marista Georges Sabé, che lancia un appello alla comunità internazionale: siamo un popolo ridotto alla miseria, ci aiuti a ritrovare la dignità

VATICAN NEWS , 6 febbraio 2024

Era la notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023 quando un violento terremoto di magnitudo 7,5 devastava la Turchia sudorientale e la Siria nordoccidentale. Numerose le scosse nei giorni successivi, che hanno causato, in totale, quasi 60 mila morti. Si è trattato del peggior disastro naturale per la regione dal sisma del 1999 a Izmit. In Siria, Paese già provato da tredici anni di guerra, dove hanno perso la vita 6 mila persone, a un anno di distanza il timore per l’arrivo di nuove devastanti scosse non abbandona gli abitanti delle regioni colpite, ora alle prese con una crisi economica senza precedenti che ha generato tanta povertà. A tutto ciò si aggiunge lo stop, dall’1 gennaio, dell’invio degli aiuti alimentari del Programma alimentare delle Nazioni Unite, che ha sfamato quasi 5,6 milioni di siriani.

Ai media vaticani il religioso marista Georges Sabé, che vive ad Aleppo, una delle città del nordovest della Siria più colpite dal terremoto, racconta il suo sforzo quotidiano per ridare speranza alla gente e nell'intervista rilasciata chiede alle organizzazioni internazionali di non “abbandonare una popolazione sofferente”.

Che aspetto ha Aleppo oggi?

Ogni giorno vedo edifici in parte distrutti, in totale insicurezza, eppure, se un piano non è in rovina, spesso è abitato. In linea di principio, la gente non dovrebbe risiedere lì. Ma c'è chi, a causa della povertà, della miseria, perché quella era la propria casa, decide di viverci. Ci sono state persone che si sono spostate, tra le 500 e le 600 famiglie hanno dovuto cambiare luogo di residenza. La città non è ancora stata ricostruita, né la parte più colpita dalla guerra, né quella distrutta dal terremoto.

Al di là dei danni materiali, a un anno dal terremoto si notano conseguenze psicologiche tra i residenti ?

La parte peggiore di tutto questo è la paura. La paura si è insinuata in tante persone, sia tra i bambini, sia tra gli adulti, tra i giovani, tra i meno giovani... C'è gente che ha dormito per un po' vestita perché aveva paura. Ci sono bambini che fino a ora hanno avuto grandi difficoltà a separarsi dai genitori, sia di notte, ma per alcuni anche di giorno. C’è molto da fare: dobbiamo ricostruire gli edifici ma anche il sentimento di sicurezza di molte persone. Non dobbiamo dimenticare inoltre che questo trauma si fonde con l’esperienza della guerra, con tutte le sue conseguenze.

E tra le conseguenze della guerra c’è pure la crisi economica che ha colpito la Siria. Che ricadute ha nella sua vita quotidiana?

Ultimamente abbiamo, in parte, dimenticato il sisma, perché stiamo vivendo un terribile terremoto economico. Siamo ancora soggetti a sanzioni (internazionali, ndr). Queste sanzioni, anche se si sostiene che non colpiscono la popolazione, si riflettono nella nostra vita quotidiana. Ad esempio, siamo in pieno inverno e abbiamo solo due ore di elettricità al giorno. Ciò significa che siamo costantemente alla ricerca di modi per riscaldarci.

Al momento del terremoto avete ricevuto aiuto da alcune Ong e organizzazioni internazionali, in particolare dalle Nazioni Unite. Oggi com'è la situazione?

L'aiuto che è arrivato è stato molto limitato e da allora si è interrotto. La Siria, prima del 6 febbraio 2023, era già stata dimenticata dalle Ong, ma gli aiuti continuavano comunque. Dall’1 gennaio 2024, l’Agenzia per gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite, il Programma alimentare mondiale, ha sospeso tutti gli aiuti. Il motivo è che ci sono altri luoghi di intervento. Personalmente, credo che, sotto questo profilo, non abbiamo il diritto di abbandonare una popolazione che soffre. Che diritto abbiamo oggi di accettare che una popolazione viva nella povertà e nella miseria? Faccio un appello: occorre vivere con dignità. Non siamo mendicanti, ma abbiamo sofferto tante difficoltà, tanti problemi, tante disgrazie e l’umanità deve aiutarci a rimetterci in piedi, non ridurci all’accattonaggio.

Lei parlava di ricostruzione di un senso di sicurezza per gli abitanti di Aleppo. Come si può ritrovare la speranza in questa situazione?

Dobbiamo credere che la speranza è possibile. Nonostante un orizzonte chiuso, dobbiamo credere personalmente, comunitariamente, a livello di Chiesa, che la speranza è possibile e che il Signore non ci abbandona. Da questa speranza dobbiamo andare incontro agli altri, per servirli il più possibile e per fornire loro, sempre per quanto possibile, l'aiuto di cui hanno bisogno. La nostra fede ci aiuta ad andare avanti. Il Signore ha promesso di non dimenticarci, nemmeno in mezzo alla tempesta, come i discepoli sorpresi da una tempesta in mare aperto. Il Signore sembra dormire, ma è lì per calmare i nostri cuori e calmare le nostre menti. Questo è il principio su cui, attualmente, come maristi e maristi blu, stiamo lavorando per continuare a seminare speranza nel concreto, nel reale: con cesti alimentari, con sostegno psicologico, con l'educazione, con lo sviluppo umano, con gli aiuti per agli affitti.

lunedì 15 gennaio 2024

Card. Pizzaballa: reciprocità e riconciliazione per la Terra Santa

"È nelle scuole e nelle università che si deve cominciare a rieducare la gente alla pace e alla non-violenza, cioè a credere, a conoscersi e a stimarsi, e anzitutto a incontrarsi, cosa che purtroppo non avviene né nelle scuole arabe né in quelle ebraiche, se non in rari casi". Così è intervenuto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, invitato oggi, 15 gennaio, come ospite d'onore all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica, presso il Policlinico Gemelli di Roma. 

Vatican News, 15 gennaio 2024

La Chiesa non perda la sua dimensione profetica

Il cardinale Pizzaballa parla dell'impatto che la sanguinosa guerra in corso sta avendo sulla popolazione. "Come uscire dal fango di questa guerra, da questo orribile pantano in cui più si entra e più pare impossibile uscire?". È la domanda cruciale che si pone e pone ai presenti il porporato, con il tono di grande parresia che contraddistingue sempre il suo parlare. Precisa che “pace” sembra essere oggi una parola "lontana, utopica e vuota di contenuto, se non oggetto di strumentalizzazione senza fine". Così, è necessaria una parola chiara di speranza che si deve attingere dalle Scritture e da una dimensione profetica della Chiesa. "Se la Chiesa perde tale dimensione - rimarca - parla semplicemente di ciò che la gente vuol sentire". Afferma che è questo un rischio ricorrente, soprattutto in Medio Oriente: il rischio di seguire la corrente, anziché orientarla. 

