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martedì 18 febbraio 2025

Per il bene della Siria servirebbe un’Europa coesa e con le idee chiare

I Paesi dell'Unione europea mostrano una volontà evidente di non perdere il treno della nuova Siria. Il problema vero, per l’Unione europea un po’ debole e sbandata di questi tempi, è che non basta avere a che fare con il presidente Al-Sharaa per risolvere le questioni.

di Fulvio Scaglione 

Quasi emarginata nell’avvio del negoziato tra Usa e Russia sull’Ucraina, l’Unione europea si è presa una certa rivincita su Donald Trump per quanto riguarda la Siria del post-Assad e del presidente ad interim Ahmad al-Sharaa (l’al-Jolani di quando lo consideravano un terrorista, nome di battaglia che ha definitivamente abbandonato forse anche per ragioni scaramantiche, visto che significa «quello del Golan», territorio sempre più occupato dalle truppe di Israele).

Nella gran corsa a trovare udienza presso il nuovo signore della Siria, i diplomatici europei si sono segnalati per tempestività. I ministri degli Esteri francese e tedesco sono arrivati a Damasco il 3 gennaio, il vicepremier e ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani il 10 gennaio, la commissaria Ue per la Gestione delle crisi Hadja Lahbib il 17 gennaio. In quest’ultima occasione è stato anche annunciato il varo di un pacchetto di aiuti umanitari Ue del valore di 235 milioni di euro. Ancor più importante, è stato avviato un processo di revoca delle sanzioni europee contro la Siria, a patto naturalmente di «vedere rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, i diritti delle donne». Delle sanzioni si è discusso al consiglio dei ministri degli Esteri Ue del 27 gennaio, con l’idea di approvare un piano d’azione nella successiva riunione del 24 febbraio, avendo in mente soprattutto l’allentamento delle restrizioni su petrolio, gas e trasporti (ma non ancora sulle operazioni finanziarie).

Insomma, una volontà molto evidente di non perdere il treno della nuova Siria, soprattutto in un momento in cui i precedenti patron di Assad, ovvero la Russia e l’Iran, sembrano in palese difficoltà. Il problema vero, per l’Unione europea un po’ debole e sbandata di questi tempi, è che non basta avere a che fare con il presidente Al-Sharaa per risolvere le questioni. 

C’è la partita dello Stato islamico, che dipende dalle proclamate intenzioni di Donald Trump di ritirare le truppe Usa dal territorio siriano. 

C’è la partita dei curdi, che dipende dalle strategie del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che è stato il “padre” dell’azione anti-Assad. 

C’è la partita della ricostruzione in cui il Qatar – grande finanziatore del movimento Hayat Tahrir al-Sham di cui Al-Sharaa/Al-Jolani è stato il capo – giocherà argomenti importanti. 

E c’è la grande questione del Libano e del Golan, dove bisognerebbe poter esercitare una qualche influenza sul premier israeliano Benjamin Netanyahu, al quale finora la Ue ha fatto da sponda passiva. 

Insomma, anche per il bene della Siria servirebbe un’Europa coesa e con le idee chiare. Per ora, purtroppo, non se ne vede gran traccia.

https://www.terrasanta.net/2025/02/lue-cerca-una-rotta-nel-medio-oriente-che-muta/

venerdì 31 gennaio 2025

Siria, tutti alla corte di al-Jolani presidente


 di Fulvio Scaglione

Tra lo scetticismo diffuso dei rifugiati siriani all’estero prosegue il difficile "dopoguerra" in Siria. L'uomo forte Ahmed al-Sharaa (detto al-Jolani) il 29 gennaio è stato ufficialmente proclamato presidente ad interim. E i governi stranieri sembrano dar credito all'ex terrorista.

Facciamo un’ipotesi di pura fantasia. Yahya Sinwar, il capo dei terroristi di Hamas che organizzò le stragi di cittadini israeliani (e non solo) del 7 ottobre 2023 non è morto il 16 ottobre 2024 per mano dei soldati di Israele. Anzi: è sopravvissuto e ha guidato i palestinesi all’attacco dello Stato ebraico, dove è riuscito a prendere il potere. Adesso i rappresentanti di tutti i Paesi che, quando era solo il capo di Hamas, lo consideravano un terrorista e rifiutavano qualunque rapporto con lui e con la sua organizzazione, accorrono a Gerusalemme (ovviamente capitale del nuovo Stato da lui guidato) per incontrarlo. Sono arrivati rappresentanti degli Usa e della Ue, della Russia e dell’Italia. Gli Usa hanno ritirato la taglia che gli avevano messo sul capo e l’Unione europea è sul punto di ammorbidire le sanzioni che aveva deciso contro Gaza e Hamas. 

Pura fantasia, si diceva. Ma qualcosa del genere è successo veramente in Siria, dove nessuno prevedeva il crollo repentino del regime di Bashar al-Assad  e men che meno immaginava che un terrorista di lungo corso come Ahmed al-Sharaa, detto al-Jolani («quello del Golan»), l’uomo che nel 2011 Abu Bakr al-Baghdadi, il capo dello Stato islamico (Isis), aveva mandato in Siria per combattere Assad e che poi era passato ad al Qaeda, potesse diventare il padrone del Paese. Che cosa siano stati l’Isis e al Qaeda lo ricordiamo tutti benissimo. Eppure, ora che al posto di Assad c’è al-Jolani, ogni scrupolo è caduto. Gli Usa, la Russia e tutti i Paesi arabi sono corsi a rendergli omaggio e a promettere buone relazioni, e l’Unione europea, come detto prima per scherzo, sta lavorando a un piano per eliminare parte delle sanzioni (nel settore energia e trasporti, soprattutto) rimaste in vigore per oltre dieci anni e in parte responsabili della miseria in cui si trova il popolo siriano. Il tutto mentre il mondo intero sa che dietro al Jolani c’è il presidente turco Erdogan, non uso a fare beneficenza, che già occupa una fascia di territorio siriano nel Nord e che ha approfittato anche di quest’ultimo colpo di scena per bombardare i curdi. 

Al-Jolani, che ha abbandonato la mimetica per un più sobrio completo, ovviamente promette moderazione, rispetto per tutte le etnie e le minoranze, apertura al resto del mondo e buone relazioni con tutti. Qualche fatto a supporto delle parole si è pur visto: il Natale dei cristiani, per esempio, è stato rispettato e le festività sono trascorse in un discreto clima. Da altri luoghi della Siria, per esempio dalla fascia costiera dove sono concentrati gli alawiti (la minoranza cui appartenevano gli Assad) giungono invece voci e immagini di rastrellamenti e violenze. 

Vedremo. Un dopoguerra come questo non è facile per nessuno, nemmeno per uno come al-Jolani (ufficialmente proclamato capo dello Stato ad interim il 29 gennaio 2025 – ndr). E la speranza in questi casi è un dovere. Anche se il primo scetticismo di cui tener conto è quello dei rifugiati siriani all’estero, che proprio non sembrano affollarsi alle frontiere per tornare in patria il più in fretta possibile. 

Certi voltafaccia, però, non possono passare così lisci, quasi inosservati, come se la Siria fosse passata dalle mani di un delinquente a quelle di un benefattore. Sa troppo di speculazione. Ai bambini siriani che in questi anni sono morti per la carenza di medicine e strutture ospedaliere generata dalle sanzioni chi glielo spiega che sono stati sacrificati perché un giorno la Siria potesse essere governata da al-Jolani?

https://www.terrasanta.net/2025/01/siria-tutti-alla-corte-di-al-jolani-presidente/

domenica 13 ottobre 2024

Secondo il 'piano decisivo' di Smotrich, la terra d'Israele sarà veramente dal mare al fiume

 

Ha destato scalpore in questi giorni la dichiarazione del ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich che in una intervista afferma “è scritto che il futuro di Gerusalemme è espandersi fino a Damasco” e di volere uno 'stato ebraico che si estenda alla Palestina, alla Siria, all'Iraq, al Libano, alla Giordania, all'Egitto e all'Arabia Saudita'. Per documentare che tali affermazioni sono veritieri intenti e non pour-parler usciti in una intervista, alleghiamo qui sotto una prima parte della meritevole traduzione fatta dalla Rivista Terrasanta del cosiddetto «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza, reso pubblico nel 2017 dall'attuale ministro Bezalel Smotrich, esponente dell'estrema destra religiosa sionista. Non c'è spazio alcuno per uno Stato di Palestina, dicono chiaro e tondo Smotrich e i suoi. Per la traduzione completa del testo, rimandiamo alla rivista Terrasanta stessa che si è assunta l'incarico di tradurre e pubblicare il testo completo del 'Piano'.

