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mercoledì 29 dicembre 2021

Secondo attacco israeliano questo mese contro il principale porto commerciale della Siria

 

Il 28 dicembre alle 3,21 di notte, caccia F-16 israeliani hanno lanciato quattro missili da crociera sul porto di Latakia. L'attacco è stato massiccio e ha inflitto pesanti danni alle infrastrutture portuali e ingentissime perdite di container pieni di importazioni civili come: filati di cotone utilizzati nelle fabbriche di tessuti di Aleppo, pneumatici per auto, parti per auto, latte per neonati destinato alle farmacie e molti altri carichi commerciali civili.
L'incendio è infuriato per ore e fitte nuvole di fumo nero si sono alzate per tutta la giornata. Non sono stati segnalati morti civili, ma i vigili del fuoco hanno inalato fumo e gli abitanti delle case vicine sono rimasti leggermente feriti da schegge di vetro. L'ospedale privato di fronte al porto, il Nada Hospital, ha subito vetri rotti lungo la sua facciata. Ristoranti e caffetterie lungo la Corniche ovest hanno subito danni alle vetrate in una delle zone residenziali più belle di Latakia, di fronte al porto.
Il porto è utilizzato da aziende private per importare farmaci, generi alimentari e forniture per i residenti siriani che subiscono le sanzioni devastanti degli Stati Uniti e dell'Unione europea che impediscono l'importazione di materiali per la ricostruzione dopo 10 anni di conflitto armato.
I generi alimentari distrutti durante l'attacco erano importati da aziende private. Questi commercianti stanno ora affrontando la rovina finanziaria. Molti di loro hanno lasciato il paese, ma coloro che sono rimasti hanno sofferto molto delle sanzioni americane ed europee che impediscono il trasferimento di denaro dalla Siria per pagare le spedizioni. Questi mercanti avevano assicurato l'approvvigionamento vitale della popolazione siriana. L'attacco israeliano ai container per il trasporto può indurre i commercianti a rinunciare a ordinare le forniture di cui hanno bisogno i residenti, come medicine e cibo, per paura di perdere il carico durante un attacco. Potrebbe essere parte di una strategia di assedio e blocco da parte di Israele.
Nel corso degli anni, Israele ha condotto centinaia di colpi su obiettivi in Siria, alcuni dei quali erano finalizzati al principale aeroporto della capitale, Damasco.

di Steven Sahiounie, giornalista e commentatore politico


AnalisiL'attacco israeliano in Siria e i colloqui di Vienna


Due giorni fa Israele ha lanciato diversi missili contro il porto siriano di Latakia, nel più massivo attacco di questa guerra non dichiarata e a senso unico, che vede i jet di Tel Aviv bombardare continuamente il Paese confinante e Damasco provare a intercettare gli ordigni nemici, ben sapendo che non può rispondere perché ne verrebbe incenerita.

I danni ingenti causati dal raid – tra l’altro è stato colpito anche un ospedale – e gli incendi divampati hanno fatto tornare alla memoria un’altra tragedia, quella dell’esplosione avvenuta nel porto di Beirut dell’agosto del 2020, orrore che rischia di ripetersi se non si mette un freno all’escalation.

Non sono state segnalate vittime, ma è la prima volta che Israele colpisce in maniera tanto massiva un’infrastruttura siriana di così grande rilevanza.

Tel Aviv giustifica tali attacchi come preventivi, perché servirebbero a tagliare le vie di rifornimento che dall’Iran portano a Hezbollah, in Libano, ma l’imponenza dell’operazione sembra più che altro uno sfoggio muscolare, anch’esso preventivo, in vista di quanto avverrà a Vienna.

In questa città, infatti, si stanno svolgendo i cruciali colloqui sul nucleare iraniano e ci sono segnali che un accordo, seppur minimale, potrebbe andare in porto. L’Iran ha infatti annunciato che non arricchirà l’uranio oltre la soglia del 60%. È quanto chiedevano gli Stati Uniti: lo stop all’arricchimento dell’uranio in cambio di uno sgravio, seppur non totale, delle sanzioni, in attesa di tempi migliori per un’intesa più ampia.

L’attacco a Latakia sembra così un segnale: Israele ha voluto dimostrare che se anche si troverà un’intesa, la guerra contro l’Iran e i suoi delegati è destinata a durare.

Ma al di là del conflitto, che durerà tempo, per quanto riguarda il dialogo di Vienna vanno registrate le dichiarazioni venate di “ottimismo” di iraniani e russi, secondo i quali sarebbero stati fatti progressi “nella direzione giusta” (Haaretz).

Ma ancora più importante appare il cambio di registro da parte delle autorità israeliane dopo la visita del Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan a Tel Aviv.  Di questo viaggio abbiamo accennato in una nota precedente, spiegando quanto fosse importante sia per la prossimità con il nuovo round di colloqui sia per la durata, dal momento che l’inviato di Biden si è trattenuto nel Paese per ben tre giorni.  Axios aveva riferito alcune indiscrezioni di parte israeliana, che suggerivano come Sullivan avesse di fatto accolto le remore dell’establishment di Tel Aviv, assolutamente contrario all’intesa (in realtà tale niet non è così monolitico, vedi Piccolenote).  All’indomani della visita, il primo ministro israeliano Naftali Bennet, il quale ai primi di dicembre aveva detto che le trattative di Vienna dovevano finire subito, ha affermato che Israele non è a priori ostativa a un’intesa con l’Iran, ma vuole un “accordo buono“.

Dichiarazione vaga, che consentirà di criticare qualsiasi intesa raggiunta, e però più che significativa, dal momento che è la prima volta che il premier israeliano, che invano aveva tentato di dissuadere Biden dalla sua determinazione, si è detto favorevole a essa.  Vuol dire che Sullivan a Tel Aviv ha tenuto fermo il punto, costringendo le autorità israeliane a  correggere il tiro, dal momento che non possono dissentire apertamente da Washington.

Le trattative per non far fallire il summit di Vienna si stanno dipanando in tutto il mondo:  se gli Usa hanno intrapreso un fitto dialogo con Israele, la Russia si è impegnata con la controparte, come denota anche la visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Mosca di questi giorni.

Questo lavorio diplomatico si intreccia con lo sfoggio muscolare dei contendenti. Israele si è detta più volte pronta ad attaccare l’Iran, anche con armi nucleari se necessario,

E in una nota su Haaretz, Chuck Freilich, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, ha anche profuso ottimismo su questa eventuale operazione, che risulterebbe del tutto indolore per Israele (un irenismo che cozza con quanto reputano gli analisti della Difesa israeliana, e tanti altri, vedi ad esempio The Atlantic).

