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lunedì 15 gennaio 2024

Card. Pizzaballa: reciprocità e riconciliazione per la Terra Santa

"È nelle scuole e nelle università che si deve cominciare a rieducare la gente alla pace e alla non-violenza, cioè a credere, a conoscersi e a stimarsi, e anzitutto a incontrarsi, cosa che purtroppo non avviene né nelle scuole arabe né in quelle ebraiche, se non in rari casi". Così è intervenuto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, invitato oggi, 15 gennaio, come ospite d'onore all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica, presso il Policlinico Gemelli di Roma. 

Vatican News, 15 gennaio 2024

La Chiesa non perda la sua dimensione profetica

Il cardinale Pizzaballa parla dell'impatto che la sanguinosa guerra in corso sta avendo sulla popolazione. "Come uscire dal fango di questa guerra, da questo orribile pantano in cui più si entra e più pare impossibile uscire?". È la domanda cruciale che si pone e pone ai presenti il porporato, con il tono di grande parresia che contraddistingue sempre il suo parlare. Precisa che “pace” sembra essere oggi una parola "lontana, utopica e vuota di contenuto, se non oggetto di strumentalizzazione senza fine". Così, è necessaria una parola chiara di speranza che si deve attingere dalle Scritture e da una dimensione profetica della Chiesa. "Se la Chiesa perde tale dimensione - rimarca - parla semplicemente di ciò che la gente vuol sentire". Afferma che è questo un rischio ricorrente, soprattutto in Medio Oriente: il rischio di seguire la corrente, anziché orientarla. 

Tempi lunghi per guarire dalla lacerazione della guerra 

Il Patriarca di Gerusalemme lamenta poi che "i tempi di una guarigione saranno necessariamente lunghi e avranno bisogno di percorsi complessi", esortando a crederci davvero nella pace. "Si dovrà prendere atto - sottolinea - che le parole giustizia, verità, riconciliazione e perdono non potranno essere (come forse è stato fino ad oggi) solo auspici, ma dovranno trovare contesti realmente vissuti, con una interpretazione condivisa, e tornare ad essere espressioni credibili e desiderate, senza le quali sarà difficile pensare ad un futuro diverso". La questione problematica è che "ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce. Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. Una situazione in tutti i sensi lacerante". 

Una pace credibile chiede una purificazione della memoria

Pizzaballa ribadisce la responsabilità di ciascuno, in questo contesto di grande disorientamento, nel dare coraggio per costruire prospettive di vita. "Laddove tutto sembra rinchiudersi in odio e dolore, è chiamato ad aprire orizzonti". Essere profeti, in ogni ambito, non vuol dire essere visionari, ma credenti, cioè "avere la fede che si deve fare il possibile per investire nello sviluppo, per sostenere un pensiero positivo e illuminato, per evitare manipolazioni religiose e anzi promuovere un discorso su Dio che apra alla vita e all’incontro". Reciprocità e riconciliazione. Sono queste le direttrici su cui perseverare per la Terra Santa, tenuto conto - dice Pizzaballa - che le ferite non possono essere semplicemente cancellate o ignorate con una pace che sia semplicemente “assenza di guerra”. Con una nota di carattere psicologica, ricorda che le ferite, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli, creando vittimismo e di rabbia. 

Un linguaggio privo di umanità ferisce più delle bombe

Si sofferma ampiamente, il cardinale, sulla necessità di un linguaggio che aiuti nella costruzione della pace, ripetendo che non di banale accessorio si tratta. Richiamando ancora la necessità di parresia e chiarezza nel parlare, precisa inoltre che "bisogna, non solo dire quello che si pensa, ma anche pensare a quello che si dice, di avere la coscienza che, soprattutto in queste circostanze così sensibili, le parole hanno un peso determinante". Quanti hanno una responsabilità pubblica hanno il dovere di orientare le loro rispettive comunità con un linguaggio appropriato, che limiti "la deriva di odio e sfiducia che spesso nei media dilagano con facilità", osserva Pizzaballa. Insiste sulla necessità di "preservare il senso di umanità", soprattutto nell'uso dei social. Attribuisce a un linguaggio "violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione", una forte responsabilità e uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre. Fa anche esempi: definire l’altro come 'animale', è anch’essa una forma di violenza che apre o forse addirittura può giustificare scelte di violenza in molti altri contesti e forme. "Sono espressioni che forse feriscono più ancora degli eccidi e delle bombe". Facendo riferimento a come si raccontano le due parti nel conflitto israelo-palestinese, il porporato si addentra nella questione relativa a quelle che sono state e continuano ad essere "narrative indipendenti l’una dall’altra, che non si sono mai incontrate realmente. E ora - spiega - questo è diventato esplosivamente evidente in questi ultimi mesi. È necessario quindi il coraggio di un linguaggio non esclusivo", soprattutto nei luoghi di formazione culturale, professionale e spirituale. 

Il conflitto spirituale

Sua Beatitudine approfondisce le modalità attraverso cui guerra in Medio Oriente intacca inevitabilmente la vita spirituale degli abitanti della Terra Santa. E si chiede qual è stato il ruolo delle fedi e delle religioni. Il cardinale Pizzaballa constata che "con poche eccezioni, non si sono sentite in questi mesi da parte della leadership religiosa discorsi, riflessioni, preghiere diverse da qualsiasi altro leader politico o sociale". Condivide l’impressione che ciascuno si esprima esclusivamente all’interno della prospettiva della propria comunità. Ebrei con ebrei, musulmani con musulmani, cristiani con cristiani, e così via. E racconta che "in questi mesi è stato ed è ancora pressoché impossibile, ad esempio avere incontri di carattere interreligioso, almeno a livello pubblico". Lamenta che "rapporti di carattere interreligioso che sembravano consolidati sembrano oggi spazzati via da un pericoloso sentimento si sfiducia. Ciascuno si sente tradito dall’altro, non compreso, non difeso, non sostenuto". Esorta a questo proposito che la fede non può adagiarsi: da un lato deve essere di conforto, dall'altra "elemento di disturbo". 

La guerra è uno spartiacque nel dialogo interreligioso

Il rapporto tra cristiani, musulmani ed ebrei non potrà essere mai più come è stato finora. Ne è convinto Pizzaballa che osserva come il mondo ebraico non si sia sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. "I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… insomma - conclude - dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione". Da qui il dialogo dovrà ripensarsi, spiega: non più solo tra appartenenti alla cultura occidentale, come è stato fino ad oggi, ma "dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire. E si dovrà farlo, non per bisogno o necessità, ma per amore".

La Chiesa evidenzi le ingiustizie, senza strumentalizzazioni

La presenza del cardinale Pizzaballa all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica serve oggi a ribadire l'urgenza di educare alla speranza e alla pace, proprio perché la scuola e le università hanno un ruolo chiave in questo. "In un ambiente segnato da lacerazioni e contrasti, possiamo diventare, come Chiesa, luogo ed esperienza della pace possibile", afferma infine il porporato. "Se abbiamo poca possibilità di sedere ai tavoli internazionali - sostiene - abbiamo però il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero". Le sue parole richiamano un ecumenismo che non sia "di facciata o di comodo", ma "vissuto, fatto d’incontri, di collaborazione, di reciproco sostegno e di sofferenza condivisa". Su un aspetto non trascurabile si sofferma ancora nel suo intervento: la Chiesa non può ridursi ad “agente politico” o a partito o fazione, non si può esporre insomma a facili strumentalizzazioni. Contestualmente non può tacere, scandisce Pizzaballa, "di fronte alle ingiustizie o rinchiudersi nell’angelismo o nel disimpegno". Il cardinale si congeda esprimendo tutto il disagio vissuto sulle proprie spalle proprio perché 'conteso' da una parte o dall'altra. Raccomanda, allora, che "prendere posizione non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e non in condanne contro qualcuno".

martedì 24 ottobre 2023

Lettera a tutta la Diocesi del Card. Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme

icona della Vergine Maria, Regina della Palestina

Carissimi, il Signore vi dia pace!

