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mercoledì 19 agosto 2015

Palmira si poteva salvare

A Palmira IS  decapita il capo del Sito archeologico; il corpo appeso a una colonna . Per più di 50 anni Khaled Asaad era stato il responsabile delle antichità della città patrimonio Unesco dell'umanità, conquistata a maggio dai jihadisti dello Stato islamico. Ucciso con un coltello davanti a una folla, lo studioso aveva nascosto centinaia di statue in un luogo sicuro.
Il responsabile delle Antichità siriane, Abdulkarim ha sottolineato che Asaad era conosciuto per il suo lavoro di studioso anche a livello internazionale. Era noto, infatti, per svariati lavori scientifici su Palmira, pubblicati su riviste archeologiche internazionali.
Nel corso degli ultimi decenni aveva lavorato con missioni archeologiche statunitensi, francesi, tedesche e svizzere.....
http://www.repubblica.it/esteri/2015/08/19/news/siria_l_is_decapita_e_appende_il_corpo
_di_un_archeologo_a_palmira-121211785/?refresh_ce#gallery-slider=114859870


Palmira, mia cara Palmira !


Innamorato dell’antico sito, lo scrittore Gabriel Matzneff rimprovera l’Occidente di avere abbandonato la culla della propria civiltà, la favolosa città della regina Zenobia

DI  GABRIEL MATZNEFF

Le Point.fr - 

Un artista che invecchia, un pittore, uno scultore, uno scrittore, un compositore, si abitua presto al fatto che i suoi amori più belli siano degli amori oramai morti, che abbiano cessato di esistere nella vita reale e che sopravvivano solo nelle tele, nei marmi, nei libri, nelle musiche che gli hanno ispirato.

E’ più raro per le città. L’imbecillità criminale della politica statunitense in Siria, la cieca subalternità dell’Europa a Washington, mi somministreranno forse, nelle ore e nei giorni a venire, questa dolorosa esperienza con Palmira, la mia cara Palmira. Prima che i fanatici barbuti, che la nostra cieca stampa francese ha per lungo tempo chiamato con simpatia “i ribelli”, dichiarassero guerra al governo legittimo, quello del presidente Assad, garante della laicità dello Stato, protettore dei cristiani, amico della Francia, “Le Carnet arabe”, che ho pubblicato nel 1971, era un libro che metteva voglia ai lettori di recarsi in Siria per scoprirvi i luoghi che vi sono descritti, e soprattutto Palmira, la favolosa città della regina Zenobia.
Domani, a cagione del fatto che il nostro Occidente vigliacco non ha sostenuto il governo legittimo e laico del presidente Assad, ma ha invece fatto di tutto per indebolirlo e gettarlo nelle mani di una banda di folli distruttori, la Palmira che ho descritto, le favolose vestigia tra cui mi sono abbandonato alle mie fantasticherie e ho preso appunti, cesserà d’esistere. La mia Siria sarà soltanto immaginaria, il frutto della mia fantasia.  Di colpo, lo scrittore viaggiatore si trasformerà di autore di fiction scientifiche, e la bellezza di questo luogo incantevole in polvere desertica.

Il genio occidentale in azione

Se i capi dello Stato Islamico distruggeranno Palmira, non saranno i primi. Sono stati preceduti nel III° secolo d.C. da Aureliano, che firmava le lettere che scriveva alla regina Zenobia di Palmira “Aureliano, imperatore del mondo romano e vincitore dell’Oriente”. In questo caso, però, non furono orde selvagge venute non si sa da dove ad annientare Palmira, ma l’esercito romano, quello che viene considerato il diffusore nel mondo mediterraneo della luce della conoscenza, dei benefici della Pax romana. Noi altri Europei, non possiamo dare lezioni agli Arabi, non siamo migliori di loro. Anche noi, troppo spesso, siamo stati capaci del peggio.
Aureliano, che i suoi soldati avevano soprannominato “Aureliano mano alla spada” (Aurelianus manus ad ferrum) non aveva nulla dello stile del neo-califfo Abou Bakr al-Bagdadi. E tuttavia fu senza particolari patemi d’animo che distrusse Palmira, questa città famosa in tutto il mondo per le sue bellezze, le sue ricchezze, i suoi giardini, i templi, i suoi dei, i suoi sacerdoti, le sue cortigiane. E’ giunta fino a noi la lettera nella quale l’imperatore romano descrive il sacco di Palmira da parte delle sue truppe: “Non abbiamo fatto grazia alle madri, abbiamo ucciso i bambini, sgozzato i vecchi, massacrato gli abitanti delle campagne…”

Che il lettore distratto non si inganni: non è la lettera di un presidente degli Stati Uniti sulle performance dei suoi soldati in Vietnam, in Afghanistan o in Iraq. No, si tratta dell’imperatore romano Aureliano e di Palmira. Il genio occidentale in azione. 

Un Occidente che, in Iraq, in Libia, in Siria, ha da più di vent’anni (fu del gennaio 1991 la prima aggressione statunitense contro il popolo iracheno) portato avanti la peggiore politica possibile. Noi tremiamo per il destino di Palmira, ma le distruzioni delle meraviglie archeologiche in Iraq e in Libia da parte delle bombe USA sono altrettanto spaventose di quelle perpetrate dalla soldatesche dello Stato Islamico. I barbari, ahinoi, si trovano in entrambi i campi.

TRADOTTO in italiano da OSSIN   http://www.ossin.org/crisi-siria/1767-palmira-si-poteva-salvare

venerdì 20 febbraio 2015

Aleppo, un parroco racconta la battaglia nella città martire simbolo di una "guerra artificiale"



Padre Rodrigo Miranda, cileno, ha trascorso gli ultimi quattro anni nell'inferno della città siriana. Ha assistito i suoi parrocchiani durante i tre anni di assedio tra le violenze, le uccisioni, i sequestri. Ha vissuto in prima persona la battaglia iniziata nell'estate del 2012, che più delle altre riassume la tragedia della popolazione. "La gente non ha mai chiesto un cambiamento, né politico, né culturale. Stava bene come stava. Non voglio canonizzare Assad, ma tra i ribelli solo il 2% sono siriani, la maggioranza sono stranieri, di 83 diverse nazionalità"

Repubblica.it, 
 17 febbraio 2015
di ALESSANDRA BENIGNETTI e ROBERTO DI MATTEO


ROMA - Padre Rodrigo Miranda, quarant'anni, cileno, è un missionario dell'Istituto del Verbo Incarnato che ha trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita in Siria, nell'inferno di Aleppo. Parroco della Cattedrale del Bambino Gesù, dal 2011 ha assistito i suoi parrocchiani durante i tre anni di assedio della città, tra le violenze, le uccisioni e i sequestri. A Roma è tornato da pochi mesi, e qui lo abbiamo incontrato per ascoltare la sua testimonianza. La testimonianza di chi ha vissuto in prima persona la battaglia per Aleppo che, iniziata nell'estate del 2012, più di tutte le altre riassume la tragedia della popolazione siriana. Quella della gente, che abitava la città più ricca e popolosa della Siria e che d'un tratto si è ritrovata al centro di uno scontro violentissimo tra i ribelli e l'esercito di Assad, costato la vita a migliaia di civili.


Un conflitto artificiale.  "Con il suo mosaico di culture e religioni, Aleppo è sempre stata una città modello della convivenza tra cristiani e musulmani" ci racconta Padre Rodrigo, e "la guerra è arrivata all'improvviso, contro persone che mai si sarebbero aspettate una reazione del genere di fronte ad un conflitto artificiale". Ci incuriosisce quest'ultima affermazione. "La popolazione siriana", spiega il sacerdote, "non ha mai chiesto un cambiamento, né politico, né culturale. Mai. La gente stava bene così come stava". "Con questo non voglio canonizzare Assad", continua, "ma voglio dire che il conflitto è stato il frutto di un processo estremamente veloce e violento. Tra i combattenti dell'esercito libero, infatti, solo il 2% sono siriani. La maggioranza sono stranieri, di 83 diverse nazionalità".