Per parte sua Teheran ha inviato un messaggio alla controparte di segno analogo, con un’esercitazione che simulava un attacco alla centrale nucleare di Dimona. A conferma che non c’è una soluzione militare a questa ardua querelle.

mercoledì 22 dicembre 2021

Buon Natale. Pace in Siria!

l'albero di Natale tra le macerie di Zabadani, periferia di Damasco

Natale e povertà

Il Natale, in Siria, sarà condizionato dalle sanzioni internazionali”, racconta Andrea Avveduto. “Tutto ne risente e tutti ne risentono: perfino il pranzo di Natale sarà difficoltoso, se non hai elettricità che per due ore al giorno. Ma questo è niente”. Ed infatti, ben al di là del pranzo di Natale, la gente è messa in ginocchio: “se fino allo scorso anno si poteva parlare di una possibilità di sviluppo, per la Siria, ora noi di Pro Terra Sancta siamo costretti a tornare anche alla distribuzione dei pacchi alimentari, contenenti viveri e beni di prima necessità”.

E contro le sanzioni si mobilitano anche le istituzioni: il cardinale Mario Zenari, Nunzio Apostolico nella Repubblica Araba Siriana, ha più volte espresso viva preoccupazione per quella che lui definisce la “bomba della povertà”. Un ordigno strano, che non deflagra, non esplode, ma cresce poco a poco e degrada, e uccide, con la lenta ineluttabilità di una condanna irresistibile. Una povertà che le sanzioni non fanno che aggravare. Stessa posizione intrattenuta da Georges Abou Khazen, Vicario Apostolico per la diocesi di Aleppo.

Povertà e preghiera

Andrea ci racconta delle distribuzioni dei pacchi di viveri operate da Pro Terra Sancta ad Aleppo: “Si vede gente molto dignitosa in fila, esponenti di quella classe media che è stata spazzata via. Con compostezza, tutti attendono quell’aiuto che può salvare loro la vita”. Uno strangolamento sottile e lentissimo, quello delle sanzioni, che non dà pace, che continua.

È stato impressionante vedere però come il Natale significhi speranza, anche lì”, esclama poi Andrea. “Il Natale è sempre speranza, e anche lì si cerca di vivere questa speranza, attraverso la vita di comunità,. Gli anziani della parrocchia Azizeh di Aleppo, per esempio, pregano insieme perché sia posta una fine alla disgrazia, perché la Siria possa rinascere sulle spalle dei loro nipoti. Pregano sperando in un futuro, e hanno il coraggio di sperare proprio perché pregano: è dal dono di Dio all’umanità, cioè dal Natale, che nasce la speranza”.

Natale: la speranza nella fragilità

Natale è speranza, è desiderio di rinascita; Natale è la fragilità di questa speranza in mezzo alla povertà, come è fragile un bambino, che tutto è proteso a crescere, che tutto è desideroso di vivere. “Natale, in cui celebriamo la nascita di un bambino, ci richiama con urgenza alla cura dei bambini in Siria. È questo il punto centrale: il futuro della Siria passa per la vita di questi bambini; senza una loro disposizione alla pace, non esiste un domani credibile”. Il progetto Un nome e un futuro, ad Aleppo, dice Andrea “è il luogo dove si cerca di creare questa disposizione alla pace”.

Lì, i bambini sono accolti e desiderati, resi protagonisti. Molti di loro sono figli degli stupri dei jihadisti che hanno occupato la zona, e loro, con le loro mamme, sono visti con sospetto, sono allontanati. Al punto che molti non hanno mai avuto neppure un nome. Ecco perché, per loro, Pro Terra Sancta ha creato l’iniziativa Un nome e un futuro, per dare loro una possibilità di crescere, di divenire qualcuno, una persona sullo sfondo anonimo e disperante della povertà”. Per accendere, colorandole, quelle piccole luminarie che riscalderanno le strade devastate della Siria che attende il suo Natale di pace e di speranza.

Andrea fa una pausa, poi soggiunge: “Come la storia del mondo è stata cambiata per sempre dalla nascita di un bambino, così quella della Siria potrà esserlo solo dalla rinascita dei suoi, di bambini”.

 https://www.proterrasancta.org/it/poverta-e-speranza/

https://www.proterrasancta.org/it/project/siria-aleppo-un-nome-un-futuro/



«Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!
 Il Signore tuo Dio in mezzo a te
è un salvatore potente.
Esulterà di gioia per te,
ti rinnoverà con il suo amore,
si rallegrerà per te con grida di gioia,
 come nei giorni di festa».

BUON NATALE A TUTTI I NOSTRI AMICI!

Ora pro Siria 

domenica 19 dicembre 2021

“Francesco e il Sultano" in Siria, per continuare il suo bel mosaico di religioni ed etnie

La mostra in lingua araba “Francesco e il Sultano” è stata inaugurata in Siria nella città di Lattakia, il 30 ottobre e si è conclusa ieri a Damasco alla presenza del Ministro della Cultura Lubana Meshaweh e del Nunzio cardinale Zenari.  Organizzata per la prima volta al Meeting di Rimini del 2019, la mostra è stata in seguito realizzata in forma itinerante e presentata a Mosca nell’aprile 2021 al Centro culturale “Pokrovskie vorota”.
La vicenda di San Francesco e del sultano Malik al-Kamil, che, nel bel mezzo della Quinta Crociata, hanno trovato le risorse spirituali per incontrarsi, rimane un esempio per tutte le nostre società. È quello che l’Assessore alla cultura della città di Lattakia, il dott. Madj Sarem, ha sottolineato nel suo discorso inaugurale: «Questa mostra testimonia che il dialogo è la base della costruzione della civiltà e della cultura. E in Siria abbiamo molto bisogno di questo dialogo per ricostruire il nostro Paese che ha cosi sofferto a causa della guerra».
La Siria, la terra che ha dato al cristianesimo l’apostolo Paolo, testimonia ancora oggi che l’apertura e l’ospitalità non sono un mero fatto del passato, ma una forza creativa per i tempi presenti, anche quando sono difficili. 
Alexandra Shilova


 Da Mosca a Damasco. La mostra che racconta dell’incontro fra san Francesco e il sultano Malik Al Kamil ha girato le città della Siria. Perché, in una terra martoriata dalla povertà, puntare sulla cultura? Ce lo racconta Jean François Thiry che intervista il nunzio apostolico a Damasco card. Mario Zenari.