Stiamo attraversando uno dei periodi più difficili e dolorosi della nostra storia recente. Da ormai più di due settimane siamo stati inondati da immagini di orrore, che hanno risvegliato traumi antichi, aperto nuove ferite, e fatto esplodere dentro tutti noi dolore, frustrazione e rabbia. Molto sembra parlare di morte e di odio senza fine. Tanti “perché” si accavallano nella nostra mente, facendo aumentare così il nostro senso di smarrimento.

Tutto il mondo guarda a questa nostra Terra Santa, come ad un luogo che è causa continua di guerre e divisioni. Proprio per questo è stato bello che qualche giorno fa, tutto il mondo fosse invece unito a noi con una giornata di preghiera e di digiuno per la pace. Uno sguardo bello sulla Terra Santa e un importante momento di unità con la nostra Chiesa. E questo sguardo continua. Il prossimo 27 ottobre il Papa ha indetto una seconda giornata di preghiera e di digiuno, perché la nostra intercessione continui. Sarà una giornata che celebreremo con convinzione. È forse la cosa principale che noi cristiani in questo momento possiamo fare: pregare, fare penitenza, intercedere. E di questo ringraziamo il Santo Padre di vero cuore.

In tutto questo frastuono dove il rumore assordante delle bombe si mischia alle tante voci di dolore e ai tanti contrastanti sentimenti, sento il bisogno di condividere con voi una parola che abbia la sua origine nel Vangelo di Gesù, perché in fondo è da lì che tutti noi dobbiamo partire e lì dobbiamo sempre ritornare. Una parola di Vangelo che ci aiuti a vivere questo tragico mo-mento unendo i nostri sentimenti a quelli di Gesù.

Guardare a Gesù, ovviamente, non significa sentirci esonerati dal dovere di dire, denunciare, richiamare, oltre che consolare e incoraggiare. Come abbiamo ascoltato nel Vangelo di domenica scorsa, è necessario rendere “a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Matt. 22,21). Guardando a Dio, vogliamo dunque, innanzitutto, rendere a Cesare ciò che è suo.

La coscienza e il dovere morale mi impongono di affermare con chiarezza che quanto è avvenuto il 7 ottobre scorso nel sud di Israele, non è in alcun modo ammissibile e non possiamo non condannarlo. Non ci sono ragioni per una atrocità del genere. Si, abbiamo il dovere di affermarlo e denunciarlo. Il ricorso alla violenza non è compatibile col Vangelo, e non conduce alla pace. La vita di ogni persona umana ha una dignità uguale davanti a Dio, che ci ha creati tutti a Sua immagine.

La stessa coscienza, tuttavia, con un grande peso sul cuore, mi porta oggi ad affermare con altrettanta chiarezza che questo nuovo ciclo di violenza ha portato a Gaza oltre cinquemila morti, tra cui molte donne e bambini, decine di migliaia di feriti, quartieri rasi al suolo, mancanza di medicinali, acqua, e beni di prima necessità per oltre due milioni di persone. Sono tragedie che non sono comprensibili e che abbiamo il dovere di denunciare e condannare senza riserve. I continui pesanti bombardamenti che da giorni martellano Gaza causeranno solo morte e distruzione e non faranno altro che aumentare odio e rancore, non risolveranno alcun problema, ma anzi ne creeranno dei nuovi. È tempo di fermare questa guerra, questa violenza insensata.

È solo ponendo fine a decenni di occupazione, e alle sue tragiche conseguenze, e dando una chiara e sicura prospettiva nazionale al popolo palestinese che si potrà avviare un serio processo di pace. Se non si risolverà questo problema alla sua radice, non ci sarà mai la stabilità che tutti auspichiamo. La tragedia di questi giorni deve condurci tutti, religiosi, politici, società civile, comunità internazionale, ad un impegno in questo senso più serio di quanto fatto fino ad ora. Solo così si potranno evitare altre tragedie come quella che stiamo vivendo ora. Lo dobbiamo alle tante, troppe vittime di questi giorni, e di tutti questi anni. Non abbiamo il diritto di lasciare ad altri questo compito.

Ma non posso vivere questo tempo estremamente doloroso, senza rivolgere lo sguardo verso l’Alto, senza guardare a Cristo, senza che la fede illumini il mio, il nostro sguardo su quanto stiamo vivendo, senza rivolgere a Dio il nostro pensiero. Abbiamo bisogno di una Parola che ci accompagni, ci consoli e ci incoraggi. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo.

“Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).

Ci troviamo alla vigilia della passione di Gesù. Egli rivolge queste parole ai suoi discepoli, che di lì a poco saranno sballottati come in una tempesta di fronte alla Sua morte. Saranno presi dal panico, si disperderanno e fuggiranno, come pecore senza pastore.

Ma questa ultima parola di Gesù è un incoraggiamento. Non dice che vincerà, ma che ha già vinto. Anche nel dramma che verrà, i discepoli potranno avere pace. Non si tratta di una pace irenica campata in aria, né di rassegnazione al fatto che il mondo è malvagio e che non possiamo fare nulla per cambiarlo. Ma di avere la certezza che proprio dentro tutta questa malvagità, Gesù ha vinto. Nonostante il male che devasta il mondo, Gesù ha conseguito una vittoria, ha stabilito una nuova realtà, un nuovo ordine, che dopo la risurrezione sarà assunto dai discepoli rinati nello Spirito.

È sulla croce che Gesù ha vinto. Non con le armi, non con il potere politico, non con grandi mezzi, né imponendosi. La pace di cui parla non ha nulla a che fare con la vittoria sull’altro. Ha vinto il mondo, amandolo. È vero che sulla croce inizia una nuova realtà e un nuovo ordine, quello di chi dona la vita per amore. E con la Risurrezione e con il dono dello Spirito, quella realtà e quell’ordine appartengono ai suoi discepoli. A noi. La risposta di Dio alla domanda sul perché della sofferenza del giusto, non è una spiegazione, ma una Presenza. È Cristo sulla croce.

È su questo che si gioca la nostra fede oggi. Gesù in quel versetto parla giustamente di coraggio. Una pace così, un amore così, richiedono un grande coraggio.

Avere il coraggio dell’amore e della pace qui, oggi, significa non permettere che odio, vendetta, rabbia e dolore occupino tutto lo spazio del nostro cuore, dei nostri discorsi, del nostro pensare. Significa impegnarsi personalmente per la giustizia, essere capaci di affermare e denunciare la verità dolorosa delle ingiustizie e del male che ci circonda, senza però che questo inquini le nostre relazioni. Significa impegnarsi, essere convinti che valga ancora la pena di fare tutto il possibile per la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la riconciliazione. Il nostro parlare non deve essere pieno di morte e porte chiuse. Al contrario, le nostre parole devono essere creative, dare vita, creare prospettive, aprire orizzonti.

Ci vuole coraggio per essere capaci di chiedere giustizia senza spargere odio. Ci vuole coraggio per domandare misericordia, rifiutare l’oppressione, promuovere uguaglianza senza pretendere l’uniformità, mantenendosi liberi. Ci vuole coraggio oggi, anche nella nostra diocesi e nelle nostre comunità, per mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni.

Io voglio, noi vogliamo essere parte di questo nuovo ordine inaugurato da Cristo. Vogliamo chiedere a Dio quel coraggio. Vogliamo essere vittoriosi sul mondo, assumendo su di noi quella stessa Croce, che è anche nostra, fatta di dolore e di amore, di verità e di paura, di ingiustizia e di dono, di grido e di perdono.

