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lunedì 28 ottobre 2019

Al Baghdadi non serve più

l'operazione contro lo Stato islamico a Barisha ha lasciato solo terra bruciata
di Fulvio Scaglione
Famiglia Cristiana, 27/10/2109
Il suo vero e completo nome era Ibrahim Awed Ibrahim Ali al-Badri al-Samarra’i, in breve Ibrahim di Samarra. Era nato molte volte. La prima, quella per i genitori e per l’anagrafe, appunto a Samarra il 28 luglio del 1971. Ma era nato di nuovo nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, quando era entrato nei ranghi di Al Qaeda. Un’altra volta era nato nel dicembre del 2004, quando era stato rilasciato da Camp Bucca, un carcere americano per terroristi in Iraq, dopo una detenzione di pochi mesi. Altra nascita nel maggio del 2010, quando diventa il capo del ramo iracheno di Al Qaeda. Ultima e definitiva nascita il 29 giugno del 2014, allorché viene proclamato califfo dello Stato islamico con il nome di Abu Bakr al-Baghdadi. L’uomo dalle molte nascite è morto una volta sola e per sempre. Poche ore fa, nella provincia siriana di Idlib dove sono ormai radunati gli ultimi irriducibili dell’Isis e delle altre formazioni islamiste. E, per dirla con Donald Trump, il Presidente più splatter della storia, è morto “piangendo e urlando come un codardo”.
Più prosaicamente, Al Baghdadi ha cercato di sfuggire alle truppe speciali Usa piombategli addosso su otto elicotteri e, quando si è visto in trappola, si è fatto saltare insieme con tre dei suoi figli. È lo stesso Al Baghdadi che il 30 aprile di quest’anno era comparso in un video “stile Osama”, ambiente anonimo, kalashnikov al fianco, minacce per tutti. La sua seconda apparizione pubblica dopo quella di cinque anni prima, il sermone tenuto alla Grande Moschea di Mosul, l’esordio come califfo dello Stato dell’islam armato che avrebbe dovuto ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Cinque anni di riuscita latitanza, mentre i servizi segreti di mezzo mondo gli davano la caccia e lui era costretto a muoversi in ambienti dove il tradimento è all’ordine del giorno, erano quasi un record. Infatti scrissi allora che, con ogni evidenza, Al Baghdadi a qualcuno serviva ancora. 
Bisogna scrivere oggi, quindi, che Al Baghdadi non serviva più. E che la sua morte manda a tutti noi una serie di messaggi di grande interesse. Il primo è questo: certifica che il pericolo di una rinascita dell’Isis, di cui si è molto favoleggiato sulla stampa occidentale per via della triste sorte dei curdi che ne tengono molti nelle prigioni da loro controllate nel Rojava e nel Nord-Est della Siria, era appunto una favola. È chiaro, potranno esserci azioni disperate e sanguinose da parte di qualche residuo aspirante martire. Ma Al Baghdadi non serve più, in questa fase, perché è proprio dell’Isis che non c’è più bisogno.
Il progetto (saudita, qatariota, turco, americano e chi più ne ha più ne metta) di inserire una zeppa di estremismo sunnita nella Mezzaluna Fertile dominata dagli sciiti, e in particolare tra Siria e Iraq, chiamandolo Califfato, è fallito. Ha quasi annichilito la Siria e ha tenuto centinaia di milioni di persone con il fiato sospeso ma è fallito. L’Isis può tornare a dormire. Rinascerà con altro nome e altri leader quando i suoi signori e padroni, pieni di miliardi, riterranno di averne bisogno, come hanno avuto in passato bisogno dei mujaheddin del popolo, di Al Qaeda, degli estremisti ceceni, di Al Nusra o di uno qualunque dei tanti movimenti che, tra Medio Oriente e Asia, parlano molto del Corano ma sono in realtà al servizio di precisi piani politici. 
Nel Nord della Siria succedono cose che vanno ben oltre l’Isis e quei fanatici senz’arte nè parte che da tempo sono rimasti senza soldi e senza protettori. Per capirlo sarebbe bastato osservare la sequenza degli eventi che si sono scaricati sui curdi. Eccola, in estrema sintesi. Trump annuncia il ritiro delle truppe Usa. Poche ore dopo l’esercito turco già si muove contro le postazioni dei curdi. Trump rinforza con migliaia di uomini le basi americane in Arabia Saudita. L’Iran annuncia una serie di manovre militari al confine con la Turchia ma non se lo fila nessuno. I turchi avanzano in Siria verso Sud. Anche i siriani avanzano, verso Nord. Vladimir Putin e Recep Erdogan si incontrano e si accordano su una gestione comune dell’area. 
Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non capire che alla base di questi eventi c’è un accordo, più o meno tacito, tra Turchia, Usa e Russia, una sorta di grande compromesso per uscire da una situazione che non vedeva (e non avrebbe potuto vedere) né vinti né vincitori. Che cosa c’entra tutto questo con Al Baghdadi? Intanto è un po’ sospetto che il grande latitante sia stato pizzicato proprio in coda a quei fatti. La sua eliminazione, probabilmente, era uno dei capitoli di quel contratto tra potenze. Fa fare “bella figura” a tutti. Soprattutto a Donald Trump che, con il fragore di questa notizia, cancella tutto quel gran parlare di “tradimento dei curdi” che poteva diventare una macchia della sua campagna elettorale. E infatti, a eliminazione di Al Baghdadi avvenuta, Trump ha ringraziato i siriani, i turchi e soprattutto i russi che hanno messo a disposizione alcune basi e i curdi che hanno collaborato al raid. Ulteriore conferma che questi Paesi, in teoria avversari o nemici, si stanno parlando, e tanto. Succede qualcosa di nuovo, in quella parte di Medio Oriente. Prima o poi capiremo anche cosa.