Da parte della nostra amica Maria Antonietta Carta, profonda conoscitrice della realtà del Medio Oriente che ha vissuto per oltre tre decenni in Siria, questa è la considerazione suscitata dalla lettura del testo:

L’apogeo dell’ipocrisia anglosionista o soltanto la soluzione finale perfetta per il popolo palestinese? Oppure l’arroganza e la prepotenza di un ‘’Piccolo Israele’’ dall’appetito pantagruelico, giunto al suo cupo crepuscolo senza poter diventare ‘’il Grande Israele’’?

Il piano Una speranza del ministro Bezalel Smotrich, condito con il perverso uso politico della religione ebraica, può di primo acchito suscitare una risata ironica, considerazioni sull’impiego distorto del pensiero di figure degne come Einstein o del mito di Sisifo, sulle interpretazioni menzognere della storia o su quale alta meta può raggiungere la stupidità umana. In realtà, riflettendoci anche soltanto un po’, il ‘’piano’’ di questo figuro balordo risulta pericoloso nella sua esagerazione, proprio perché a una lettura ingenua, magari pilotata da giornalisti e analisti occidentali diciamo, eufemisticamente, confusi, potrebbe apparire soltanto la visione di un fanatico sconsiderato e non quel disegno sionista che si persegue da oltre un secolo. Purtroppo, per anni abbiamo assistito o ancora assistiamo alle guerre devastatrici e spietate, e all’assedio economico, contro le popolazioni dei Paesi arabi resistenti alle mire espansionistiche di Israele e condotte dai suoi patrocinatori, interessati a disgregare e razziare quell’immensa regione omogenea dal punto di vista geografico e culturale, importantissima via terrestre di comunicazione e dei commerci tra Oriente e Occidente, ricchissima di fonti energetiche e di altre preziose materie prime. Tutti i drammatici eventi che hanno interessato o interessano Afghanistan, Gaza, Iran, Libano, Siria, Libia etc. ne sono testimonianza. 

Maria Antonietta Carta

 

DA TERRASANTA 5/2024 - DOCUMENTI 

Il piano Una speranza, di Bezalel Smotrich

Nel settembre 2017, quando presentò questo suo «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza [anche traducibile con: Un’unica speranza], l’avvocato Bezalel Smotrich era già parlamentare e ricopriva la carica di vicepresidente della Knesset. Allora come oggi militava nell’area del sionismo religioso (all’estrema destra dell’agone politico israeliano). Nel sesto governo Netanyahu, insediatosi a fine 2022, è ministro delle Finanze (con un piede anche nel ministero della Difesa), oltre che leader di una delle forze della coalizione di maggioranza: il Partito religioso nazionale – Sionismo religioso, che nel 2023 ha raccolto il testimone di una precedente formazione politica.
Traduciamo il piano Smotrich a titolo di documentazione per i nostri lettori. Come si vedrà, all’epoca della sua stesura l’uomo politico non dedicava molta attenzione alla Striscia di Gaza. Dopo gli eccidi del 7 ottobre 2023 e il loro tragico seguito non pochi nel suo campo politico sono per un ritorno stabile degli ebrei israeliani in quel territorio. Lui si tiene sul vago, ma carezza l’idea di un’emigrazione massiccia dei gazesi.


Ecco il testo del Piano: 

«La follia», recita una famosa citazione, spesso attribuita ad Albert Einstein, «è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Nella realtà politica odierna, sembra che la follia sia all’ordine del giorno. La sinistra israeliana ripete continuamente soluzioni «semplici e sicure» per porre fine al conflitto arabo-israeliano; e sempre più spesso assistiamo al fallimento di queste soluzioni e alla loro inutilità. Non fare nulla garantisce semplicemente l’eterna continuazione di questi tentativi, pieni di false speranze e illusioni. I tempi sono maturi per dire «basta», per rompere il paradigma e per trovare una via d’uscita adeguata a questo ciclo apparentemente senza fine.

La base della mia proposta è un cambiamento di centottanta gradi rispetto al modus operandi a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni. Ripensare richiede coraggio, ma pare che non abbiamo scelta. La maggior parte, se non tutti i piani politici avanzati negli ultimi anni, sia da sinistra che da destra, forniscono “soluzioni” che perpetuano il conflitto, condannandoci tutti a continuare la sua miserabile gestione per i prossimi cent’anni. Il piano decisivo qui proposto, invece, prevede una soluzione reale, e soprattutto possibile e pratica, per porre fine al conflitto e portare una vera pace.

Ciò che distingue questo piano dagli altri è che «prende il toro per le corna», affrontando la radice del conflitto e il fallimento, passato e presente (e futuro), delle “soluzioni politiche”. Non fa differenza dove i pianificatori traccino i confini proposti, anche se provengono dalla cosiddetta destra (Sharon e Olmert avevano le loro mappe; forse anche Bibi ne ha una). La pace non sorgerà finché manterremo la nostra posizione di partenza secondo cui questa terra è destinata a contenere due collettività con aspirazioni nazionali contrastanti. Se così fosse, i nostri nipoti e i nostri pronipoti saranno inevitabilmente destinati a vivere di spada.

Nelle pagine che seguono, delineerò il mio “piano decisivo”, che ho chiamato Una speranza. Si tratta di una soluzione globale, ottimista senza essere ingenua, di quelle che non ignorano le difficoltà ma che sono accompagnate da una vera fede. Fede nel Dio d’Israele, nella giustezza della nostra causa e nella nostra esclusiva appartenenza alla Terra d’Israele; fede nella nostra forza di resistere agli argomenti che potrebbero minare la nostra convinzione; fede nella nostra capacità di mettere in campo l’eroismo necessario per vincere questa lotta epocale.

***

All’inizio è necessario fare un po’ di attenzione.

Sono un credente. Credo nel Santo, Benedetto Egli sia, nel Suo amore per il Popolo ebraico e nella Sua Provvidenza su di esso. Credo nella Torah che ha predetto l’esilio e promesso la redenzione. Credo nelle parole dei profeti che hanno assistito alla distruzione e, non di meno, nella nuova costruzione che ha preso forma sotto i nostri occhi. Credo che lo Stato di Israele sia l’inizio della nostra redenzione, il compimento delle profezie della Torah e delle visioni dei Profeti.

Credo nel legame vivo tra il Popolo d’Israele e la Terra d’Israele; nel destino e nella missione del Popolo ebraico per il mondo intero e nella importanza vitale della Terra d’Israele nel rendere certa la realizzazione di questa causa. Credo che non sia un caso che la Terra d’Israele stia fiorendo sulla scia del ritorno degli ebrei, dopo tante generazioni di totale abbandono.

Credo che l’anelito di generazioni per questa terra e la fiducia nel nostro ritorno finale siano le forze trainanti più profonde del percorso del Ritorno a Sion che ha portato alla creazione dello Stato di Israele.

Tuttavia, il documento che vi viene presentato non contiene nulla che sia basato sulla fede. Non si tratta di un manifesto religioso, ma di un documento realistico, geopolitico e strategico. Si basa su un’analisi della realtà e delle sue cause profonde, e si fonda su presupposti fattuali, storici, democratici, di sicurezza e politici. Elementi che ci conducono a una soluzione che, a mio giudizio, ha le più realistiche possibilità di successo, sicuramente maggiori delle altre soluzioni proposte quotidianamente.

Questo documento è un documento pragmatico, ma si colloca agevolmente entro la mia visione del mondo basata sulla fede. Coloro che lo desiderano possono considerarlo nient’altro che una soluzione pratica e politica; gli altri sono invitati a vederlo come un incontro tra fede e realismo, visione e realtà.

