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mercoledì 3 gennaio 2024

Mons Jacques Mourad: il mondo sta lasciando morire il popolo siriano

 L’arcivescovo di Homs lancia un drammatico appello dopo l’interruzione, a partire dal primo gennaio, del piano di aiuti del Programma alimentare mondiale: "Le famiglie siriane mangiano una volta al giorno, hanno dimenticato cosa sia il riscaldamento, cosa sia l’acqua calda, cosa sia una società. E si vive nell’oscurità, senza luce”

Vatican News , 2 gennaio 2024

Sei mesi fa lo avevano dimezzato, dal primo gennaio è del tutto soppresso. Il piano di aiuti del Programma alimentare mondiale - l’agenzia Onu incaricata dell’assistenza alimentare nel mondo – alla Siria è stato interrotto. Più di cinque milioni di persone dipendevano dalla consegna di alimenti e di generi di prima necessità, in un Paese prossimo al 13.mo anno di guerra (marzo 2024) e ulteriormente fiaccato, nel febbraio 2023, da un drammatico terremoto nelle zone al confine con la Turchia. All’origine della decisione, spiega il Pam, vi sarebbe l’assenza di fondi, messi a rischio dall’epidemia di Covid, dalla guerra in Ucraina e ora anche da quella a Gaza, che avrebbero azzerato il budget a disposizione. E ora la stima di chi versa in gravi condizioni di insicurezza alimentare supera i 12milioni di persone.

Decisione terribile e ingiusta

“Il popolo siriano è condannato a morire senza poter dire nulla”, è la drammatica constatazione di monsignor Jacques Mourad, da un anno arcivescovo di Homs, terza città, per estensione, della Siria. “E’ una decisione terribile e ingiusta”, continua l’arcivescovo, che si chiede perché mai si sia arrivati a questo. “Per noi è come se il mondo dicesse al popolo siriano ‘sei condannato a morire, senza alzare la voce, senza dire nulla’. E per che cosa? Che colpa ha il popolo siriano?”. 

La Chiesa non può coprire tutti i bisogni

Le sue parole sono accorate, pensando alla sofferenza che in tutti questi anni il popolo ha subito e che ancora subirà, generata da una guerra che non sembra dover finire e che continua a infrangere qualsiasi speranza. “Questa decisione - prosegue il presule - è stata presa per gettare il popolo siriano nella disperazione completa, per spegnere ogni luce che poteva restare accesa grazie alla nostra fede e grazie alla speranza. Ma in questa situazione noi veramente siamo finiti”. Organizzazioni non governative e Chiesa cattolica, in questi anni, hanno davvero operato miracoli in Siria, supportando la popolazione in ogni modo. Oggi, di fronte all’interruzione degli aiuti umanitari, che ormai servivano quasi i 2/3 della popolazione, ci si chiede se ci sia ancora una speranza che possa impedire alle persone di morire di fame. “La Chiesa, così come le organizzazioni non governative, non possono coprire tutto il bisogno del popolo siriano - continua mons. Mourad - la loro capacità di finanziamento è limitata. Inoltre, far arrivare il denaro in Siria è impossibile a causa delle sanzioni imposte da Stati Uniti e Onu, e quindi come facciamo? Come può il popolo siriano vivere? Già tante famiglie siriane mangiano una volta al giorno, solo una volta al giorno. Abbiamo dimenticato che cosa significhi scaldare, perché non possiamo comprare il diesel o la legna, abbiamo dimenticato cosa sia l'acqua calda, abbiamo dimenticato cosa sia una società. E viviamo nell'oscurità totale, le città in Siria sono senza luce, certamente i quartieri ricchi che contano solo il 5% della popolazione non sono rappresentativi della situazione del popolo siriano”. 

I siriani così sono condannati a morte

Per monsignor Mourad l’unica soluzione è rappresentata, oltre che dalla Chiesa cattolica, dall’Unione europea, la sua speranza è che l’Ue prenda una posizione chiara, dettata da “una sensibilità umana e sincera”. L’appello dell’arcivescovo di Homs è straziante. “Perché si vuole far morire questo popolo?” è la domanda atroce che viene posta al mondo: “Non è possibile che tutto il mondo abbandoni il popolo siriano, che cosa abbiamo fatto di male per essere condannati a morire?”.

venerdì 14 ottobre 2022

Le reliquie di Mar Elian tornano nel monastero di Qaryatayn

 Sette anni dopo la sua distruzione da parte dell'Isis, il monastero di Mar Elian in Siria sta tornando in vita. Padre Mourad ha riferito dello stato di avanzamento dei lavori e annunciato il ritorno, lo scorso settembre, delle reliquie di san Giuliano.