domenica 27 dicembre 2015

Da Aleppo, la città che non si arrende e non dispera malgrado la grande sofferenza e l'enorme minaccia quotidiana di morte ...

ULTIMA ORA:   Comunicato della Custodia di Terra Santa

Rapito ( di nuovo) il francescano  padre Dhiya Azziz 

Dal mattino del 23 dicembre scorso, abbiamo nuovamente perso ogni contatto con padre Dhiya Azziz, ofm, parroco di Yacoubieh (Siria).
Padre Dhiya era in viaggio con un taxi. C’erano altre persone a bordo. Era partito da Lattakia di buonora e diretto verso Yacoubieh, passando probabilmente per Hama, per essere in parrocchia per le festività natalizie. Era di ritorno dalla Turchia, dove era andato a visitare la sua famiglia che li si è rifugiata dopo l’ingresso di Daesh (ISIS) a Karakosh (Iraq), suo paese natale.
L’ultimo contatto telefonico si è avuto il 23 dicembre scorso alle ore 9. Da allora nessuno sa più dove sia. Avrebbe dovuto arrivare a Yacoubieh nel primo pomeriggio del 23 dicembre.
Non si hanno notizie di nessun genere di nessuno dei passeggeri. 
Stiamo cercando di contattare le diverse fazioni in campo per capire se qualcuno è in grado di darci informazioni. Finora senza risultato.

È lecito pensare che sia stato preso da qualche gruppo. Stiamo facendo il possibile per comprendere chi. La situazione altamente caotica del Paese non ci permette di fare molto, purtroppo.

Se avremo altre notizie, lo comunicheremo.

Invitiamo tutti alla preghiera e alla solidarietà con padre Dhiya, con i suoi parrocchiani, i confratelli in Siria, i pastori e tutti coloro che si spendono in quel Paese per fare ancora del bene.

La Custodia di Terra Santa

P. Dhya Azziz ofm è nato a Mosul, l’antica Ninive, in Iraq, il 10 Gennaio 1974. Dopo alcuni studi presso l’Istituto medico della sua città, aveva abbracciato la vita religiosa e dopo il noviziato ad Ain Karem, aveva emesso la prima professione dei voti religiosi il 1° Aprile 2002. Nel 2003 si è trasferito in Egitto, dove è rimasto per diversi anni. Nel 2010 rientra in Custodia e viene inviato ad Amman. È successivamente trasferito in Siria, a Lattakia. Si era reso poi volontariamente disponibile ad assistere la comunità di Yacoubieh, nella regione dell’Oronte (provincia di Idlib, distretto di Jisr al-Chougour), divenuta particolarmente pericolosa in quanto sotto il controllo di Jaish al-Fatah. Fu rapito e detenuto da un gruppo jihadista dalla quale riuscì a fuggire nel luglio del 2015.