Il contesto (Background) ....

domenica 14 aprile 2024

In Libano e Siria concerti d’organo di primavera

 Terrasanta.net,  11 aprile 2024

Dal 12 aprile al primo maggio 2024, il Terra Sancta Organ Festival presenta diciannove concerti in Libano e Siria. Organizzato dalla Custodia di Terra Santa come contributo artistico alla cultura dei paesi dove essa è presente (Israele, Palestina, Giordania, Libano, Siria, Grecia, Cipro, Egitto), dal 2014 il Terra Sancta Organ Festival è spesso l’unica occasione per ascoltare il repertorio del più grande degli strumenti musicali nel Medio Oriente e nel Levante. Tutte le informazioni si possono trovare sul sito istituzionale del Festival, collegato anche a un canale YouTube con 275 video.

Il festival assume denominazioni diverse a seconda dei luoghi e dei partner, pur presentandosi con la propria denominazione in un unico cartellone generale. In Libano i concerti sono organizzati insieme alla Notre Dame University e danno luogo alla nona Settimana organistica libanese (Sol Festival) con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Beirut e il supporto delle ambasciate dei Paesi di provenienza dei musicisti esteri (quest’anno Germania, Spagna, oltre all’Italia). In Libano si terranno dieci concerti dal 12 al 21 aprile, percorrendo il Paese in tutta la sua estensione, da nord a sud, da Tripoli a Tiro attraverso il Monte Libano, Beirut e fino alla valle della Beqaa. Il programma prevede un concerto per organo con la Lebanese Philharmonic Orchestra, uno con organo ed ensemble vocale, due concerti con improvvisazione su film muto, una performance di cross-art con piano preparato, organo, poesia e live painting, tre concerti di musica da camera e due recital per organo solo. 

Il programma completo si può consultare sul sito Internet dedicato.

 

 In Siria, dove si vuole anche essere vicini ai musicisti locali e in solidarietà con la popolazione che soffre per un duro embargo internazionale, il festival prende il nome di Organ & Music Festival Syria ed è organizzato in collaborazione con la Damascus Opera House e l’Higher Institute of Music

Oltre che alla Damascus Opera House e al Conservatorio Nazionale, i concerti avranno luogo in chiese di Damasco, Aleppo e Latakia. I musicisti esteri provengono dall’Italia, dalla Spagna e dall’Austria. Nel programma spiccano il concerto per organo con la Syrian National Symphony Orchestra, due concerti con improvvisazione su film muto, una performance di cross-art con piano preparato, organo, danza e percussioni, altre formazioni cameristiche e due saggi delle master class.

giovedì 7 settembre 2023

Eppure... anche in Siria 'la speranza è possibile, la salvezza è possibile, la vita è possibile'

 


Riprendiamo le parole pronunciate da padre Giuseppe Lepori nella presentazione della Mostra “Ciò che non muore mai. La vita di Takashi e Midori Nagai” Bruchsal, 8 gennaio 2023,

perchè ci sembra leggano la grandezza della testimonianza anche degli amici cristiani in Siria.



Incarnano la profezia di un “segno di contraddizione, che proprio in mezzo a tutti i motivi reali, inconfutabili, di rassegnazione al male, di disperazione, si erge e rende evidente, altrettanto inconfutabilmente, che la speranza è possibile, che la salvezza è possibile, che la vita è possibile, anzi: che ci sono, sono qui, sono già date! Un semplice “Eppure!”che in un istante arresta il declino della disperazione verso la morte. L’impossibile diventa possibile, contro ogni umana evidenza, contro ogni speranza. Quanto abbiamo bisogno nel mondo di oggi, proprio nei tempi che viviamo, di questo segno profetico, di questo“Eppure”!

Quanto abbiamo bisogno allora della profezia dell’ “Eppure!” che rinnova la vita, la gioia di vivere, che riapre davanti a noi il futuro come vita e non come morte! Ecco, le persone come Takashi Nagai e sua moglie incarnano questo “Eppure!” in modo particolarmente significativo, sia per la straordinarietà della loro vita, sia perché hanno espresso questo“Eppure!” in un momento particolarmente privo di speranza per la loro vita, per il loro popolo e l’intera umanità.

Questi testimoni dell’“Eppure!” della speranza sono luci apparentemente isolate, rare, ma che risplendono proprio per questo, e che per questo ci rendono attenti a tante luci che brillano attorno a noi, o in noi stessi, e che noi non vediamo. Soprattutto ci rendono attenti, a come è possibile anche a noi, dentro le nostre situazioni di prova e disperazione, di diventare un “Eppure!” profetico che trasmette a chi ci sta attorno la speranza che rinnova la vita. Questi testimoni attirano la nostra attenzione perché ci accorgiamo che guardare a loro ci aiuta a vivere, ridà senso e speranza alla nostra vita.”

Grazie dunque ai testimoni della pazienza e della speranza contro ogni speranza che qui riportiamo, Padre Hanna e i Salesiani di Aleppo.

Fra Hanna Jallouf: «Sarò vescovo per servire la mia gente nella Siria insanguinata»

Mentre era di passaggio a Roma per varie incombenze legate recente alla nomina a vicario apostolico di Aleppo dei Latini, Terrasanta.net ha intervistato fra Hanna Jallouf, per lunghi anni parroco di Knayeh, nel governatorato di Idlib, in Siria.

Il motto che ha scelto chiarisce subito lo stile che intende adottare nel suo nuovo ministero episcopale: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Vangelo di Luca 22,27). Un passo, quello dell’evangelista Luca scelto da fra Hanna Jallouf, che spiega più di molte parole. Soggiunge il frate siriano: «Nello mio stemma episcopale metterò la croce di Terra Santa e lo stemma francescano, ma anche la carta della Siria indivisa».

La sua nomina a vicario apostolico di Aleppo dei Latini è stata resa nota sabato primo luglio 2023 dalla Santa Sede. Il neo vescovo avrà giurisdizione sui cattolici di rito latino in tutta la Siria. Frate minore della Custodia di Terra Santa, il religioso è stato, fino ad oggi, parroco di Knayeh. La località, insieme ai vicini villaggi di Ghassanieh e Yacubiyeh, si trova nel nord-ovest della Siria, nella valle dell’Oronte. Vale a dire all’interno di quel governatorato di Idlib tuttora controllato da gruppi ribelli di matrice islamista che si oppongono al governo di Damasco e che hanno avuto negli anni appoggi dalla vicina Turchia.

Eccellenza, come ha accolto la nomina da parte di papa Francesco?
Ho avuto da una parte timore e preoccupazione, perché non mi sento degno di questa nomina. Ma poi anche gioia, perché ho capito che questo incarico non è per me, ma per la gente che sono chiamato a servire. Dopo tanti anni, passati tra molte sofferenze, il Signore mi ha dato una croce ancora più grande. Ma si vede che ha visto che ho le spalle grandi… Allora ho detto: sia fatta la tua volontà.

Come è la situazione oggi nella zona delle missioni dell’Oronte?
Lavoro da 22 anni in quella zona, dove ho realizzato molte opere…  Ma la guerra e poi il terremoto hanno distrutto quasi tutto e la gente è fuggita… Si vede che il Signore aveva altri piani. Ma noi francescani siamo rimasti e abbiamo scelto di metterci al servizio dei più poveri, dei disabili, delle vedove. Nei nostri conventi e case abbiamo accolto chi è rimasto senza abitazione a causa della guerra e, più recentemente, del terremoto… Senza distinzione di religione, abbiamo fatto entrare chi ha bussato alla nostra porta.

Quanti cristiani sono rimasti nella valle dell’Oronte?
Prima del 2011 eravamo circa 10 mila in tutta la provincia di Idlib. La maggior parte, però, è fuggita in questi dodici anni di guerra. Siamo rimasti in 600, cristiani di vari riti e confessioni. Tutti fanno riferimento a noi, perché i sacerdoti e i religiosi delle altre Chiese sono fuggiti.