Tempi lunghi per guarire dalla lacerazione della guerra 

Il Patriarca di Gerusalemme lamenta poi che "i tempi di una guarigione saranno necessariamente lunghi e avranno bisogno di percorsi complessi", esortando a crederci davvero nella pace. "Si dovrà prendere atto - sottolinea - che le parole giustizia, verità, riconciliazione e perdono non potranno essere (come forse è stato fino ad oggi) solo auspici, ma dovranno trovare contesti realmente vissuti, con una interpretazione condivisa, e tornare ad essere espressioni credibili e desiderate, senza le quali sarà difficile pensare ad un futuro diverso". La questione problematica è che "ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce. Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. Una situazione in tutti i sensi lacerante". 

Una pace credibile chiede una purificazione della memoria

Pizzaballa ribadisce la responsabilità di ciascuno, in questo contesto di grande disorientamento, nel dare coraggio per costruire prospettive di vita. "Laddove tutto sembra rinchiudersi in odio e dolore, è chiamato ad aprire orizzonti". Essere profeti, in ogni ambito, non vuol dire essere visionari, ma credenti, cioè "avere la fede che si deve fare il possibile per investire nello sviluppo, per sostenere un pensiero positivo e illuminato, per evitare manipolazioni religiose e anzi promuovere un discorso su Dio che apra alla vita e all’incontro". Reciprocità e riconciliazione. Sono queste le direttrici su cui perseverare per la Terra Santa, tenuto conto - dice Pizzaballa - che le ferite non possono essere semplicemente cancellate o ignorate con una pace che sia semplicemente “assenza di guerra”. Con una nota di carattere psicologica, ricorda che le ferite, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli, creando vittimismo e di rabbia. 

Un linguaggio privo di umanità ferisce più delle bombe

Si sofferma ampiamente, il cardinale, sulla necessità di un linguaggio che aiuti nella costruzione della pace, ripetendo che non di banale accessorio si tratta. Richiamando ancora la necessità di parresia e chiarezza nel parlare, precisa inoltre che "bisogna, non solo dire quello che si pensa, ma anche pensare a quello che si dice, di avere la coscienza che, soprattutto in queste circostanze così sensibili, le parole hanno un peso determinante". Quanti hanno una responsabilità pubblica hanno il dovere di orientare le loro rispettive comunità con un linguaggio appropriato, che limiti "la deriva di odio e sfiducia che spesso nei media dilagano con facilità", osserva Pizzaballa. Insiste sulla necessità di "preservare il senso di umanità", soprattutto nell'uso dei social. Attribuisce a un linguaggio "violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione", una forte responsabilità e uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre. Fa anche esempi: definire l’altro come 'animale', è anch’essa una forma di violenza che apre o forse addirittura può giustificare scelte di violenza in molti altri contesti e forme. "Sono espressioni che forse feriscono più ancora degli eccidi e delle bombe". Facendo riferimento a come si raccontano le due parti nel conflitto israelo-palestinese, il porporato si addentra nella questione relativa a quelle che sono state e continuano ad essere "narrative indipendenti l’una dall’altra, che non si sono mai incontrate realmente. E ora - spiega - questo è diventato esplosivamente evidente in questi ultimi mesi. È necessario quindi il coraggio di un linguaggio non esclusivo", soprattutto nei luoghi di formazione culturale, professionale e spirituale. 

Il conflitto spirituale

Sua Beatitudine approfondisce le modalità attraverso cui guerra in Medio Oriente intacca inevitabilmente la vita spirituale degli abitanti della Terra Santa. E si chiede qual è stato il ruolo delle fedi e delle religioni. Il cardinale Pizzaballa constata che "con poche eccezioni, non si sono sentite in questi mesi da parte della leadership religiosa discorsi, riflessioni, preghiere diverse da qualsiasi altro leader politico o sociale". Condivide l’impressione che ciascuno si esprima esclusivamente all’interno della prospettiva della propria comunità. Ebrei con ebrei, musulmani con musulmani, cristiani con cristiani, e così via. E racconta che "in questi mesi è stato ed è ancora pressoché impossibile, ad esempio avere incontri di carattere interreligioso, almeno a livello pubblico". Lamenta che "rapporti di carattere interreligioso che sembravano consolidati sembrano oggi spazzati via da un pericoloso sentimento si sfiducia. Ciascuno si sente tradito dall’altro, non compreso, non difeso, non sostenuto". Esorta a questo proposito che la fede non può adagiarsi: da un lato deve essere di conforto, dall'altra "elemento di disturbo". 

La guerra è uno spartiacque nel dialogo interreligioso

Il rapporto tra cristiani, musulmani ed ebrei non potrà essere mai più come è stato finora. Ne è convinto Pizzaballa che osserva come il mondo ebraico non si sia sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. "I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… insomma - conclude - dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione". Da qui il dialogo dovrà ripensarsi, spiega: non più solo tra appartenenti alla cultura occidentale, come è stato fino ad oggi, ma "dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire. E si dovrà farlo, non per bisogno o necessità, ma per amore".

La Chiesa evidenzi le ingiustizie, senza strumentalizzazioni

La presenza del cardinale Pizzaballa all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica serve oggi a ribadire l'urgenza di educare alla speranza e alla pace, proprio perché la scuola e le università hanno un ruolo chiave in questo. "In un ambiente segnato da lacerazioni e contrasti, possiamo diventare, come Chiesa, luogo ed esperienza della pace possibile", afferma infine il porporato. "Se abbiamo poca possibilità di sedere ai tavoli internazionali - sostiene - abbiamo però il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero". Le sue parole richiamano un ecumenismo che non sia "di facciata o di comodo", ma "vissuto, fatto d’incontri, di collaborazione, di reciproco sostegno e di sofferenza condivisa". Su un aspetto non trascurabile si sofferma ancora nel suo intervento: la Chiesa non può ridursi ad “agente politico” o a partito o fazione, non si può esporre insomma a facili strumentalizzazioni. Contestualmente non può tacere, scandisce Pizzaballa, "di fronte alle ingiustizie o rinchiudersi nell’angelismo o nel disimpegno". Il cardinale si congeda esprimendo tutto il disagio vissuto sulle proprie spalle proprio perché 'conteso' da una parte o dall'altra. Raccomanda, allora, che "prendere posizione non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e non in condanne contro qualcuno".

mercoledì 3 gennaio 2024

Mons Jacques Mourad: il mondo sta lasciando morire il popolo siriano

 L’arcivescovo di Homs lancia un drammatico appello dopo l’interruzione, a partire dal primo gennaio, del piano di aiuti del Programma alimentare mondiale: "Le famiglie siriane mangiano una volta al giorno, hanno dimenticato cosa sia il riscaldamento, cosa sia l’acqua calda, cosa sia una società. E si vive nell’oscurità, senza luce”

Vatican News , 2 gennaio 2024

Sei mesi fa lo avevano dimezzato, dal primo gennaio è del tutto soppresso. Il piano di aiuti del Programma alimentare mondiale - l’agenzia Onu incaricata dell’assistenza alimentare nel mondo – alla Siria è stato interrotto. Più di cinque milioni di persone dipendevano dalla consegna di alimenti e di generi di prima necessità, in un Paese prossimo al 13.mo anno di guerra (marzo 2024) e ulteriormente fiaccato, nel febbraio 2023, da un drammatico terremoto nelle zone al confine con la Turchia. All’origine della decisione, spiega il Pam, vi sarebbe l’assenza di fondi, messi a rischio dall’epidemia di Covid, dalla guerra in Ucraina e ora anche da quella a Gaza, che avrebbero azzerato il budget a disposizione. E ora la stima di chi versa in gravi condizioni di insicurezza alimentare supera i 12milioni di persone.