Lei ci diceva che la Siria sta morendo in silenzio. Mi piacerebbe capire come la Chiesa qui in Siria, anche attraverso di lei, sta affrontando le difficoltà odierne, e come può essere un segno di speranza per il popolo siriano.
Innanzitutto, c’è bisogno che si parli della Siria. Io sono qui da quasi 13 anni come nunzio. Sono arrivato due anni prima della guerra e ho vissuto gli anni del conflitto anche nei suoi periodi più disastrosi. Allora almeno si parlava della Siria, i giornalisti chiamavano tutte le settimane. Più tardi ho chiesto a un giornalista: ma perché non ne parlate più? La risposta: la Siria non si vende più, dopo un certo numero di anni la gente è stufa.

La situazione però purtroppo, da quello che constato personalmente, non è migliorata. Quello che vedo per le strade di Damasco sono certi segni di povertà che prima non c’erano. È vero, per fortuna non cadono più le bombe, colpi di mortaio; però c’è un’altra bomba terribile che è quella della povertà. Secondo i dati delle Nazioni Unite il 90% della popolazione siriana vive sotto la soglia della povertà, ed è una cosa allarmante. Purtroppo, non si vedono i segni di una ripartenza economica, occorrerebbero miliardi e miliardi per ricostruire la Siria, per mettere in piedi le fabbriche, dar lavoro alla gente, un futuro ai giovani: siamo ancora lontani da tutto ciò. Anzi, quello che osservo è una situazione bloccata, e questo significa che a pagare è la povera gente senza lavoro che fa la coda davanti a certi panifici che vendono a prezzi calmierati dallo Stato. Si fa fatica a trovare la benzina, il gasolio per viaggiare o per riscaldarsi, e con l’inverno la situazione peggiora. Quindi, il mio impegno, come nunzio apostolico, è cercare di tenere viva l’attenzione su questo paese.

Per quanto riguarda la Chiesa locale, in generale, i preti, i religiosi, le religiose durante la guerra sono rimasti accanto alla loro gente e questo è stato un esempio positivo. In tutti questi anni anche i cristiani hanno sofferto, soprattutto a causa del loro numero esiguo. In queste guerre gli anelli più deboli della catena sono i gruppi minoritari. Fatta eccezione per casi di pressione esercitata dall’Isis, dagli jihadisti sui cristiani durante gli anni più duri dello stato islamico (insulti, sfregi di icone o simboli religiosi), direi che non c’è stata una persecuzione in senso stretto. I cristiani hanno subito tutti questi oltraggi perché erano una minoranza, e i gruppi minoritari hanno sofferto per la guerra perché più esposti, più deboli.

Tra le varie sofferenze ce n’è una in particolare che pesa molto e che durerà a lungo: l’emigrazione dei cristiani. Parliamo di un’emigrazione forzata perché per queste minoranze il futuro è molto incerto, soprattutto per i giovani. In questi anni di guerra abbiamo assistito a flussi migratori che ancora continuano e che interessano più della metà della popolazione cristiana. Diverse chiese distrutte sono state ricostruite ancora più belle di prima, con le varie pietre posizionate al loro posto originario. Ma se anche una chiesa venisse riportata al suo primitivo splendore e mancassero le pietre vive, sarebbe una ferita enorme. E non solo per le Chiese (che certamente sono le prime a piangere questa partenza), ma anche per la società siriana. Pensiamo ai 2000 anni di presenza dei cristiani in Siria, al loro apporto notevole nel campo dell’educazione, della salute, dell’economia, della politica. Un politico molto conosciuto degli anni dell’indipendenza e ricordato ancora oggi con grandissima stima era un cristiano, Fares al-Khoury. Io dico sempre: i cristiani per la società siriana sono come una finestra aperta sul mondo che fa entrare una boccata d’aria. Con i cristiani generalmente tutti si trovano bene. Ho visitato villaggi misti dove c’erano metà cristiani, metà musulmani, sunniti o alawiti, e tutti si trovavano in pace.

Quindi i cristiani sono uno spirito aperto universale, sono una ricchezza. E in ogni cristiano o in ogni famiglia cristiana che vedo partire, vedo questa finestra della Siria aperta sul mondo che adagio adagio si chiude. Rischiamo di avere una Siria mono-culturale, mono-religiosa. Quindi la ferita più grave per le Chiese, ma anche per la stessa società siriana, è l’emigrazione cristiana. Poi abbiamo cristiani che sono morti sotto le bombe. Abbiamo cinque ecclesiastici dei quali dopo anni non si sa niente: due metropoliti ortodossi di Aleppo spariti più di 8 anni fa, e altri tre preti di cui si sono perse le tracce. Purtroppo, questo fa parte di quelle migliaia e migliaia (qualcuno arriva a dire 100.000) di persone scomparse. Poi ci sono altre varie ferite. Abbiamo avuto chiese distrutte o semidistrutte, simboli religiosi sfregiati. Abbiamo subito pressioni per far convertire i cristiani.

Le Chiese in questo momento sono molto impegnate nel campo degli aiuti umanitari. C’è gente che ha fame, che è sempre più ammalata (pensate cosa possono essere 10 anni di guerra), bambini che non hanno la scuola. Qui non c’è solo la gente che geme e che piange, ma c’è tutto il creato che geme e piange. L’aria, il terreno, le acque piangono per l’inquinamento. Da dieci anni infatti si usano esplosivi di ogni genere. Quindi adesso le Chiese sono impegnate al massimo nei programmi umanitari. Noi ringraziamo tutte le varie istituzioni assistenziali, caritative di ogni genere, soprattutto quelle cristiane di diverse parti del mondo. Ricordo che durante gli anni più duri della guerra le nostre istituzioni assistenziali cattoliche distribuivano ogni giorno circa 25.000 pasti caldi, di cui 15.000 ad Aleppo e in varie altre parti della Siria. Abbiamo varie attività anche nel settore della salute; un’iniziativa, ad esempio, è stata sostenuta dal papa e dal Pontificio consiglio per lo sviluppo umano integrale: quella di salvare tre ospedali cattolici, due a Damasco e uno ad Aleppo, molto stimati ma che rischiavano di chiudere. Durante la guerra infatti circa la metà degli ospedali era inagibile, ed era un costo enorme tenerli aperti. Allora l’iniziativa si era chiamata “ospedali aperti”, aperti a una condizione: che uno fosse povero e non potesse pagarsi le cure mediche. In tre anni e mezzo sono state curate più di 50.000 persone con risultati molto buoni.