Le persecuzioni contro i cristiani.  Prima della guerra, ad Aleppo i cristiani erano circa 300.000. Dei 4.000 fedeli che frequentavano la parrocchia di Padre Rodrigo, oggi ne sono rimasti solo 25. Gli altri sono scappati, oppure "sono stati uccisi, soprattutto donne e giovani". "Molti sequestrati" racconta il sacerdote. In effetti, i cristiani, più di altri, in Siria, sono stati presi di mira dai gruppi islamici radicali. "Succede perché hanno una grande influenza in molti settori della società, e perché hanno la capacità di dialogare, di aprirsi all'altro, di rispettarlo. Quando sentiamo che l'Isis avanza nel nord dell'Iraq o della Siria è perché queste zone sono popolate da cristiani, e la risposta di un cristiano è molto diversa rispetto a quella di altri". Sul fronte umanitario, poi, la situazione non migliora: "ieri ho parlato con i miei parrocchiani: non hanno acqua, luce ed elettricità da dodici giorni. Le promesse delle Nazioni Unite di inviare aiuti sono rimaste solo promesse".

Un grado di violenza inaudito.  A pochi metri di distanza dalla parrocchia di Padre Rodrigo si trovava l'università di Aleppo, che il 15 gennaio del 2013 è stata il teatro di un violento attentato in cui hanno perso la vita centinaia di giovani studenti. "Era mezzogiorno, l'ora di punta, quando sono caduti i tre missili. L'università era piena e molte persone erano in strada" ci racconta. "Quando è caduto il primo missile ho iniziato ad aiutare le persone che avevo davanti a me. Poi mentre stavo correndo verso l'università per aiutare gli altri, ho visto il secondo missile che arrivava. Ho cercato di rifugiarmi tra un muro e alcune auto. Ho sentito un rumore, uno strano silenzio, e poi il disastro. È stato un massacro". 
"All'inizio", continua, "hanno detto che i missili erano dell'esercito di Assad. Ma il nostro quartiere è controllato dall'esercito: sarebbe come dire che hanno sparato contro loro stessi. Poi, che l'esercito aveva colpito per sbaglio. Ma se sbagli, sbagli una volta, non tre. L'altra ipotesi è che siano stati i ribelli, che sparavano per colpire l'esercito che controlla il nostro quartiere".  Il ricordo che è rimasto più vivido nella mente del sacerdote è proprio il "grado di violenza contro i civili". Ascoltiamo il suo racconto e ci viene in mente solo una domanda, la più banale. Non ha mai avuto paura? Mai, ci risponde sorridendo: "in quei secondi non riesci neanche ad avere paura. Pensi soltanto ad aiutare".

Le bugie dell'informazione.  "Quello che il popolo siriano desidera sopra ogni altra cosa è che fuori dalla Siria si racconti finalmente cosa succede davvero in Siria". La disinformazione riguardo il conflitto, secondo il sacerdote, è stata enorme. 
Gli chiediamo qual è la bugia più grande: "quella dei 'regimi', il voler catalogare a tutti i costi come 'dittatorì tutti quelli che non fanno come vogliono loro", ci risponde senza esitare. "Non si può applicare la 'democrazià come la intendiamo noi, in Paesi dove c'è un substrato culturale totalmente diverso: il rispetto della diversità e della cultura dell'altro è il presupposto per garantire la pace". Altrimenti, il rischio è quello di "una radicalizzazione sempre maggiore". Che è pronta a diffondersi anche in Europa, come già sta accadendo.

http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2015/02/17/news/aleppo-107564261/

martedì 10 dicembre 2013

Premio Pulitzer rivela: sul gas sarin Obama manipolo' intelligence

La denuncia arriva da uno dei piu' noti giornalisti investigativi statunitensi, il premio Pulitzer Seymour Hersh. In un lungo articolo pubblicato dalla London Review of Books, il giornalista ha accusato il governo americano di "deliberata manipolazione" delle notizie di intelligence sulle armi chimiche in Siria .



Whose sarin?

Seymour M. Hersh




Seymour Hersh : " Obama e il gas siriano. 'Nessuna prova sull’attacco di Assad' "


La Repubblica- 10 dicembre 2013



Barack Obama non ha raccontato tutta la storia quando ha cercato di sostenere che Bashar al-Assad era il responsabile dell’attacco chimico compiuto nei pressi di Damasco il 21 agosto. In alcuni casi ha omesso importanti informazioni di intelligence, in altri ha presentato semplici ipotesi come se fossero fatti. Soprattutto non ha ammesso una cosa nota ai suoi servizi segreti, e cioè che non è solo l’esercito siriano ad avere accesso al sarin (il gas nervino che è stato usato nell’attacco, secondo quanto accertato dall’Onu), nella guerra civile in corso nel Paese mediorientale. Nei mesi precedenti, le agenzie di intelligence americane hanno prodotto una serie di rapporti altamente riservati contenenti prove che il Fronte Al Nusra, un gruppo jihadista affiliato ad Al Qaeda, possedeva le competenze tecniche per creare il sarin ed era in grado di fabbricarne in abbondanza. Al momento dell’attacco, Al Nusra avrebbe dovuto essere fra i sospettati, ma l’amministrazione Obama ha scelto solo le informazioni che servivano per giustificare un attacco contro Assad.


Nel suo discorso televisivo del 10 settembre, Obama ha accusato con forza il governo di Assad dell’attacco chimico contro il sobborgo di Ghouta Est, controllato dai ribelli. Il presidente citò un elenco di prove apparenti della colpevolezza di Assad. «Nessuno, tra quelli con cui ho parlato, dubita delle informazioni», ribadì il suo capo di gabinetto, Denis McDonough. Tuttavia, parlando recentemente con ufficiali e consulenti dei servizi segreti e delle forze armate, in pensione e non, ho riscontrato serie preoccupazioni, e occasionalmente anche rabbia, per quella che è stata vista da più parti come una deliberata manipolazione dei servizi segreti. Un ufficiale di alto livello dell’intelligence, in un’email spedita a un collega, ha definito le assicurazioni dell’amministrazione Obama sulla colpevolezza di Assad una «furberia ». L’attacco, ha scritto l’ufficiale, «non è stato il risultato del regime al potere». Un ex alto funzionario dei servizi segreti mi ha detto che l’amministrazione Obama aveva alterato tempi e sequenza delle informazioni disponibili per consentire al presidente e ai suoi collaboratori di far sembrare che informazioni ottenute giorni dopo l’attacco fossero state raccolte e analizzate in tempo reale, mentre l’attacco era in corso.
L’assenza di un allarme immediato all’interno dei servizi di intelligence americani dimostra che i servizi segreti non avevano nessuna informazione sulle intenzioni siriane nei giorni precedenti all’attacco. E ci sono almeno due modi in cui gli Usa avrebbero potuto venirne a conoscenza prima, entrambi accennati in uno dei documenti top secret divulgati nei mesi scorsi da Edward Snowden. Il 29 agosto, il Washington Post ha pubblicato estratti del budget annuale per tutti i programmi nazionali di intelligence, fornito da Snowden. C’era una sezione dedicata alle aree problematiche: una di queste era la lacuna di informazioni dall’ufficio di Assad. Nel documento si diceva che la Nsa non aveva più accesso alle conversazioni dei vertici delle forze armate siriane, che potevano includere comunicazioni fondamentali da parte di Assad, come gli ordini per un attacco chimico.