Prego per tutti noi, e in particolare per la piccola comunità di Gaza, che più di tutte sta soffrendo. In particolare, il nostro pensiero va ai 18 fratelli e sorelle periti recentemente, e alle loro famiglie, che conosciamo personalmente. Il loro dolore è grande, eppure, ogni giorno di più mi rendo conto che loro sono in pace. Spaventati, scossi, sconvolti, ma con la pace nel cuore. Siamo tutti con loro, nella preghiera e nella solidarietà concreta, ringraziandoli della loro bella testimonianza.

Preghiamo infine per tutte le vittime innocenti. La sofferenza degli innocenti davanti a Dio ha un valore prezioso e redentivo, perché si unisce alla sofferenza redentrice di Cristo. Che la loro sofferenza avvicini sempre di più la pace!

Ci stiamo avvicinando alla solennità della Regina di Palestina, la patrona della nostra diocesi. Quel santuario fu eretto in un altro periodo di guerra, e fu scelto come luogo speciale per pregare per la pace. In quei giorni riconsacreremo nuovamente la nostra Chiesa e la nostra terra alla Regina di Palestina! Chiedo a tutte le chiese nel mondo di unirsi al Santo Padre e a noi nella preghiera, e nella ricerca di giustizia e pace.

Non potremo quest’anno ritrovarci tutti, perché la situazione non lo permette. Ma sono certo che tutta la diocesi sarà unita in quel giorno per pregare unita e solidale per la pace, non quella del mondo, ma quella che ci dona Cristo.

Con l’augurio di ogni bene,

†Pierbattista Card. Pizzaballa

Patriarca di Gerusalemme dei Latini

 https://www.lpj.org/it/posts/letter-to-the-entire-diocese.html

lunedì 16 maggio 2022

Dichiarazione dei Patriarchi di Gerusalemme sulle violenze israeliane durante il funerale di Shireen Abu Aqleh


Noi, il Patriarca greco di Gerusalemme, il Patriarca latino di Gerusalemme, i Vescovi e i fedeli delle Chiese cristiane in Terra Santa, condanniamo la violenta intrusione della polizia israeliana nel corteo funebre della giornalista uccisa Shireen Abu Akleh, mentre si recava dall'ospedale San Giuseppe alla chiesa cattedrale greco-melchita.

La Polizia ha fatto irruzione in un istituto sanitario cristiano, mancando di rispetto alla Chiesa, all'istituto sanitario, alla memoria del defunto e costringendo i portatori della bara a lasciarla quasi cadere.

L'invasione e l'uso sproporzionato della forza da parte della polizia israeliana, che ha attaccato i fedeli in lutto, li ha colpiti con manganelli, ha usato granate fumogene, ha sparato proiettili di gomma, ha spaventato i pazienti dell'ospedale; è stata una grave violazione delle norme e dei regolamenti internazionali, compreso il diritto umano fondamentale della libertà di religione, che deve essere osservato anche in uno spazio pubblico.

L'Ospedale St. Joseph è sempre stato orgogliosamente un luogo di incontro e di guarigione per tutti, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o culturale, e intende continuare a esserlo. Quanto accaduto venerdì scorso ha ferito profondamente non solo la comunità cristiana, le Suore di San Giuseppe dell'Apparizione, proprietarie dell'Ospedale, e tutto il personale ospedaliero, ma anche tutte le persone che in quel luogo hanno trovato e trovano tuttora pace e ospitalità.

Le Suore e il personale dell'Ospedale San Giuseppe hanno sempre fatto sì che il loro Istituto fosse un luogo di cura e di guarigione e il deplorevole episodio di venerdì scorso rende questo impegno ancora più forte che mai.

Gerusalemme, Ospedale San Giuseppe, 16 maggio 2022

mercoledì 23 giugno 2021

Nella “Giornata della Pace per l’Oriente”, consacrazione del Medio Oriente alla Sacra Famiglia

In occasione della celebrazione del 130° anniversario della Rerum Novarum, l'enciclica emanata da Papa Leone XIII il 15 maggio 1891 sui “Diritti e doveri del capitale e del lavoro”; il Comitato Episcopale “Giustizia e Pace”, che emana dal Consiglio dei Patriarchi Cattolici del Medio Oriente, ha lanciato l’iniziativa della celebrazione annuale di una S. Messa durante una giornata che si chiamerà “Giornata della Pace per l'Oriente”, e che quest'anno sarà domenica 27 giugno 2021, alle ore 10:00.

Si è deciso di celebrare una S. Messa in ciascuno dei Paesi appartenenti al Consiglio dei Patriarchi Cattolici del Medio Oriente, e pertanto tutti i Patriarchi e i Vescovi sono invitati a partecipare a questa intensa celebrazione, e ad essere insieme, in profonda comunione di preghiera, in questo giorno benedetto.

In occasione dell'Anno di San Giuseppe, si procederà anche alla consacrazione del Medio Oriente alla Sacra Famiglia, e per questo sarà inserito un gesto speciale nella Messa che sarà celebrata nella Basilica dell'Annunciazione a Nazareth domenica 27 giugno 2021, alle ore 10.00, con la partecipazione di tutti gli Ordinari di Terra Santa. Benediremo un'Icona della Sacra Famiglia, appositamente dipinta e intarsiata con le reliquie della stessa Basilica dell'Annunciazione. L'icona rappresenta la Sacra Famiglia di Nazareth, che riposa sopra l'altare della chiesa di San Giuseppe, a Nazareth, dove, secondo la tradizione, si trovava la casa del Falegname.

Una volta benedetta, l'Icona sarà portata in pellegrinaggio, partendo dal Libano, verso i paesi dell'Oriente, fino al suo arrivo a Roma verso la fine dell'anno di San Giuseppe, l'8 dicembre 2021.  Da Roma, l'Icona farà il suo viaggio di ritorno in Terra Santa dove rimarrà. Anche a Roma il Santo Padre Papa Francesco impartirà la sua speciale Benedizione Apostolica per la “Giornata della Pace per l'Oriente”.

Siete tutti invitati così a partecipare con la vostra presenza e, se non è possibile, con la vostra comunione con noi nella preghiera, ciascuno dalla propria Parrocchia o convento, per implorare la Misericordia di Dio e la sua Pace su questo amato Medio Oriente, dove la fede cristiana è nata ed è ancora viva, nonostante le sofferenze."

Vostro in Cristo,

† Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme

Atto di Consacrazione dell'Oriente alla Sacra Famiglia

"Ricorriamo alla tua protezione, o Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, in mezzo alle crisi politiche ed economiche che si sono abbattute su di noi qui in Medio Oriente.

Ricorriamo alla tua protezione, o Santa Famiglia, Gesù, Maria e Giuseppe, in mezzo alle ripercussioni della pandemia di Covid, che ha creato una situazione di instabilità, di paura e di ansia.

Alla tua protezione ricorriamo, o Famiglia di Nazareth, che hai sperimentato ogni difficoltà con fede, speranza e amore, per consacrare a Te tutto il nostro Oriente e i nostri Paesi, e affidarTi le nostre vite e le terre in cui siamo nati, le nostre paure e le nostre speranze, i nostri giovani e le nostre famiglie, perché ogni famiglia diventi chiesa domestica e scuola di santità.

O Santa Famiglia, chiedi a Dio per il Medio Oriente la grazia di uscire da questa situazione difficile e di ottenere il ritorno della pace e della stabilità, affinché i suoi abitanti possano vivere con eguali diritti e doveri, e godere di una vita libera e dignitosa, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa e dalla loro identità nazionale.

O Santa Famiglia, il tuo sguardo tenero sia su di noi, sulle nostre famiglie e sui nostri Paesi, perché possiamo aprirci ai segni della presenza di Dio come Tu Ti sei aperta a Lui con assoluta fedeltà, perché i nostri cuori si schiudano gli uni agli altri e alle dimensioni del mondo intero, così da divenire tutti un'unica famiglia, che vive nella pace, nell’amore e nell’armonia.