da  Terrasanta.net

Si tratta di un monastero incendiato e ridotto in rovina il 21 agosto 2015 dai bulldozer dei militanti del cosiddetto Stato islamico. Questi avevano anche profanato la tomba di san Giuliano d’Emesa, custodita nel monastero. «Come se volessero cancellare quello che avevano riconosciuto come il cuore pulsante del complesso monastico», ha spiegato lo scorso 4 ottobre l’agenzia Fides, che ha riferito anche dello stato di avanzamento dei lavori di restauro di Deir Mar Elian el-Sheikh, il monastero di San Giuliano a Quaryatayn, in Siria, un centro quasi equidistante da Homs, Damasco e Palmira.

I lavori sono iniziati nel marzo 2022, come ha spiegato padre Jacques Mourad, fondatore di questo monastero di rito siro-cattolico e al quale è stato affidato il restauro.

Monaco e sacerdote, padre Mourad fa parte della comunità di Mar Musa, una comunità monastica molto attiva per il dialogo islamo-cristiano e fondata in Siria da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano scomparso dal 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, in quel periodo capitale siriana dell’Isis.

Padre Jacques Mourad era stato incaricato, a partire dagli anni 2000, di edificare un monastero e una cappella sulle rovine del monastero di Mar Elian costruito 1.500 anni fa. Circondato da ulivi e vigneti, l’attività agricola contribuiva alla sua sussistenza… fino al maggio 2015. Quando anche padre Jacques Mourad fu rapito da un commando di jihadisti proprio a Mar Elian, luogo che verrà distrutto tre mesi dopo il suo rapimento. Il monaco fu rilasciato il 10 ottobre successivo. 

Segni di resurrezione…

Oggi i lavori di restauro sono proseguiti bene nonostante «le difficoltà legate alla situazione economica del nostro Paese, per le sanzioni imposte», spiega padre Mourad. Negli ultimi otto mesi, però, il sito è stato ripulito e sono stati cotti mattoni di argilla per rialzare il muro perimetrale. Sono stati piantati duecentocinquanta ulivi perché erano stati sradicati gli alberi da frutto, ulivi e viti. Sono state ritrovate le pietre della porta d’ingresso e del battistero e sono state ricostruite le pareti e il tetto della cripta. Anche la chiesa, incendiata, è stata riparata e dotata di un nuovo altare.

Il restauro è stato eseguito senza ripulire completamente la fuliggine inglobata nelle murature in modo da preservare tracce visibili del conflitto recente. Inoltre, un archeologo di Homs ha restaurato la tomba di san Giuliano d’Emesa, martire guaritore, venerato da cristiani e musulmani, con i resti rinvenuti nel sito. Inoltre, sono state rifatte sette camere da letto. 

e di riconciliazione

L’obiettivo era celebrare la festa di Mar Elian presso il monastero lo scorso 9 settembre e riportare nel luogo le reliquie di san Giuliano, trovate da padre Jacques e portate in salvo a Homs. L’area intorno al monastero è stata strappata all’Isis dall’esercito siriano nell’aprile 2016. 

Per il giorno della festa di san Giuliano, più di 350 persone sono giunte da tutta la regione, oltre a tanti sacerdoti siro-cattolici da tutta la Siria e amici musulmani del monastero. La cerimonia di riconsacrazione è stata presieduta da monsignor Youhanna Jihad Battah, arcivescovo siro-cattolico di Damasco, e invitato speciale è stato l’arcivescovo siro-ortodosso di Homs, Mor Timotheos Matta al-Khoury.

I due vescovi hanno unto insieme, con olio santo, la cripta e la chiesa restaurate. La cerimonia si è quindi rivelata «una meravigliosa opportunità per vivere la comunione tra le due Chiese sorelle», che in passato avevano vissuto periodi di conflitto sulla proprietà del monastero. 

«Il momento più commovente – ha detto padre Jacques – è stato quando le reliquie di Mar Elian, san Giuliano, sono arrivate alle porte del monastero. Un cristiano e un musulmano le hanno portate e le hanno deposte davanti all’altare». Sono stati benedette e poste in un sarcofago. «Non era facile immaginare di poter vivere la gioia di un tale incontro – ha aggiunto –. Esiste certamente una forza che va oltre i nostri limiti umani».

Durante la celebrazione un professore di filosofia, in rappresentanza della comunità musulmana, ha invitato i cristiani a tornare nelle loro case a Quaryatayn, una città di 30mila abitanti, in prevalenza sunniti. Prima di cadere nelle mani dell’Isis, la città era un simbolo di convivenza tra cristiani e musulmani. Dal 2010 fino alla primavera del 2015, padre Mourad si è occupato anche della parrocchia cattolica della città.

mercoledì 2 novembre 2016

Padre Jacques Mourad: Fermare la vendita di armi!