Gli estratti del Washington Post hanno fornito anche la prima indicazione di un sistema segreto di sensori all’interno della Siria per conoscere in anticipo qualsiasi cambiamento nella situazione dell’arsenale chimico del regime. I sensori sono monitorati dall’Nro (Ufficio nazionale di ricognizione), l’organismo che controlla tutti i satelliti dei servizi segreti americani. Secondo il riassunto del Washington Post, l’Nro ha anche il compito di «estrarre i dati provenienti dai sensori sul terreno », dislocati all’interno della Siria. Questi sensori forniscono un monitoraggio costante dei movimenti delle testate chimiche in mano all’esercito siriano, ma nei mesi e nei giorni prima del 21 agosto, dice sempre l’ex funzionario, non hanno riscontrato alcun movimento. È possibile, naturalmente, che il sarin sia stato fornito all’esercito siriano attraverso altri mezzi, ma non essendoci stato nessun preallarme le autorità americane non erano in grado di monitorare gli eventi a Ghouta Est nel momento in cui si stavano svolgendo.
La Casa Bianca ha avuto bisogno di nove giorni per mettere insieme le prove contro il governo siriano. Il 30 agosto ha invitato a Washington un gruppo selezionato di giornalisti e ha distribuito loro un documento che recava scritto in bell’evidenza «Valutazione del Governo» (e non dei servizi segreti). Il documento esponeva una tesi essenzialmente politica a sostegno della posizione della Casa Bianca contro Assad: i servizi segreti Usa sapevano che la Siria aveva cominciato a «preparare munizioni chimiche» tre giorni prima dell’attacco. È la versione degli eventi (falsa, ma che nessuno ha contestato) che ebbe ampia diffusione al momento.
Il Daily Mail fu drastico: «I rapporti dei servizi dicono che le autorità americane sapevano da tre giorni dell’attacco al gas nervino in Siria, in cui sono morte più di 1400 persone tra cui oltre 400 bambini».
Il documento diffuso dalla Casa Bianca e il discorso di Obama non erano descrizioni degli eventi specifici che avevano portato all’attacco del 21 agosto, ma un’esposizione della procedura che l’esercito siriano avrebbe seguito per qualunque attacco chimico.«Hanno messo insieme un antefatto », dice l’ex funzionario dei servizi, «con un mucchio di pezzi e parti differenti». 
È possibile, naturalmente, che Obama non fosse a conoscenza che quel resoconto era stato ricavato da un’analisi del protocollo dell’esercito siriano per eseguire un attacco chimico, invece che da prove dirette. In ogni caso, il risultato è stato un giudizio affrettato.

La stampa seguì l’esempio. Nel rapporto dell’Onu del 16 settembre, che confermava l’uso del sarin, gli ispettori furono attenti a sottolineare che il loro accesso al luogo dell’attacco, che avvenne cinque giorni dopo il 21 agosto, era avvenuto sotto il controllo delle forze ribelli. «Come per altri siti», metteva in guardia il rapporto, «i luoghi sono stati visitati da altri individui prima dell’arrivo della missione […] Nel periodo che abbiamo trascorso in questi siti sono arrivati individui che portavano con sé altre munizioni sospettate, segnale che potenziali prove di questo genere vengono spostate e forse manipolate». Eppure il New York Times, così come le autorità americane e britanniche, presero il rapporto degli ispettori e affermarono che forniva prove decisive a supporto delle tesi della Casa Bianca. In un allegato al rapporto dell’Onu erano riprodotte foto, prese da YouTube, di alcune munizioni recuperate, tra le quali un razzo che «corrisponde indicativamente» alle specifiche di un lanciarazzi da 330mm. Il New York Times scrisse che la presenza di quei razzi sostanzialmente era la prova che la responsabilità dell’attacco era del governo siriano, poiché «non risultava che la guerriglia fosse in possesso delle armi in questione ».
Theodore Postol, professore di tecnologia e sicurezza Nazionale al Mit, ha analizzato le foto dell’Onu insieme a un gruppo di suoi colleghi ed è giunto alla conclusione che quel razzo di grosso calibro era una munizione di fabbricazione artigianale, molto probabilmente realizzata localmente. Mi ha detto che era «qualcosa che si può produttore in un’officina modestamente attrezzata». Il razzo delle foto, ha aggiunto, non corrisponde alle specifiche di un razzo simile, ma più piccolo, a disposizione delle forze armate siriane.

La rappresentazione distorta, da parte della Casa Bianca, delle informazioni a sua disposizione sulle modalità e la tempistica dell’attacco, faceva il paio con la sua determinazione a ignorare le informazioni di intelligence che potevano contraddire quella versione. Queste informazioni riguardavano Al Nusra, il gruppo ribelle islamista designato dagli Stati Uniti e dall’Onu come organizzazione terroristica. Al-Nusra ha messo a segno decine di attentati suicidi contro cristiani e altre confessioni islamiche non sunnite all’interno della Siria, e ha attaccato l’Esercito libero siriano, nominalmente suo alleato nella guerra civile.
L’interesse degli americani per al-Nusra e il sarin originava da una serie di attacchi chimici su piccola scala realizzati a marzo e ad aprile. L’Onu alla fine era giunto alla conclusione che erano stati effettuati quattro attacchi di questo genere, ma senza essere in grado di indicare il responsabile. Un funzionario della Casa Bianca dichiarò alla stampa, a fine aprile, che i servizi segreti avevano valutato, «con un grado di sicurezza variabile», che gli attacchi erano opera del regime. Assad aveva varcato la «linea rossa» fissata da Obama. Quella valutazione fece notizia, ma furono tralasciate alcune precisazioni importanti. Il funzionario della Casa Bianca aveva ammesso che le valutazioni dei servizi segreti «non sono di per sé sufficienti». In altre parole, la Casa Bianca non aveva nessuna prova diretta di un coinvolgimento dell’esercito o del governo siriani. Le dichiarazioni aggressive di Obama fecero colpo sull’opinione pubblica e sul Congresso, che vedono Assad come un assassino spietato.
Due mesi dopo, la Casa Bianca cambiò registro e dichiarò che i servizi segreti ora avevano «un elevato grado di sicurezza» riguardo alla responsabilità del governo Assad per le 150 vittime degli attacchi con il sarin. I giornali tornarono a parlarne con grande enfasi e alla stampa venne raccontato che Obama, di fronte alle nuove informazioni, aveva ordinato di aumentare i rifornimenti (non letali) all’opposizione siriana. Anche in questo caso, però, c’erano delle precisazioni importanti: tra le nuove informazioni di intelligence c’era un rapporto in cui si diceva che gli attacchi erano stati pianificati ed eseguiti da esponenti del Governo siriano, senza fornire particolari. Questa dichiarazione contraddiceva le informazioni che in quel momento stavano affluendo agli organismi di intelligence statunitensi.
Il 20 giugno, un cablogramma top secret di quattro pagine, che riassumeva quello che era stato scoperto sul potenziale chimico di al-Nusra, fu inoltrato a David Shedd, vicedirettore della Dia (i servizi segreti militari). Era stato anche recuperato — con l’aiuto di un agente israeliano — un campione del sarin utilizzato, ma secondo il consulente di questo campione nei cablogrammi non si è più parlato.

Sia in pubblico che in privato, dopo il 21 agosto l’amministrazione Obama ha ignorato le informazioni disponibili sul potenziale accesso al sarin di al-Nusra e ha continuato a sostenere che il Governo di Assad era l’unico a disporre di armi chimiche.
Il proposto attacco missilistico americano contro la Siria non ha mai trovato consenso nell’opinione pubblica e Obama si è affrettato a ripiegare sulla proposta dell’Onu e della Russia per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. Le possibilità di un’azione militare sono tramontate definitivamente il 26 settembre, quando la Casa Bianca ha approvato insieme alla Russia una bozza di risoluzione Onu che esortava il Governo di Assad a sbarazzarsi del suo arsenale chimico.
La risoluzione, adottata il 27 settembre dal Consiglio di sicurezza, diceva indirettamente che anche le forze ribelli, come al-Nusra, avrebbero dovuto disarmare, e affermava che nel caso un «attore non statale» fosse entrato in possesso di armi chimiche, il Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto essere immediatamente informato. Non era citato esplicitamente nessun gruppo.