Il governatorato di Idlib è noto per essere l’ultima roccaforte del sedicente Stato islamico in Siria…
Dalla mia zona sono passati tutte le fazioni, dall’Esercito libero siriano a Jabat al Nusra. Poi, negli ultimi anni, nella regione hanno trovato riparo molte formazioni ribelli cacciate da altri territori della Siria. La zona ha sofferto sia per l’occupazione dei guerriglieri, sia per i bombardamenti delle forze alleate di Damasco – specialmente russe – e non è mai tornata completamente sotto il controllo del governo centrale. Abbiamo vissuto momento davvero brutti. Penso all’uccisione di padre François Mourad nel 2013 a Ghassanieh; penso ai rapimenti di cristiani per costringerli ad abiurare la fede. Penso all’assassinio di una nostra maestra cristiana, massacrata e gettata in un fosso. Io stesso ho subito la detenzione nell’ottobre del 2014… Per anni i jihadisti ci hanno permesso di celebrare la liturgia solo al chiuso, e nessun simbolo religioso cristiano era ammesso negli spazi pubblici. In più occasioni le nostre chiese sono state attaccate e devastate… Con l’aiuto di Dio abbiamo resistito e siamo rimasti fedeli…
Oggi la situazione nel governatorato resta complicata, ma il clima è più sereno. Quando si è diffusa la notizia che ero stato nominato vescovo cattolico della Siria, lo 
sheikh e alcuni collaboratori sono venuti a porgermi le loro felicitazioni. 

Tra le emergenze che ogni tanto salgono alle cronache, c’è la situazione delle vedove dei jihadisti e dei tanti orfani…
È vero, è un’emergenza che tocca tutta la Siria. La realtà più nota è quella del campo di detenzione di al-Hol, con oltre 50 mila donne e moltissimi bambini. Ma anche nella mia zona esiste un campo dove vivono una settantina di queste vedove dell’Isis, molte con figli. Alcune sono state sposate per procura e non conoscevano neppure i mariti a cui sono state date in moglie. Ora i mariti sono morti e loro sono totalmente abbandonate, senza nessun sostegno… È una situazione disumana. Per non parlare dei minori, orfani di entrambe i genitori… Ad Aleppo di questa realtà si occupa il progetto Un nome un futuro, nato dalla collaborazione tra il mio predecessore mons. George Abu Khazen e il muftì della città (Mahmoud Akam – ndr), grazie all’impegno dei frati della Custodia di Terra Santa. 

Quanti sono i sacerdoti e le religiose che fanno parte oggi del vicariato di Aleppo?
Il vicariato latino non ha preti diocesani. La sua forza pastorale è formata dai religiosi francescani, presenti ad Aleppo, Lattakia, nell’Oronte e a Damasco. Poi c’è la presenza dei padri cappuccini, dei gesuiti, dei salesiani… Le congregazioni femminili sono almeno una quindicina, impegnate in vari campi… 

L’ordinazione episcopale avverrà ad Aleppo domenica 17 settembre 2023, che è anche festa liturgica delle stimmate di san Francesco d’Assisi…
Ho scelto questa data, per me francescano importantissima, perché la Siria è insanguinata. Le ferite di Francesco sono la partecipazione alle sofferenze di Cristo. La speranza è che queste ferite rimarginino presto e che il Paese possa presto risorgere ad un futuro di pace.

https://www.terrasanta.net/2023/07/fra-hanna-jallouf-saro-vescovo-per-servire-la-mia-gente-nella-siria-insanguinata/

.... questo è il momento!

di Padre Dave, prayersforsyria.com

Da questa distanza è spesso difficile vedere dove lo Spirito di Dio è all'opera in Siria. Il paese sembra barcollare da una crisi all'altra. Dopo una dozzina di anni di guerra, incendi, terremoti e tutte le privazioni causate dalle sanzioni provenienti dagli Stati Uniti, sono tornati gli incendi!  Hanno colpito di nuovo la provincia di Lattakia, una parte così bella della Siria, e la stessa regione che è stata al centro dei terremoti.

Ricordo amici in Siria che mi raccontavano di come, durante gli incendi dello scorso anno, le famiglie si accalcassero nell'unico veicolo che riuscivano a trovare che avesse carburante e cercassero disperatamente di attaccare un albero di ulivo al veicolo in modo da avere del cibo mentre fuggivano!

I disastri naturali sono stati terribili. I disastri provocati dall'uomo, causati soprattutto dalle sanzioni statunitensi, mi sembrano ancora più terribili. Trovo un po' di conforto nel resoconto che riporto qui di seguito sul buon lavoro svolto dalla  Don Bosco House  di Aleppo, che ricorda ciò che la Chiesa, e le altre organizzazioni religiose internazionali, possono ancora realizzare.

Mentre le sanzioni rendono ancora impossibile per la maggior parte di noi inviare denaro in Siria, la chiesa può ottenere denaro oltre confine per finanziare opere come questa. Se c'è mai stato un momento in cui la comunità cristiana in tutto il mondo si facesse avanti e facesse la differenza per le persone bisognose, questo è il momento!

https://prayersforsyria.com/its-time-for-the-church-to-stand-with-syria/

Subito dopo le devastanti scosse di febbraio, i Salesiani hanno aperto le porte della Casa Don Bosco, e centinaia di persone hanno trovato sicurezza, compagnia e sollievo.  A cinque mesi dal terremoto, padre Alejandro León, superiore dell'Ispettoria salesiana Gesù Adolescente del Medio Oriente, ha riflettuto su ciò che ha vissuto e su ciò di cui il Paese continua ad aver bisogno, oltre ad esprimere la sua gratitudine per tutti coloro che hanno fornito sostegno.

Fr. León ha detto: “Una frase che ho sentito mi ha fatto pensare. Sono entrato in un incontro di formazione con un gruppo di adolescenti di 15-16 anni. Non so quale argomento stessero discutendo, ma una ragazza ha detto: "Qui ci hanno insegnato a vedere il bicchiere mezzo pieno, piuttosto che mezzo vuoto, ma il problema è che il nostro bicchiere non è solo vuoto, è davvero rotto".  La frase può sembrare un'esagerazione, o uno sfogo dopo l'esperienza del terremoto. Questo però non lo penso, ma c'è qualcosa in esso che mi fa riflettere ed entrare in empatia con la situazione esistenziale di questi giovani». 

Fr.  León ha notato tutto ciò che questi giovani hanno passato nelle loro giovani vite. “Sono giovani che non ricordano la vita senza guerra. Hanno vissuto per anni senza elettricità, senza acqua, con scarsità di cibo e carburante. Hanno vissuto in una città assediata e hanno temuto attacchi con armi chimiche o missili. Tutti piangono un familiare morto durante la guerra e vivono in una costante depressione economica. Hanno sperimentato epidemie di colera e l'epidemia di COVID-19. E adesso? Un grande terremoto e altri terremoti, almeno quattro, che hanno superato i 6 gradi della scala Richter”. 

Erano le 4:17 del 6 febbraio quando la terra tremò. Subito il cortile di Casa Don Bosco si è riempito di gente in cerca di salvezza. C'era ansia e incertezza. Don Mario Murru, rettore, ha assicurato fin dall'inizio che la casa salesiana sarebbe stata aperta per tutti coloro che ne avessero avuto bisogno.  All'ora di pranzo c'erano già 50 persone in casa e a cena erano 300. Questo numero è cresciuto costantemente nei giorni successivi fino a raggiungere le 500 persone. Il 21 febbraio un altro forte terremoto ha rinnovato la paura e 800 persone hanno trovato rifugio presso la Casa Don Bosco.

I giovani della regione frequentavano da anni i programmi della Don Bosco House. Erano coinvolti in campi giovanili e conoscevano i Salesiani. Attraverso la loro formazione, sono stati leader naturali nell'emergenza, aiutando le loro famiglie e i loro vicini.  Fr. Murru ha detto: “È stato commovente vedere il rispetto che gli adulti hanno mostrato ai giovani. Non perché fossero autorità designate, ma per l'autorità morale acquisita attraverso il loro generoso servizio».