Da Aleppo, la città che non si arrende e non dispera malgrado la grande sofferenza e l'enorme minaccia quotidiana di morte, vi auguriamo amici buon Natale e felice anno prospero e sereno 2016. 
Questi miei amici son scampati da una morte imminente la Pasqua scorsa. La loro casa di riposo è stata completamente distrutta. Solo San Francesco d'Assisi ha aperto il cuore e le braccia per accoglierli. Ora sono il loro custode. Loro pregano per voi ogni giorno!
In questi giorni la Madonna di Fatima è in visita ad Aleppo. La statua che vedete contiene la pallottola che poteva uccidere San Giovanni Paolo II, la potente intercessione della Vergine è stata più forte della morte. Ci affidiamo alla intercessione e protezione della nostra madre celeste in questi giorni di Natale affinché salvi i suoi figli ai pericoli che ci circondano: nel giorno di Natale ci hanno bombardato con 8 bambole di gas, ma grazie a Dio le celebrazioni sono andate a buon fine. 
Insieme a questi miei amici e ai miei fratelli francescani che vivono e testimoniano la misericordia di Dio per ogni persona umana, vi saluto e vi auguro ogni bene e pace nel Signore!
fra Firas Lufti, Aleppo-Siria,  27 Dicembre 2015.


Il parroco di Aleppo: "E' Natale ma qui cadono le bombe"






Fra Ibrahim Sabbagh, siriano nativo di Damasco, è da un anno e mezzo parroco ad Aleppo. La sua chiesa, San Francesco, è nel cuore della città vecchia, nel quartiere di Azizieh.  La sua gente, i cattolici latini, sono una minoranza percossa e offesa nella guerra civile che da cinque anni scuote senza tregua il Paese. 
È Natale ma per Aleppo, per la città martire della Siria non c’è pietà.
«In questi giorni ci sono stati tanti bombardamenti», dice fra Ibrahim, «anzi: siamo forse arrivati al punto più alto dello sforzo dei jihadisti, che ormai sono pressati da Sudest e Sudovest, per ricuperare terreno in città. 
So che da voi si incolpa di tutto il Governo ma in pochi giorni sul solo quartiere di Khalidiya gli islamisti hanno sparato più di 500 razzi. Ci sono stati morti, feriti, case distrutte. Da trentacinque giorni siamo senz’acqua, l’elettricità va e viene, manca il riscaldamento. E quest’anno il freddo è arrivato anche prima del solito. Ero qui anche a Natale dell’anno scorso e devo ammettere che vedo crescere nei cuori l’amarezza, e la sofferenza farsi più profonda».
Fra Ibrahim, insieme con gli altri quattro frati della Custodia di Terra Santa che lavorano ad Aleppo, e come tutti gli esponenti delle Chiese cristiane, si batte per dare un sollievo a chi vive nel dramma. Ma i bisogni sono enormi, visto che l’80 per cento delle famiglie ora vive in assoluta povertà, quando non è alla fame. «Ci sforziamo di creare qualche oasi in questo deserto. Sentiamo che il Signore è in mezzo a noi e proviamo a rendere ancora più chiara e palpabile questa presenza agli occhi della gente».
In concreto questo cosa vuol dire?   «Cerchiamo di operare in due campi allo stesso tempo. Il primo è quello dei bisogni concreti, urgenti. Posso fare tanti esempi. Abbiamo distribuito ai bambini scarpe, biancheria e abiti caldi per l’inverno. Abbiamo garantito alle famiglie una dotazione di 200 litri di gasolio, sufficienti per scaldare l’acqua per le docce due volte a settimana per tre mesi o a tenere accesa la stufa per un mese. Ogni mese provvediamo ai pannolini per le famiglie con neonati. Nelle scorse settimane abbiamo installato nelle case 100 serbatoi d’acqua da 500 litri, perché le famiglie, e soprattutto gli anziani, possano farne provvista nei momenti in cui arriva. Non è cosa da poco, visto che un serbatoio oggi costa quanto il salario mensile di un operaio. Potrei continuare con gli esempi, e farne magari di più drammatici: ci sono le vedove, le madri con i figli sotto le armi, le coppie con bambini Down o sordomuti o traumatizzati dalle esplosioni e dalle violenze. I bisogni del corpo, qui, sono infiniti. Ma non meno numerosi e urgenti sono quelli dello spirito».
Che cosa fate dal punto di vista spirituale, quale soccorso provate a portare ai fedeli?  «La parrocchia lotta per diventare una piccola luce nel buio, capace però di alleggerire la croce che la gente deve portare. I cristiani di Aleppo sono degli eroi, per come riescono ancora a vivere la loro fede. Il 25 ottobre, proprio durante la celebrazione delle prime comunioni, una bomba ha colpito la cupola della chiesa, che era piena di fedeli: per fortuna ci sono stati solo pochi feriti leggeri. Non è un caso, mirano a noi, ad Aleppo più di 100 chiese di tutte le confessioni sono state distrutte da quando è cominciata la guerra. E ormai, chi vive da anni in questa situazione non crede più alle parole ma solo ai fatti. In parrocchia abbiamo aperto la Porta Santa per il Giubileo della misericordia e per l’Avvento abbiamo organizzato una serie di brevi ritiri spirituali per gruppi e associazioni. Con i Legionari di Maria, inoltre, abbiamo programmato una serie di visite ai nostri 200 anziani, per stare con loro, condividere la loro condizione, pregare e distribuire qualche dolce».
E per Natale ?  «La notte di Natale ci sarà una piccola festa, e qualche giorno fa, in parrocchia, abbiamo anche messo in scena un recital. La gente non può e non vuole stare chiusa in casa ad aspettare la prossima esplosione. Abbiamo la fede, e la convinzione che la nostra resistenza di cristiani possa ancora cambiare la storia di questo Paese».