Decisione terribile e ingiusta

“Il popolo siriano è condannato a morire senza poter dire nulla”, è la drammatica constatazione di monsignor Jacques Mourad, da un anno arcivescovo di Homs, terza città, per estensione, della Siria. “E’ una decisione terribile e ingiusta”, continua l’arcivescovo, che si chiede perché mai si sia arrivati a questo. “Per noi è come se il mondo dicesse al popolo siriano ‘sei condannato a morire, senza alzare la voce, senza dire nulla’. E per che cosa? Che colpa ha il popolo siriano?”. 

La Chiesa non può coprire tutti i bisogni

Le sue parole sono accorate, pensando alla sofferenza che in tutti questi anni il popolo ha subito e che ancora subirà, generata da una guerra che non sembra dover finire e che continua a infrangere qualsiasi speranza. “Questa decisione - prosegue il presule - è stata presa per gettare il popolo siriano nella disperazione completa, per spegnere ogni luce che poteva restare accesa grazie alla nostra fede e grazie alla speranza. Ma in questa situazione noi veramente siamo finiti”. Organizzazioni non governative e Chiesa cattolica, in questi anni, hanno davvero operato miracoli in Siria, supportando la popolazione in ogni modo. Oggi, di fronte all’interruzione degli aiuti umanitari, che ormai servivano quasi i 2/3 della popolazione, ci si chiede se ci sia ancora una speranza che possa impedire alle persone di morire di fame. “La Chiesa, così come le organizzazioni non governative, non possono coprire tutto il bisogno del popolo siriano - continua mons. Mourad - la loro capacità di finanziamento è limitata. Inoltre, far arrivare il denaro in Siria è impossibile a causa delle sanzioni imposte da Stati Uniti e Onu, e quindi come facciamo? Come può il popolo siriano vivere? Già tante famiglie siriane mangiano una volta al giorno, solo una volta al giorno. Abbiamo dimenticato che cosa significhi scaldare, perché non possiamo comprare il diesel o la legna, abbiamo dimenticato cosa sia l'acqua calda, abbiamo dimenticato cosa sia una società. E viviamo nell'oscurità totale, le città in Siria sono senza luce, certamente i quartieri ricchi che contano solo il 5% della popolazione non sono rappresentativi della situazione del popolo siriano”. 

I siriani così sono condannati a morte

Per monsignor Mourad l’unica soluzione è rappresentata, oltre che dalla Chiesa cattolica, dall’Unione europea, la sua speranza è che l’Ue prenda una posizione chiara, dettata da “una sensibilità umana e sincera”. L’appello dell’arcivescovo di Homs è straziante. “Perché si vuole far morire questo popolo?” è la domanda atroce che viene posta al mondo: “Non è possibile che tutto il mondo abbandoni il popolo siriano, che cosa abbiamo fatto di male per essere condannati a morire?”.

martedì 19 dicembre 2023

Natale in Siria, dove i Maristi portano la gioia ai bambini che conoscono solo la guerra

 


Vatican News. 19 dicembre 2023

Dal 2011 e dall’inizio della guerra in Siria sono nati più di 6 milioni di bambini, che hanno conosciuto solo violenza e guerra. Ancora oggi, un numero tra i due e i tre milioni di loro non va a scuola. Più di otto milioni di bambini necessitano di assistenza umanitaria. Secondo l’Unicef, i minori in Siria sono tra quelli più vulnerabili al mondo. Alla guerra, che ha ucciso circa 500 mila persone, si è aggiunto il mortale terremoto del 6 febbraio 2023 ad Aleppo. È in questo contesto che le famiglie cristiane siriane, stremate, si preparano a celebrare il Natale. Il 22 dicembre i Fratelli Maristi faranno una distribuzione speciale a 1.100 famiglie: una gallina, un chilo di arance, un chilo di mele e 30 uova. Potrebbe sembrare un dono banale, ma per le famiglie che riceveranno questa offerta è la garanzia di un pasto completo nel periodo natalizio. Ad Aleppo, il fratello marista Georges Sabé festeggerà il 25 dicembre con gli scout e i loro genitori e si impegnerà a portare un po’ di gioia ai bambini, in mezzo alle tante difficoltà della vita quotidiana.

Fratello Georges, ci avviciniamo al Natale e in questa occasione abbiamo voluto puntare i nostri riflettori sulla Siria e più in particolare sui bambini. Dopo dodici anni di conflitto sono almeno 6 milioni i bambini, secondo l’Unicef, nati dopo il 2011 e che hanno conosciuto solo la guerra...

Purtroppo i bambini di cui parliamo oggi sono tutti figli della guerra. Sia che abbiano vissuto la guerra direttamente, sia che ne abbiano vissuto le conseguenze attraverso la violenza, le paure, tutto ciò che riguarda la vita quotidiana, l’insegnamento, l’essere costretti a spostarsi e tutto ciò che riguarda la visione del futuro. Se parlo di bambini, devo parlare di bambini che, oltre alla guerra, soffrono ancora le conseguenze delle sanzioni economiche e che, quasi un anno fa, hanno subito anche il terremoto. C’è una paura radicata nel cuore dei nostri figli, rinnovata dal sisma e che ha suscitato una sensazione di instabilità, come se già i diversi spostamenti non bastassero. Il terremoto ha detto concretamente a ogni bambino che è ancora minacciato. C’è la minaccia della guerra, ma c’è anche la minaccia dei rischi naturali.

Che trauma lascia tutto questo ai bambini?

Devo prima parlare della violenza. Purtroppo serve un’educazione molto forte con cui far capire ai bambini due cose importanti: il rispetto per l’altro, per chi è diverso da me e portare loro un segno di speranza. Quando parlo di rispetto, intendo che dobbiamo insegnare ai nostri figli a risolvere i conflitti in modo non violento. È molto facile per loro avere in mano giocattoli che sembrano armi. Pensano di risolvere un conflitto con un altro bambino picchiandolo, anche usando questo giocattolo e fingendo di ucciderlo. Giocano a combattere e a morire. Questa è la guerra... È un trauma che risiede nel profondo di ogni bambino. L’altro tema importante è la questione della stabilità e dello sradicamento. I nostri figli sono stati spesso sfollati. Molti di loro sanno anche che il loro futuro potrebbe non essere in Siria, che i loro fratelli, i membri di altre famiglie o compagni, hanno lasciato il Paese e sono andati altrove. C’è questa sensazione di un orizzonte chiuso, dove non esiste la speranza, un orizzonte in cui il bambino non sa cosa diventerà. Questo è molto grave e destabilizzante per lo sviluppo della personalità del bambino. E ha un impatto anche sui suoi studi e sulla sua visione del futuro.

Quali strutture sono ancora in piedi, dopo la guerra, dopo il terremoto, in grado oggi di insegnare tutti questi valori? Ne ha citati alcuni ma ci sono anche i valori della pace e della riconciliazione. Dove si può insegnare questo oggi in Siria?

