LA DERIVA ISLAMISTA DELLE PRIMAVERE ARABE
di Gianandrea Gaiani
Gli sviluppi della crisi siriana e la
progressiva deriva islamista assunta dalla cosiddetta “primavera araba” mettono
in discussione la strategia adottata finora dall’Occidente. Nonostante le
rivolte dell’ultimo anno abbiano preso il via grazie a movimenti liberali e
libertari il rovesciamento dei vecchi regimi ha visto affermarsi gruppi islamici
che solo in parte e solo eufemisticamente possono venire definiti moderati. Un
risultato paradossale se si valuta la strategia statunitense sviluppatasi dopo
l’11 settembre e se si considera che tutti i regimi (Mubarak in Egitto, Ben Alì
in Tunisia e persino Gheddafi in Libia) erano alleati o comunque legati a
Washington e all’Occidente che li hanno sacrificati sull’altare di un
cambiamento che pare oggi fuori controllo. La Libia è nel caos tra scontri
tribali e penetrazione islamista. Della settantina di milizie che stanno
“feudalizzando” un Paese nel quale il Consiglio nazionale di transizione perde
costantemente prestigio e influenza, le quattro più forti sono di matrice
islamista e stanno inviando combattenti in Siria per il jihad contro il regime
di Bashar Assad. In Egitto il Parlamento è in mano a Fratelli Musulmani e
salafiti grazie ad elezioni farsa che hanno prodotto 52 milioni di voti contro
soli 40 milioni di elettori. Oggi il loro potere si confronta, anche in cerca di
compromessi, con quello dei militari che fin dalla caduta della monarchia hanno
sempre governato ed espresso il presidente. Anche in Tunisia al successo del
partito Ennhada, espressione dei Fratelli Musulmani, si affianca il crescente
peso del “Partito della Liberazione”, formazione salafita che spesso conduce
azioni violente per colpire persone e locali pubblici che non rispettano i
dettami del più stretto islamismo. Azioni che preoccupano i laici, in un Paese
tra i più moderni e aperti del mondo arabo, ma anche i servizi di sicurezza
occidentali che rilevano in Tunisia la crescente presenza di salafiti già noti
in Europa per il sostegno al terrorismo islamico. Come ha ricordato recentemente
Massimo Amorosi, analista dell'Osservatorio Geopolitico Mediorientale di Roma,
ha creato tensioni in Tunisia la visita del predicatore egiziano Wajdi Ghuneim,
che in diversi sermoni ha invocato l'applicazione della Sharia e il ripristino
della mutilazione genitale femminile. Il religioso noto per i rapporti con il
gruppo palestinese Hamas (altro movimento legato ai Fratelli Musulmani) è un ex
militare al quale è precluso il soggiorno in Gran Bretagna per “apologia della
violenza terroristica”.
Una strana alleanza
La
strategia messa a punto dall’Occidente di fronte alle rivoluzioni (o
involuzioni) arabe resta in parte da decifrare. Emerge un asse che unisce
statunitensi, franco-britannici e turchi alla Lega Araba e soprattutto ad Arabia
Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti che insieme alla Giordania hanno svolto un
ruolo finanziario e militare nel rovesciare Gheddafi e premono oggi per far
cadere Bashar Assad. Così come emerge la crescente influenza turca nell’area
compresa tra il Mediterraneo e l’Asia Centrale. Un contesto nel quale spicca
ancora una volta l’assenza imbarazzante dell’Unione Europea in una crisi che si
sviluppa minacciosamente nel suo giardino di casa. Londra e Parigi, tornate
protagoniste sulla scena internazionale, schierano truppe scelte e istruttori
militari al fianco degli insorti siriani così come fecero in Libia. Iniziative
che rispondono a interessi nazionali non certi comunitari. Pare evidente la
volontà di Washington e di Ankara di favorire la nascita di un blocco arabo
sunnita che, rovesciando il regime scita siriano, isoli l’Iran e i miliziani
libanesi Hezbollah. Non mancano però i dubbi su un’iniziativa che rischia di far
cadere la principale area petrolifera del mondo nelle mani di gruppi radicali
islamisti, parenti a volte molto stretti delle milizie di al-Qaeda e dei
talebani afghani con i quali gli statunitensi stanno trattando, non a caso, in
Qatar. Paradossale che le forze speciali britanniche segnalate a Homs al fianco
dei ribelli siriani, combattano dalla stessa parte delle milizie irachene di
al-Qaeda loro acerrime nemiche in Iraq. La presenza in Siria delle cellule di
“al Qaeda in Mesopotamia”, dopo i devastanti attentati di Damasco e Aleppo
contro comandi militari e di polizia, è stata ufficializzata da Baghdad e
dall’intelligence statunitense. Ammissioni che hanno sgombrato il campo dalla
propaganda degli insorti che indicava lo stesso regime di Assad come
responsabile delle autobombe. Desta non pochi interrogativi e imbarazzi anche la
considerazione che gli stessi Paesi che oggi combattono per impedire ai talebani
di riportare la sharia a Kabul siano politicamente e militarmente impegnati a
portarla a Tripoli, Damasco e in tutto il Medio Oriente così come è evidente che
il sostegno delle monarchie arabe del Golfo alla libertà e alla democrazia venga
meno quando a chiederle sono gli abitanti del Bahrein (dove Riad ha inviato
truppe a sostegno dell’emiro) o gli stessi cittadini sauditi e del
Qatar.