domenica 20 dicembre 2015

Angelus del Papa Francesco, domenica 20 dicembre 2015


"Cari fratelli e sorelle,anche quest’oggi mi è caro rivolgere un pensiero all’amata Siria, esprimendo vivo apprezzamento per l’intesa appena raggiunta dalla Comunità internazionale. 
Incoraggio tutti a proseguire con generoso slancio il cammino verso la cessazione delle violenze ed una soluzione negoziata che porti alla pace.  
Parimenti penso alla vicina Libia, dove il recente impegno assunto tra le Parti per un Governo di unità nazionale invita alla speranza per il futuro...."

Mons. Vincenzo Paglia: "Portare la vicinanza fisica del Papa a Damasco, misericordia per le famiglie"


Famiglia Cristiana , 17 dicembre 15
Monsignor Paglia con una famiglia  di cristiani di Damasco.
Mons Paglia con una famiglia di cristiani di Damasco.



Dagli inferni del mondo al calore della fede. Una strada impervia, che ha per posta la speranza, e cheMonsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia, ha percorso in prima persona in vista del Giubileo della misericordia che verrà proposto, da Roma, il 27 dicembre, alle famiglie di tutto il mondo. Nelle scorse settimane, infatti, monsignor Paglia è andato a Damasco, capitale della Siria, per quella che i Blues Brothers (e non solo loro) definirebbero “una missione per conto del Papa”.
«Un viaggio», dice lui, «nato dall’Incontro mondiale delle famiglie di Philadelphia. Allora papa Francesco volle consegnare il Vangelo, cioè la buona notizia della misericordia di Gesù, alle famiglie di cinque megalopoli, una per continente: Hanoi, Kinshasa, L’Avana, Sidney e Marsiglia.
 Damasco era la sesta città della lista, perché la Siria è il capitolo più drammatico di quella “Terza guerra mondiale a pezzetti” con tanta efficacia evocata proprio dal Papa.  Il quale, per le famiglie di Damasco, ha voluto aggiungere un primo aiuto economico. Io sono andato a consegnare i Vangeli scritti in arabo e questo aiuto: il primo per scaldare i cuori, il secondo per acquistare un po’ di combustibile per scaldare le case, nell’inverno che a Damasco sa essere terribile».
Che situazione ha trovato?
«È stato come scendere negli inferni del mondo. La periferia di Damasco, pur non essendo al centro del conflitto, è devastata da cinque anni di guerra, blocco economico, bombe che piovono in maniera improvvisa e indiscriminata. Portare in qualche modo la vicinanza “fisica” del Papa è stata una goccia di conforto, che però i cristiani di quella terra hanno gustato fino in fondo. Perché ciò che mi sono sentito ripetere è proprio questo: i cristiani della Siria, come di tutto il Medio Oriente, chiedono la vicinanza, l’affetto delle famiglie del resto del mondo. E noi tutti abbiamo un debito d’amore verso queste persone e questa terra, da cui abbiamo ricevuto la fede».
Restare e soffrire o andarsene e soffrire altrove. Spesso questa è tutta la scelta che hanno...
«I sentimenti dei cristiani sono complessi. Ho trovato famiglie che di fronte a un futuro sbarrato per i loro figli chiedevano di potersene andare. Giovani che, avendo come sola prospettiva la guerra, non possono pensare di restare. Ma una sera, alla distribuzione dei Vangeli, ho incontrato una cinquantina di famiglie che imploravano: aiutateci a restare! Perché loro sanno che una Siria senza i cristiani sarà comunque molto, molto più povera. Come tutto il Medio Oriente».