Mentre il regime siriano prosegue con l’eliminazione del suo arsenale chimico, il paradosso è che al-Nusra e i suoi alleati islamisti, una volta distrutte le riserve di agenti precursori in possesso del regime, potrebbero finire per essere l’unica fazione in Siria ad avere accesso agli ingredienti per fabbricare il sarin, un’arma strategica unica in zona di guerra.


Queste e altre manipolazioni delle realtà hanno portato il mondo sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Obama, alla fine ci ha ripensato, e oggi sta cercando, insieme a John Kerry, una soluzione diplomatica alla guerra (la distensione con Teheran sul nucleare va vista anche in questa ottica). E questo oggi conta più del pregresso. Altri, sia negli Usa come in Europa, insistono sulle loro posizioni intransigenti, allora giunte al parossismo, ostacolando i tentativi di pacificazione. E la fabbrica della manipolazione che lavora attorno a questa guerra è ancora in servizio attivo. L’inchiesta di Hersch ne ha rivelato solo la punta dell’iceberg.Piace terminare questa lunga nota – ce ne scusiamo ma valeva la pena di dare spazio alla cosa, articoli del genere si leggono una volta ogni dieci anni – accennando alla statura umana del cronista in questione. Il suo articolo ha suscitato reazioni forti negli Usa. Alle quali ha risposto: «Rispetto a questioni tanto gravi» i miei «travagli» di giornalista «sono davvero poca cosa». 
Coraggio, intelligenza e modestia, forse mai premio Pulitzer fu più meritato.
http://www.piccolenote.it/16088/lattacco-chimico-di-goutha-in-siria-le-manipolazioni-che-potevano-scatenare-una-nuova-guerra 
Queste e altre manipolazioni delle realtà hanno portato il mondo sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Obama, alla fine ci ha ripensato, e oggi sta cercando, insieme a John Kerry, una soluzione diplomatica alla guerra (la distensione con Teheran sul nucleare va vista anche in questa ottica). E questo oggi conta più del pregresso. Altri, sia negli Usa come in Europa, insistono sulle loro posizioni intransigenti, allora giunte al parossismo, ostacolando i tentativi di pacificazione. E la fabbrica della manipolazione che lavora attorno a questa guerra è ancora in servizio attivo. L’inchiesta di Hersch ne ha rivelato solo la punta dell’iceberg.
Piace terminare questa lunga nota – ce ne scusiamo ma valeva la pena di dare spazio alla cosa, articoli del genere si leggono una volta ogni dieci anni – accennando alla statura umana del cronista in questione. Il suo articolo ha suscitato reazioni forti negli Usa. Alle quali ha risposto: «Rispetto a questioni tanto gravi» i miei «travagli» di giornalista «sono davvero poca cosa». Coraggio, intelligenza e modestia, forse mai premio Pulitzer fu più meritato.

venerdì 6 settembre 2013

Adonis , il calcolo dei cinici e i cristiani di Maloula che scrivono al Congresso


Impossibile negare l’orrore dinanzi a quelle immagini strazianti di corpi ammucchiati: donne, uomini e bambini uccisi silenziosamente dai gas. Come sempre davanti a ogni morte violenta, a ogni strage, vi è un moto di ribellione e un senso di impotenza. Ma la realtà della politica internazionale è molto più cinica e complicata dei sentimenti immediati; l’orrore per la strage chimica nei pressi di Damasco – sulla quale ancora non si sono pronunciati gli ispettori dell’Onu – fa velo a considerazioni più prosaiche e meno nobili.

Perché la sorte dei milioni di civili e dei profughi intrappolati fra le opposte violenze sembra meno rilevante nelle cancellerie internazionali rispetto alla vera posta in gioco: che non è solo l’abbattimento o la difesa di Assad, ma la frantumazione dell’asse geopolitico iraniano e l’indebolimento dell’arco sciita, cresciuto come visibilità e potere negli ultimi decenni. Questo è l’obiettivo in Siria dei Paesi a maggioranza sunnita, in particolare quelli del Golfo: isolare l’Iran, evitare la stabilizzazione dell’Iraq a guida sciita, far crollare il principale alleato di Teheran, ossia la Siria, e indebolire la libanese Hezbollah. Da parte iraniana, vi è la volontà di resistere all’attacco, incuneandosi fra le divisioni politiche dei sunniti, indeboliti dal disastro della transizione politica post primavera araba.

È uno scontro sistemico che prescinde dalla realtà del singolo Paese e che rischia di durare molto a lungo, trascinando nel gorgo dell’instabilità tutto l’assetto del Medio Oriente post-1918. Come avvenuto per le guerre di religione europee, alla fine del conflitto geopolitico fra sciismo e sunnismo, l’intero panorama politico regionale potrà mutare fortemente.

Non vi è molto che la comunità internazionale possa fare per bloccare questa deriva di polarizzazione interna all’islam. E molto poco possono fare anche gli Stati Uniti, la cui perdita di prestigio e di influenza nella regione è avvenuta con una rapidità impressionante. Ma certamente, un attacco limitato e abborracciato come quello che si propone Washington non porterà alcun miglioramento. Il sospetto è che ci si stia orientando a "tirare un colpo" contro la forza militare di Assad perché le cose sul campo non vanno affatto bene per gli insorti. Dopo due anni di guerra civile, infatti, il regime bathista di Damasco non solo non è crollato, ma ha ripreso l’iniziativa militare.

Un attacco contro le sue basi aeree servirebbe a "ribilanciare le forze sul terreno". E, con tutta probabilità, a rendere ancora più devastante e brutale il conflitto. Del resto, diversi analisti americani e israeliani lo hanno detto senza giri di parole che nascondessero il loro feroce cinismo: più a lungo in Siria si scontrano senza prevalere Assad, l’Iran e Hezbollah, da una parte, e i fanatici islamisti e qaedisti, dall’altra, tanto meglio sarà per noi. Certo, non meglio per la popolazione siriana, né per quella libanese – il cui fragile Stato rischia sempre più di essere trascinato nel gorgo del conflitto – o per tutti gli abitanti della regione, seduti sull’orlo del vulcano.

Ma il preannunciato bombardamento franco-statunitense rischia di fare un’altra "vittima collaterale": la speranza di una ripresa dei negoziati sul nucleare con l’Iran. Il neo-presidente Rohani si sta muovendo con prudenza per superare i tanti ostacoli interni che impediscono un compromesso con l’Occidente sul programma atomico. Sono già partiti i segnali sotto traccia di questa disponibilità; ma un bombardamento Usa della Siria spazzerebbe via ogni canale di dialogo. E forse, a qualcuno, interessa soprattutto questo.
Dinanzi a questo scenario, allora, l’unica via sensata e possibile è quella di una ripresa dell’iniziativa politica internazionale. E l’avvio di negoziati sulla Siria che includano tutti gli attori. Senza preclusioni. Ciò aiuterebbe molto di più la popolazione siriana di quanto non possano fare i missili "intelligenti" – ma privi di ogni credibile strategia politica – che Washington promette di lanciare.