Con sant'Efrem, ti preghiamo, o Signore: rendi piena la riconciliazione tra i popoli del nostro tempo, perché siano veramente un solo popolo. Raccogli nel Tuo Seno i tuoi figli, perché rendano grazie per la tua bontà. Se tutti i figli della luce fossero uniti, i loro raggi tutti insieme eliminerebbero le tenebre, con la forza della loro unità.

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, riponiamo con fiducia nelle Tue mani questa nostra preghiera e la consacrazione del nostro Oriente. Siano rese grazie e lode alla Santissima Trinità, ora e sempre. Amen."

https://www.lpj.org/it/posts/nuova-iniziativa-giornata-della-pace-per-l-oriente-con-la-celebrazione-annuale-di-una-s-messa.html?s_cat=1102

martedì 27 giugno 2017

mons. Pizzaballa, “a salvare i cristiani sarà la loro testimonianza”.


di Daniele Rocchi, 27 giugno 2017

Siamo in un periodo di cambiamenti epocali. Non sappiamo come sarà il Medio Oriente del futuro. In Terra Santa la situazione è bloccata, non ci sono negoziati in corso ma solo la politica dei fatti compiuti sul terreno. Da una parte, Israele che si sente il più forte e, dall’altra, i palestinesi, deboli e divisi. L’Isis fisicamente non è presente in Terra Santa, lo è invece la sua ideologia estremista. Cresce l’estremismo anche tra gli ebrei e cresce la preoccupazione tra le minoranze, soprattutto tra i cristiani”. Ad un anno dalla sua nomina, 24 giugno 2016, ad amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, già custode di Terra Santa, traccia un bilancio del suo mandato allargando lo sguardo a tutto il Medio Oriente e lanciando un appello a oltre 200 giornalisti cattolici riuniti nei giorni scorsi in un meeting nazionale a Grottammare 

Il Medio Oriente – dice mons. Pizzaballa – non sarà più lo stesso. Ci vorranno generazioni per ricostruire le infrastrutture ma soprattutto un tessuto sociale stabile e solido. La guerra in Siria e in Iraq ha fatto saltare tutto, compresi i rapporti tra le diverse comunità. Città come Aleppo, in Siria, i villaggi cristiani della Piani di Ninive, un tempo occupati da Isis, sono in larga parte distrutti. A Betlemme, nel 2016, sono emigrate circa 130 famiglie cristiane, 500 persone, tutte con figli in cerca di un futuro migliore”.

Mons. Pizzaballa, qual è oggi il tratto più distintivo delle comunità cristiane mediorientali?
La grande testimonianza. È vero, molti sono partiti, ma chi è rimasto testimonia la sua fede non nel chiuso della propria casa ma aiutando anziani, bambini, disabili, rifugiati, incontrandosi per pregare. Sono rimasto colpito dai giovani cristiani di Aleppo, che a sprezzo del pericolo distribuivano acqua a chi aveva bisogno, ricordo famiglie cristiane di villaggi siriani controllati da Al Nusra, che, ben sapendo che nell’islam l’alcool è bandito, nascondevano il vino per la messa nelle case per poter celebrare la messa. E come non citare il grande impegno dei cristiani di Giordania e Libano nell’accoglienza dei rifugiati di Siria e Iraq. In Israele oggi vivono 125mila cristiani, 11mila abitano a Gerusalemme, in Palestina appena 40mila. Questi sono i numeri. Tuttavia sono convinto che
il cristianesimo in Medio Oriente non sparirà. La nostra forza non è nei numeri ma nella testimonianza.

Da un anno è amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, quale bilancio può tracciare e quanto pensa potrà durare ancora il suo incarico?
È stato un anno molto difficile.
Stiamo vivendo un tempo di transizione ed è impensabile credere che le crisi epocali che stanno segnando il Medio Oriente non tocchino anche la Chiesa. Non c’è una Chiesa in tutto il Medio Oriente che sia in ordine.
E non parlo solo di quelle cattoliche. Per quanto mi riguarda i problemi del Patriarcato latino sono di due generi: di vita ecclesiastica interna e di tipo economico, debiti tanto per essere chiari. In questo primo anno ho lavorato molto con i preti incontrandoli, uno ad uno, nelle loro case, per capire e ascoltare. Nei giorni scorsi due terzi dei sacerdoti sono stati spostati, vescovi inclusi. Ora, dopo un anno, le tensioni si sono sciolte. La sfida è andare avanti in questa direzione e pagare i debiti. Nessuno ci darà i soldi pertanto dovremo vendere alcuni “asset”. Ne verremo a capo certamente. Quanto durerà il mio incarico? Non ne ho idea. La figura di amministratore non può durare in eterno. Ho fatto un anno, forse ne prevedo un altro. Il mio compito è preparare le condizioni perché il futuro Patriarca possa operare in un contesto interno di serenità.

La stessa serenità che manca a tutta la Terra Santa a causa del conflitto ancora aperto, per non parlare del muro di separazione, dell’occupazione militare, delle colonie. La tanto auspicata soluzione “Due popoli, due Stati” è forse tramontata?
Per quanto riguarda il negoziato siamo molto lontani da questo obiettivo. Come cristiani dobbiamo tenere viva l’attenzione sulla necessità del dialogo. Tecnicamente la Soluzione “due popoli due stati” è molto complicata, ma non vedo alternative possibili.
Il muro è una ferita profonda nella storia, nella geografia e nella vita del Paese.
Oggi non se ne parla più anche nell’opinione pubblica. Sembra quasi digerito. Ma non dobbiamo continuare a fingere che la ferita non ci sia. Il nostro compito è quello di parlarne, in maniera chiara e rispettosa, non faziosa. Le colonie e i confini sono un problema, insieme allo status di Gerusalemme. La versione definitiva dei confini tra i due Stati e la rimozione (o meno) delle colonie è uno degli argomenti più dolorosi della crisi poiché influisce sulla vita dei territori in modo pesante soprattutto sui palestinesi. Qualunque Governo farà molta fatica a cambiare la situazione sul territorio anche per i costi, umani, sociali, economici. Tutto ciò rende lontana una prospettiva futura stabile.

Gerusalemme: la Città Santa sta subendo una progressiva ebraicizzazione. Si tratta di un nodo difficile da sciogliere che non può vedere i cristiani fare solo da testimoni…
Il futuro di Gerusalemme viene deciso oggi: chi compra decide.
Se compreranno i musulmani ci saranno musulmani, se comprano gli ebrei ci saranno ebrei, difficile che ci saranno cristiani. Non abbiamo le possibilità e le risorse per competere in questo contesto. A suo tempo come Custodia ci spendemmo molto per edificare 80 appartamenti, permessi, burocrazia lenta, ostacoli di ogni tipo. Oggi con un decreto se ne costruiscono 8.000. Ma è fuori discussione che il carattere di Gerusalemme è universale. La città deve garantire costituzionalmente libertà di accesso, di movimento, di azione, di espressione a tutte le comunità, a prescindere dai loro numeri.

Gerusalemme, città aperta?
Certamente. Non spetta alla Chiesa, alla Santa Sede, stabilire i confini. Su questo devono mettersi d’accordo le parti in lotta. Noi abbiamo il dovere di dire i criteri per definire l’assetto futuro della città. I criteri sono che tutti hanno uguale cittadinanza.
Ciò significa avere tutti gli stessi diritti. Quando si parla del futuro di Gerusalemme i riferimenti sono solo a ebrei e musulmani, i cristiani non sono tenuti molto presenti. Vero anche che negli ultimi 15-20 anni non ricordo un solo discorso della Chiesa cattolica su Gerusalemme. Protestanti e ortodossi sono molto più presenti di noi nel dibattere la questione della Città Santa. Sarebbe importante invece dire una parola a riguardo.