Ha aggiunto: “L'amore ci ha fatto superare barriere che nessuno di noi avrebbe potuto immaginare. Per amore dei figli, per amore dei genitori, per amore degli amici, per amore di Dio. In un momento in cui non c'era motivo di sperare in nulla, hanno trovato persone per cui lottare con speranza e tutti, ricchi e poveri, sono diventati bisognosi e hanno condiviso ciò che avevano». 

Quasi 2,4 milioni di euro sono stati raccolti dai Salesiani di tutto il mondo per i progetti di emergenza post-terremoto. A giugno si sono conclusi gran parte di quei progetti di emergenza per lasciare spazio alla ricostruzione, ai progetti educativi e ai campi estivi per i bambini e i giovani più grandi colpiti dal sisma. 

Reportage di Reliefweb – 30 luglio 2023

domenica 22 gennaio 2023

«Imparate a fare il bene, cercate la giustizia»

 

Di fra John Luke Gregory ofm, da Rodi, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 


«Apri la bocca in favore del muto, in difesa di tutti gli sventurati. Apri la bocca e giudica con equità, rendi giustizia all’infelice e al povero» (Pr 31,8-9). È così chiara e incisiva questa indicazione del Libro dei Proverbi, che, dopo averla ascoltata, non si può restare indifferenti e inermi.

In obbedienza alla Parola di Dio e secondo lo stile francescano, abbiamo cercato di metterci in ascolto dei tanti poveri che hanno lambito le coste della nostra isola e bussato alle porte del convento francescano. Il grido che sgorgava dalle loro labbra e ancor più dalla loro condizione miserevole chiedeva giustizia e anelava alla pace. Pace e Giustizia non sono concetti astratti, ma condizioni concrete di vita. Giustizia e Pace non sono lontani miraggi ma valori imprescindibili per una condizione di vita dignitosa e veramente umana. Pace e Giustizia sono due beni inseparabili: l’uno non può esistere senza l’altro.

E così, per non accontentarci di fare buone e lodevoli riflessioni, abbiamo cercato di rendere concreti l’esercizio della giustizia e la costruzione della pace, mettendoci al servizio dei fratelli e sorelle dai bisogni più essenziali. Ci siamo sforzati di servire le tante persone distrutte e sfollate che arrivano da noi ogni giorno, in cerca di una vita migliore o semplicemente desiderose di trovare un po’ di pace e di giustizia per se stesse, ma soprattutto per i loro figli. Mettendo il poco che abbiamo e le piccole energie della nostra parrocchia di Rodi a disposizione di coloro che non hanno nulla e che le sofferenze della vita ha sfiancato, siamo stati costretti a maturare atteggiamenti fondamentali: l’ascolto, l’accoglienza e il servizio, nella gratuità, senza pregiudizi o giudizi, lasciandoci sorprendere dal colorito splendore della diversità.

La guerra in Siria ha posto le questioni di giustizia sociale alla ribalta della coscienza globale e la pandemia di coronavirus ha evidenziato (e aggravato) le disuguaglianze. Sembra che in questi ultimi tempi, sollecitati anche dall’insistente magistero papale, il mondo si stia accorgendo di alcuni drammi e di alcune questioni sociali (l’abuso delle donne, i diritti degli immigrati, dei rifugiati e delle popolazioni indigene, la discriminazione razziale) ma c’è bisogno di un cambiamento sostanziale.

Non basta, però, fare una dettagliata analisi sociologica dei mali che affliggono il mondo: è urgente agire in modo concreto ed efficace, ascoltando e abbracciando i fratelli e le sorelle bisognosi. La rotta di tale cambiamento è segnalata molto chiaramente da papa Francesco nell’enciclica Fratelli Tutti: tutti figli e figlie dello stesso Padre celeste, siamo fratelli e sorelle! Lo stesso Padre si prende cura di tutti noi ed è attento al grido dei poveri, degli emarginati, di coloro che sono esclusi economicamente, socialmente e politicamente. Le sfide che sono davanti all’umanità sono enormi, come enorme era la quantità di miserie che si sono presentate al nostro sguardo in forma sempre crescente. Davvero sproporzionate, rispetto alle nostre povere possibilità. Da dove iniziare? Per noi è stato spontaneo iniziare il nostro servizio di carità e giustizia, piegando le ginocchia davanti al Santissimo Sacramento. Solo guardando Gesù, possiamo comprendere come servire veramente il fratello. Solo ascoltando Lui, possiamo conoscere la Verità e la Giustizia. Solo ricevendo da Lui la Grazia, abbiamo sorprendenti energie per affrontare sfide ardue e umanamente impossibili.

La nostra fraternità francescana è piccola e nascosta, la nostra parrocchia cattolica conta pochissimi fedeli, e le nostre bellissime isole sono per definizione “isolate” dai grandi circuiti. Eppure, la Provvidenza ci ha sorpresi. Grazie alla preziosa opera dei media della Custodia di Terra Santa e all’attenzione riservataci dagli amici dell’Osservatore Romano, in molti sono venuti a conoscenza delle nostre attività semplici, silenziose e nascoste. E così siamo stati beneficati da generose donazioni dalla Custodia stessa attraverso la nostra ong Pro Terra Sancta e dalla collaborazione di volontari che ci permettono di servire i fratelli che il Signore ci manda. Una notorietà che non abbiamo cercato, ma che ci consente di portare all’attenzione del mondo le sofferenze che incontriamo e, al tempo stesso, ci aiuta a mostrare ai poveri che, attraverso di noi, è la Chiesa stessa che si china su di loro nel nome di Gesù.

Seguendo l’insegnamento del nostro Santo Padre Francesco d’Assisi, questo desideriamo: quanti trovano conforto nella nostra carità e nelle nostre parole possano «vedere» Gesù stesso che si prende cura di loro. Nel nome di Gesù e con la Sua Grazia, sostenuti dal Magistero e dalla fraternità della Chiesa, cerchiamo di dare forma concreta alla giustizia e alla pace. Giustizia che si declina nella promozione della dignità di ogni persona che arriva sull’isola, ma anche dei poveri che vivono accanto a noi. Giustizia che scaturisce da un ascolto vero e non semplicemente emotivo: non ci accontentiamo di riempire delle pance vuote o di vestire dei corpi nudi e infreddoliti. Cerchiamo, invece, di incontrare persone, che sono affamate anche di uno sguardo fraterno e benevolo, che attendono il calore anche di un abbraccio e di una carezza. La fatica più grande è dare continuità quotidiana a questo servizio, ma anche questo è giustizia! Non ci si può limitare a offrire una coperta e un pezzo di pane: il fratello va accolto, ascoltato, accompagnato perché ritrovi fiducia nella vita, si adoperi per costruire un futuro e rialzi lo sguardo alla speranza.

https://www.terrasanta.net/2023/01/in-aiuto-di-tutti-i-poveri-figli-dello-stesso-padre/

sabato 7 gennaio 2023

Natale ed Epifania tra Oriente ed Occidente

 di Edoardo Arborio Mella

Il ciclo liturgico di Natale ed Epifania muove essenzialmente da due tradizioni: quella occidentale che ha dato vita alla festa del Natale e quella orientale che si è sviluppata nella festa dell’Epifania. Le nostre informazioni al riguardo sono ovviamente frammentarie, spesso congetturali, basate su accenni negli scritti degli autori antichi e raramente su rubriche liturgiche non sempre facili da interpretare. Ma a partire da questi dati è possibile ricostruire una storia con molti «forse».

Occorre ricordare innanzitutto che l’epoca del grande sviluppo della liturgia cristiana inizia nel IV secolo, a seguito della cosiddetta pace costantiniana. È sostanzialmente in quel secolo, contraddistinto da una creatività liturgica definita da qualcuno «forsennata», che si forma il ciclo di Natale ed Epifania: fino ad allora tutto il culto era concentrato sul mistero pasquale.