La maggior parte di questi poveri che bussano alla porta non è cristiana (noi cristiani infatti siamo sì e no il 2%), però da quello che sento dire è molto riconoscente verso i cristiani. Molti si sorprendono di vedere il figlio o la moglie curati gratuitamente perché sono poveri. Direi che qui ci sono due bei frutti: la cura del corpo e la cura delle relazioni umane. E il fatto che queste persone non cristiane parleranno bene dei cristiani è un altro bel frutto.  Poi ci sono tantissime iniziative in diversi settori: dall’aiuto a pagare l’affitto di casa o la retta scolastica, a quello per costruire l’appartamento o cercare un posto di lavoro. Direi che le Chiese hanno sviluppato una “fantasia della carità” come diceva san Giovanni Paolo II, che è fatta di molte iniziative lodevoli, e siamo riconoscenti a tutti quelli che aiutano. Anch’io come nunzio cerco di chiedere elemosine, perché purtroppo mi accorgo che tutti questi aiuti sono come rubinetti nel deserto. Come rappresentante del papa devo darmi da fare, perché oltre ai rubinetti c’è bisogno di un fiume di aiuti. Un fiume che secondo gli esperti ammonterebbe almeno a 400 miliardi di dollari affinché ci sia la ricostruzione, una ripartenza economica. Purtroppo questo fiume è bloccato. Bloccato tra le altre cose dalle sanzioni che alcuni paesi che potrebbero aiutare mettono come condizioni. A mio parere c’è bisogno di fare pressione contemporaneamente su tre capitali: Damasco, Bruxelles, e Washington. Tutte e tre devono fare qualche gesto di buona volontà, qualche segno di compromesso. Invece, purtroppo, come dice l’inviato speciale delle Nazioni Unite Wennesland, c’è la sindrome del you first, quella per cui “tu devi muoverti per primo”. Dobbiamo trovare una comunità internazionale, ripete Wennesland, che faccia pressione perché le sanzioni vengano tolte, perché vengano meno anche corruzione e incompetenza.

Temo che la Siria rischi di essere strangolata nel silenzio. Questa bomba gravissima della povertà, di cui ho parlato, non fa chiasso. I mortai, le bombe durante la guerra (ne è caduta una anche sopra la nunziatura), quelle sì che facevano chiasso. La povertà invece colpisce il 90% della popolazione in silenzio. Bisogna cominciare a parlare, bisogna fare qualcosa: la comunità internazionale, le Chiese, tutti.

Ci ha descritto un panorama davvero surreale. La guerra distrugge tanti rapporti di convivenza pacifica… In un simile disastro, la mostra “Francesco e il Sultano” può essere uno strumento utile per l’incontro fra religioni diverse? Qual è la situazione odierna del dialogo interreligioso ed ecumenico?
Quando sono arrivato qui mi sono sentito ben accolto; dalla comunità cristiana naturalmente ma anche da quella musulmana, dalla gente comune. Sono andato tante volte in moschea con la talare e la croce e sono sempre stato rispettato. C’era un bel mosaico di convivenza tra le varie etnie e religioni. Spero davvero che questo mosaico non sia stato rovinato da questi anni di guerra, anche se si sono create fratture tra le varie comunità (quella maggioritaria sunnita, quella alawita, e le altre), ma spero siano danni che si possono riparare.

Questa mostra che viaggia per la Siria farà molto bene al dialogo interreligioso. Ho notato sempre un buon clima tra cristiani e musulmani e la mostra certamente contribuirà ad alimentarlo. Sto pensando al dialogo tra Francesco e il sultano avvenuto 800 anni fa, o ai gesti degli ultimi tempi come la preghiera di Assisi voluta da san Giovanni Paolo II a cui parteciparono vari esponenti delle varie religioni, o alla dichiarazione di Abu Dhabi firmata dal papa e dal grande imam di Al Azhar. E poi penso al viaggio del papa in Iraq con la visita al capo sciita Sayyed Jawad Al-Khoei. Anche io qui in Siria ne ho avuto un’eco molto positiva. Sono tutte pietre miliari sul cammino della fratellanza umana. Credo ci sia bisogno di rinsaldare queste relazioni ecumeniche e interreligiose, e direi che una mostra simile senz’altro produrrà dei frutti, assieme alla diffusione dell’enciclica Fratelli tutti.

Per vincere il male che c’è, i conflitti nel Medio Oriente, occorre che gli eredi della fede di Abramo, ebrei, cristiani, musulmani, diano dei segni particolari. Quando sono arrivato qui, mi sono recato nella grande moschea degli omayyadi che era sorta su un’antica basilica cristiana, e che è stata la prima moschea nella quale è entrato un papa, san Giovanni Paolo II. E vi è entrato principalmente perché lì secondo la tradizione è conservata la testa di san Giovanni Battista. Ogni volta che vado in questa moschea e mi dirigo verso il luogo della reliquia dove c’è un grande cenotafio, vedo sempre della gente che la venera, ed è gente musulmana. In quel punto della moschea potremmo trovarci davanti a quella reliquia ebrei, cristiani, e musulmani, perché nel Corano hanno la figura del profeta Giovanni il Battista. Quindi, proprio come eredi della fede di Abramo dovremmo mettere sempre più in risalto questi segni di fratellanza.

Durante gli anni terribili del conflitto che cosa le ha permesso di rimanere in Siria? Non può essere solo il lavoro o la missione papale. Credo che abbia vissuto questo tempo in modo molto personale…
Quando sono arrivato qui avevo già alle spalle 36 anni di esperienza nelle nunziature apostoliche di quattro continenti. Ho notato che tutti i nunzi prima di me erano rimasti in Siria quattro anni. I miei propositi di studiare l’arabo sono stati quindi rovinati da questa scoperta, perché non immaginavo che sarei rimasto di più. Ho però detto al papa e ai miei superiori: «Non pensate che io sia lì che pianga e che muoia di paura o di fame. Secondo me è opportuno che il nunzio rimanga. Si dice ai cristiani di non partire, ma occorre dare loro l’esempio». Se anche il papa mi nominasse nunzio in Europa, non mi sentirei contento, penserei sempre alla Siria. Il Signore mi darà la forza di rimanere con la gente che soffre, e posso dire di avere sempre avuto il necessario per vivere. Il 5 novembre 2013 è caduto un colpo di mortaio sopra la residenza, ma erano le 6.30 del mattino e ha fatto solo danni materiali molto limitati. Però ho visto gente morire, ho visitato diversi bambini che andando o tornando da scuola, quando bombardavano, venivano colpiti, magari alle gambe o alle braccia. Mi ricordo che un sabato santo del 2014 ho visitato una bambina, Lorin di 9 anni, e i suoi genitori che stavano in silenzio ai piedi del letto della figlia. La suora mi ha detto: «Lorin è molto nervosa oggi perché ieri che era venerdì santo le hanno amputato entrambe le gambe e si rende conto che non le ha più». 