È una situazione terribile perché molte scuole sono state distrutte durante la guerra e poi a causa del terremoto, che ha rappresentato un'altra minaccia per questi bambini. Al di là della struttura in pietra, è necessario creare spazi sicuri per i bambini, spazi che diano loro un po' di gioia, uno spazio dove possano giocare, stare comodi e sicuri. Questo è l’obiettivo che le diverse congregazioni religiose cercano di offrire ai bambini cristiani e ai bambini musulmani. Dobbiamo lavorare sull'educazione, sull'educazione alla pace, per evitare che in futuro si arrivi nuovamente a una guerra che distrugge l'uomo come distrugge la pietra.

Ci avviciniamo alla Natività. Ha parlato di spazi da creare o di spazi dove i bambini possano sentirsi protetti e al sicuro. Come pensa di festeggiare il Natale con i bambini ad Aleppo?

Vi faccio un esempio molto concreto: con i nostri piccoli scout celebreremo la notte e la vigilia di Natale con genitori e figli in un momento di gioia, di festa, di famiglia. Pregheremo insieme, saremo in comunione insieme e, d'altra parte, celebreremo con gioia. Conto sulla preghiera che ci aiuta e ci dà la forza in questo tempo di Avvento e di Natale per mantenere questa speranza nonostante tutto e per portare un po' di gioia nella vita di ogni bambino.

Ci avete descritto una situazione che resta estremamente delicata, complicata, difficile. Come trova, in questo contesto, le parole giuste per portare un po' di gioia ai bambini? Cosa dice loro?

Devo ammettere che a volte non ho le parole... Ma devo anche riconoscere che a volte, dalla mia preghiera, posso dire una parola di speranza ascoltandoli, invitandoli ad uscire incontro all'altro, per capire che ci sono altre miserie, terribili e molto più dure ad esempio per gli anziani, ma anche per le famiglie e per gli altri bambini. Li invito ad andare incontro ai più poveri, a coloro che hanno fame, a coloro che sono soli. Dico anche loro di smetterla di lamentarsi sempre di essere figlio della guerra e di suggerire loro di essere un bambino che incontra i più abbandonati, i più dimenticati, e di vivere un momento di festa.



martedì 21 novembre 2023

Giornata Pro Orantibus, le trappiste in Siria: la vita è più forte di qualunque morte


 Vatican News, 21 novembre 2023

Hanno scelto di vivere ad Azeir, un piccolo villaggio rurale di circa 400 abitanti a due passi da Talkalakh, in Siria, per testimoniare che è possibile coltivare la speranza lì dove la guerra ha seminato morte e distruzione. Cinque monache trappiste hanno deciso di proseguire qui la missione che i loro “fratelli” cistercensi hanno iniziato in Algeria, a Tibhirine. Una presenza evangelica in terra musulmana pagata con il sangue, quella dei sette religiosi uccisi nel 1996. Ma un’eredità, la pacifica convivenza sperimentata con i fedeli dell’islam, che l’ordine contemplativo dei Cistercensi della Stretta Osservanza (OCSO) ha voluto far fruttificare. Per questo nel 2005, alcune claustrali del monastero di Nostra Signora di Valserena, in Toscana, hanno dato vita a una nuova comunità monastica nel Medio Oriente.

Quella delle trappiste italiane, che attualmente vivono nella foresteria del loro monastero ancora in costruzione, è una testimonianza preziosa che giunge nella Giornata Pro Orantibus, istituita da Pio XII nel 1953 e celebrata nella festa liturgica della Presentazione di Maria Vergine al Tempio. Una ricorrenza che invita a pregare per tutti i contemplativi e ai quali è dedicata la Messa che il cardinale João Braz de Aviz, prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, presiederà il 3 dicembre, a Roma, alle 11, nella Basilica dei Santi Quattro Coronati.

Suor Marta Luisa Fagnani, superiora del monastero Nostra Signora Fonte della Pace, racconta a Vatican News – Radio Vaticana del lavoro svolto nella piccola comunità siriana di Azeir, dove la gente – sia musulmana che cristiana – bussa per ricevere aiuti o semplicemente trovare “un posto sereno”. Lì, a due passi dal confine con il Libano, quello delle trappiste è un esempio di dialogo, di mutuo aiuto e di accoglienza.

Ascolta l'intervista a suor Marta Luisa Fagnani

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2023/11/20/18/137477908_F137477908.mp3

Suor Marta, come siete arrivate in Siria?

Il nostro arrivo in Siria ha origine dall’esperienza dei nostri fratelli in Algeria, i monaci di Tibhirine. Dopo la loro morte il nostro ordine si è interrogato su cosa raccogliere della loro testimonianza, fondamentalmente un’esperienza di vita monastica dentro un contesto di minoranza cristiana. Da lì è nata una riflessione in tutto l’ordine cistercense e anche il desiderio di monaci e monache di raccogliere questa eredità dentro un cammino, che è stato molto lungo. Poco a poco, la nostra comunità in Italia di Valserena ha capito che c’era una chiamata e abbiamo formato un primo gruppo. Abbiamo avuto dei contatti per la Siria, siamo venute a visitare il Paese e abbiamo trovato una grande accoglienza e apertura; alla fine, siamo arrivate a decidere di provare a iniziare una fondazione monastica. Così siamo partite nel 2005.

Qual è stato il primo impatto con il territorio?

Come dicevo, abbiamo trovato una grandissima accoglienza. La Siria, prima della guerra, era un Paese in crescita, molto aperto, dove da secoli convivono tradizioni religiose ed etnie diverse. Quindi un Paese ricco di storia, di cultura, molto accogliente ed ospitale. Questo ha incoraggiato l’idea di cominciare un’esperienza.

E adesso, a che punto è il monastero?

Abbiamo iniziato le prime costruzioni nel 2008, dopo aver vissuto cinque anni mezzo ad Aleppo, poi ci siamo trasferite ad Azer, in campagna, con l’idea di cominciare a edificare il monastero. Ma nel 2011 è scoppiata la guerra. Quindi stiamo ancora vivendo nella foresteria. In questi anni, con le pietre del terreno, abbiamo costruito una decina di piccole abitazioni con gli operai del posto per ospitare persone, ma il monastero vero e proprio abbiamo cominciato a costruirlo da un anno e mezzo.


Che tipo di relazioni sono nate con la gente del posto?

Direi molto buone. Abbiamo avuto prima l’esperienza della vita in città, vivendo in un appartamento vicino a delle scuole che ci hanno aiutato ad inserirci. Abbiamo, quindi, imparato a conoscere le comunità cristiane presenti, la vita della gente. Da subito ci siamo sentite a casa e abbiamo anche ritrovato la nostra storia e le nostre radici, perché la Siria è il luogo dove la vita monastica è nata. Ci siamo trasferite poi in campagna e anche qui le relazioni con la gente sono molto buone, sia con cristiani che con musulmani. Il fatto di essere potute rimanere nonostante la guerra sicuramente ha cementato ancora di più il rapporto con le persone, vivendo quello che loro stessi vivevano. In questi ultimi anni la situazione si è un po’ normalizzata e le persone cominciano a venire numerose per dei ritiri da noi. Abbiamo contatti con diversi gruppi cristiani da Aleppo, Damasco, Homs, e anche i nostri vicini musulmani vengono, perché il posto è bello. Cerchiamo di curare la natura, l’ambiente, qui c’è un clima di serenità.