In occidente i primi cenni della presenza di una festa del Natale del Signore celebrata il 25 dicembre risalgono alla prima metà del IV secolo. La festa veniva celebrata a Roma e passò subito nel resto d’Italia, forse in Spagna e nella provincia d’Africa (che non comprendeva l’Egitto), ove si ricordava pure, lo stesso giorno, l’adorazione dei magi con la strage degli innocenti. Forse una chiesa appena emersa da un’età di persecuzioni sentiva il bisogno di ricordare assieme la nascita di Gesù per il mondo e il suo immediato rifiuto. La data del 25 dicembre dipende probabilmente dalla festa pagana del solstizio d’inverno, che cominciava appunto nella notte fra il 24 e il 25 dicembre. Da circa un secolo quest’ultima aveva acquistato risalto a Roma, a causa del diffondersi e talvolta dell’ufficializzarsi del culto persiano di Mitra, identificato con il sole, e del nascente culto della persona dell’imperatore: era la festa del Natale invitto, del sole che rinasceva ricominciando a crescere dopo la diminuzione invernale delle giornate. Cristo fu quindi annunciato come il vero sole di giustizia che nasceva nel mondo, in un simbolismo ben comprensibile a chi era plasmato da quella cultura.

Abbiamo notizia di un’altra data: il teologo e filosofo cristiano Clemente Alessandrino riferisce di una tradizione presente in Palestina e in Egitto durante la sua vita, all’inizio del III secolo, dunque circa un secolo prima delle prime attestazioni del 25 dicembre in Occidente. Essa datava la nascita di Gesù al 20 maggio; altre notizie di area palestinese o egiziana pongono attorno a questa data la memoria della fuga in Egitto e della strage degli innocenti. Ricordo biografico? Come che sia, due secoli dopo l’attestazione di Clemente Alessandrino ogni traccia della memoria del 20 maggio sembra sparita, benché rimangano talvolta in quel periodo le memorie connesse dette sopra. Il giorno della nascita di Gesù era ormai divenuto in tutto l’Oriente il 6 gennaio, la festa dell’Epifania.

Eccoci dunque alla seconda data-chiave di questo tempo liturgico, il 6 gennaio. Incerta è l’origine della data. Quanto al nome «epifania», esso indica un’origine orientale: è termine greco che significa «manifestazione». Manifestazione di che cosa? La festa è già nota in area siriaca nella seconda metà del III secolo, poi verso la fine del IV secolo in Palestina e in Egitto come celebrazione della manifestazione di Gesù nella carne, cioè della sua nascita e dell’adorazione dei magi. In Egitto e forse in Siria si ricordava anche, forse per trasposizione di un precedente rito pagano sulle acque, il battesimo di Gesù, e talvolta il miracolo di Cana.

Avvenne poi che in Siria e in area costantinopolitana verso la fine del IV secolo si introducesse il Natale occidentale del 25 dicembre. Ciò provocò un mutamento di significato nella festa del 6 gennaio, che divenne memoria del solo battesimo. Il termine venne così a significare la manifestazione alle folle del Giordano da parte della voce celeste della filiazione divina di Cristo. Lo stesso avvenne in Egitto nella prima metà del V secolo, e alla stessa epoca in Palestina, salvo che qui la festa occidentale durò poco (il che avrà una conseguenza, come si dirà più avanti) e vi rientrò più tardi, forse in conseguenza di un decreto imperiale della seconda metà del VI secolo. A questo punto dappertutto in oriente il 6 gennaio era divenuto la festa del battesimo di Gesù. Tale è a tutt’oggi il significato unico di questo giorno nel mondo ortodosso.

Curiosamente sembra che il 6 gennaio come memoria della Natività fosse presente nella seconda metà del IV secolo anche in Gallia (attuale Francia), unica regione occidentale. Ma già prima della metà del V secolo la nascita era celebrata in un giorno precedente (forse il 25 dicembre del resto dell’Occidente), il che mutò anche qui il carattere del 6 gennaio: ma non, come in Oriente, conferendogli il carattere di memoria del battesimo, bensì facendogli ricordare la visita dei magi, il battesimo e il miracolo di Cana: i «tre segni» che ancora oggi vengono cantati nelle antifone del Benedictus e del Magnificat durante la celebrazione dell’Epifania in Occidente.

Sì, perché come il Natale del 25 dicembre entrò in Oriente, così l’Epifania del 6 gennaio entrò in Occidente. Con questa particolarità: che l’evento centrale con essa celebrato in Occidente non divenne il battesimo, bensì la visita dei magi, talvolta con una menzione degli altri due eventi citati. In Italia alla metà del V secolo sono conosciuti i tre eventi; in Spagna alla fine del IV secolo si ricordano i magi e la strage degli innocenti; a Roma e in Africa nel V secolo solo i magi, ma più tardi anche gli altri due eventi.

Troppi dati ci sfuggono perché si possa dire qualcosa di preciso sui passaggi e sui mutamenti intervenuti. Forse quando l’Occidente, che già aveva il 25 dicembre, cominciò ad adottare l’altra festa, isolò quella parte, o quelle parti, presenti nelle primitive Epifanie orientali per la propria Epifania. O al contrario, una Chiesa occidentale che celebrava la Natività il 6 gennaio (come abbiamo visto accadere in Gallia) può aver adottato l’uso romano del 25 dicembre e lasciato la parte relativa ai magi all’antica festa; l’uso si sarebbe poi esteso al resto del mondo occidentale.

Il visitatore della Terra Santa può rendersi conto facilmente dell’importanza che queste ricorrenze hanno per le Chiese locali. Le liturgie cattoliche non riservano sorprese ai cattolici. Particolarmente nota è l’Eucaristia notturna del patriarca latino presso la chiesa dei francescani a Betlemme, che riveste un carattere di ufficialità. 

Quanto agli eventi delle Chiese orientali, per capirli occorre tener presenti due fatti. Il primo è che, in seguito alla mancata riforma del calendario giuliano da parte di quelle Chiese, il loro calendario liturgico è in ritardo di tredici giorni rispetto al nostro. Così il loro 25 dicembre corrisponde al nostro 7 gennaio. Essi dunque, solo per motivi calendaristici, celebrano il loro Natale quasi in concomitanza con la nostra Epifania. Il 6 gennaio (per loro il 24 dicembre) vi è a Betlemme la grande festa popolare dell’ingresso dei capi delle Chiese orientali nell’antica basilica della Natività. La massima solennità è riservata all’ingresso del patriarca e dei vescovi ortodossi, che avviene nella tarda mattinata con festoso accompagnamento di tamburi e cornamuse. Seguono, nella notte, le liturgie, celebrate da ogni chiesa al proprio altare. Il giorno dopo (il nostro 7 gennaio) ha luogo il ritorno a Gerusalemme. Poi, il 6 gennaio del calendario giuliano, corrispondente al 18 del nostro, vi è la celebrazione dell’Epifania, cioè del battesimo di Gesù: il giorno prima o il giorno stesso, ogni Chiesa si reca al Giordano, ciascuna al proprio luogo, passando attraverso i campi minati con il permesso, la sorveglianza e la protezione dei militari. Alla celebrazione ortodossa, in particolare, convergono diverse decine di pullman da ogni parte di Israele e della Cisgiordania. Si benedice l’acqua e se ne porta nelle proprie chiese e case.

l secondo fatto da tener presente è che nel quadro sopra accennato vi è un’eccezione: la Chiesa armena. Essa infatti, viva nella chiesa di Gerusalemme fin dall’inizio della propria esistenza e in essa radicata per la propria tradizione liturgica più antica, al pari di essa non accolse l’inserzione del 25 dicembre nel calendario; e quando poi le due Chiese si separarono definitivamente, mantenne, tranne che per un breve periodo nel VI secolo, il calendario di un tempo: conservò quindi all’Epifania l’antico significato di memoria della Natività, e in un desiderio di fedeltà alla propria tradizione monofisita valorizzò in essa la memoria del battesimo, già anticamente presente, lo si è accennato, in diverse Chiese orientali. Ribadì così liturgicamente, racchiudendola in un’unica festa, l’unica natura (perché questo significa il termine monofisismo) di Gesù uomo manifestato nella nascita a Betlemme e di Gesù Dio manifestato nella voce celeste durante il battesimo. A ulteriore legittimazione dell’usanza si aggiunse con il tempo una precisazione storica: il battesimo di Gesù avvenne il giorno stesso della sua nascita, esattamente trent’anni dopo. Ciò a partire da un’esegesi, ai nostri occhi certo un po’ forzata, di Luca 3,21-23. Conseguenza visibile di tutto ciò è che la Chiesa armena è del tutto assente dalla festa orientale del Natale a Betlemme, e che in occasione della festa dell’Epifania essa non si reca al Giordano bensì a Betlemme, ove fra la sera e la notte celebra nella basilica i due misteri sopra enunciati.