Durante il recente viaggio attraverso il Canada, padre Jacques Mourad,  monaco della comunità di Mar Mousa in Siria, ha parlato con Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Il sacerdote - già rapito e detenuto da Daesh (ISIS) da maggio a ottobre 2015 - chiede ai canadesi di riflettere sull'impatto della vendita di armi, in particolare quelle agli stati della regione del Golfo , che a suo dire, finiscono poi nelle mani dei combattenti in Siria.

31 ottobre 2016, 
 Aiuto alla Chiesa che Soffre Canada.

ACS: Cosa vorrebbe dire alla gente del Canada riguardo alla guerra in Siria?

Padre Jacques Mourad: Come primo punto, desidero ringraziare e trasmettere i miei ringraziamenti da parte dei cittadini della Siria, in particolare dei cristiani in Siria, alle persone canadesi che hanno aperto i loro cuori e il loro paese.

In secondo luogo, ciò che speriamo dai paesi democratici come il Canada, che pur non essendo in grado di fermare questa guerra, continueranno ad accogliere i profughi, così facendo salvano le loro vite, soprattutto la vita di coloro che si trovano nelle zone dove più sono in pericolo (come ad Aleppo tra l'altro).
Tuttavia, dico anche che l'emigrazione della popolazione siriana in Canada non è una buona soluzione.
E' possibile portare fuori l'intero Paese? Per tutti in Siria è pericoloso! Pertanto, lo sforzo necessario da un paese con un buon cuore e che possiede la sua libertà, come il vostro, è quello di fare tutto ciò che è necessario per sensibilizzare l'opinione pubblica, circa le conseguenze della guerra, e convincere il vostro governo a fare tutto quanto è in suo potere per fermare la vendita di armi.

Perché è con queste armi, come quelle che il Canada sta producendo e che vengono vendute nei Paesi del Golfo, è con queste armi, che finiscono nelle mani di tutti coloro che combattono, che la popolazione siriana viene uccisa. Non abbiamo idea del numero di morti, la miseria, ecc...! Il fatto che questo paese continua a produrre e vendere armi, vi rende in parte responsabili della guerra in Siria.
"I canadesi sono invitati a interpellare il loro governo, perché rifletta e prenda in considerazione il fatto che siamo consapevoli di ciò che sta accadendo, che siamo feriti e che stiamo soffrendo."

Padre Mourad invita tutti i Canadesi a pregare per le persone che sono in Siria e per l'avvento della pace . 

Fin dagli inizi della guerra nel marzo 2011, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sostenuto tante persone in Siria per mezzo di progetti di emergenza elaborati dalle Chiese locali, sia le necessità di sostegno richieste per l'alloggio di anziani e malati che non possono lasciare il paese, o per la distribuzione di pannolini, cibo e vestiti caldi per i bisognosi. La carità pontificia ha fornito il supporto per un importo di circa 19 milioni di dollari.

I progetti continuano a svilupparsi. Insieme con il rinnovo del progetto per il latte e pannolini per aiutare le famiglie, l'organizzazione sostiene sacerdoti anziani e religiose che stanno vivendo al limite dell'esaurimento, con collette e offerte di messa. Infine, 600 famiglie riceveranno aiuto per pagare il riscaldamento questo inverno, visto che il costo del mazut (un olio combustibile) resta proibitivo.

   (trad. OpS)

giovedì 14 gennaio 2016

Padre Jacques Mourad ripercorre la sua esperienza: "Lui mi guardò rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…"

“La mia miracolosa  fuga dall’Isis”