Che impatto avrebbe sulla situazione l’eventuale scelta di Trump di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme?
Sarebbe come mettere un cerino dentro una tanica di benzina.

Prima invocava il tema della cittadinanza come uno dei criteri per definire gli assetti futuri di Gerusalemme. Per quale motivo?
È la sfida del futuro. La comunità internazionale deve prestare molta attenzione a questo tema soprattutto adesso, preoccupandosi non solo del business della ricostruzione del Medio Oriente ma anche di far sì che si ricostruiscano Legislazioni e Costituzioni.
Il diritto di cittadinanza è determinante, per questo, credo che gli aiuti debbano essere condizionati al suo rispetto: tutti i cittadini sono uguali.
Non si creino riserve indiane per cristiani, sunniti, sciiti, yazidi, curdi e via dicendo. Il modello di convivenza in Medio Oriente, basato su identità tra fede e comunità, oggi è fallito. La convivenza deve basarsi su altre prospettive. Il tema è la cittadinanza e non la laicità positiva che non esiste in Medio Oriente.
Cittadini, curdi, yazidi, cristiani, sunniti, sciti, turcomanni, tutti con gli stessi diritti, libertà di coscienza in primis. Ricostruire il Medio Oriente senza inquadrare questi aspetti sarebbe un fallimento e l’anticamera delle crisi future. Su questo noi cristiani dobbiamo lavorare e insistere. La presenza cristiana obbliga tutte le società in Medio Oriente, e le relative maggioranze islamiche, a interrogarsi su questo aspetto da una prospettiva diversa che non è quella musulmana.

Come sono invece i rapporti tra la Chiesa e Israele?
Ci sono due aspetti da considerare: quello del negoziato tra Stato di Israele e Santa Sede e quello della vita ordinaria della Chiesa locale.
Circa il concordato che definirà dal punto di vista legale il futuro della Chiesa in Israele, esso è in dirittura d’arrivo. La firma potrebbe arrivare entro quest’anno. Poi bisognerà interpretare l’accordo.
Per quel che riguarda la vita ordinaria della Chiesa locale non c’è alcun atteggiamento di Israele. Praticamente non esistiamo. Guardiamo alle scuole: si concedono contributi agli istituti privati meno che a quelli cristiani e, comunque sia, sempre in misura minore che in passato. Come cristiani dobbiamo essere più presenti nel territorio, non possiamo solo lamentarci.
Compito della Chiesa è costruire relazioni sempre più positive con Israele per far capire che siamo una realtà del territorio con cui devono fare i conti. Purtroppo molto spesso le scelte che vengono fatte non ci tengono in nessuna considerazione.

Da tempo i pellegrinaggi sono in calo, complici anche le tensioni in Medio Oriente che allungano ombre sulla sicurezza dei fedeli. Cosa fare per rilanciarli?
La Terra Santa è sicura. I pellegrinaggi sono un sostegno ai cristiani locali perché portano lavoro. Sarebbe utile che i vescovi italiani prendessero a cuore il pellegrinaggio in Terra Santa magari lanciando una sorta di campagna nazionale come accadde nel 2000.

Oltre al pellegrinaggio quale altro strumento può rivelarsi utile per sostenere la Terra Santa e i suoi cristiani?
La comunicazione. Ai giornalisti dico: continuate a parlare di Gerusalemme e della Terra Santa, non solo attraverso la lente del conflitto e delle tensioni ma raccontando le cose belle che ci sono. Venite in Terra Santa.
Non c’è evangelizzazione senza comunicazione. E l’evangelizzazione non può prescindere da Gerusalemme.
Non si può parlare di Cristo senza parlare dei Luoghi dove ha vissuto e dove la sua comunità ne custodisce la memoria. Mostrate che in ogni situazione, anche la peggiore, c’è sempre una luce, per quanto piccola, da cui ripartire.
Raccontate le occasioni di incontro, di dialogo, che in un contesto così drammatico dimostrano che non è tutto odio, rancore, guerra e armi.

https://agensir.it/mondo/2017/06/27/medio-oriente-mons-pizzaballa-a-salvare-i-cristiani-sara-la-loro-testimonianza-a-gerusalemme-fondamentale-il-diritto-di-cittadinanza/

domenica 11 settembre 2016

Card. Leonardo Sandri :“Tutti là siamo nati", in quei luoghi, sotto le macerie frutto dei peccati, delle violenze e delle miopie di molti uomini e di molti poteri del mondo, è rimasta la sorgente posta da Dio