E in particolare con i musulmani, come sono i vostri rapporti?

C’è molta naturalezza, molto rispetto. Siamo in un piccolo villaggio cristiano e intorno ci sono villaggi musulmani; anche durante la guerra, abbiamo cercato di dare lavoro ad operai cristiani e musulmani, sia sunniti che alawiti. Ci sono anche diversi musulmani che vengono da noi per un incontro personale, ma anche semplicemente per amicizia. È un ambiente misto e la vita quotidiana, i contatti per la spesa, le visite mediche, avvengono in un contesto in cui si vive insieme. Direi quindi che è un rapporto quotidiano basato non su grandi discorsi, ma su un rispetto reciproco. Certo, la guerra ha rotto un po’ questo equilibrio, perché certe situazioni sono state molto pesanti, ma di fondo, in Siria, c’è grande apertura verso l'altro. E noi lo sperimentiamo ancora oggi, nonostante le ferite.


Chi viene a bussare alla porta della vostra comunità?

Gente con tante situazioni di bisogno. Anche se noi vogliamo rimanere una comunità contemplativa, cerchiamo di aiutare come possiamo tutti, senza differenza, cristiani e musulmani. C’è gente che ha necessità di aiuti materiali o gente che ha bisogno di serenità, che viene semplicemente per trovare un ambiente bello; c’è chi ha bisogno di confrontarsi su domande circa la guerra, la distruzione, il senso di quello che sta attraversando la Chiesa in questo momento. Poco a poco sta crescendo anche un desiderio di una relazione con Cristo che dia veramente senso e risposta alle domande più difficili.

Quale testimonianza volete dare?

Innanzitutto vivere la vita monastica così com’è, ma soprattutto una testimonianza di speranza e prossimità. Stare semplicemente qui, con le nostre fragilità, con la nostra povertà in tante cose (la lingua, l’inculturazione, eccetera), significa scegliere di rimanere, invece in molti la tentazione di andare via è sempre più forte. Allora noi vogliamo rimanere con la speranza di costruire: dove tutto si distrugge vogliamo cercare di trovare un senso alle cose e testimoniare semplicemente la forza di una vita che comunque è più forte di qualunque situazione di morte che ci sia attorno. Tutto questo in nome di Cristo. È chiaro che possiamo vivere tutto questo perché il Signore è il primo che resta con noi. Quindi non ci basiamo sulle nostre forze umane, ma su una speranza che ha una radice più profonda, la fede.


Da quando siete arrivate, ci sono stati dei momenti particolarmente difficili che avete vissuto?

Sicuramente la guerra. Per almeno 3-4 anni, quello in cui ci troviamo è stato un territorio di passaggio di bande jihadiste, di ribelli contro il governo, di scontri fra l’esercito e i ribelli, quindi la popolazione ha vissuto questi combattimenti, e noi con loro. Non è stato facile, anche a causa di tutte le problematicità che si sono aggiunte: la difficoltà a procurarsi le cose necessarie, la corrente elettrica che manca, le insicurezze per il futuro. E anche l’essere pronte da un momento all’altro a lasciare tutto. Siamo rimaste tre anni con la valigia pronta e il passaporto. Ma era la stessa precarietà che vivevano tutti. Ringraziamo Dio di averla potuta vivere con la nostra gente. Allo stesso tempo, siamo state anche molto aiutate e protette. Adesso la fatica più grossa è quella di vedere la nostra gente partire, perché le condizioni di vita sono molto dure e questo rattrista, è pesante da vedere.

Quella della Siria viene definita una tragedia dimenticata, quali sono le necessità più grandi lì dove siete voi?

È vero che è una tragedia dimenticata: dieci/undici anni di guerra hanno distrutto il Paese, l’hanno impoverito. Dopo il terremoto - una tragedia nella tragedia - per assurdo qualcuno ha detto: “Meno male che c’è stato il terremoto perché ci sono accorti ancora di noi”. Gli aiuti sono stati infatti generosissimi e c’è stata grande vicinanza verso il Paese; allo stesso tempo c’è stata un’emorragia incredibile di persone. E molti continuano ancora a lasciare il Paese: professionisti, medici e ingegneri, tecnici, manodopera specializzata, giovani. La Siria oggi è un Paese che manca sempre di più di risorse, di potenziale umano, oltre a essere una nazione che ha una povertà strutturale. Si pensi pure alle sanzioni internazionali che non si è mai riusciti a mitigare nonostante i tantissimi appelli. Il bisogno fondamentale è di poter creare un minimo di vita, di commercio, di lavoro che permetta una vita sostenibile, che aiuti a non emigrare, che consenta alle persone di restare con una speranza di vita dignitosa.


Voi monache di cosa avete bisogno in particolare?

Noi possiamo solo ringraziare il Signore di tutto ciò che abbiamo, perché ogni giorno riceviamo qualcosa. Certo, vorremmo terminare il nostro monastero, perché pensiamo che sia un segno importante e abbiamo bisogno anche di essere sostenute per sostenere a nostra volta le persone attorno a noi. Abbiamo bisogno, soprattutto che la Siria non sia dimenticata. Vuol dire, prima di tutto, mantenere un’informazione corretta, quindi conoscere la realtà e non dimenticarla. Spero poi che con il tempo e con una situazione politica generale del Medio Oriente più favorevole si possono riprendere anche le visite, che sono anche un segno di speranza.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-11/giornata-orantibus-trappiste-siria-tibhirine-guerra-speranza.html

'Cuori e mani per la vita' : Ci sono donne del villaggio di Azer con bambini piccoli che hanno bisogno di lavorare. Hanno imparato il macramé e lavorando da casa e presso il monastero , con la piccola entrata dei braccialetti, molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti sono disponibili per l'acquisto in Italia : per sostenere il progetto delle Monache Trappiste a favore delle donne siriane rivolgersi alla mail: oraprosiria@gmail.com

lunedì 13 novembre 2023

Padre Karakash: Siria una tragedia dimenticata. La gente soffre fame e miseria

 


Alla XVI Giornata delle Associazioni di Terra Santa (Roma 11 novembre 2023), uno speciale focus sulla Siria con il parroco della parrocchia San Francesco di Aleppo


da Vatican News

  Le conseguenze della guerra sono peggiori della guerra stessa e la Siria oggi, dopo la guerra iniziata nel 2011 e il terremoto di quest’anno, è una tragedia dimenticata. C’è miseria, fame e soprattutto disperazione, perché all’orizzonte non si intravedono soluzioni politiche. Gli stipendi arrivano appena a 15 o 20 dollari al mese, ma in tanti non hanno entrate perché hanno perso il lavoro e per sopravvivere sono costretti a vendere tutto quello che hanno in casa: il frigo, la lavatrice, le sedie. A descrivere la drammatica realtà ad Aleppo è fra Bahjat Karakash, parroco della parrocchia San Francesco, intervenuto a Roma, all’Antonianum, alla XVI Giornata delle associazioni di volontariato che sostengono progetti in Terra Santa. “La carità più grande da fare è la carità politica, riuscire a trovare una soluzione significa ridare un po' di speranza. Questa è la sfida più grande”.