Poi il 9 ottobre 2016, una domenica, mi dicono che il papa nella lista dei cardinali aveva messo anche il mio nome: arcivescovo Mario Zenari, nunzio in Siria che rimarrà in Siria. Ero il primo nunzio a essere fatto cardinale, che cosa significava? Nella storia ci sono stati dei nunzi trasferiti a Roma e poi fatti cardinali, ma di nunzi cardinali credo di essere l’unico esempio nella storia moderna delle nunziature. Mi hanno chiesto: «Lei che cosa pensa di questa nomina del papa?». E ho risposto: «il papa ha donato la porpora, simbolo del sangue, ai bambini morti del conflitto siriano». La porpora è il segno del sangue che un cardinale deve essere disposto a versare per la Chiesa, ma io porto questa porpora in segno del sangue versato soprattutto dagli innocenti e da tanti bambini. E indosso spesso anche una fascia sempre color porpora e alle volte la levo per chiedere alla gente un parere su quanto è larga. Qualche signora ci prova e spara delle cifre, sbagliando. Allora io dico: è larga 876 km e mezzo e lunga 975 km, perché il papa mi ha dato tutta la Siria. La Siria è catalogata come il paese che ha la più grande catastrofe umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, basta pensare ai morti: più di mezzo milione. Con la metà della popolazione sfollata o rifugiata nei paesi vicini.

Infine, aggiungo un ultimo particolare: sarei dovuto andare in pensione già lo scorso gennaio. Ho detto al papa che io sono sempre disposto ad andare in pensione, ma che qui la situazione è quello che è. Allora il papa mi ha chiesto di rimanere. Anche se non faccio miracoli, se non porto qui miliardi, credo che una delle cose più interessanti sia vivere con la gente che soffre. Questo è tutto. 

Pur non sapendo niente della Siria, sapevo però che l’ambasciata del Vaticano non era stata chiusa durante la guerra, e che il nunzio era rimasto col popolo e coi cristiani siriani. Questo fatto ha colpito tutti, è stata una grande testimonianza per tutti. Noblesse oblige, sono nunzio, devo rimanere qui. Sono diventato dall’anno scorso anche decano del corpo diplomatico per anzianità. Io direi con linguaggio calcistico che sono ai tempi supplementari. Spetterà all’arbitro fischiare, e finché non fischia…


Qualcuno potrebbe chiedersi: ma c’è un senso nell’organizzare un evento del genere in un luogo dove mancano l’elettricità e la benzina? Io credo di sì, perché proprio in un paese così martoriato dalla povertà, simili iniziative possono aiutare la gente a guadagnare una speranza. Non posso certamente risolvere i problemi economici, ma posso dire che molte persone che visitano la mostra vedono l’esempio di Francesco e del sultano come un segno di speranza per loro, come una possibilità di dialogare con le altre comunità, e quindi come un bene per il paese.

La mostra viaggia in posti molto diversi fra loro: chiese cattoliche, ortodosse, centri culturali musulmani o laici. È capitato spesso che a inaugurarla fossero sacerdoti ortodossi, e questo è curioso se pensiamo che nel primo pannello c’è la foto del papa. Ma non ho visto difficoltà. In Siria non c’è il problema dell’ecumenismo, i problemi sono altri. I cristiani non hanno la forza di litigare fra loro e un prete ortodosso può benissimo inaugurare una mostra che parla di un santo cattolico. La Chiesa ortodossa russa cerca in vari modi di sostenere la Chiesa di Antiochia. Quindi gli ortodossi guardano con molta curiosità e simpatia l’attività che facciamo in Siria e i rapporti che il centro culturale ha coi musulmani di Mosca. Direi che

nella terra dove san Paolo si fece fratello di coloro che aveva perseguitato, ci convinciamo sempre di più che l’apertura e la disponibilità non sono fatti del passato, ma un avvenimento del presente capace di vivificare anche le circostanze più opprimenti.

 https://www.lanuovaeuropa.org/cultura/2021/12/11/da-mosca-alla-siria-francesco-e-il-sultano/

giovedì 16 dicembre 2021

L'obiettivo è cacciare i cristiani da Gerusalemme e dal resto della Terra Santa, secondo i vertici della Chiesa.

 

Il 13 dicembre i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme hanno firmato una  dichiarazione congiunta su “L'attuale minaccia alla presenza cristiana in Terra Santa". Leader cattolici, ortodossi e protestanti hanno lanciato un appello alle autorità civili di Israele, Palestina e Giordania sulla situazione prevalente della comunità cristiana in Terra Santa.  

“Dal 2012 ci sono stati innumerevoli episodi di aggressioni fisiche e verbali contro sacerdoti e altro clero, attacchi a chiese cristiane, con luoghi santi regolarmente vandalizzati e profanati, e continue intimidazioni nei confronti dei cristiani locali che cercano semplicemente di adorare liberamente e di svolgere la loro vita quotidiana .”

Gli obiettivi del dialogo richiesto:

“(1) Affrontare le sfide presentate dai gruppi radicali a Gerusalemme sia alla comunità cristiana che allo stato di diritto, in modo da garantire che nessun cittadino o istituzione debba vivere sotto la minaccia della violenza o dell'intimidazione; (2) Avviare il dialogo sulla creazione di una speciale zona culturale e del patrimonio cristiano per salvaguardare l'integrità del quartiere cristiano nella Città Vecchia di Gerusalemme e per garantire che il suo carattere unico e il suo patrimonio siano preservati per il benessere della comunità locale , la nostra vita nazionale e il resto del mondo”.

Organizzazioni cristiane in altre parti del mondo hanno rapidamente aggiunto il loro sostegno all'appello.  Anche le Chiese per la pace in Medio Oriente (CMEP), un gruppo di difesa delle Chiese ortodosse, cattoliche e protestanti con sede negli Stati Uniti, hanno aderito all'appello, affermando che le comunità cristiane sono una parte importante della Terra Santa e custodi dei luoghi santi cristiani.  