BERGAMO – Omelia del Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, nella celebrazione Eucaristica per il conferimento dell’Ordinazione Episcopale a S.E. Mons. Pierbattista Pizzaballa, Arcivescovo Titolare di Verbe e Amministratore Apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini – Cattedrale di Bergamo, sabato 10 settembre 2016 A.D.
Patriarcato Latino di Gerusalemme
  Carissimo fra Pierbattista!
Abbiamo appena ascoltato queste parole : “la Santa Chiesa Cattolica chiede che sia ordinato Vescovo il presbitero Pierbattista Pizzaballa”. Il 15 settembre di ventisei anni fa, nella cattedrale di Bologna, l’amato Cardinale Biffi che impose le mani ordinandoti sacerdote diceva a te e ai tuoi compagni: “è la Sposa stessa di Cristo a implorare il suo Sposo: è dunque una richiesta impreziosita dalla indefettibile fedeltà sponsale.. motivata dalla sua preoccupazione materna.. Ciò che voi diventate, lo diventate per sempre; ciò che oggi avviene in voi, avviene una volta per tutte…”.
Contempliamo la Chiesa sposa di Cristo e Madre di tutti i credenti, e facciamo oggi una singolare esperienza della sua cattolicità: il mandato apostolico del Santo Padre Francesco, Successore dell’apostolo Pietro, la tua famiglia, prima chiesa domestica, l’amata Chiesa di Bergamo, che ci accoglie nella sua cattedrale, l’Ordine dei Frati Minori, in particolare i Frati della Custodia di Terra Santa, e ora la Diocesi Patriarcale di Gerusalemme, alcuni Nunzi Apostolici, Vescovi, Delegati ecumenici, sacerdoti e fedeli laici che qui si sono radunati per pregare e gioire insieme per l’opera che il Signore ha iniziato in te, e anche in loro attraverso la tua presenza e il tuo ministero.
  1. Nel mistero della Chiesa, insieme al Vescovo Pierbattista, ci rendiamo conto che al centro non c’è un uomo, ma la grazia di Dio che ha operato e opererà ancora più efficacemente dentro di lui. Ce lo ha ripetuto san Paolo, le cui parole appena proclamate sono diventate il tuo motto episcopale: “Sufficit tibi gratia mea  – Ti basta la mia grazia”. 
E’ una espressione ben lungi da un vago sentimentalismo o da una fede disincarnata. Paolo arriva a “vantarsi ben volentieri delle proprie debolezze, perché dimori in lui la potenza di Cristo”, di fronte ad una situazione di grande difficoltà nell’esercizio del ministero apostolico che gli è stato affidato dal Signore.
Attraverso le esperienze dolorose Paolo giunge alla percezione molto semplice che Cristo è il Signore e che il suo ministro si prepara liberando il cuore da tutto ciò che poteva essere una forma di successo proprio, divenendo strumento sempre più adatto nelle mani di Dio. Attraverso l’attimo di incomprensione con la comunità di Corinto, certamente riprende coscienza dell’assolutezza e della trascendenza indescrivibile del mistero di Dio, che gli era diventato così vicino nell’apparizione del Cristo sulla strada verso Damasco, tanto quasi da arrivare a sembrargli suo, mentre in realtà è al di là di ogni capacità umana di parlarne e di disporne. Il dolore dell’esperienza credente di Paolo fa scaturire insieme ad una lettera che lui stesso definisce “scritta tra le lacrime” anche l’altezza e l’intensità della riflessione sul ministero della Nuova Alleanza e della riconciliazione, come servizio (diakonía) ai fratelli nella fede e come collaborazione alla loro gioia. Invochiamo l’intercessione di san Paolo sul vescovo Pierbattista, perché il nuovo passo chiesto nella Chiesa alla sua vita di fede sia vissuto come modo per approfondire la propria esperienza di credente che lo renda autenticamente Pastore secondo il cuore di Dio.
  1. Il testo del profeta Isaia, tratto dal cosiddetto “libro della consolazione”, pone l’uomo di ogni tempo anzitutto dinanzi ad una domanda: “Perché spendi denaro per ciò che non sazia e non disseta, ritrovandoti ultimamente come il popolo disperso e esiliato a Babilonia?”. La risposta però consiste non in un giudizio di condanna da parte di Dio, ma in una promessa di fedeltà e di alleanza eterna. L’iniziativa ancora una volta è del Signore che redime, raduna dalla dispersione, ama e si prende cura. Ma Dio ha bisogno del profeta che se ne faccia portavoce ed interprete, uno che viva tra gli uomini e sia capace di ridestare in loro la fame e la sete dell’Autore della Vita. Il Vescovo allora, superato il senso di inadeguatezza e confermato nell’assoluto primato della grazia, di cui ha fatto egli per primo esperienza, passa annunciando la consolazione che viene da Dio “consolate, consolate il mio popolo; come sono belli sul monte i piedi del messaggero che annuncia la pace”. Tanti cuori in Terra Santa e particolarmente nel territorio del Patriarcato Latino hanno sete di giustizia e di pace: dimensioni fondamentali del vivere umano, che prima ancora che rivendicate come diritto dagli altri devono essere desiderate e operate nei rapporti dentro la Chiesa e tra le Chiese, oltre che con i credenti Ebrei e Musulmani. Essere Vescovo per la Chiesa Latina che è in Gerusalemme, Amministrandola a nome e per conto del Santo Padre, come pure guidando l’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa, è compito senz’altro arduo, ma potrà essere vissuto pieno di gioia e di serena determinazione, perché ancorati nella Parola del Signore e non nei nostri progetti umani. La Parola infatti non è incatenata né messa in fuga, ma efficace e porta frutto: “come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia… così sarà anche della parola uscita della mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero, e senza aver compiuto ciò per cui l’avevo mandata”.
  1. Nella Terra Santa, che tu, Padre Pierbattista, hai abitato e servito da 26 anni, il Verbo fatto carne ci ha fatto conoscere il desiderio di Dio, la salvezza per l’umanità, lì Colui che è la Parola del Padre ha portato a pienezza la Rivelazione, “parlando a noi come ad amici”. Come il Salmo, anche noi diciamo “Tutti là siamo nati”. Nella fede vogliamo rinnovare la consapevolezza che in quei luoghi, sotto le macerie frutto dei peccati, delle violenze e delle miopie di molti uomini e di molti poteri del mondo, è rimasta la sorgente posta da Dio, che zampilla per dare sollievo e fecondità. E’ la presenza stessa di Gesù che è il Vivente. Sacerdoti e fedeli, guidati dal Vescovo, dovranno avere ogni giorno il coraggio di scavare più in profondità dentro il proprio cuore, attraverso le vicende della storia, per ritrovare il Cristo che ne è il Signore. Allora la comunità cristiana, che chiede di essere preservata, sostenuta e protetta, continuerà ad essere dono per tutti, per coloro che abitano quei luoghi da secoli, ma anche per i pellegrini e per le migliaia di lavoratori migranti che ormai ne fanno stabilmente parte. L’unico strumento nelle nostre mani per evitare che i cristiani emigrino dal Medio Oriente, o vengano fatti uscire da progetti non chiari, è trovare sempre forme antiche e nuove per essere chiesa in uscita, che ha a cuore la promozione di spazi di incontro e riconciliazione. Il Vescovo, che nella porzione di Chiesa locale presiede nella carità, mentre vive il ministero della santificazione (munus sanctificandi), spezzando il pane della Parola e dell’Eucarestia, edifica la comunità cristiana come casa fondata sulla roccia. Ed insegnando, educa a pensare che tale stabilità, proprio perché ci è data da Dio, è anche dono che ci impegna a protenderci in avanti verso chi soffre, bisognoso di una speranza affidabile per la propria vita e il proprio destino, anche attraverso la solidarietà concreta – e pensiamo con riconoscenza a quanti, anche tra i presenti, da tutto il mondo si impegnano nel sostenere la vita delle Chiese in Terra Santa.
E’ lo stile del Pastore tratteggiato da San Gregorio Magno nella sua Regola Pastorale: “La Verità stessa, quando apparve in mezzo a noi assumendo la natura umana, si dà alla preghiera sul monte e compie miracoli nelle città, suggerendo con l’esempio ai pastori saggi di accostarsi con amore alle necessità degli afflitti, pur tenendo lo sguardo alla contemplazione. La carità infatti raggiunge le altezze quando scende con gesto d’amore alle infime necessità dei poveri, e quanto è maggiore la benevolenza nel piegarsi verso gli umili, tanto è più rapido il volo verso Dio” (2,5).

  1. Intercedano per te la Vergine Maria e San Francesco, e faccia loro corona la preghiera e il canto degli angeli di Betlemme: sia il tuo episcopato capace di mettersi in cammino, come sono raffigurati nella Basilica della Natività, per condurre il gregge a te affidato ad incontrare, riconoscere e servire il Verbo della vita; abbi il coraggio di tendere sempre la propria mano, come Tommaso, al costato trafitto di Cristo Crocifisso e Risorto, per essere confermato e confermare nella fede i fratelli. Sia un ministero di luce e di bellezza, che non si spaventa di fronte alle sfide che gli sono poste innanzi. Ti accompagni nel viaggio che oggi inizi questa parola del Santo Padre: “Il volto delle nostre comunità ecclesiali può essere coperto da ‘incrostazioni’ dovute ai diversi problemi e ai peccati. La nostra opera deve essere sempre guidata dalla certezza che sotto le incrostazioni materiali e morali, anche sotto le lacrime e il sangue provocati dalla guerra, dalla violenza e dalla persecuzione, sotto questo strato che sembra impenetrabile c’è un volto luminoso come quello dell’angelo del mosaico della Basilica di Betlemme. Coopera a questo ‘restauro’ – come già fece San Francesco – perché il volto della Chiesa rifletta visibilmente la luce di Cristo Verbo incarnato”. Amen.                                                http://it.lpj.org/2016/09/10/omelia-del-cardinale-leonardo-sandri-per-lordinazione-episcopale-di-mons-pizzaballa-bergamo-10-settembre/

domenica 24 gennaio 2016

“Il dialogo tra cristiani e musulmani si può fare solo nella verità” Padre Pizzaballa, Custode di Terra Santa

“Dire da dove nasce il fondamentalismo”. 
L’esempio dei cristiani “che resistono”
25 gennaio: conversione di S Paolo


Il Foglio, 21 gennaio 2016

Roma. “Il medio oriente come l’abbiamo conosciuto nel Novecento non esiste più, è saltato. Questa guerra, che definirà i nuovi assetti, non ha distrutto solo le infrastrutture e gli stati, ma anche la fiducia tra le diverse comunità, specie tra i cristiani e la maggioranza musulmana. Niente sarà più come prima”. 
A dirlo è stato padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, intervenendo all’incontro “Cristiani in medio oriente e migrazioni forzate. Dentro il cambiamento epocale”, promosso dalla Fondazione Avsi e Oasis, che si è tenuto nel tardo pomeriggio di martedì all’Università La Sapienza di Roma. Al tavolo dei conferenzieri sedevano anche Michele Valensise, segretario generale del ministero degli Esteri e Adnane Mokrani, docente all’Università Gregoriana e al Pontificio istituto di studi arabi e islamistica. 
“Non si parla mai degli sfollati, di gente che ha perso la casa, il lavoro e non ha più soldi per ricominciare. Più di due terzi dei siriani non abita più dove si trovava prima del conflitto. La situazione è drammatica – ha osservato Pizzaballa – al punto che non diciamo nemmeno più quando i religiosi vengono rapiti. Lo facciamo solo se dopo una settimana non sono ancora tornati”.