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/siria-il-calcolo-dei-cinici.aspx


Lettera degli abitanti di Maloula: «I terroristi esigono che ci convertiamo all’Islam»

Gli abitanti di Maloula, villaggio a prevalenza cristiano conquistato ieri dalle forze ribelli, scrivono al Congresso Usa: «Quello che attende i cristiani delle nostre città nelle mani di terroristi come al-Nusra è terrificante»



TEMPI, 6 settembre 2013




Signore e signori,

permetteteci di farvi sapere quanto avvenuto oggi nella nostra città di Maloula, prima di ricordarvi dell’importanza di questa città. Alle quattro del mattino, ora di Damasco, i gruppi armati del cosiddetto “Esercito siriano libero”, i terroristi di Jabhat al-Nusra e gli assassini dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante hanno attaccato la nostra città, pacificamente situata nella provincia di Qalamoun. Poi hanno saccheggiato monasteri, chiese, trafugando le loro icone storiche, prima di esigere da tutti gli abitanti di convertirsi all’islam.

Sì, ecco cosa è successo all’alba di questo giorno nella nostra piccola città di Maloula. I gruppi armati si sono diffusi dappertutto, esponendo tutta la loro artiglieria in piazza dopo aver bloccato tutti gli accessi ai luoghi santi.


Questi atti criminali, questi saccheggi sistematici delle città cristiane, questo terrorismo che colpisce gli abitanti fa parte di un piano globale che ha lo scopo di cacciare i cristiani dalle loro terre d’origine. Ecco cosa stiamo vivendo ora che lo Stato è ancora forte. Cosa succederà quando non sarà più così, una volta che l’esercito degli Stati Uniti ci avrà bombardato?

Quello che attende i cristiani delle nostre città e villaggi, nelle mani di organizzazioni terroriste come Jabhat al-Nusra, è semplicemente terrificante. Possiamo forse sperare che tutte le terribili aggressioni subite dai monasteri e dalle chiese dalla cristianità – come a Ghassanieh, a San Simeone, a Homs – finiranno per risvegliare la coscienza del mondo perché riconosca il crimine terrorista commesso ai danni della Siria?
Noi non elencheremo neanche i massacri perpetrati in tutte le città e i villaggi dove abitano quelle che voi chiamate “minoranze”, perché li conoscete già nei dettagli!
Signore e signori, permettete che vi ricordiamo la storia di Maloula, che risale a migliaia di anni fa: all’epoca armena, quando dipendeva dal regno di Homs, all’epoca romana, quando si chiamava Celeokoboles, all’epoca bizantina, quando a partire dal IV secolo è diventata il centro di un episcopato di prima importanza durato fino al XVII secolo.
Permetteteci di parlarvi del Monastero di San Sergio , costruito nel VI secolo d.C. secondo la semplice architettura dell’epoca dei primi martiri. San Sergio era uno dei cavalieri di origine siriana giustiziato sotto il regno di re Maximanus nell’anno 297 d.C. Questo è una monastero che è rimasto intatto fino ad oggi!

Permetteteci di parlarvi del Monastero di Santa Tecla, dove sono conservati i resti della santa, figlia di un principe seleucide e cresciuta da san Paolo. Un luogo ben visibile da tutta la piccola città e dove l’acqua sarà per sempre “acqua benedetta”. Un luogo sorto davanti alla caverna dove lei si è rifugiata dopo essere sfuggita alla persecuzione dei romani. Un luogo che da allora è rimasto un simbolo della spiritualità e una testimonianza della vita dei santi. Qui i religiosi si prendono anche cura di tutti i pellegrini che vengono da ogni parte del mondo. Da lì si possono contemplare i rifugi rudimentali dove i primi cristiani hanno digiunato, meditato e pregato. Questo a riprova che Maloula è una città monastica dove si prega Dio il giorno come la notte.
Tutto questo è Maloula. Un luogo celebre meta di pellegrinaggi, dove una spaccatura nella montagna si riempie e si svuota dell’acqua in funzione delle stagioni, e dove i pellegrini sono venuti a cercare la benedizione, la guarigione e la purezza fin dalla notte dei tempi.

Gli abitanti di Maloula


http://www.tempi.it/siria-lettera-maloula-terroristi-islam
testo originale : Al-tayyar



Rinnoviamo l’invito a firmare l’appello per fermare l’intervento.




mercoledì 5 settembre 2012

LA RESPONSABILITA' DI CHI FA INFORMAZIONE

L' orrore di una guerra troppo fotogenica

di TZVETAN TODOROV
LaRepubblica 2 settembre 2012


L' ESTATE del 2012, come quella del 2011, è stata scandita dagli echi della guerra: questa volta però non in Libia, ma in un altro Paese arabo, la Siria. E non sono le forze occidentali (le nostre) che schiacciano il turpe nemico, si tratta di una guerra civile di cui noi, almeno ufficialmente, siamo soltanto spettatori. L' impressione globale che traggo dalle mie frequentazioni mediatiche estive è quella di una fascinazione di fronte allo spettacolo della guerra.
C'è una frase che coglie e al tempo stesso incarna lo stato d' animo che sovrintende a questi reportage militari ed è di Florence Aubenas. Giornalista stimata, la Aubenas descrive un convoglio pronto a partire per il fronte, poi aggiunge: «Intorno, i bambini fanno ala, sbalorditi, irretiti dall' ammirazione a tal punto che non osano più avvicinarsi a quegli uomini». Visto che nemmeno la Aubenas stessa osa commentare lo sbalordimento di quei bambini, conseguenza tragica del conflitto, siamo noi - giornalisti e lettori - che siamo invitati a condividere questa esperienza di folgorazione. La fascinazione si traduce, nella stampa, in una sovrabbondanza di immagini: la guerra è fotogenica.
Pagina dopo pagina, contempliamo le rovine fumanti degli edifici, i cadaveri stesi sul selciato, i cattivi condotti all' interrogatorio, probabilmente energico; o ancora le immagini di uomini giovani e belli con un kalashnikov in mano o a tracolla. Le foto, lo sappiamo, provocano un' emozione forte, ma prese isolatamente non emettono alcun giudizio ed è impossibile dare loro un senso. La stessa compiacenza caratterizza i testi che accompagnano le foto: ci si rallegra di vedere gli effetti di un attentato audace, di scoprire un esercito che si appresta a prendere il potere. «La battaglia galvanizza i ribelli», ma galvanizza palesemente anche i giornalisti. Le foto mostrano i visi inquieti dei prigionieri, le didascalie li identificano stringatamente: «Un uomo sospettato di essere un informatore», «Un poliziotto accusato di spionaggio»; sono ancora vivi al momento della pubblicazione? Si traccia con disinvoltura il ritratto di un ragazzo «modesto» la cui specialità è «sopprimere i dignitari e i capi dei miliziani». Ma non è da biasimare: «È un assassino di assassini, un uccisore di uccisori». I combattimenti, la violenza non sono solamente fotogenici, sono anche mitogenici, generano i racconti più palpitanti, quelli che ci fanno fremere e comunicare. Nella grande maggioranza dei casi, i media non si accontentano di rappresentare la guerra, la glorificano: hanno scelto da che parte stare e partecipano allo sforzo bellico. A dire il vero, la guerra suscita quasi sempre una fascinazione, perché rappresenta la situazione per eccellenza in cui, in nome di un ideale superiore, si è pronti a rischiare la cosa più preziosa che si possiede, la vita. A ciò si aggiunge l' ammirazione che nutrono gli spiriti contemplativi per gli uomini d' azione, rapidamente trasformati in simboli, e anche l' attrattiva che esercita la violenza: proviamo piacere a guardare distruzioni, massacri, torture.
Il fascino della guerra nasce anche dal fatto che rappresenta una situazione semplice, dove la scelta viene da sé: il bene si contrappone al male, i nostri agli altri, le vittime ai carnefici. Mentre prima l' individuo poteva trovare la propria vita futile o caotica, ora essa assume un senso pregnante. Di colpo non ci si preoccupa più di interrogare la realtà che sta dietro alle parole. La rivoluzione è necessariamente un bene, qualunque sia l' esito? E la lotta per la libertà non rischia di dissimulare un semplice desiderio di potere? Basta rivendicare i diritti umani, denominazione d' origine non controllata, per essere consacrati come loro difensori?