“Mentre i cristiani si preparano a celebrare il Natale”, si legge in una dichiarazione del CMEP, “abbiamo vivo il pensiero dei  nostri fratelli in Terra Santa che continuano a portare avanti le tradizioni nel luogo in cui è iniziata la nostra fede”.

Di seguito il testo della "Dichiarazione congiunta su l'attuale minaccia alla presenza cristiana in Terra Santa.":

Throughout the Holy Land, Christians have become the target of frequent and sustained attacks by fringe radical groups. Since 2012 there have been countless incidents of physical and verbal assaults against priests and other clergy, attacks on Christian churches, with holy sites regularly vandalized and desecrated, and ongoing intimidation of local Christians who simply seek to worship freely and go about their daily lives. These tactics are being used by such radical groups in a systematic attempt to drive the Christian community out of Jerusalem and other parts of the Holy Land.

We acknowledge with gratitude the declared commitment of the Israeli government to uphold a safe and secure home for Christians in the Holy Land and to preserve the Christian community as an integral part of the tapestry of the local community. As evidence of this commitment we see the government’s facilitation of the visit of millions of Christian pilgrims to the holy sites of the Holy Land. It is therefore a matter of grave concern when this national commitment is betrayed by the failure of local politicians, officials and law enforcement agencies to curb the activities of radical groups who regularly intimidate local Christians, assault priests and clergy, and desecrate Holy Sites and church properties.

The principle that the spiritual and cultural character of Jerusalem’s distinct and historic quarters should be protected is already recognised in Israeli law with respect to the Jewish Quarter. Yet radical groups continue to acquire strategic property in the Christian Quarter, with the aim of diminishing the Christian presence, often using underhanded dealings and intimidation tactics to evict residents from their homes, dramatically decreasing the Christian presence, and further disrupting the historic pilgrim routes between Bethlehem and Jerusalem.

Christian pilgrimage, in addition to being the right of all the Christians around the world, brings great benefits to Israel’s economy and society. In a recent report by the University of Birmingham, it was highlighted that Christian pilgrimage and tourism contributes $3bn to the Israeli economy. The local Christian community, while small and decreasing in number, provides a disproportionate amount of educational, health and humanitarian services in communities throughout Israel, Palestine, and Jordan. In accordance with the declared commitment to protect religious freedom by the local political authorities of Israel, Palestine, and Jordan, we are requesting an urgent dialogue with us the Church Leaders, so as to:

1. Deal with the challenges presented by radical groups in Jerusalem to both the Christian community and the rule of law, so as to ensure that no citizen or institution has to live under threat of violence or intimidation.

2. Begin dialogue on the creation of a special Christian cultural and heritage zone to safeguard the integrity of the Christian Quarter in Old City Jerusalem and to ensure that its unique character and heritage are preserved for the sake of well-being of the local community, our national life, and the wider world.

—The Patriarchs and Heads of Churches in Jerusalem

13 December, 2021


https://www.custodia.org/it/news/statement-current-threat-christian-presence-holy-land

domenica 12 dicembre 2021

I rifugiati di Damasco

VaticanNews

Suor Antonietta, gli occhiali che incorniciano un viso sempre sorridente, è una delle cinque Suore di Gesù e Maria presenti a Damasco. La congregazione, fondata a Lione nel 1818 da Santa Claudine Thévenet, è presente in Siria dal 1983 con la missione fondamentale di educare i bambini. Dal loro convento, le religiose lavorano duramente per trovare aiuti per le famiglie cristiane povere che sono fuggite a Damasco a causa della guerra.  


Incontrare gli sfollati

Suor Antoinette cammina per le stradine della città vecchia. La capitale è piena di negozi e ristoranti, ma non mancano vicoli non illuminati, un po' più lontani dalle strade principali, che sembrano molto più tristi. È in uno di questi vicoli che suor Antoinette entra, prima di salire su una scala, sotto un portico. Si ferma davanti a una porta di metallo grigiastro. "Jacqueline", dice la suora, bussando alla porta. Qualche istante di attesa e appare una bambina: Sidra, 8 anni, si getta sorridente tra le braccia di suor Antoinette. Poi è il turno di suo fratello Azar, di 11 anni, e finalmente Jacqueline, la loro madre, fa entrare la religiosa. La donna accoglie la suora in un piccolo cortile, che si affaccia sull'unica stanza, piuttosto umida, della casa dove vive sola con i suoi tre figli. La figlia maggiore, Sarah, 12 anni, non è presente perché è a catechismo.

Fuggire o morire

La storia di Jacqueline è agghiacciante: viveva a Maaloula, qualche decina di km a nord-est di Damasco. Una città prevalentemente cristiana. Lei e suo marito, Ghassan, possedevano terreni agricoli, coltivavano uva e fichi e producevano melassa. Ma quando è scoppiata la guerra, la situazione si è complicata da un giorno all'altro. Nel 2013, le milizie islamiste di al-Nosra circondano la città e non mostrano alcuna pietà, soprattutto verso i cristiani. Nella piazza centrale, effettuano esecuzioni pubbliche. Rapiscono anche diverse persone, tra cui Ghassan, il marito di Jacqueline. In questo clima di terrore, la donna non ha altra scelta che quella di fuggire. Con i suoi figli, parte per Damasco. Come lei, migliaia di famiglie vanno nella capitale, considerata più sicura. Jacqueline non ha notizie di suo marito per molto tempo. All’inizio ha ricevuto una richiesta di riscatto, ma poi nessun contatto con i rapitori o i loro intermediari. In tutto, ha vissuto per tre anni senza sapere che fine avesse fatto il padre dei suoi figli, fino a un giorno del 2016 e ad una telefonata di un ufficiale dell'esercito siriano che le ha detto che i resti umani di cinque persone erano stati trovati in Libano e che, secondo le indagini, Ghassan poteva essere una delle vittime, come confermato poi dall'esame del Dna. Secondo l'esercito, i cinque uomini sono stati giustiziati dalla milizia islamista e, secondo i testimoni, hanno tutti rifiutato di convertirsi all'Islam, preferendo morire come martiri.