Eppure, in tale disastro, “vi sono episodi di grande determinazione. Quanti sono rimasti sono per lo più poveri, non hanno mezzi per muoversi, non sanno dove andare. Ma quasi nessuno tra essi ha rinnegato la propria fede. Si fanno tagliare la testa ma non rinunciano a nulla”. Il francescano porta qualche testimonianza vista con i propri occhi, nel nord della Siria, nei territori “sotto il controllo di gruppi satelliti di al Qaeda. 
Questi, rispetto ai jihadisti dello Stato islamico – i cui miliziani, come testimoniano le foto satellitari diffuse ieri dalla Associated Press, hanno raso al suolo il monastero di Sant’Elia a Mosul, il più antico d’Iraq – sono sì moderati, ma è una ‘moderazione’ che consiste nel divieto per i non musulmani d’avere proprietà, di esibire simboli religiosi. Niente croci né statue. Di vino per celebrare la messa neanche a parlarne. Ma qui i cristiani non hanno ceduto: nessuno ha permesso che i loro simboli fossero toccati e sono arrivati a nascondere il vino per l’eucaristia in casa propria”. 
Il problema, ha aggiunto ancora il custode di Terra Santa, “è che il fondamentalismo di oggi non può nascere dal nulla. C’è sempre un background, ed è su questo che bisogna interrogarsi. Io sono convinto che si debba dialogare, sia perché senza dialogo siamo finiti sia perché il dialogo è incontro con l’altro e parte integrante della mia vita di fede. Ma deve essere fatto nella verità. Non so – ha proseguito – se si possa dialogare tra le fedi. Io penso di no. Però si può dialogare tra credenti e condividere le esperienze di fede. Questo si deve fare. Non posso credere che vi sia un miliardo e mezzo di persone con le quali non posso entrare in relazione. E’ una aberrazione pensare questo. Dobbiamo farlo, ma nel rispetto  reciproco, nella verità. Su questo non si può transigere”.

A margine dell’incontro, padre Pizzaballa – che si è chiesto “cosa sia e dove sia la comunità internazionale”, visto quel che sta accadendo “nell’indifferenza generale” – ha ammesso, conversando con il Foglio, che “le reazioni delle autorità musulmane riguardo le persecuzioni delle minoranze sono state molto timide”. Certamente non tutti, visto che ci sono state lodevoli eccezioni che danno speranza. Ma bisogna riconoscere che se è vero che le narrative sono diverse e ognuno legge gli eventi in maniera diversa, allo stesso tempo è oggettivo che i leader islamici del medio oriente sono stati molto timidi nel denunciare l’abominio che è in corso”. 
Sarà un’impresa ardua ricomporre la frattura che s’è venuta a creare tra musulmani e cristiani nel vicino e medio oriente: “Ci vorranno molto tempo e diverse generazioni per recuperare il tipo di coesistenza precedente la guerra”, ha chiosato.

mercoledì 23 dicembre 2015

L’augurio di quest’anno è di percorrere con fiducia la strada verso la misericordia del Padre che ci attende sempre, con fedeltà, anche oggi.

Auguri di padre Pierbattista Pizzaballa, ofm
Custode di Terra Santa

Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is. 9,1).
     
Stiamo vivendo un tempo arduo, il cui susseguirsi di tragedie e di violenze ci ha colmato di paure. La descrizione della fine dei tempi, che la Liturgia ci ha proposto prima dell’Avvento (Mc 13, 24-32), è sembrata l’eco di una cronaca attuale, che ci ha reso difficile attendere il Natale con sentimenti di gioia, di festa, di vita.  La paura sembra dettare il nostro agire, anche nelle piccole azioni quotidiane. Ma soprattutto abbiamo paura dell’altro, come se avessimo perso il coraggio di credere nell’altro. Non ci fidiamo più e siamo tentati di rinchiuderci nel nostro piccolo cerchio. Abbiamo paura del musulmano, dell’ebreo, dell’orientale o dell’occidentale, secondo dove ci troviamo. Il nemico è diventato “gli altri”; pensiamo che “gli altri” siano contro di noi, che ci minaccino e ci rubino la speranza di un mondo sicuro, di un futuro migliore.

In Siria, in Iraq, in Terra Santa, in Oriente così come in Occidente, sembra che la forza della violenza sia l’unica voce possibile per contrastare la violenza che ci sovrasta.
Aspettare il Natale in queste circostanze interroga la nostra fede e fa nascere il bisogno di una speranza più grande. Sono questi i sentimenti che ci hanno accompagnato nella partecipazione alle varie cerimonie per l’accensione dell’albero di Natale e la benedizione del Presepe. Spesso, durante la celebrazione della festa, attorno a noi si sentivano le sirene d’allarme, segno certo di scontri e disordini. E, sempre, abbiamo riconosciuto un senso d’inadeguatezza rispetto alla situazione. Ci sembrava di essere fuori dal tempo e dalla storia.
Ma non è così. Il Vangelo ci dice che la pienezza del tempo si è compiuta in un tempo difficile, quando Giovanni nel deserto invitava a preparare la Via del Signore predicando un battesimo di conversione. La festa, le luci, i colori, pur necessari, desiderati e celebrati nelle circostanze che viviamo, ci guidano a pensare con più verità al senso originario del Natale: Dio che entra nel nostro tempo e nella nostra storia. Il nostro tempo e la nostra storia di oggi.

Natale ci dice che Dio ama la vita, che Lui stesso è vita. È questa verità il motivo definitivo e buono per stare su questa terra. Perché è tempo di cercare motivazioni autentiche, ragioni ultime per continuare a vivere e a sperare. Ragioni e motivazioni che rimangano, che tengano, che non subiscano le altalenanti fasi delle nostre angosce o delle nostre esaltazioni, che abbiano il sapore di una misura giusta, di un orizzonte reale. È tempo di cercare domande e risposte, orientamenti, di ritrovare l’Oriente.
E questo Oriente è il Cristo, Uomo e Dio. Il Natale ci richiami, dunque, a questo Oriente.

Natale, ci dice che la nostra vita è Avvento, che camminiamo verso un futuro, forse drammatico, faticoso, ma nel quale – è certo - incontreremo Lui. Natale ci dice che questo futuro, per cui siamo tanto preoccupati, questo futuro che inizia ora, è già iniziato: è Gesù nato, morto e risorto.
Non camminiamo verso il nulla, verso l’ignoto, verso il buio, ma verso qualcosa che è già accaduto e che rimane, che si compie sempre e comunque, che non potremmo distruggere nemmeno se lo volessimo.
Camminiamo verso un incontro.

Allora, questo tempo difficile sarà comunque un tempo buono, se ci restituirà la consapevolezza che è il tempo dell’incontro; se ci renderà - finalmente - bisognosi di qualcosa che sia altro da noi stessi; se ci renderà più attenti a chi abbiamo vicino, perché il futuro verso cui camminiamo potrà essere soltanto il compimento di ogni relazione di cui avremo avuto cura, qui, ora. Anche in queste circostanze drammatiche.
L’augurio di quest’anno è di percorrere con fiducia questa strada, aperta nel deserto di tante nostre vite, verso questo futuro buono,che ha un unico Volto: quello della misericordia del Padre, che ci attende sempre, con fedeltà, anche oggi. 