https://www.terrasanta.net/2011/11/natale-ed-epifania-tra-oriente-ed-occidente/

venerdì 14 ottobre 2022

Le reliquie di Mar Elian tornano nel monastero di Qaryatayn

 Sette anni dopo la sua distruzione da parte dell'Isis, il monastero di Mar Elian in Siria sta tornando in vita. Padre Mourad ha riferito dello stato di avanzamento dei lavori e annunciato il ritorno, lo scorso settembre, delle reliquie di san Giuliano.

da  Terrasanta.net

Si tratta di un monastero incendiato e ridotto in rovina il 21 agosto 2015 dai bulldozer dei militanti del cosiddetto Stato islamico. Questi avevano anche profanato la tomba di san Giuliano d’Emesa, custodita nel monastero. «Come se volessero cancellare quello che avevano riconosciuto come il cuore pulsante del complesso monastico», ha spiegato lo scorso 4 ottobre l’agenzia Fides, che ha riferito anche dello stato di avanzamento dei lavori di restauro di Deir Mar Elian el-Sheikh, il monastero di San Giuliano a Quaryatayn, in Siria, un centro quasi equidistante da Homs, Damasco e Palmira.

I lavori sono iniziati nel marzo 2022, come ha spiegato padre Jacques Mourad, fondatore di questo monastero di rito siro-cattolico e al quale è stato affidato il restauro.

Monaco e sacerdote, padre Mourad fa parte della comunità di Mar Musa, una comunità monastica molto attiva per il dialogo islamo-cristiano e fondata in Siria da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano scomparso dal 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, in quel periodo capitale siriana dell’Isis.

Padre Jacques Mourad era stato incaricato, a partire dagli anni 2000, di edificare un monastero e una cappella sulle rovine del monastero di Mar Elian costruito 1.500 anni fa. Circondato da ulivi e vigneti, l’attività agricola contribuiva alla sua sussistenza… fino al maggio 2015. Quando anche padre Jacques Mourad fu rapito da un commando di jihadisti proprio a Mar Elian, luogo che verrà distrutto tre mesi dopo il suo rapimento. Il monaco fu rilasciato il 10 ottobre successivo. 

Segni di resurrezione…

Oggi i lavori di restauro sono proseguiti bene nonostante «le difficoltà legate alla situazione economica del nostro Paese, per le sanzioni imposte», spiega padre Mourad. Negli ultimi otto mesi, però, il sito è stato ripulito e sono stati cotti mattoni di argilla per rialzare il muro perimetrale. Sono stati piantati duecentocinquanta ulivi perché erano stati sradicati gli alberi da frutto, ulivi e viti. Sono state ritrovate le pietre della porta d’ingresso e del battistero e sono state ricostruite le pareti e il tetto della cripta. Anche la chiesa, incendiata, è stata riparata e dotata di un nuovo altare.

Il restauro è stato eseguito senza ripulire completamente la fuliggine inglobata nelle murature in modo da preservare tracce visibili del conflitto recente. Inoltre, un archeologo di Homs ha restaurato la tomba di san Giuliano d’Emesa, martire guaritore, venerato da cristiani e musulmani, con i resti rinvenuti nel sito. Inoltre, sono state rifatte sette camere da letto. 

e di riconciliazione

L’obiettivo era celebrare la festa di Mar Elian presso il monastero lo scorso 9 settembre e riportare nel luogo le reliquie di san Giuliano, trovate da padre Jacques e portate in salvo a Homs. L’area intorno al monastero è stata strappata all’Isis dall’esercito siriano nell’aprile 2016. 

Per il giorno della festa di san Giuliano, più di 350 persone sono giunte da tutta la regione, oltre a tanti sacerdoti siro-cattolici da tutta la Siria e amici musulmani del monastero. La cerimonia di riconsacrazione è stata presieduta da monsignor Youhanna Jihad Battah, arcivescovo siro-cattolico di Damasco, e invitato speciale è stato l’arcivescovo siro-ortodosso di Homs, Mor Timotheos Matta al-Khoury.

I due vescovi hanno unto insieme, con olio santo, la cripta e la chiesa restaurate. La cerimonia si è quindi rivelata «una meravigliosa opportunità per vivere la comunione tra le due Chiese sorelle», che in passato avevano vissuto periodi di conflitto sulla proprietà del monastero. 

«Il momento più commovente – ha detto padre Jacques – è stato quando le reliquie di Mar Elian, san Giuliano, sono arrivate alle porte del monastero. Un cristiano e un musulmano le hanno portate e le hanno deposte davanti all’altare». Sono stati benedette e poste in un sarcofago. «Non era facile immaginare di poter vivere la gioia di un tale incontro – ha aggiunto –. Esiste certamente una forza che va oltre i nostri limiti umani».

Durante la celebrazione un professore di filosofia, in rappresentanza della comunità musulmana, ha invitato i cristiani a tornare nelle loro case a Quaryatayn, una città di 30mila abitanti, in prevalenza sunniti. Prima di cadere nelle mani dell’Isis, la città era un simbolo di convivenza tra cristiani e musulmani. Dal 2010 fino alla primavera del 2015, padre Mourad si è occupato anche della parrocchia cattolica della città.

domenica 14 novembre 2021

Il fiume Eufrate in secca, il disastro incombe sulla Siria

foto D Souleiman -AFP

L'accusa rivolta alla Turchia apparsa ieri su France Culture : “Per molti anni i turchi hanno costruito dighe che consentono loro di controllare il flusso che scorre a valle. Negli ultimi mesi hanno ridotto di circa l'80% il volume d'acqua che normalmente arriva in Siria e del 50% dalle stazioni di pompaggio di acqua dolce alla popolazione. "
 

di Elisa Pinna 

Per millenni l’Eufrate ha costituito l’arteria vitale per le popolazioni della Mesopotamia occidentale, ha dissetato, irrigato campi, contribuito a creare civiltà e imperi. Ora si sta prosciugando inesorabilmente in alcuni suoi tratti e milioni di persone in Siria e in Iraq non hanno più acqua per bere e mandare avanti l’agricoltura e l’allevamento di bestiame.

I cambiamenti climatici, il ciclo delle siccità, le temperature sempre più alte stanno portando via tutte le forze al «Grande Fiume» biblico. La sua portata è ai minimi storici – 150/200 metri cubi d’acqua al secondo contro i 600 metri cubi del secolo scorso – e, tra i contadini siriani e iracheni delle pianure che attraversa, vi è un senso di disperazione e disarmo. Senza l’Eufrate, anche per loro non c’è più vita.

Particolarmente grave è la situazione in Siria, dove cinque milioni di persone dipendono totalmente dalle acque del fiume e dei suoi affluenti. Sono concentrate nel Nord-Est del Paese, un tempo considerato il «granaio siriano», trasformatosi poi in un campo di mattanza della guerra civile: da queste parti i miliziani del sedicente Stato islamico (l’Isis) hanno conquistato Raqqa, per poi lanciarsi nella marcia attraverso l’Iraq fino a Mosul, proclamata nel 2014 capitale del Califfato nero e ripresa solo nel 2017 da soldati iracheni e miliziani filo-iraniani, sostenuti in quell’occasione, anche dagli Stati Uniti.

In Siria invece erano stati i curdi a guidare la controffensiva contro i seguaci dell’autoproclamato califfo Al Baghdadi, tra un coro di elogi e incoraggiamenti da parte dell’Occidente, salvo poi essere dimenticati e lasciati in balia delle vendette dei turchi, pronti a tutto pur di evitare la nascita di un’entità curda saldata agli indipendentisti interni. Molti sono pronti a scommettere che vi è un filo che lega i fatti della guerra di allora – in realtà mai terminata – ai problemi di oggi dell’Eufrate, non afflitto soltanto dai cambiamenti climatici.