Sopravvivere a Damasco

Per sopravvivere, Jacqueline ha qualche piccolo lavoro, aiuta le suore del convento. Le armi ora tacciono in gran parte del Paese, ma la crisi economica che ne è conseguita è profonda. L'inflazione galoppa, rendendo i beni essenziali praticamente inaccessibili. Nella stanza in cui vivono Jacqueline e i suoi figli, c'è un letto dove dorme lei con le sue due figlie, un divano dove dorme Azar, un vecchio frigorifero, una televisione e una stufa a nafta. Sul bordo dell'unica finestra, alcune scatole di cibo e pane. Dall'altro lato del cortile, una zona "cucina" contiene un lavandino e un fornello a gas. C'è anche una toilette, ma nessun bagno vero e proprio. Suor Antoinette sta lavorando duramente per trovare il denaro in modo che possa essere installata almeno una doccia, affinché i bambini non debbano più andare al convento per lavarsi, anche se le suore li accolgono ben volentieri.

Le Suore di Gesù e Maria stanno sostenendo questa famiglia, e molte altre, in ogni modo possibile: preparano pacchi di cibo, si danno da fare per trovare vestiti e soldi per aiutare molte persone a pagare l'affitto. Nonostante le enormi difficoltà della vita quotidiana, Jacqueline vuole rimanere a Damasco, mentre molti siriani scelgono di andare all'estero. Ma lei vuole dare una possibilità ai suoi figli: "Le scuole sono migliori a Damasco", dice.

A Maaloula, il fratello di Ghassan ha restaurato la casa di famiglia e sta cercando di rilevare la piccola fattoria originaria. Jacqueline e i bambini ci vanno d'estate durante le vacanze scolastiche, ma tornare a vivere a Maaloula è un trauma che la donna non ha la forza di affrontare.

Georges e Marie

A pochi chilometri di distanza, suor Antoinette visita un'altra famiglia. Una coppia con tre figli di età compresa tra i 16 e i 18 anni. Sta piovendo, non c'è corrente elettrica (funziona solo per tre o quattro ore al giorno), e alcune gocce di pioggia cadono attraverso il tetto di lamiera, finendo in un secchio. Come molte famiglie che non possono permettersi un generatore privato, Georges e Marie (nomi fittizi, per preservare l’anonimato di questa famiglia minacciata di morte) hanno una batteria che alimenta una lampada a Led. Vengono da Homs, dove erano apicoltori. In una notte, hanno abbandonato tutto e sono partiti in pigiama, sotto il fuoco dei "terroristi". Sono fuggiti a piedi, poi in auto e infine in autobus verso Damasco. Poco dopo il loro arrivo nella capitale, Georges ha avuto un infarto. Ha subíto un intervento chirurgico e si è miracolosamente salvato, ma risente ancora dell’accaduto e non è più in grado di lavorare e guadagnare uno stipendio. È quindi Marie, con la sua piccola attività di sarta, a sfamare i cinque membri della famiglia. Ma ora l'inflazione è tale che tutto ciò non è più sufficiente. La donna ha anche dovuto rallentare il suo lavoro a causa di reumatismi alle mani. Quindi, è stata presa la decisione di ritirare il figlio da scuola in modo che possa lavorare per integrare il magro reddito familiare. A 18 anni, il ragazzo consegna cereali e fa il pendolare tra la fabbrica di Homs e la capitale, Damasco. Dei cinque membri della famiglia, lui è l'unico che è tornato a Homs.

 L'identità della terra

A Homs, non rimane nulla della loro casa e della loro terra. La villa in cui vivevano è stata rasa al suolo e gli alberi che alimentavano i loro alveari sono stati abbattuti per farne legna da ardere. A Homs, il numero di case abbandonate è incalcolabile; ogni giorno, le famiglie continuano a fuggire. Spesso le famiglie musulmane che sono rimaste lì fanno offerte per comprare dai cristiani che sono partiti. Ma è come se la rivendicazione dell'identità avesse permeato il terreno. Le famiglie cristiane, nella stragrande maggioranza dei casi, rifiutano di cedere i loro appezzamenti di terreno ai musulmani. Qualunque sia il costo. Marie e Georges potrebbero permettersi una migliore qualità di vita vendendo ciò che possiedono a Homs. Non hanno intenzione di tornare a vivere lì, ma se devono vendere, sceglieranno una famiglia cristiana. E se vendono, spenderanno i loro soldi per lasciare la Siria. Non fanno mistero del loro desiderio di stabilirsi all'estero. Ma non prima che il loro figlio abbia conseguito il diploma. Hanno promesso a suor Antoinette che, in cambio dell'aiuto fornito dalle suore, dei pacchi di cibo e dei soldi per l'affitto, il ragazzo tornerà a scuola il prossimo trimestre per finire il suo corso di studio e ottenere la licenza, uno strumento minimo di garanzia per un lavoro stabile e pagato meglio.

Alcune cifre

Il numero di sfollati in Siria è stimato intorno ai 7 milioni. Il 90% della popolazione vive oggi, come le famiglie di Jacqueline e Georges, sotto la soglia di povertà (con meno di 1 dollaro al giorno). 13,5 milioni di persone nel Paese hanno bisogno di aiuti umanitari. 2,5 milioni di bambini sono senza scuola, in gran parte a causa della distruzione del 40% degli edifici scolastici durante la guerra.

lunedì 6 dicembre 2021

Padre Daniel dalla Siria: un felice cammino di vocazione religiosa


Cari amici,

Venerdì 26 novembre 2021, padre Jean-Beauduin è stato ordinato diacono nella Chiesa greco-melchita dal nostro vescovo Jean-Abdo Arbach nella comunità di Mar Yakub secondo il rito orientale.

Fr. Jean è arrivato per la prima volta in questo monastero nel 2010. Suo nipote, Sebastiain de Fooz, aveva intrapreso un'escursione molto avventurosa da Gand a Gerusalemme nel 2005 e aveva ricevuto un caloroso benvenuto lungo il percorso al monastero Mar Yakub, a Qâra in Siria ( A piedi verso Gerusalemme. Un viaggio in solitaria di 184 giorni , Lannoo, 2011 ).

Ha esortato Jean a contattare la comunità, cosa che ha fatto. Fr. Jean incontrò madre Agnes-Mariam, che aveva ristrutturato le rovine di questo monastero un tempo famoso, fondato nel VI secolo, dedicato al santo persiano Jacob (= Mar Yakub) il Mutilato.  Con l'appoggio dell'allora vescovo, vi aveva fondato l'Ordine dell'Unità di Antiochia .

Fr Jean tornò in Belgio per completare i suoi studi di giornalismo e in seguito si trasferì definitivamente a Mar Yakub.