Buon Natale.

sabato 2 maggio 2015

Fra Ibrahim e Pizzaballa: «Ad Aleppo noi cristiani siamo sempre meno, ma decisi a resistere»



Terrasanta.net

«Ad Aleppo si muore, la gente diventa ogni giorno più povera e siamo certi che le cose peggioreranno. Ma quello che mi dà speranza è che molti cristiani non vogliono andarsene. L’esercito ha aumentato le difese. Ho la sensazione che la città possa resistere e non cadere nelle mani dei fondamentalisti…».
Stavolta incontriamo fra Ibrahim Sabbagh, parroco latino nella seconda città della Siria, a Milano. È da pochi giorni in Italia per una breve pausa e per raccogliere aiuti per la sua parrocchia, dopo un viaggio avventuroso che lo ha portato prima a Damasco (dieci ore per fare 360 chilometri e lungo il percorso molti posti di blocco, un blindato dell’esercito esploso su una mina e tre soldati uccisi), poi a Beirut e infine nel nostro Paese.

Il racconto di fra Ibrahim, che ad Aleppo ha lasciato altri tre confratelli francescani della Custodia, fotografa una situazione tragica: 
«I nostri “martiri”, cioè i cristiani morti in città negli ultimi tre anni sotto i bombardamenti sono 178 - annota fra Ibrahim -: 20 sono della Chiesa latina, 20 i melchiti, 14 i greco-ortodossi, 9 i siro-ortodossi, 7 i siro-cattolici, 7 i maroniti e 101 gli armeni. Aleppo prima che scoppiasse la guerra contava circa un milione di cristiani. Oggi nessuno sa quanti siamo rimasti: forse un terzo, forse un quarto... Quando facciamo l’incontro periodico tra tutti i responsabili delle Chiese di Aleppo, nessuno dice di conoscere il numero delle famiglie o il numero delle persone della sua Chiesa. Ma alcuni dati possono farci immaginare la situazione: le 9 scuole cattoliche della città due anni fa contavano 10.500 bambini iscritti, adesso il numero è sceso a 2.500. Questo confermerebbe che i cristiani sono diventati un quarto, un terzo in due anni… E quelli che rimangono, diventano più poveri di giorno in giorno. Secondo i dati di cui dispongo, abbiamo sicuramente 442 famiglie iscritte alla nostra associazione di beneficenza parrocchiale. Quando sono arrivato ad Aleppo, a fine 2014, vi erano iscritte soltanto 220 famiglie: in cinque mesi sono raddoppiate. Lentamente credo che tutte le famiglie busseranno alle porte dell’associazione… Secondo i sondaggi della Caritas, il 70 per cento delle persone che vivono oggi ad Aleppo è sotto la soglia della povertà. Diversamente da quanto avviene a Damasco, dove la maggior parte della popolazione lavora, ad Aleppo solo un quinto degli abitanti lavora ancora».

«Il cibo – prosegue il parroco francescano – in città arriva, ma a volte chi lo vende se ne approfitta e il prezzo cresce fino a diventare insopportabile. La gente è davvero molto povera: ultimamente ci capita addirittura di dover pagare tutte le spese dei funerali perché non hanno soldi neppure per questo…  Nonostante tutto, ci sono diverse cose che mi danno speranza: innanzitutto il fatto che molti cristiani di Aleppo sono decisi a non abbandonare la città. Amano Aleppo e sanno in ogni caso che se lasciano la città perderanno tutto. È positivo il fatto che pensino che ci sono ancora le condizioni per restare! Nonostante l’assedio e i bombardamenti la vita non si ferma: la biblioteca che noi frati abbiamo inaugurato alcuni mesi fa per gli studenti universitari, continua a rimanere aperta e i ragazzi continuano a studiare e a dare esami; le classi di catechismo hanno continuato a svolgersi fino all’ultima lezione, a cui erano presenti oltre 170 bambini. E poi mi consola molto vedere come ci sia tanta gente buona: trovo sempre persone disposte ad aiutare con molta facilità, disponibili, pazienti. Tra noi sacerdoti, infine, è meravigliosa la comunione che si è creata proprio in questa situazione di guerra».

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=7471&wi_codseq=SI001%20&language=it

Jisr el Choughour : la bandiera di al-Nusra issata sopra la croce della chiesa



L'intervista al Custode di Terra Santa 

(da Avvenire, 1 maggio)

di Andrea Avveduto

«Aleppo, la solidarietà resiste»


«La situazione umanitaria, in particolare ad Aleppo, è straziante. Mancano elettricità e acqua, la gente vive continuamente sotto i bombardamenti». Fra Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, appena tornato dalla Siria conserva negli occhi tutte le atrocità di una guerra assurda giunta ormai al quarto anno.


Padre Pizzaballa, quali zone ha potuto visitare e quali sono le più colpite dal conflitto? Sono stato a Latakia, Damasco e Aleppo. Non ho potuto andare nei villaggi del Nord perché c’erano dei combattimenti in corso per prendere Jisr al-Shugur, una cittadina che era sotto il controllo governativo e adesso è stata conquistata da al-Nusra. I jihadisti hanno distrutto in poco tempo anche tutte le nostre proprietà, ma non è il problema principale. Sono le tante famiglie sfollate che bussano alla nostra porta a preoccuparci. La città più colpita è Aleppo, dove la popolazione vive in condizioni disastrose e le uniche forme di lavoro che sopravvivono sono le piccole attività commerciali.

Quali sono le principali difficoltà della popolazione? Il costo della vita è aumentato drasticamente, non si può nemmeno quantificare con esattezza. La lira siriana poi non viene più utilizzata e – anche se è proibito – si impiega il dollaro. Il sistema sanitario è insufficiente per rispondere con tempestività ai bombardamenti, e tanti medici sono scappati. C’è un profondo senso di frustrazione, di disorientamento e di angoscia. Ad Aleppo tutti si chiedono se l’Is riuscirà – presto o tardi – a entrare in città.

Cosa significa la vostra presenza per la popolazione? È fondamentale, perché la gente non ha solo bisogno di pane. A volte conta di più una parola di conforto, un abbraccio o una stretta di mano. Non abbiamo la pretesa di cambiare le sorti della guerra, ma in questo conflitto abbiamo davvero la possibilità di cambiare noi stessi, di rimboccarci le maniche e darci da fare, di continuare a credere che l’uomo sia fondamentalmente buono perché creato a immagine di Dio, e non permettere che la logica della guerra diventi anche per noi il criterio con il quale guardare a tutta questa violenza. Anche nella paura, che è grande e innegabile.

C’è spazio per sperare in Siria? Tanti piccoli segni ci dicono che sperare è possibile e – aggiungerei – doveroso. I poveri si aiutano tra loro, in particolare chi ha perso la casa. C’è chi ha ricavato uno spazio nel suo appartamento per accogliere gli sfollati. Ho assistito a un funerale di una madre morta con le due figlie: c’erano tante donne musulmane con il velo che partecipavano alla Messa per piangere assieme ai vicini cristiani. È un grande segno di solidarietà. Le relazioni non si sono spezzate, come vorrebbero farci credere. Sono piccole cose, ma restano segni importanti, in questo mare di odio.

Che cosa chiede all’Occidente e a ciascuno di noi? Chiedo di non dimenticare i nostri fratelli che continuano a morire in Medio Oriente. E poi chiedo di aiutare economicamente le realtà che sono ben radicate nel Paese e che nonostante questa guerra atroce continuano a lavorare per costruire. È importante e necessario non arrendersi, continuare a credere che sia possibile fare qualcosa e conservare quel patrimonio unico che il Medio Oriente ha preservato fino ad oggi.

È possibile sostenere l’attività dei frati francescani in Siria dal sito www.proterrasancta.org


Da AVVENIRE, 1 MAGGIO 2015