venerdì 6 novembre 2015

«VOLETE SALVARE I CRISTIANI? FERMATE LA GUERRA»: cardinale Béchara Boutros Raï



FAMIGLIA CRISTIANA
«La prima cosa da fare per proteggere i cristiani in Medio Oriente è far cessare la guerra in Siria, Iraq, Yemen e Palestina. Gli Stati europei litigano fra di loro per il numero di profughi da accogliere ma non agiscono per porre fine al conflitto. Solo il Papa leva la sua voce su questo». Sua Beatitudine Mar Béchara Boutros Raï, 75 anni, creato cardinale nel concistoro del novembre 2012, è il patriarca di Antiochia dei Maroniti del Libano. Lo incontriamo a Milano, in un meeting organizzato dalla Fondazione Oasis, a pochi giorni dalla chiusura del Sinodo sulla famiglia dove era padre sinodale insieme al cardinale Scola che lo ha invitato nell’ ambito dell’ iniziativa “Evangelizzare le metropoli”.

La richiesta d’ aiuto dei cristiani mediorientali è sempre più drammatica. Di cosa hanno bisogno i cristiani in Siria, Iraq, Libano?
«Per prima cosa che la guerra cessi perché a causa del conflitto sia i cristiani che i musulmani moderati emigrano e se ne vanno. Il Medio Oriente si sta svuotando e si lascia campo libero a fondamentalisti e organizzazioni terroristiche. Il secondo è che  ci sia un appello forte perché cessi la guerra. Gli Stati non ne parlano, gli unici appelli li fa il papa Francesco. L’ Europa discute sull’ accoglienza dei profughi, chi  ne vorrebbe diecimila e  chi tremila, ma questo non ci aiuta, non ci serve. L’ Europa dovrebbe concentrarsi sulla causa dei profughi, ossia la guerra. Bisogna chiudere il rubinetto e far sì che musulmani e cristiani tornino nelle loro terre. Un Medio Oriente senza cristiani, come diceva Benedetto XVI, non ha più identità. Perché quello è il luogo di tutta la rivelazione divina: lì Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Lì è nata la Chiesa ed è partito l’ annuncio del Vangelo al mondo».

Oggi però la convivenza con i musulmani è difficile, quasi impossibile.

«I cristiani sono lì da duemila anni, seicento anni prima dell’ arrivo dell’ Islam. Non accettiamo di essere chiamati “minoranza”! Abbiamo creato lo strato culturale cristiano di questa regione. Da 1400 anni viviamo insieme e pacificamente con i musulmani. Come l’ Europa discute su come preservare la propria identità, anche a noi preme di conservare la nostra che è formata dalla cultura islamica e da quella cristiana. È questo di cui abbiamo bisogno oggi».
Lei pensa che ci sia un progetto dei musulmani di conquistare l’ Occidente attraverso i flussi migratori? 
«Ho sentito più volte dai musulmani che il loro obiettivo è conquistare l’ Europa con due armi: la fede e la natalità. Per loro la pratica della fede è essenziale e fondamentale. In Arabia Saudita vanno il Venerdì alla preghiera anche col bastone. Conoscono a memoria il Corano e quando parlano lo citano spesso, lo stesso non accade per i cristiani che non si rifanno né alla Bibbia né all’ insegnamento della Chiesa. Loro credono che la volontà di Dio è procreare e che il matrimonio sia finalizzato a questo. Qui vedono che difficilmente ci si sposa, che non si fanno molti figli. Se siamo tanti possiamo imporci, pensano. Ad esempio non comprendono il significato  celibato dei preti, sono scandalizzati da questo perché secondo loro questo significa andare contro la volontà di Dio. Noi dobbiamo mantenere la nostra presenza con la qualità della vita e della testimonianza, non possiamo puntare sui numeri perché siamo pochi. Nel Golfo e in tutti i paesi arabi i cristiani occupano i migliori posti perché hanno cultura, moralità e non s’ intromettono nella politica interna».