Nel frattempo, io stesso ero affascinato dal movimento mondiale Verso Gerusalemme II (tjcii) : sulla restaurazione dell'unità originaria della Chiesa, composta dalla "chiesa dei Giudei" e dalla " chiesa delle nazioni ”  (ecclesia ex judaeis  et ecclesia ex gentibus), unità nella diversità. In un congresso a Gerusalemme (2009), Madre Agnes-Mariam ha dato un'affascinante testimonianza sull' “unità di Antiochia” il luogo dove la Chiesa per prima (e ultima?) ha sperimentato quell'unità.

L'ho invitata a tenere conferenze su questo argomento in Belgio e nei Paesi Bassi. Dopo una prima serie di lezioni, è stata invitata altre tre volte da altri, dopodiché mi ha chiesto: “quando vieni a trovarci?”

E così sono andato a Mar Yakub come turista nel 2010 per due mesi. Ho vissuto un vero shock culturale in questo Paese musulmano con la sua sicurezza, prosperità, ospitalità e convivenza armoniosa di popoli e religioni diverse. Prima di tornare, Madre Agnes-Mariam mi ha chiesto se volevo aiutare a creare una scuola del sacerdozio cattolico, che sarebbe stata la prima nella storia della Siria, cosa che ho accettato. Abbiamo iniziato con quattro studenti, di cui alla fine fratel Jean è l'unico rimasto.

Proprio allora però, le potenze occidentali insieme agli Stati del Golfo, inscenarono una guerra spietata contro il popolo e il Paese siriano, per spezzarne l'indipendenza, impadronirsi delle risorse minerarie, costruire il “gasdotto americano” dall'Arabia Saudita e dal Qatar attraverso Homs fino al Mediterraneo, rompere la sua alleanza con la Russia... Sono stati reclutati numerosi terroristi da tutto il mondo per mettere in ginocchio la Siria. Alla fine, tuttavia, il popolo siriano, il suo esercito, governo e presidente sono rimasti sufficientemente uniti e hanno resistito, anche se il Paese è stato in gran parte distrutto, il popolo in gran parte massacrato e la prosperità si è trasformata in povertà.

Nel frattempo, abbiamo lottato insieme per la necessaria formazione filosofica e teologica. Sotto i bombardamenti più pesanti, studiavamo le “Marialogie” a lume di candela ai piedi della torre romana, mentre i fratelli facevano a turno di notte la guardia per poter dare l'allarme in caso di pericolo. Sono stati prodotti anche numerosi lavori annuali, tra l'altro sulle divisioni tra la Chiesa d'Oriente e d'Occidente e sulle notevoli menzioni di Gesù e Maria nel Corano. Comprendiamo che puoi trovare quasi tutti gli insegnamenti cristiani su Gesù e Maria nel Corano, anche se mescolati con molte contraddizioni e confusione.

P. Jean ha ora potuto ottenere un diploma di laurea online di 3 anni in 2 anni presso la Domuni Universitas dei Padri Domenicani a Tolosa (Francia).  Parla anche abbastanza siriaco per dare catechesi ai bambini di Qâra. E abouna Georges di Qâra è il nostro professore di liturgia che, con pazienza e dedizione, ha anche sufficientemente formato padre Jean nella liturgia bizantina. Che padre Jean provenisse dal rito latino e sia ora ordinato di rito bizantino è rimasta a lungo una difficoltà (teorica).  Dopotutto, diaconi e sacerdoti della Chiesa greco-cattolica hanno la possibilità di scegliere se sposarsi o meno. Come monaco di Mar Yakub, p. Jean, però, ha già fatto la sua scelta.

La consacrazione si è svolta nel piccolo cortile coperto di St. Jacques e non nell'ancor più piccola chiesa buia.  Hanno concelebrato una dozzina di sacerdoti. Si trattava infatti di tre ordinazioni: lettore e suddiacono prima dell'Eucaristia e diacono al termine dell'Eucaristia. 

All'ordinazione come lettore, il vescovo gli consegna la tonsura con l'imposizione delle mani: il vescovo gli taglia i capelli a forma di croce. Fr. Jean poi legge un'epistola. Nel suddiaconato si prostra a terra con la stola. Lava le mani del vescovo in segno di servizio. Nella preghiera di accompagnamento si implora l'amore per la casa di Dio. Giunti al diaconato, viene condotto tre volte intorno all'altare, baciando ogni volta i quattro angoli dell'altare. Si inginocchia con la fronte sull'altare. Infine, il vescovo gli mette sul capo la stola insieme alla croce e gli impone le mani. Nella preghiera, Santo Stefano è presentato come esempio. Il diacono poi legge le litanie in cui si prega per ogni genere di necessità: per la pace nel mondo, per la patria, per questo luogo… Tre volte gli viene gridato che ne è degno. 

Nella sua omelia, il vescovo ha ricordato l'esempio del diacono Stefano e ha sottolineato che il diacono è al servizio della chiesa locale. Il Vescovo si è congratulato con noi come comunità Mar Yakub, Madre Agnes-Mariam, Madre Claire-Marie e me. 

L'ordinazione diaconale di P. Jean è stata accolta con sincero e grande entusiasmo dai presenti, amici e collaboratori della comunità. Nella sala c'è stata l'occasione per trasmettere gli auguri al nuovo diacono, insieme ad alcuni dolci e una bibita. In seguito la maggior parte di loro è andata a chiacchierare al sole nel grande cortile. Nel refettorio ogni luogo veniva utilizzato per portare a tavola i sacerdoti, gli ospiti, gli amici, i collaboratori e gli operai.

Durante i vespri solenni di san Jacub, P. Jean ha servito per la prima volta come diacono. Indossava la lunga stola dorata, graziosamente ricamata in lettere rosse con la parola “santo” in greco, arabo e siriaco, ed eseguiva tutte le preghiere del diacono. I vespri si sono conclusi con la consacrazione dell'olio, del vino e del pane. Ciascuno è stato benedetto con quest'olio sulla fronte e ha ricevuto un pezzo di pane intinto nel vino. 

La sera abbiamo avuto una bella riunione con la comunità e alcuni ospiti nella sala addobbata del nuovo edificio con del formaggio, pane e tè... Si sono svolte danze popolari spontanee e quasi tutti cantavano una canzone o raccontavano una storia. 

Una giornata gioiosa e riccamente benedetta.

Padre Daniel

 Qâra, 3 dicembre 2021