Ridare dignità alle persone
  Fra Bahjat, francescano della Custodia di Terra Santa, in Siria ci è nato, ha sognato, pensato e lavorato perché il suo Paese fosse risanato, poi ha cambiato prospettiva. “Ho capito che bisogna interessarsi delle persone e non delle soluzioni in modo globale e anonimo - racconta - occorre aiutare la gente a vivere meglio dal punto di vista materiale, ma soprattutto dignitosamente. Perché è molto facile aiutare materialmente, è molto più difficile, invece, ridare dignità alle persone”. Al fianco dei siriani oggi ci sono solo famiglie religiose ed organizzazioni non governative, si vive di carità. I frati minori ad Aleppo, alla Mensa dei poveri, sfamano ogni giorno 1300 persone, cristiani e musulmani, nei giorni del terremoto a sedersi a tavola erano in 6mila. Si dovrebbe investire per il futuro del Paese, sostenendo l’educazione dei bambini e dei giovani, afferma il parroco di San Francesco, per far fronte al lavoro minorile e allo sfruttamento dei bambini da parte di organizzazioni criminali. Andrebbero aiutati pure i giovani universitari, perché non riescono a pagarsi le rette, molti, inoltre, non hanno neppure i soldi per prendere i mezzi pubblici e andare a lezione. Sono tantissimi quelli che vogliono partire, lasciare la loro terra, alla ricerca di un futuro migliore.

Il supporto dei francescani

  I religiosi francescani si adoperano in vari modi per prestare aiuto. Offrono un supporto psicologico ai bambini, sia cristiani che musulmani, con l’ausilio di psicologi e psicoterapeuti, coinvolgono i più piccoli in varie attività. Al Centro Tau, nato per il catechismo e l’educazione cristiana, oggi si ritrovano circa 1200 bambini e giovani e per gli anziani c’è il Centro Simeone ed Anna. I cristiani oggi in Siria sono appena il 2% della popolazione, ma il Paese ha ancora “un bagaglio di valori cristiani e religiosi” e per fra Bahjat “far leva su questi valori aiuterebbe a risollevare il popolo e la nazione”. Tuttavia, la diminuzione dei cristiani, “che sono mediatori culturali tra l’occidente e l’oriente, presenza provocatoria di pace, dialogo ed educazione” mette a rischio un’intera società.




Intervista di Vatican News a fra Bahjat

Fra Bahjat Karakash, qual è la situazione adesso ad Aleppo?

La situazione è una tragedia purtroppo dimenticata, soprattutto dopo il terremoto. Molte persone hanno perso il lavoro, molte famiglie hanno avuto la casa danneggiata e questo si aggiunge a una tragedia previa, quella della guerra, della crisi economica, per cui è una situazione molto critica.

Quali sfide dovete affrontare voi religiosi?

La prima sfida da affrontare è quella di dare speranza. Non è facile, perché non c'è all'orizzonte una soluzione a livello politico. La nostra risposta è rimboccarci le maniche e aiutare la gente a vivere con dignità e dare anche un messaggio spirituale, cioè quello del Vangelo e della speranza.

Che cosa si può fare dall'estero?

Anzitutto informarsi sulla situazione siriana, sapere che è una tragedia ancora non finita, diffondere le notizie, interessarsi, cercare di venire, se è possibile, a vedere la situazione in Siria. Tutto ciò oltre all'aiuto materiale, alla carità e alla preghiera che sicuramente ci sostiene.

Quali sono le maggiori emergenze?

È molto difficile stabilire priorità, perché tutti i fronti sono un’emergenza, da quella educativa a quella sanitaria a quella economica. Davvero quella siriana è una realtà molto precaria, che avrebbe bisogno di sostegno su tutti i fronti.

Come vede il futuro della Siria?

Se dovessi contare su qualcosa conterei sulla società, sulla gente che ancora conserva valori spirituali e religiosi, valori umani capaci di rimettere in piedi queste forze per il futuro del Paese. Ma tutto questo sicuramente avrebbe bisogno di una cornice a livello istituzionale e questo non è possibile nella situazione attuale. Bisogna aiutare i siriani a sedersi a un tavolo, a dialogare e a trovare anche una forma di aiuto perché il Paese rinasca.

venerdì 25 agosto 2023

Non dimenticare la Siria, dal Meeting l’appello di suor MartaLuisa Fagnani

 Vatican News 23 agosto 2023

Alla manifestazione di Cl a Rimini parla Suor Marta Luisa Fagnani: “La precaria situazione mondiale ha fatto diminuire l’attenzione della comunità internazionale. La Chiesa è presente e da sempre dialoga con i musulmani. Il fondamentalismo è fomentato dall’esterno”.

ASCOLTA L'INTERVISTA CON SUOR MARTA:

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2023/08/23/11/137276130_F137276130.mp3


In margine alla visita alla mostra presentata al Meeting "Azer, l'impronta di Dio - Un monastero nel cuore della Siria" – un piccolo gruppo ha avuto l'opportunità di conversare con Madre Marta e porle domande  sulla storia, le ragioni e il contesto storico in cui si è stabilita lo loro presenza monastica dal 2005 in terra siriana. Qui trascriviamo in forma di appunti le risposte della Madre alle nostre domande.  OraproSiria

Dialogo con Suor Marta - Rimini, 21 agosto 2023

La mostra racconta il senso del nostro essere là. Questo ha a che fare un po’ con storia del Mediterraneo: il Mediterraneo come luogo di incontro delle culture. La vita monastica nasce nel III secolo in Egitto ma anche in Siria, per noi dunque è il ritorno alle origini. Poi in Occidente si sviluppò il ramo benedettino, da san Benedetto ai Cistercensi che sono la riforma del 1090, con un ritorno alla vita più conforme alla regola, più semplice. Fino alle radici più vicine a noi, la nascita delle nostre comunità italiane, Vitorchiano, Valserena, da cui siamo poi nate noi.

Vedrete nella mostra i 4 punti essenziali: Citeaux, Valserena, Tibhirine – i monaci dell’Algeria che per noi sono stati la spinta di tutto questo – e poi la Siria. .  Con la morte dei Fratelli di Tibhirine, oltre alla celebrazione del loro sacrificio, si è scoperta la loro vita, una comunità molto precaria che l’Ordine voleva chiudere perché non avevano possibilità di vocazioni, dovevano sempre chiedere ad altri monasteri. Doveva essere firmato l’ordine di chiusura e il Padre Generale è morto la sera prima. Il Signore certo ci è andato un po’ pesante, ma di fatto loro sono andati avanti. Vivevano un’amicizia grossissima con il mondo che li circondava, il mondo musulmano. Questo nasceva prima di tutto da un’esperienza personale che aveva segnato il priore, padre Christian de Chergè. All’epoca nella quale l’Algeria era un protettorato francese, Christian viveva in Algeria dove suo padre era militare. Una sera camminando con un amico era stato minacciato da alcuni giovani musulmani e il suo amico lo difese. Il giorno dopo questo stesso amico fu trovato assassinato, per aver preso le difese. Questo segnò profondamente Christian : “io devo la vita a un amico, musulmano, che ha dato la vita per me”. La cosa interessante è che lui legge questo fatto nella chiave del Vangelo. Dice: “Per Gesù, non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici. Quindi questo ragazzo ha vissuto il Vangelo a modo suo”. I nostri fratelli non hanno mai vissuto la loro vicinanza con il mondo musulmano come un diminuire la loro esperienza cristiana profonda. Non hanno mai fatto sincretismi. Per loro era la sequela di Cristo, ma proprio questo li rendeva liberi di essere aperti al mondo che avevano accanto, al diverso. Questo è molto importante, perchè si rischia di identificare la solidarietà come un “ci vogliamo bene, ci apriamo a tutti” … Non funziona così. E’ vivendo veramente come cristiani la nostra identità e il nostro rapporto con Cristo, con un Dio che è Dio di comunione, che possiamo veramente essere aperti agli altri. Non è a partire dalle nostre forze, ma vivendo la vita di Cristo in noi. Questa è una delle sfide.