Esiste un Islam moderato? 

«La maggioranza lo è, viviamo insieme a loro tutti i giorni: a scuola, al mercato, in università. E non da oggi. Però i musulmani non osano prendere posizioni nette contro gli estremisti e i terroristi. Ultimamente, sia pur con molta cautela, hanno preso posizione contro lo Stato Islamico dell’ Isis. In Libano dicono a noi di schierarci. Vengono da me al patriarcato dicendo di schierarci e che loro non possono parlare. L’ elemento religioso è fondamentale. Per un musulmano viene prima l’ Islam, poi la propria patria. I musulmani sunniti sono legati totalmente all’ Arabia Saudita, mentre gli sciiti all’ Iran. Per questo non possono prendere posizioni forti se non le prendono i loro Paesi di riferimento. In Libano, l’ Isis l’ hanno condannata ma i Fratelli Musulmani no, per fare un esempio. Quando i Fratelli Musulmani hanno preso il potere in Egitto e iniziato a imporre la sharia tutto il popolo si è ribellato fino ala destituzione di Mohammed Morsi. Questo vuol dire che la società è moderata. Poi viene una certa politica da fuori e distrugge tutto».

La persecuzione nei confronti dei cristiani mediorientali quanto è dovuta all’ odio religioso del Califfato e quanto al fatto che sono vittime perché non contano nulla in questi Paesi?

«Ci sono tre elementi essenziali da considerare. Per i musulmani il giudaismo è stato completato e soppiantato dal Cristianesimo e questo è stato completato e soppiantato dall’ Islam. Per loro il passaggio normale e naturale del cristiano è diventare musulmano e quindi guardano al cristiano come una persona che non ha fatto questo passo. Nella loro psiche il cristiano non è accettato come cristiano perché deve diventare musulmano ecco perché dicono che Maometto è l’ ultimo dei profeti. Secondo: loro identificano qualsiasi cosa che viene dall’ Occidente come cristiana tout court. Tutta la politica occidentale è una politica cristiana, è una nuova crociata. Loro dicono che i cristiani sono i resti delle crociate e dell’ imperialismo occidentale e noi rispondiamo che siamo in quelle terre seicento anni prima di voi. Un giorno venne da un personaggio religioso sciita dall’ Iraq per chiedermi cosa bisognava fare per proteggere i cristiani. Io gli risposi di non accettare la parola “proteggere” perché i cristiani sono cittadini iracheni come tutti gli altri. Poi ribaltai la domanda: “Cosa fate voi”, dissi, “per proteggere i cristiani? Perché li ammazzate mentre pregano e fate esplodere le chiese?" E lui mi rispose, indicandomi il fianco: “I cristiani sono il fianco debole della società, nel caos si attaccano loro”. Se gli chiedi perché attaccano i cristiani non trovano motivazioni plausibili però nel loro inconscio giocano questi elementi. Per questo Giovanni Paolo II, da persona saggia, quando convocò un’ assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per il Libano prima di annunciarlo mandò una delegazione nel Paese per parlare con i capi religiosi musulmani e informarli ed evitare che questo venisse interpretato come una crociata nei loro confronti. Abbiamo fatto la preparazione del Sinodo insieme ai musulmani. E l’ esortazione post sinodale l’ hanno letta più loro che noi cristiani! Nella vita quotidiana loro hanno molto fiducia nei cristiani, noi lo sappiamo e sappiamo anche come vivere insieme a loro».
Lei teme che il conflitto siriano si allarghi anche al Libano?
«Siamo un Paese più piccolo della Sicilia e attualmente abbiamo un milione e mezzo di profughi su 4 milioni di abitanti, più mezzo milione di palestinesi. Cosa resterà di noi? La gente libanese emigra. Cosa resterà della cultura libanese, dell’ economia? Se continua la guerra per noi sarà la fine. Ci sono 350mila alunni siriani solo per quest’ anno che hanno bisogno di insegnanti, scuola, libri. Sono quanti gli alunni libanesi delle scuole statali. Stiamo pagando a caro prezzo la guerra in Siria: siamo vicini e non possiamo chiudere le porte a questa gente, sono esseri umani. E se fossi io o la mia famiglia nei loro panni? Ecco perché la comunità internazionale non dovrebbe lasciarci soli».