L’impasse siriana
L’amministrazione Obama
sembra cominciare a valutare il rischio concreto di consegnare la Siria agli
islamisti soprattutto dopo le amare lezioni giunte dalla Libia dove imponenti
arsenali di armi moderne sono passati dai depositi dell’esercito di Gheddafi
alle mani di insorti e terroristi di al-Qaeda nel Sahel , in Sudan e persino a
Gaza e in Libano. Damasco dispone di ampie riserve di armi chimiche disseminate
in una cinquantina di depositi che verrebbero tenuti d’occhio dai velivoli
teleguidati statunitensi decollati dalla Turchia e forse anche da Israele e
dalle basi britanniche a Cipro. Nelle mani di terroristi e jihadisti i gas
nervini (Sarin e VX) di Assad diverrebbero armi micidiali se impiegate contro
obbiettivi civili in ambienti urbani. Una preoccupazione che sembra smorzare le
possibilità di un intervento militare internazionale sulla falsariga di quello
attuato in Libia per non creare escalation e caos che faciliterebbero la
sottrazione di armi di distruzione di massa ma anche delle sofisticate armi
convenzionali di produzione russa in dotazione alle forze di Damasco. Quella
siriana è però già a tutti gli effetti una guerra civile dove dei circa 7.500
morti registrati quasi un terzo sono militari e poliziotti governativi. Il
conflitto siriano registra inoltre una progressiva internazionalizzazione. Aiuti
militari, denaro e istruttori per i campi militari dei ribelli in Turchia
giungono da Occidente e Paesi arabi mentre Russia, Cina e Iran appoggiano
Damasco. Pasdaran iraniani e consiglieri militari russi affiancano le truppe
governative che, nel timore di interventi militari stranieri e per ostacolare i
traffici di armi che riforniscono i ribelli, già nel novembre scorso hanno
minato i confini con Giordania, Turchia e Libano (le frontiere con Israele sul
Golan sono già da tempo minate). Per Mosca non si tratta solo di difendere un
alleato storico e un importante cliente ma anche di arginare islamismo e
jihadismo che già minacciano la Russia caucasica e le repubbliche
centro-asiatiche che in passato furono sovietiche ma prima ancora parte
rilevante dell’impero ottomano. Il vertice di Tunisi dei cinquanta Paesi auto
definitisi “amici della Siria” ha evidenziato le titubanze di Washington e
dell’Occidente che mirano a mettere a punto una risoluzione che chieda la fine
delle violenze per consentire a personale delle Nazioni Unite e alle agenzie
umanitarie di entrare a Homs, contesa da governativi e ribelli. Difficile
valutare se si tratti di un primo passo verso un intervento militare
giustificato da “esigenze umanitarie” o di un ripensamento strategico dovuto al
rischio di togliere di mezzo Assad per regalare la Siria ai jihadisti.
http://cca.analisidifesa.it/it/magazine_8034243544/numero126/article_335127405250543564512322863788_3717816370_0.jsp