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mercoledì 19 ottobre 2016

Siria, il conflitto spiegato da fra Firas Lutfi


Paceinterra, 17 ottobre 2016

L’ultimo missile è caduto la scorsa settimana. 2 metri e mezzo di lunghezza, si è adagiato sul terreno a pochi passi dal convento francescano di Aleppo, senza esplodere. Poteva essere una strage. «Non c’è zona al sicuro qui ad Aleppo», ci dice dalla Siria padre Firas Lutfi, frate francescano. Ha vissuto ad Aleppo dal 2004 al 2011, poi una pausa per studiare in Italia e infine, nel 2015, la decisione di tornare ad Aleppo nonostante la guerra. Lo tratteniamo un’ora al telefono dalla città che le Nazioni Unite hanno definito “la più pericolosa del mondo”. «Come sta padre Firas?», gli chiediamo per salutarlo. E lui ci risponde con una serena risata: «Grazie al Signore sto bene».

Padre Firas, si può ridere ancora ad Aleppo?
È la fede che ci sostiene. Vivere ad Aleppo oggi è una grande sfida, è un martirio quotidiano. Non si vede ancora una minima soluzione e senza un appoggio divino perderemmo la testa e la ragione, le speranze verrebbero esaurite. Invece la fede dà una riposta. Non dobbiamo chiedere “perché?”, ma “per chi?”.
La guerra è in continua evoluzione. Cosa sta succedendo?
La situazione qui ad Aleppo sta persino peggiorando perché si vedono i raggruppamenti delle milizie, si fa sempre più concreto un intervento militare degli Stati Uniti e dei suoi alleati contro basi dell’esercito siriano. La Russia ha minacciato che chi tocca le basi siriane tocca quelle russe. Non è un mistero che qui si sta giocando una partita internazionale. Qui c’è in gioco la Turchia, la Russia, l’Arabia Saudita, l’Iran, gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, il Qatar. Tutti vogliono un pezzo di Siria. Per usare le parole di san Paolo ai romani, «tutti hanno peccato» in Siria, perché tutti hanno contribuito alla distruzione.
Chi ha voluto questa guerra?
Già dagli inizi si capiva che la Siria non è la causa della guerra. La guerra è nata in Afghanistan e la Primavera araba ha nascosto tanti interessi, era un pacchetto preconfezionato. All’inizio si pensava che qui fosse scoppiata una rivoluzione per chiedere più democrazia, ma presto ci siamo resi conto che siamo finiti nella palude di una guerra che ci vede vittima di interessi internazionali. Adesso le ragioni sono più chiare: l’intento fin dall’inizio era spezzare il Medio Oriente, in base alla religioni, alle etnie. Qui non si combattono i governi, ma gruppi interni. Studi americani parlavano di scontro di civiltà già nel 1993, non stanno facendo altro che metterli in atto. Ora stiamo rischiando di diventare come la Somalia, ma con tutto il rispetto, la Siria non è la Somalia. Le donne qui avevano già da tempo un ruolo anche politico, mentre in altri stati le donne non possono nemmeno guidare la macchina. Abbiamo poco tempo, altrimenti avremo perso tutto. Se non troviamo una soluzione politica rischiamo di perdere un patrimonio di tutta l’umanità. Damasco è una delle capitali più antiche del mondo, qui ci sono le basi del cristianesimo. Già parte del patrimonio è distrutto come a Palmira. Eravamo il granaio dell’Impero romano, ora stiamo diventando un cumulo di macerie. Noi speriamo che non avvenga lo scontro corpo a corpo tra russi e americani. Il pericolo non è solo una battaglia tra i giganti del mondo sul territorio siriano, una terza guerra mondiale, ma la perdita della nostra identità.
L’Europa ha un ruolo nel conflitto?
L’Europa sembra impotente e spero che l’Europa non si renda complice del sangue siriano. Gas, petrolio, la nostra posizione geografica, tutte le nostre risorse sono diventate la nostra condanna. Temiamo che Francia e Gran Bretagna possano avere nostalgie coloniali. Non crediamo all’intervento innocente. “Formiamo il Comitato Amici della Siria”, dicono. Si dichiarano amici e ci mandano i terroristi, ripetono di essere amici e ci mandano armi. Che amici sono questi? Non tutta l’Europa è però uguale. Guardiamo con occhio diverso l’Italia, ma sappiamo comunque che è parte della Nato ed è alleata degli Stati Uniti, di cui ormai noi diffidiamo.
Israele è ancora in conflitto con la Siria per il Golan. Quali interessi ha?
Cosa stia facendo Israele è enigmatico. Sappiamo che ha offerto cure ai ribelli, che l’esercito israeliano ha violato il nostro territorio. Il fatto che non parli non vuol dire che non agisca. L’interesse di Israele è avere un esercito siriano debole, in modo da poter controllare meglio il confine.
Quanto Isis c’è ad Aleppo?
La capitale dell’Isis è al-Raqqa, che dista 200 chilometri ad Est di Aleppo. L’Isis taglia spesso la strada che collega Aleppo a Damasco. Nella città invece c’è Al-Nusra e altre milizie. La Russia ha smascherato il petrolio siriano venduto illegalmente al confine turco, così l’Isis si arricchiva e comprava armi. Questo è tema di scontro tra Usa e Russia.
Cosa vede attorno a sé?