Questo è il percorso che ha spinto la nostra comunità, in un processo lungo, a decidere di raccogliere l’eredità di questi Fratelli e aprire una comunità nel Mediterraneo, fino ad approdare, per via di una serie di segni della Provvidenza, alla Siria. Lì si è aggiunta una nuova realtà, che i nostri Fratelli non avevano in Algeria: la scoperta – perché sapevamo con la testa ma non con l’esperienza – che in Siria ci sono tutte le comunità arabe ma cristiane antichissime. Così, a questo desiderio di vivere radicalmente la nostra vita si è aggiunto il desiderio di sostenere le comunità cristiane presenti.

Siamo là dal 2005. Il nostro percorso è illustrato dalla mostra.

Non va dimenticato poi che a un certo punto la nostra vicenda si è inserita nella vicenda tragica della guerra, dal 2011. Una realtà che c’è stata, durissima, c’è stata e c’è ancora. E la descrizione della Siria oggi, è proprio esemplificata nella mostra da foto che riproducono una casa aggiustata in mezzo alla macerie, un fiore su un balcone, : là dove si può, si vive, pur in mezzo alle macerie passate, presenti e – mi sa – per un po’ anche per il futuro. Non saprei descriverla in altro modo.

La mostra illustra anche la nostra vicenda. Il senso di essere lì, e del perché la pazzia di costruire un monastero dentro questa realtà segnata.

Noi ovviamente cerchiamo anche di aiutare, grazie anche a chi ci sostiene, con interventi sociali. Ma il senso di costruire un monastero è come il balsamo sprecato come quello sui piedi del Signore. C’è una gratuità, anzitutto per Dio. La nostra gente, cristiana e musulmana, in Siria ha ancora questo senso: che per Dio si può fare qualcosa di gratuito, non immediatamente efficace. I nostri operai musulmani sono contenti di costruire la chiesa.

Ma c’è anche altro. I soldi oggi nel mondo ci sono. Nella nostra zona, in tre o quattro anni di guerra pesante, ci passavano sulla testa quindici-venti missili, ognuno dei quali costava migliaia di dollari. Pensiamo alla cifre di una guerra. Quindi non mi si venga a dire che non ci sono nel mondo le risorse. Allora noi come monastero ma non solo, abbiamo un compito: creare una mentalità e far crescere una visione, una coscienza. Così che le persone potranno in futuro influire sull’uso delle risorse. Non è costruire una chiesa che impoverisce i poveri, ma è il non avere una visione che ci permette poi nei nostri ambiti di influire sulle scelte che poi vengono fatte.

Si può fare gratuitamente, per Dio, dunque, come 'il balsamo sprecato'. Il nostro mondo del medioriente concepisce ancora che si può fare qualcosa per Dio che non sia immediatamente 'efficace'. Al tempo stesso però c’è anche una ragionevolezza in questa follia. Costruiamo le persone. Saranno poi le persone che non vivono solo di cose materiali. Certo, devi dargli da mangiare - e il livello di povertà in Siria è incredibile, il 90% delle persone vive sotto la soglia della povertà- ma questo a una persona non basta.

E questo ci supera totalmente. Pensiamo: siamo poche, siamo anziane, si fa una fatica tremenda per imparare l'arabo. Ma questo ci fa pensare che non siamo noi che facciamo. Quel poco che possiamo fare, la gente viene, e lo respira. Il resto lo farà il Signore, ma questo ci motiva. Vengono anche musulmani, perché il posto è bello, chiedendo anche incontri, ma non come dialogo intellettuale, invece si vive insieme.

Poi la mostra documenta l’esperienza dell’amicizia con Banco Building con il dono dei pannelli solari, che ha permesso a noi di sopperire alla mancanza di elettricità, ma anche ci permette di coltivare, e la verdura in più la condividiamo con i nostri operai; e l’acqua potabile con chi non ha il pozzo. Dunque il fatto di poter vivere, dare lavoro e portare avanti delle attività è importante. 

Un video riassume le testimonianze e racconta perché vale la pena costruire un monastero. E’ un messaggio di uno spazio che ci dà forma. Non viviamo solo a livello di cuore e di testa, viviamo in una totalità. L’esperienza di camminare in un monastero, di avere una chiesa, uno spazio nel quale puoi alzare gli occhi dal lavoro e camminare in un chiostro e arrivare alla chiesa. E’ un’esperienza che speriamo di poter offrire anche a delle giovani. E’ un modo di condividere per noi. Come possiamo vivere l’esperienza di un rapporto con Dio, se non lo offriamo? Un monastero lo si fa, ma in realtà è il monastero che ti forma. Da secoli è uno spazio che racconta, fatto di luci, di ombre, di silenzio, di lode insieme. Un’architettura che si costruisce in un ascolto di Dio.

Siamo arrivate in Siria diciotto anni fa, nel 2005; per cinque anni siamo state ad Aleppo; intanto abbiamo comprato il terreno quando nel 2008 costava pochissimo, ad Azeir, e abbiamo iniziato la foresteria. Siamo ad Azeir, fra Homs e Tartous, vicino al confine nord del Libano. Una zona agricola, bella, semplice, appartata, ci si va solo perché ci si vuole andare. Zona musulmana, di sunniti e alauiti, e due villaggi cristiani maroniti.

Ci siamo trasferite nel settembre 2010. E nel 2011 è scoppiata la guerra. Poi siamo andate avanti, aggiungendo piccole cose: i trullini fatti di sassi, ad esempio. Durante la guerra, avevamo solo tre cose: i sassi, il cemento e gli operai che avevano bisogno di lavorare. Allora si è fatto: trullini, muretti, stradine. La gente ha cominciato a chiedere ospitalità.

Un anno e mezzo fa abbiamo ripreso l’idea del monastero, iniziando con gli scavi. Ancora una volta, si può dire: ma come? in Siria la gente è morta, tanti scappano, costruire un monastero appare un po’ una follia. Ma abbiamo avuto tanti segni, oltre al discernimento fatto con i nostri superiori, le chiese locali che ci incoraggiano; gli operai musulmani lavorano, i cristiani sentono che rimanere lì è un sostegno alla loro presenza.