Il fiume nasce dalle montagne circostanti l’Ararat e la Turchia ne controlla il flusso iniziale, attraverso un sistema di dighe e laghi artificiali, prima che il corso d’acqua passi in Siria e poi in Iraq, dove si unisce al Tigri per sfociare infine nel Golfo Persico. Il sospetto che Ankara abbia un po’ chiuso i rubinetti per assetare i nemici curdi – magari in vista di qualche nuova offensiva militare – esiste ed è dichiarato apertamente. Ankara nega qualsiasi responsabilità ed anzi si lamenta di soffrire degli stessi problemi di siccità.

Sta di fatto che le immagini dell’Eufrate trasmesse in questi giorni sono sconvolgenti, sebbene l’allarme sulla lenta agonia del grande corso d’acqua siano state lanciate da tempo. Le riprese televisive girate dall’alto, in territorio siriano, dall’emittente televisiva asiatica Wion-News mostrano quello che era uno dei più possenti fiumi dell’Asia occidentale (ed anche il più lungo con i suoi quasi 2.800 chilometri di percorso) ridotto in alcuni tratti ad un piccolo torrente che si apre a fatica la strada tra lastre di fango indurito e corrugato. Le case che, prima si trovavano sulla riva, compaiono incongruamente a chilometri di distanza dall’acqua, nel mezzo del nulla, circondate da un deserto di polvere.

Secondo i funzionari locali della Fao (l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’agricoltura) il 75 per cento dei raccolti del 2021 è andato distrutto in Siria, con punte del 90 per cento. Ora è il tempo dell’aratura della terra e della semina e i contadini rimasti non sanno cosa fare: se indebitarsi ulteriormente per comprare semenze e fertilizzanti, rischiando di trovarsi nell’estate del 2022 senza nulla in mano, ancora più poveri, affamati e assetati di prima, o se andarsene anche loro, aggiungendosi a quella metà della popolazione siriana già sfollata all’interno o all’esterno della patria. La maggior parte ha già deciso e abbandonato la propria casa.

I villaggi – sempre dalle riprese della Wion-News – appaiono vuoti, tranne qualche famiglia sparpagliata qua e là. Si tratta di una terra dove un tempo abitavano molti cristiani. A Um Gharqan vi era, fino a inizio secolo, una comunità prospera che viveva di agricoltura e allevamento grazie alle acque del fiume Khabour, un affluente dell’Eufrate, famoso nel XX secolo per le sue inondazioni, ed ora completamente essiccato. «Giuro su Dio che era il Paradiso ed ora è diventato sinonimo d’inferno», spiega, in un servizio televisivo, una signora assiro-cristiana mentre indica un canale – diventato uno scolo dove si accumula l’immondizia – che prima portava l’acqua a campi di grano, di cotone, di orzo, a frutteti lussureggianti, a pascoli per gli animali. La donna mostra sul suo cellulare una vecchia foto della chiesa del villaggio, avvolta dal verde di alberi imponenti: la chiesa è stata distrutta nel 2014 dai miliziani dell’Isis, ed attorno alle macerie vi è ora un paesaggio lunare che si estende per chilometri fino all’orizzonte.

https://www.terrasanta.net/2021/11/eufrate-in-secca-in-fuga-5-milioni-di-contadini-siriani/

venerdì 8 ottobre 2021

Escono nomi mediorientali dal vaso di Pandora

Premi Nobel e tanto scalpore per inchieste su corruzione e malversazioni-
 silenzio invece - e carcere - sul giornalismo investigativo dirompente di Assange...

Escono nomi mediorientali dal vaso di Pandora

Dall’enorme mole di documenti raccolti nell’inchiesta giornalistica chiamata «Pandora Papers», svelata il 3 ottobre, stanno emergendo i nomi di personaggi celebri che hanno collocato i propri patrimoni al riparo dal fisco, nei circuiti dell’economia offshore. L’inchiesta è stata realizzata da un consorzio investigativo di 600 giornalisti che hanno raccolto informazioni di diverse società di servizi finanziari con base nei paradisi fiscali e rivela nomi e operazioni di centinaia tra uomini di Stato e politici, personaggi sportivi e artisti di ogni parte del mondo. Compreso il Medio Oriente.

Spicca tra questi il nome del re di Giordania, Abdullah II. Dai documenti risulta che il sovrano hashemita ha creato una rete di società extraterritoriali, «nascondendo» un impero immobiliare che va dalla California a Washington, a Londra. Dato che la Giordania sta attraversando una fase economicamente molto difficile e riceve ingenti aiuti internazionali, anche a sostegno dei molti rifugiati presenti nel Paese e per attenuare l’impatto della pandemia, le rivelazioni sulle ricchezze di re Abdullah non sono passate inosservate. La casa reale ha dichiarato che le proprietà di lusso sono private e che non intaccano il bilancio pubblico del Paese. Negli elenchi dei Pandora Papers è in compagnia di altri regnanti del Golfo: dall’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, a Mohammed Al Maktoum, emiro di Dubai, oltre all’ex primo ministro del Bahrein, Khalifa Al Khalifa.

Più di 500 nomi israeliani

In Israele i riflettori sono puntati su Nir Barkat, il più ricco politico del parlamento israeliano (partito Likud), già sindaco per dieci anni di Gerusalemme fino al 2018. Dai documenti emerge che Barkat, una volta eletto membro della Knesset nel 2019, avrebbe dovuto vendere o cedere le proprietà a una persona estranea alla sua famiglia, secondo il codice etico del parlamento. Invece, i documenti rivelano che trasferì le azioni di diverse società al fratello Eli, oltre a svelare che è proprietario di azioni di una società non registrata in Israele, ma in un paradiso fiscale. Barkat ha dichiarato di essere vittima di attacchi politici e di avere sempre pagato le imposte dovute nel suo Paese.

Significativo il coinvolgimento nello scandalo anche di un’organizzazione dell’estrema destra religiosa, Ateret Cohanim, impegnata nella colonizzazione ebraica della parte orientale e palestinese di Gerusalemme. Risulta che, attraverso società di comodo registrate nelle Isole Vergini, ha acquistato proprietà immobiliari nei quartieri dove i palestinesi sotto occupazione non accettano quasi mai di trasferire ad israeliani le loro proprietà.

Scandalo libanese

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, globalmente la perdita fiscale causata da questi «paradisi» va dai 500 ai 600 miliardi di dollari all’anno. Una cifra enorme, sottratta ai sistemi fiscali di numerosi Paesi. Il caso più eclatante è quello del Libano, che, come Stato, sta affondando nei debiti, ha dichiarato default nel marzo 2020, ha visto crollare il valore della sua moneta e la maggior parte della popolazione finire sotto la soglia di povertà.

Risulta dai Pandora Papers che ben 346 società libanesi hanno occultato fondi su conti offshore, attraverso il Trident Trust, specializzato nelle domiciliazioni di società all’estero. Si tratta in assoluto del Paese al mondo con il maggior numero di imprese coinvolte. Sono perciò libanesi una parte considerevole degli 11 miliardi di dollari nascosti in paradisi fiscali come Cipro, le Seychelles e isole dei Caraibi.
Il neo primo ministro, Najib Mikati (musulmano sunnita), l’uomo più ricco del Libano grazie a società di telecomunicazioni, in carica da meno di un mese, è tra i personaggi coinvolti, insieme a Riad Salameh (cristiano maronita), da 28 anni a capo della Banca centrale libanese, all’ex primo ministro Hassane Diab e al banchiere Marwan Kheireddine. La società libanese è segnata più di altre da forti diseguaglianze: lo conferma un rapporto dell’Onu, secondo cui i miliardari detengono la stessa ricchezza del 62 per cento della popolazione. I primi ministri degli ultimi anni hanno fatto tutti parte di questa élite e l’immagine della classe dirigente del Paese dei cedri, già del tutto screditata, appare così ancora di più a pezzi. (f.p.)

https://www.terrasanta.net/2021/10/escono-nomi-mediorientali-dal-vaso-di-pandora/