Vedo una città quasi morta. Vedo sfiducia, depressione nell’animo degli aleppini, perché aspettiamo la pace, ma non si vede, non c’è. Non vedo solo demolizione materiale, delle pietre. Dove vivo tanto è cambiato. Non ci sono zone di Aleppo dove si possa vivere in pace e serenità. L’altro giorno 4 studentesse di una scuola elementare sono state uccise alle 8.30, proprio mentre andavano a lezione. Sembrava una giornata tranquilla, ma le bombe non hanno smesso dal mattino fino a tarda sera. Noi cristiani viviamo nei quartieri occidentali che sono sotto il controllo dell’esercito siriano, ma questa zona non è mai stata esente da scontri. A maggio, un missile ha ucciso una donna anziana. Noi abbiamo offerto ospitalità alla famiglia perché l’edificio dove viveva la sua famiglia era distrutto. La settimana scorsa un altro missile di 2 metri e mezzo è caduto nell’area interna del nostro convento e per fortuna non è esploso. Ecco cosa vedo: cittadini in agonia e sfiduciati dalla comunità internazionale incapace di risolvere questo conflitto. Diffidiamo di tutte le promesse, ci restano solo tante domande.
Quali?
Vogliamo sapere perché ci hanno abbandonati. Perché ci trattano da numeri e non da persone? Perché non c’è la volontà di trovare una accordo di pace? Aleppo è una città martire, la gente scappa. Mi domando con gli altri francescani come venire incontro a come venire incontro alle necessità della popolazione. Stiamo entrando nel sesto anno di guerra e qui serve acqua, elettricità, ma anche piccole cose per gestire la vita ordinaria. Come fa chi ha perso un lavoro a tenere la famiglia? Ci sono aziende fallite, come possono rinascere? A queste domande l’unica risposta è la preghiera, l’affidamento alla Provvidenza, che in questo momento non è mai mancata.
Quanto è grande la comunità cristiana di Aleppo?
I cristiani erano 150mila ora sono 30mila. Il numero continua a calare drasticamente. Questa era la seconda città della Siria. Era la città dell’economia, della finanza, era la città che non dormiva, la città delle luci. 3,5 milioni di abitanti prima della guerra, ora siamo meno della metà, un milione e mezzo in totale. Le persone scappano in altre città dove c’è possibilità di lavorare, o in Libano. Altri in Europa, con vie illegali, rischiando la morte in mare. Tutto questo alla comunità internazionale non sembra interessare.
Vi aspettate che la comunità internazionale crei corridoi umanitari?
Noi vogliamo la soluzione totale. Se poi deve passare per soluzioni parziali allora possono servire. Qui ogni tregua fino ad oggi è stata solo l’occasione per comprare nuove armi e riprendere la guerra. I corridoi umanitari vengono sfruttati dai terroristi per muoversi, questo è il problema.
Perché e a quali condizioni si decide di restare oggi ad Aleppo?
Chi resta lo fa per due ragioni: o non ha più soldi nemmeno per viaggiare, oppure fa una scelta. Le ambasciate non sono aperte ai profughi, così o prendi la via del mare con il rischio di morire, o semplicemente non puoi affrontare il viaggio. Si resta a costo di morire sotto le bombe. Poi ci sono quelli che sono convinti di rimanere, come noi religiosi. Non siamo qui non per caso, ma vogliamo testimoniare la nostra fede, testimoniare il Vangelo. Centinaia di religiosi sono ancora qui per guidare una comunità in agonia. Soffriamo con loro, hanno bisogno di pastori.
Come si sopravvive ad Aleppo?
I servizi ci sono ma sono molto costosi. Per parecchi mesi non avevamo elettricità. Adesso il problema è l’acqua. Abbiamo scavato pozzi per adattarci a questa situazione. Per il telefono usiamo internet, ma il costo è di 100 euro al mese e per noi siriani è tantissimo. Per l’elettricità delle 800 famiglie della nostra parrocchia abbiamo pagato l’abbonamento ad un generatore elettrico dove possono collegare una lavatrice, avere un po’ di luce per studiare. Dobbiamo dare risposte concrete. Un’operazione per un malato o un ferito può costare decine di migliaia di dollari. Nel nostro piccolo facciamo di tutto perché la nostra gente possa restare. Non possiamo abbandonarli perché già si sentono abbandonati dal mondo, ma noi come pastori non possiamo far venire meno la nostra mano. Ogni giorno riusciamo ad avere qualcosa per aiutarli.
Molti media hanno detto che Aleppo rischia di rimanere senza ospedali. È vero?
Distinguerei tra parte occidentale (sotto controllo di Assad) e orientale sotto controllo dei ribelli. Già prima della guerra la periferia Est era più trascurata, quindi non è una novità che ci siano più difficoltà. Quando la periferia è diventata base dei ribelli i soldati e infermieri non potevano più entrare nella parte Est e si sono arrangiati con le risorse già scarse che avevano. Le bombe “intelligenti” non distinguono tra ospedali, scuole o basi militari. Colpiscono ovunque e le vittime sono i civili. Il problema è che i media fanno emergere notizie secondo gli interessi. Se sono gestiti da persone vicine ai ribelli diranno che Assad ha colpito gli ospedali con l’unico medico per i bambini rimasti ad Aleppo. È vero o no? Nessuno può dirlo. Ci sono informazioni fabbricate. C’è molta disinformazione, come è accaduto con le armi chimiche. Avevano accusato l’esercito siriano di averle usate per poi rendersi conto che non era possibile. In tempo di guerra è davvero difficile essere oggettivi e prendere una posizione. Io mi occupo di servire i più deboli, i più poveri, non sono un esperto militare. Io prendo solo le conseguenze di questo martirio che sta subendo la mia comunità.
Mi racconta la sua giornata di sacerdote?
Mi alzo presto e cerco di dire le mie preghiere perché sono un frate. Poi inizio a prendere contatti. Ho gli incontri con i parrocchiani, porto la Comunione ai malati. Poi lascio sempre spazio alle emergenze. Ci chiamano per dirci che è caduta una bomba che ha distrutto una casa, oppure se hanno bisogno di pagare tasse, o se ci sono feriti negli ospedali. Arrivo a casa che sono sfinito.