DOMANDE:

La speranza continua? Ecco questa è la cosa dura in questo momento. Durante la guerra i siriani sono stati incredibili, hanno passato fasi terribili, ma dicendo: finirà. Adesso da tre-quattro anni il peggio è passato (anche se la guerra c’è ancora) e non si vede niente davanti. Non c’è un miglioramento, non c’è speranza di lavoro, la vita è invivibile. Gli stipendi medi – negli ultimi giorni sono saliti ma sono saliti automaticamente anche i prezzi – anche di un insegnante o un ingegnere statale erano, pochi giorni fa, 100.000 lire siriane: bastano per comprare 4 litri di olio. O dieci pacchi di pane. Nient’altro. Vive chi ha aiuti di organizzazioni o parenti da fuori che mandano 100-150 dollari e allora te la cavi.

Non si vede la speranza. Il terremoto di febbraio è stato rivelatore. Certo, sono morte molte persone (la maggior parte dei morti è stata nella parte turca) e case già bombardate con il terremoto sono crollate. Ma quello che abbiamo sentito è stato lo sgomento. Avevano passato cose terribili, i tagliagole eccetera, ma questo terremoto ha segnato gli animi. A casa nostra è arrivato con una scala del 6,2-6,3, ad Aleppo è stata 8 e più. Ci dicevano: “Finora c’era la guerra, ma almeno sapevi che quando eri in casa, avevi la casa. Adesso non c’è più neanche quella”. Il senso che è caduta ogni sicurezza. La goccia finale.

Non si ha una risposta alla ragione del male. La risposta al male e alla sofferenza ce la diamo lungo tutta la vita piano piano. Non è mai nel momento della sofferenza acuta. C’è un mistero grande nel male e questo ci può aiutare a dire “prepariamoci a vedere”, se lo affrontiamo fin da ora capiamo anche che c’è sempre una possibilità. Ma nel momento della sofferenza è difficile vedere chiaro. Noi lo diciamo: Dio non ci ha mai promesso che non ci sarebbe stato il male, la sofferenza. Gesù non ha mai risolto la malattia, la povertà. Ma Gesù ci dà una strada per capire come passarci dentro verso la vita,come ha fatto Lui. E ognuno deve farlo nella sua vita, e certe volte è meglio tacere: non è possibile dare risposte facili alla gente, bisogna stare accanto e vivere con le persone la sofferenza, perchè possano attingere quella forza della vita che c'è . Il nostro compito e cercare di viverla noi questa speranza. Anche a noi viene lo sgomento, vedendo la gente che se ne va; tutti che dicono “parto, prega per me”; noi sentiamo il dissanguarsi della nostra realtà.

La diocesi maronita di Aleppo viene molto spesso da noi; hanno portato diversi gruppi per fare l’esperienza monastica. Con un gruppo di persone adulte che avevano visto partire diversi loro figli, abbiamo parlato della speranza, e qualcuno diceva: “ma cosa possiamo fare?”. E si capisce perchè un giovane parte, cerchiamo di far sì che non partano ma lo comprendiamo. E allora cosa possiamo fare di fronte alla tristezza? Possiamo pregare, e poi che altro? Noi cerchiamo di dire – e anche a noi stesse : “viviamo NOI una speranza, un incontro con il Cristo che dia un senso al nostro oggi, perché domani, quando i figli partiti si troveranno davanti al senso della vita e si gireranno, se trovano un’esperienza vera, un'esperienza per voi vivente, sapranno dove attingere.” Altrimenti, è inutile che stiamo nella nostalgia di qualcosa che non c’è. Ciò che possiamo fare oggi è vivere noi. E questo un domani servirà, se non ai figli che sono partiti, a quelli che sono rimasti. E’ duro, ma è quello che possiamo fare. Una speranza concreta.

Non avevate paura, visto che vivete vicino ai musulmani? No. In Siria i cristiani sono sempre rispettati e possono costruire chiese. C’è stato, durante la guerra, un periodo nel quale i fondamentalisti stavano prendendo il sopravvento. E noi sapevamo, insieme ai cristiani del villaggio, che da un momento all’altro potevano mandarci via...forse saremmo riusciti a scappare forse no. Certo la paura c’è stata ma l’abbiamo condivisa, la precarietà del futuro, con tutti. Ma normalmente siamo accettate, aiutate, stimate. Il pericolo era l’ISIS, certo la paura c’era. Ma è la stessa precarietà che vivono altrove, pensiamo anche all’Iraq adesso.

Cos’è il politically correct?

Una bella zuppa che non serve a nulla. E’ l’idea che nel vivere con gli altri - visto che siamo tutti figli di un’unica umanità e gente evoluta, matura, non facciamo più le guerre per le cose in cui crediamo - e questo va bene – ci rispettiamo, cercando di togliere tutte le cose sulle quali pensiamo in modo un po’ diverso, e vediamo su cosa possiamo venirci incontro ( la natura, difendiamo la terra, tutti sono liberi di fare quello che vogliono perchè i diritti individuali sono importanti...) cerchiamo le cose che ci mettono tutti insieme. Il problema è che noi che abbiamo la grazia di un’esperienza di fede, abbiamo bisogno di un rapporto con Dio che ci dà un’idea di cosa è essere uomini, ci dà dei valori. L’idea è: io sento che questa cosa è vera, che Dio mi vuole in un certo modo, che mi dà un determinato valore per vivere, che mi disseta. Ma se ne parlo con te che pensi diverso, rompiamo l’amicizia. Allora lasciamo lì questa cosa e andiamo a prendere una pizza, tutti umanamente fratelli... ma in questo modo nell’amicizia con te non metto in gioco la cosa più vera che ho, le cose in cui credo, il mio modo di percepirmi come persona, che comporta anche una fede, una visione delle cose. Io rinuncio a questa parte più vera di me, tu anche e ci accontentiamo di quello che può andare bene a entrambi. Ma questo non è un rapporto vero. E’ meglio avere un confronto, dire ok tu pensi questa cosa, io ne penso un’altra, possiamo credere che ciascuno di noi fa un cammino vero, che ognuno è una persona degna anche se pensiamo in modo diverso? Dobbiamo avere il coraggio di essere noi stessi. Poi domani magari cambiamo idea, ma se oggi io credo questo, e lo condivido con te che credi una cosa diversa, ma possiamo camminare insieme, da persone che cercano la verità. Invece, il politically correct è dire: mettiamo da parte la verità perché sennò non andiamo d’accordo, e viviamo un po’ in superficie.

Che attività di aiuto alla popolazione fate? Noi non vogliamo diventare una ONG. Per questo di fronte alle richieste importanti di aiuto rispondo che devo sentire il Vescovo . Ma appena possibile, grazie ai vostri aiuti , cerchiamo di rispondere ai bisogni che ci sottopongono . C'è un mondo intorno a noi che non ha alcun riferimento … E suor Marta ci racconta di una ragazza in condizioni familiare difficilissime che con un piccolo aiuto ha fatto un negozietto.

I braccialetti. Ci sono donne del nostro villaggio con bambini piccoli che hanno bisogno di lavorare. Allora hanno imparato il macramé e lavorando da casa e da noi , con la piccola entrata dei braccialetti, molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti sono disponibili per l'acquisto in Italia .

Il nostro sapone di Aleppo nasce dalla collaborazione con un amico aleppino – che ha scelto di restare in Siria malgrado tutti partano e ci sostiene molto . Il vero sapone di Aleppo si può produrre solo ad Aleppo: lui ci dà la pasta della materia prima, noi facciamo la seconda parte della lavorazione, stampiamo, inscatoliamo. E lo trovate in vendita in Italia .