Eppure, negli stessi resoconti, compare un' altra immagine della guerra, se solo si va al di là dei titoli a effetto e delle didascalie delle foto e ci si interessa nel dettaglio alle descrizioni. Le giustificazioni ideologiche, essenziali in un primo momento per mettere in moto una guerra civile, in un secondo momento servono soltanto a rivestire una logica più potente, inerente alla guerra stessa, una catena di rappresaglie e controrappresaglie, con la violenza che ogni volta sale di una tacca più su. «Nessun perdono è possibile, sarà occhio per occhio e dente per dente». «Quelli che hanno ucciso li uccideremo». L' intransigenza diviene un dovere, la negoziazione e il compromesso sono percepiti come dei tradimenti.
Le vittime principali non sono i combattenti dell' uno e dell' altro esercito, ma le popolazioni civili, sospettate di complicità con il nemico, che vivono nell' insicurezza permanente, che muoiono in esplosioni indiscriminate, che fuggono abbandonando le loro case e i loro villaggi, che si ammassano nei campi profughi installati nei Paesi vicini. Le guerre civili non sono mai un semplice scontro fra due parti della popolazione, consacrano la scomparsa di qualsiasi ordine legale comune, incarnato ai giorni nostri dallo Stato, e rendono dunque lecite le manifestazioni della forza bruta: saccheggi, stupri, torture, vendette personali, uccisioni gratuite. Questo probabilmente è il futuro che attende quei bambini irretiti di ammirazione.
(TZVETAN TODOROV Traduzione Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA


Per i mass media tutte le opinioni sono buone e interscambiabili
Autore: Ricci, Patrizio 
Fonte: CulturaCattolica.it
domenica 2 settembre 2012
I miliziani dell'ELS scacciano i civili dalle abitazioni per farne postazioni di attacco contro l'esercito
regolare. Da qui le distruzioni dei quartieri residenziali, le fughe di masse di profughi...

Laresponsabilità di chi fa informazione  è immensa: si dovrebbe scrivere della pace e della possibilità degli uomini di non vivere più con l’odio. Scrivere che l’odio non deve essere più il filo conduttore della storia degli uomini, ma che solo l’amicizia tra i popoli, il desiderio di infinito, la bellezza possono costruire e fondare le società e gli Stati!
I “nostri” giornali invece si sono rivelati sulla vicenda siriana incapaci di osservare i fatti e di un giudizio semplice. Evidentemente, di questo l’uomo ha bisogno. Più delle analisi e dei sofismi.
Certi articoli ospitati si spingono più in là: contraddicono addirittura il magistero della Chiesa. Se glielo si fa notare, scrivendo in redazione, non rispondono o si mostrano infastiditi. Alla mia obiezione che è contraddittorio dare spazio ai documenti dei Vescovi e, contestualmente, alle interviste ai terroristi, fatti passare come liberatori, mi rispondono che dovrei essere contento, perché è segno che l’informazione è pluralista!
E' pluralismo ospitare personaggi celebri della cultura e del giornalismo che pontificano sulla risoluzione dei problemi con le armi, e si appellano ad improbabili organismi sovranazionali la cui indipendenza è pari a zero?
Ci affidiamo all’emergente “responsability to protect” dell’ONU? La Chiesa giustifica il ricorso alle armi solo per legittima difesa e così la nostra Costituzione! Qui invece si distruggono le case, si uccide settariamente la gente per strada, ci si fa scudo della popolazione civile… E’ un assaggio della libertà. Il giudizio cristiano su queste evidenze non può che essere unico. Penso che la mentalità dominante si stia insinuando davvero dappertutto, perché mi sembra evidente che se c’è unità tra la ragione e l’esperienza non possono verificarsi errori così grossolani!
Si aspetta “il nemico” davanti alla finestra, che arrivi come un ladro, entrando di soppiatto; invece il ladro entra dalla porta principale: dalla nostra stampa, che legittima un pensiero anticristiano e perverso che pretende di imporre le regole di una nuova convivenza dove contano solo le armi, il potere economico e una concezione anticristiana di giustizia e di liberazione dell’uomo. Dov’è il nostro cuore?
E’ in atto un gioco che non tiene conto della sacralità della vita e la “nostra” stampa evidentemente è incapace di disallinearsi. Decine di tentativi di destabilizzazione delle grandi potenze mondiali effettuati nelle varie epoche per contribuire all’ascesa di governanti amici, spesso hanno portato risultati disastrosi per i popoli. Ebbene, quante volte dovrà accadere di nuovo, prima che ne prendiamo consapevolezza? Prima che per analogia lo si sappia riconoscere quando riaccade?
Come dicevo, la giustificazione comune delle testate cattoliche - tranne alcune lodevoli eccezioni - è: «Diamo solo spazio al confronto delle varie opinioni perché siamo contro al pensiero unico pro-Assad o pro-ribelli».
Questo tipo di risposta mi lascia perplesso: le opinioni non si incontreranno mai veramente in un confronto di semplici “punti di vista”: nella vita occorre sempre prendere posizione, esprimere un giudizio di valore davanti a ciò che accade. L’opinione è debole perché non nasce da un’esperienza, mentre il giudizio sì! Il giudizio tiene conto dell’esigenza elementare del cuore dell’uomo!
L’incontro tanto richiamato dal Papa Benedetto tra ragione e fede genera uno sguardo originale sulla realtà, uno sguardo cambiato da un incontro: il Mistero che si è fatto carne. Questo fatto ci pone davanti alla realtà non con un’opinione ma con un giudizio che nasce dall’avvenimento storico di Cristo. E’ il rapporto con cui paragoniamo tutto, perché più congeniale alla nostra umanità. Alla luce di questa Presenza noi giudichiamo la realtà e non diciamo semplicemente la nostra più o meno “colta” opinione. Scegliamo questo sguardo e non una confusione di opinioni.
Perciò “tenere conto di tutti i fattori della realtà” – come dice don Giussani - lungi dal generare un giudizio dissociato a seconda dei vari avvenimenti che passano davanti ai nostri occhi, vuol dire guardarli in unità alla luce dell’origine che la realtà stessa indica. Se tale approccio, se tale giudizio tiene conto delle esigenze fondamentali dell’uomo non può essere che unico.
E’ evidente che informare secondo verità non vuol dire riportare tutte le opinioni come buone ed interscambiabili. La scelta stessa delle notizie indirettamente privilegia un particolare giudizio, e non si tratta qui del colore di un pavimento, ma del significato dell’uomo e di che convivenza umana vogliamo costruire. Dobbiamo dire cosa cospira contro il realizzarsi del “bel giorno” per cui l’uomo è fatto.
Ora, come possono le “opinioni” muovere e rispondere alle esigenze del cuore? L’uomo ha bisogno dello sguardo di Cristo; senza questo sguardo è perso. La pretesa tipica del nostro tempo di essere giusti, equi, liberi e democratici “tenendo le distanze” dagli aspetti più importanti della vita si sta rivelando la nostra agonia.
Solo l’Avvenimento di Cristo ha cambiato la storia ed il nostro guardare. Perciò, cari giornali cattolici, possiamo fare di più. Potete fare molto di più.
http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=31024&Pagina=1&fo=