preghiera per la pace dei bambini di Marmarita












Si parla molto dei bambini di Aleppo. Cosa fate per loro?
Gli adulti hanno fallito totalmente, la nostra speranza è che i bambini possono parlare al cuore degli adulti. La scorsa settimana noi francescani abbiamo accolto 800 bambini per pregare per la pace. Quante case distrutte e bambini morti sotto le macerie di questa guerra ingiusta. Quando vedi morire bambini solo perché vanno a scuola, allora capisci che solo la Provvidenza sta aiutando i bambini che sopravvivono.
Papa Francesco fa sentire spesso la sua voce per favorire la pace in Siria. Quanto peso hanno le sue parole?
Il Papa è un uomo di pace e si sta occupando seriamente della pace in Siria. Il Papa agisce con la Chiesa. Noi siamo suoi portavoce e operiamo come operatori di pace. Tutto il bene che fa la Chiesa è come se lo facesse il Papa. I suoi appelli per noi sono la prova di una presenza paterna. Quando dice “Se volete la pace non vendete le armi”, tocca il primo mercato che alimenta questa guerra. Francesco lavora e prega per la Siria. Ricordo a settembre di tre anni fa , quando a San Pietro aveva riunito per una giornata di digiuno e preghiera, e abbiamo scampato l’attacco imminente degli Stati Uniti. E dal quel momento si iniziò a parlare di una soluzione politica, mentre prima l’unica soluzione sul tavolo era militare. Il Papa invoca la pace, perché la pace è un dono di Dio, ma si sta mobilitando anche nel corpo diplomatico. «Beati gli operatori di pace» dice il Vangelo.
Come fa a tenersi in contatto con gli altri frati?
Qui in Siria siamo una quindicina di frati. Il telefono è l’unico vero strumento per tenersi in contatto perché le strade che collegano i nostri conventi sono spesso chiuse o sono pericolose. Abbiamo un convento al confine con la Turchia, zona sotto controllo straniero e dove era stato sequestrato padre Dhiya Azziz. Nonostante le difficoltà, tra noi c’è una bella relazione soprattutto per migliorare il servizio verso le nostre comunità.
Padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, in occasione della sua nomina a maggio ci disse che avrebbe fatto di tutto per la Siria. È già al lavoro?
Il Custode è venuto da noi rischiando la vita, appena hanno riaperto la strada da Aleppo e Damasco. È stato qui ad Aleppo dal 16 al 19 agosto. Io ricordo il suo coraggio. È venuto non solo a trovare noi frati ma tutta la comunità. Io l’ho accompagnato da Aleppo a Damasco. Ci ha detto che valeva la pena correre il rischio e ha mantenuto la promessa.
In conclusione, la pace in Siria è davvero impossibile?
Nella parte costiera, dove c’è la base militare russa, non sembra nemmeno che ci sia la guerra. Homs, tra Aleppo e Damasco, è stata distrutta, ma ora sono riusciti a portare via gli uomini armati. La pace non avverrà mai passivamente. Non basta commuoversi vedendo i bambini morti. Se smettiamo di vendere armi allora la guerra finirà, dobbiamo andare oltre gli interessi economici. Come diceva san Giovanni Paolo II, la pace per quanto costosa avrà un prezzo inferiore della guerra. Non devono fare in Siria come fanno in Africa: danno armi a persone che non hanno nemmeno da mangiare. La logica di sfruttamento è talmente fatale che non lascia spazio alla ragione. Dovrebbero creare università, fare contratti, invece vogliono solo sfruttarci, senza aiutarci a svilupparci. C’è tanta ingiustizia. Io sono un uomo di fede e speranza. Se la pace è stata possibile dopo altre guerre, allora perché non dovrebbe essere possibile in Siria?

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