Al Sinodo i problemi “occidentali” sono stati a lungo al centro della discussione. Lei viaggia molto e conosce bene l’ Europa. Ritiene che  l’ uomo dell’ oriente sia profondamente diverso da quello occidentale o c’ è stato un avvicinamento? 

«C’ è differenza, senza dubbio.  I problemi che riguardano noi e la famiglia sono molti diversi da quelli europei che sono stati discussi dal Sinodo per l’ Occidente. Sia per i musulmani che per i cristiani il punto saldo è che il matrimonio è un’ istituzione divina. Per noi è un sacramento, per i musulmani una legge divina. Le legislazioni civili nei paesi del Medio Oriente salvaguardano il matrimonio come realtà religiosa, non esiste il matrimonio civile e i musulmani non lo riconoscono. In Libano il matrimonio civile è accettato ma solo se celebrato fuori dal Paese. La legislazione salvaguarda il matrimonio e la famiglia. I cristiani sono più aperti verso la laicità e il secolarismo occidentali, però siamo protetti dalle leggi civili. I nostri problemi sono differenti. Ho detto al Sinodo l’ anno scorso che qui in Europa la Chiesa deve andare sempre a raccogliere quello che gli Stati buttano per terra, legiferando senza alcuna considerazione per la legge divina né rivelata né naturale. Bisogna fare un appello allo Stato affinché rispetti almeno la legge naturale. Da noi, invece, le legislazioni statali ci aiutano molto a conservare i nostri valori».  

I Vescovi maroniti: no alla spartizione della Siria

Agenzia Fides  6/11/2015

Beirut – La prospettiva – da tempo ventilata - di una spartizione su base settaria della Siria preoccupa i Vescovi maroniti, che propongono di guardare al modello istituzionale libanese per cercare di neutralizzare le spinte centrifughe settarie che alimentano il conflitto siriano, rischiando di dilaniare il Paese. Sono queste le chiavi di lettura della crisi siriana emerse nell'assemblea dei Vescovi maroniti riunitisi ieri presso la sede patriarcale di Bkerkè, per il loro incontro periodico, sotto la presidenza del Patriarca Boutros Bechara Rai. 
“Le voci sulle ipotesi di una nuova mappa della Siria” si legge nel comunicato finale dell'incontro, pervenuto all'Agenzia Fides “non lasciano ben sperare per il futuro di pace nella regione. La soluzione proposta non è buona”. 
Dal canto loro, i Vescovi suggeriscono che i negoziatori impegnati nella ricerca di una soluzione al conflitto siriano prendano in considerazione l'esperienza storica di convivenza vissuta nel Paese dei cedri, che con tutti i suoi limiti, le sue crisi e le sue contraddizioni, ha consentito che tutte le comunità religiose fossero coinvolte nella gestione della cosa pubblica. Solo la ricerca di sistemi istituzionali capaci di garantire equilibrio tra le diverse realtà etniche e religiose – sostengono i Vescovi maroniti - può salvare l'intera regione dalla logorante prospettiva di un conflitto permanente e generalizzato. 
Nel loro comunicato, i Vescovi libanesi ribadiscono anche il loro pieno sostegno per l'esercito e tutte le forze di sicurezza libanesi, e aggiungono di nuovo la propria voce a quella del Patriarca, che ha lanciato innumerevoli appelli ad uscire dall'impasse politica creatasi intorno all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.