domenica 5 agosto 2012

Nei quartieri cristiani di Damasco

Ore d'inferno sotto il fuoco incrociato
di ALIX VAN BUREN - LaRepubblica

L'assalto alle porte dei quartieri cristiani, a Bab Sharqi e Bab Touma nella Città vecchia di Damasco, è iniziato col canto rituale dei muezzin che precede l'alba. «Al primo "Allahu Akbar" intonato dai minareti s'è scatenata una sarabanda di fuoco»: Samir, patriarca di un'antica famiglia di commercianti, ha il palazzetto proprio di fianco a Bab Sharqi, la Porta d'Oriente dalla quale si accede all'area dei Masihiyya, i "seguaci del Messia".
«Era notte fonda, le scintille dei proiettili esplosi schizzavano in ogni direzione fuori delle finestre», Samir è ancora pallido e scosso. «La gente, giù per i vicoli, gridava "Eccoli, sono arrivati!", e intendevano i gruppi armati. Lo aspettavamo come il peggiore degli incubi: l'invasione dei quartieri cristiani. Dopo quelli di Homs e Aleppo, sarebbe toccato anche a noi».
I primi scontri sono iniziati verso l'una a Bab Touma, poco distante da Bab Sharqi. Un commando di insorti si è appostato in un edificio ai margini di un gruppo di misere casette, vicino al corso d'acqua che scorre all'esterno della porta. Presa la stazione della polizia,è intervenuto l'esercito.
Una ventina di uomini è riuscita a sgusciare verso Bab Sharqi. «Erano mercenari», sostengono gli abitanti, «parlavano con accenti stranieri». "Libici" dicono e intendono genericamente afgani, pakistani, ceceni, che popolano i loro timori dopo le notizie dei jihadisti entrati dall'estero. Sul cellulare mostrano le fotografie dei quattro uccisi nelle sparatorie, le barbe fino al petto.
«Tre quarti d'ora d'inferno», raccontano fra le case dove negli ultimi anni sono fioriti alberghi boutique, ristoranti citati anche all'estero, gallerie d'arte, piano bar, discoteche. Le loro parole suonano tanto più incongrue: «I nostri giovani sono scesi per strada, armati di kalashnikov. Sanno a malapena sparare». Da qualche giorno, infatti, da che è iniziata la battaglia di Aleppo, una parte della comunità cristiana siè dotata di armi e di una guardia. «Assieme ai soldati, hanno fermato l'attacco sulla porta. Se fossero entrati, Damasco sarebbe crollata». Il pomeriggio s'era annunciato coi combattimenti alle spalle di Jaramane, a breve distanza da Bab Sharqi, nei frutteti colpiti dall'artiglieria, un elicotteroa individuare dal cielo le posizioni dei ribelli.
A casa del mercante Samir, è una processione di gente. «Mi chiedono cosa fare», dice. «La sensazione è che questo sia soltanto l'inizio: una prova per saggiare la nostra reazione, capire quanto e come siamo armati. Vedrà, stanotte ritenteranno con armi più pesanti. Questo è un luogo strategico: chi prende il nostro quartiere, ha in pugno il cuore di Damasco». Il boss cristiano non ha torto: la Città vecchia, il centro della più antica capitale al mondo, cresce su se stessa da cinque millenni. La via Recta dei tempi romani riordina attorno a sé il groviglio dei suq. Le case addossate l'una all'altra, chiuse da muri ciechi all'esterno, offrono un appostamento ideale.
Una rete di cunicoli sotterranei permette di muoversi, non visti, attraverso l'intero quartiere; i tetti, contigui, sono una rete di passaggio ininterrotta, dominante dall'alto. Né carri armati, né artiglieria hanno spazio di manovra. Stanare chi si annidasse qui, sarebbe un'impresa proibitiva. Perciò i ribelli armati resistono da mesi nel centro di Homs, e ora in parte di Aleppo. Agli occhi dei cristiani, però, la posta è «immensamente più alta: sta prendendo corpo il più cupo dei nostri presagi» dice Tony, un avvocato, e per spiegarsi ripete a bassa voce lo slogan ascoltato in certe piazze siriane dall'inizio della rivolta: «"Alawiyya 'a tabut, Masihiyya 'a Beirut. Sta per "gli Alawiti alla tomba, i Cristiani a Beirut". Homs si è svuotata dei Masihiyya come in Iraq, e da Aleppo fuggono in decine di migliaia». Il siriano s'inasprisce: «Già una parte dei ribelli fondamentalisti ci vuole fuori di qui. In più, Francia e America per assurdo ci spingono a emigrare. Questo vorrebbe dire lasciar tutto: le antiche case, i nostri averi, quel che abbiamo costruito nella storia. Equivarrebbe a rinunciare alle nostre radici».
George, un antiquario, interviene: «Ascolti, noi eravamo qui ancor prima di San Paolo», s'inorgoglisce: «Quando Saul arrivò, già l'aspettava un vescovo». Ricorda un convegno in America, lui cristiano arabo invitato a parlare a una platea di protestanti. «Un americano m'ha chiesto: "Com'è cambiata la sua vita dopo la conversione alla Chiesa di Gesù?". Gli ho risposto: "Caro signore, spetterebbe a me rivolgere questa domanda a lei, dal momento che i miei avi erano cristiani molti secoli prima dei vostri?"».
S'è fatta l'ora dei vespri; lo scampanellio delle chiese torna a riempire il cielo, vivace e impertinente. Il Patriarcato riapre, i fedeli si avviano ai santuari ortodossi, cattolici e delle tante denominazioni cristiane. Il ristorante Narenj, a 100 metri dall'arco di Bab Sharqi, imbandisce i celebri tavoli di fronte a una chiesa e a una moschea, come se nulla fosse stato. Munir, il maître, sfoglia il libro delle prenotazioni: «Stasera tutto pieno», dice. E sembra crederlo.
Più in là, a Bab Touma, i segni della sparatoria sono scomparsi.
Tutto ripulito, anche i bossoli da terra. Non c'è traccia di soldati, né carri armati. Una quinta di normalità avvolge la lotta mortale per il futuro di questa terra.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/08/02/nei-quartieri-cristiani-di-damasco-ore-dinferno.html?ref=search

venerdì 27 luglio 2012

DALLA SIRIA APPELLO A TUTTA LA STAMPA CRISTIANA: NON SOSTENETE LA RIBELLIONE VIOLENTA!

Quello che noi chiediamo, se l’Occidente, i cristiani d’Occidente, se i Paesi di buona volontà vogliono aiutarci, che spingano per il dialogo e per l’intesa, ad un compromesso; in altri termini, che sostengano la missione Annan con tutte le loro forze, che tentino di fare in modo che gli scontri e i conflitti finiscano e al contempo non incoraggino e non stimolino la violenza e l’odio, quanto piuttosto tentino di richiamare alla calma e alla ragione. (mons. Jean-Clément Jeanbart)
http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=608327

“Urge fermare tutte le azioni ostili, provenienti da ogni parte”: è l’appello lanciato a tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano, in Siria e all’estero, da Sua Beatitudine il Patriarca Ignazio IV di Antiochia, Primate della Chiesa greco-ortodosso di Antiochia e di tutto l'Oriente, che risiede a Damasco.
Nel testo del messaggio, inviato all’Agenzia Fides, il Patriarca Ignazio afferma: “Un incalcolabile numero di arabi musulmani e cristiani, uomini, donne e bambini, cadono vittime delle bombe ogni giorno. Gli ospedali sono pieni di feriti il gemito umano è divenuto continuo e ininterrotto”. Come arabi della Siria, “a prescindere dalla nostra religione, noi abbiamo il diritto di vivere in pace nel nostro paese”, prosegue, notando che “in quindici mesi, abbiamo perso innumerevoli persone, molti emigrati e profughi hanno lasciato le loro patria per altri paesi. I nostri cristiani hanno perso i loro villaggi, le città, le loro proprietà, le loro chiese e le loro famiglie sotto le macerie della lotta”. Il Primate ortodosso conclude: “Invitiamo tutti i siriani, in nome dell'unico vero Dio, a decidere di vivere insieme nella nostra patria benedetta Auspichiamo che tutte le organizzazioni internazionali ci aiutino a garantire la pace, la stabilità e la riconciliazione”. (PA) (Agenzia Fides 27/7/2012)
http://www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=39611&lan=ita

L’opposizione siriana apre al dialogo:  “Non è troppo tardi per salvare il nostro paese. Pur riconoscendo il diritto dei cittadini alla legittima difesa, ribadiamo che le armi non sono la soluzione. Occorre rifiutare la violenza e lo scivolamento ver­so la guerra civile perché met­tono a rischio lo stato, l’identità e la sovranità nazionale”: così recita il messaggio diffuso da un gruppo di esponenti dell’opposizione siriana, riuniti a Roma in un incontro organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Il gruppo, guidato da Abdulaziz Alkhayer del “National Coordination Body” e formato da sedici rappresentanti dei partiti dell’opposizione siriana, ha diffuso un appello che invita tutte le parti coinvolte a trovare “una soluzione pacifica al conflitto siriano” tramite un “patto nazionale comune”.
“Sappiamo che la Siria, luogo di convivenza di religioni e di popoli diversi, corre oggi un rischio mortale che incrina l’unità del popolo, i suoi diritti e la sovranità dello stato”, recita il Documento finale, inviato all’Agenzia Fides. Le potenze straniere, si afferma, non devono “incitare alla militarizzazione” mentre si invita l’Esercito Siriano Libero a “partecipare a un processo politico per giungere a una Siria pacifica, sicura e democratica”.
http://www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=39612&lan=ita


Siria. L’opposizione a Roma da S. Egidio “Tacciano le armi, trattiamo con Assad" in La Repubblica del 27 luglio 12
No alla violenza del regime e dei ribelli, sì a una immediata soluzione politica che faccia uscire la Siria dalla sua drammatica spirale di violenza. È l’appello di 17 importanti esponenti dell’opposizione siriana scaturito ieri da un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio a Roma. L’appello è stato firmato da ben 11 sigle di opposizione e della società civile che operano in Siria (tra cui il Consiglio di Coordinamento Nazionale, il Forum Democratico e la Coalizione Watan) e che, raggruppando diversità religiose ed etniche, hanno un dogma in comune: «Le armi non sono la soluzione».
L'appello di Roma
Il dialogo al centro della richiesta degli esponenti siriani riuniti oggi dalla Comunità di Sant'Egidio
leggi l'appello su SIR
http://www.agensir.it/pls/sir/v4_s2doc_b.servizi?tema=Anticipazioni&argomento=dettaglio&id_oggetto=244444

venerdì 6 luglio 2012

TRA I CRISTIANI IN FUGA DA HAMA

«Il regime siriano ci proteggeva ora non possiamo uscire da casa


03 luglio 2012 – La Repubblica, pag. 19

DAMASCO - «Per anni abbiamo vissuto nel Paese più sicuro del mondo. Ci siamo sentiti protetti, rispettati. Ma quando abbiamo visto che non potevamo più neanche affacciarci alla finestra senza rischiare di esser uccisi, abbiamo deciso che non era più il caso di restare e abbiamo lasciato le nostre case».
Ai piedi del convento della Vergine Maria, a Saidnaya, una delle culle dei cristiani d' Oriente, dove si parla ancora l' aramaico, la lingua dei Vangeli, Abdu e George ricordano la loro fuga, pochi giorni fa, da Hama. George è definitivo: «Io avevo dieci anni, nell' 82, quando l' esercito siriano schiacciò la rivolta dei Fratelli musulmani, ma quello che sta succedendo oggi è peggio». Il luogo è lo stesso, Hama, l' antica città sull' Oronte, ma le circostanze sono diverse. La città martire della repressione ordinata da Hafez al-Assad nel febbraio 1982 contro i Fratelli musulmani, è ora uno dei fronti caldi della rivolta che da un anno e mezzo infiamma la Siria.
Ma per Abdu le parole del suo amico riflettono una realtà del tutto nuova: «Quello che vogliamo dire è che oggi, a differenza di 30 anni fa, l' esistenza dei cristiani è minacciata a Hama, dove eravamo una comunità di ventimila persone e adesso sono rimasti soltanto quelli che non hanno nulla da mangiare». Lo stesso succede a Homs e nelle altre città in cui i cristiani, dopo essere rimasti per mesi estranei al conflitto, si sono visti mettere sempre di più nel mirino di gruppi armati, spesso d' incerta provenienza, genericamente definiti "salafiti", integralisti islamici di fede sunnita, che, anche solo per infiammare lo scontro con l' esercito, o per diffondere il panico, hanno imposto la loro presenza nei quartieri cristiani. «Gente venuta da fuori - dice George -. Violenti, arroganti. Entrano in casa, controllano i documenti, interrogano. E se non sono convinti, magari ritornano la notte. Vicino a casa mia si sono portati via una ragazza di 20 anni ritrovata morta qualche ora dopo».
Se non fosse per le parole di questi profughi, seppure di categoria benestante, artigiani, tecnici, commercianti, sarebbe difficile cogliere, a Saidnaya, i segni della tragedia siriana. Il convento risalente all' XI secolo, costruito su una rocca scoscesa, domina come una fortezza inespugnabile una vallata immobile e silenziosa sotto il sole cocente. Qui nulla sembra turbare la calma di questo paesaggio da sempre uguale a se stesso.

Eppure sono giorni di grande tensione per la Siria, che sembra scivolare verso la sua dissoluzione. Una deriva che niente e nessuno sembra in grado di fermare. Non certo le divisioni in seno alla comunità internazionale, con Stati Uniti e Russia su posizioni sempre inconciliabili, né quelle esplose nei ranghi dell' opposizione. L' ultima riprova viene dal Cairo, dove, in base al piano approvato a Ginevra dalle cinque potenze del Consiglio di sicurezza, s' è riunita ieri l' opposizione per elaborare una strategia condivisa sulla proposta di dar vita ad un governo di unità nazionale, per guidare la transizione, con la partecipazione tanto di esponenti del regime che della rivolta.
Ma i ribelli armati, fra i quali i disertori del Libero esercito siriano e alcuni gruppi "indipendenti", hanno subito fatto appello al boicottaggio del vertice, cui invece hanno preso parte rappresentanti del Consiglio nazionale siriano, che raggruppa i dissidenti all' estero. Ma per i cristiani di questo Paese, circa 2 milioni di persone, intorno al 10 per cento della popolazione, l' opposizione è soltanto una pedina della "grande trama" imbastita alle spalle della Siria.
Determinati a difendere la loro identità di "siriani di religione cristiana", prima ancora che di "cristiani di nazionalità siriana", quelli che incontriamo a Maalula, altra meta di pellegrinaggi, dove riposano i resti di Santa Tecla, ad una quarantina di chilometri da Damasco, vedono proprio nelle manovre della comunità internazionale la causa della rivolta che sta scardinando il regime. I guai della Siria, dice in sostanza Gabriel, un comandante della marina commerciale che lavora sulle rotte mediterranee delle compagnie greche, «derivano dalle interferenze americane, per far saltare un equilibrio che non soddisfa i loro interessi, né quelli israeliani, né quelli dell' Arabia Saudita. E l' Europa, vergogna, li segue ciecamente».

In questo contesto, le prospettive di un cambiamento di regime fanno paura. «Non posso dire - afferma nel suo elegante studio di Damasco l' architetto Maria Sadeeh, recentemente eletta come indipendente in Parlamento - che Assad sia il protettore dei cristiani ma dico che noi viviamo in un regime laico che protegge i cristiani. L' Occidente deve stare molto attento a combattere i regimi laici del Medio Oriente perché non si sa quello che potrebbe arrivare dopo. Qui in Siria c' è un tessuto multi religioso che fa parte della storia del Paese. Un regime diverso finirebbe per annullare questo elemento imprescindibile dell' identità siriana. Un sistema salafita lo rifiuteremmo».

ALBERTO STABILE