Gian Micalessin

Gli Occhi della Guerra, 14 gennaio 2016

Padre Jacques Murad spezza il pane, recita il Padre Nostro in arabo, poi fissa la famiglia, gli amici riuniti intorno alla tavola imbandita. “Non speravo di sopravvivere, figuratevi rivedere Roma e i miei amici siriani. Me l’avessero detto mesi fa non ci avrei creduto”.  Padre Jacques Murad una volta era un prete. Oggi è l’incarnazione di un miracolo. Un’incarnazione ancora incredula di fronte alla propria sorte, alla propria sopravvivenza.
«Pochi sono riusciti a farsi liberare dallo Stato Islamico. Ancora meno a sfuggirgli vivi. Solo il Signore m’ha concesso entrambe le cose». Padre Jacques guarda Samaan, l’amico siriano, il confratello con moglie e figli ritrovato nella capitale italiana. Si conoscono da oltre 15 anni, da quando Samaan frequentava Mar Musa, il monastero messo in piedi da padre Jacques e padre Paolo Dall’Oglio. Così in questo pranzo a Roma  Padre Jacques dà fondo ai ricordi e alle riflessioni della prigionia. Le più travagliate riguardano Padre Dall’Oglio, l’amico comune di Jacques e Samaan, l’amico scomparso nel nulla il 29 luglio 2013, quando raggiunse Raqqa appena occupata per incontrare i capi dello Stato Islamico.   «Ci ho pensato da quando mi hanno chiuso in quel bagno di Raqqa dove sono rimasto per 83 giorni. Non una galera con altri prigionieri, ma un semplice bagno, dove incontravo solo i miei carcerieri. La mia impressione è che nessuno, oltre a loro, dovesse sapere di me. Per questo mi sono convinto che Dall’Oglio possa essere ancora vivo. Che per qualche imperscrutabile ragione, chiara solo a chi dirige quel mostro chiamato Daesh, Paolo sia un asso nella manica da tirare fuori al momento opportuno».
Prende fiato, si spiega meglio. «Dentro Daesh nulla succede per caso. Al Baghdadi, o chi per lui, decide anche il più banale dettaglio. E nessuno piglia iniziative senza sue disposizioni. Padre Dall’Oglio non può esser stato ucciso senza un suo ordine. E soprattutto senza un motivo. L’avessero ammazzato ne avrebbero spiegato la ragione. Lo fanno sempre. Io in Siria non sono un personaggio chiave, ma ogni fase del mio rapimento dalla preparazione al rilascio, è stata approvata ai massimi livelli. E per ragioni ben precise. Quando mi hanno preso il 21 maggio sapevano già a cosa gli servivo. Mi sorvegliavano da settimane, erano pronti a conquistare il villaggio. Dovevano solo eliminare chi come me parlava con i musulmani, chi mediava e impediva allo Stato Islamico di conquistarsi il consenso. Gli amici musulmani me l’avevano detto: Daesh è già dentro, vattene finché sei in tempo. Ma io non potevo abbandonare. Quando mi hanno rapito non è stata una sorpresa. La vera sorpresa a Raqqa è stato l’incontro con lo sceicco saudita che m’interrogava. Era gentile, beneducato. Spiegava con un sorriso le cose più terribili. Mi ordinò di convertirmi. Io dissi: Mai. Lui mi guardo rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…. Lo so bene, ma non mi convertirò mai. Lui sorrise. In fondo – disse – la capisco». 
Da quel momento padre Jacques è confuso. «Pensavo a quando mi avrebbero decapitato, ma capivo anche di non essere un semplice prigioniero. Ero una pedina in un gioco più grande di me e di chi m’interrogava. Ero uno strumento per l’occasione più opportuna». L’occasione arriva ad agosto, subito dopo la caduta di Qaryatayn e di 250 cristiani, nelle mani di Daesh. Padre Jacques non sa quel che succede, ma intuisce che per lui qualcosa sta cambiando. Ricorda la visita di un iracheno incappucciato che parla a nome di Al Baghdadi.
«Il Califfo ha considerato il suo caso e quello dei 250 cristiani catturati nel suo villaggio e ha deciso in base a quattro possibilità. Può farvi tutti schiavi, uccidere gli uomini e tenere schiave le donne, oppure farvi scegliere tra conversione e decapitazione. Ma la quarta possibilità, quella scelta dal Califfo, è di farvi dono della vita. In cambio dovrete pagare la jizya, la tassa che consente ai cristiani di vivere nelle terre del Califfato».   Così dopo tre mesi di prigionia a Raqqa, padre Jacques si ritrova scortato dai miliziani jihadisti in viaggio verso Qaryatayn
«Appena arrivati mi hanno portato dai miei fedeli. Ero felice, ma al tempo stesso ho capito perché mi avevano lasciato in vita. Mi avevano preso, tenuto vivo e riportato al villaggio per piegare non solo il Qaryatayn, ma tutti i cristiani di Siria alle loro regole». La consapevolezza di essere uno strumento nelle mani dei propri carcerieri diventa ancor più dolorosa quando Padre Jacques tenta inutilmente di fermare il ratto di alcune ragazze cristiane, strappate alle famiglie per venir date in sposa ai militanti di Daesh.
«In quel momento tutto mi diventa chiaro. Capisco che restando lì diventerei la giustificazione vivente delle loro nefandezze. Per questo comincio a pianificare la mia fuga e quella dei miei confratelli. La mia fortuna sono i miei vecchi amici musulmani e quelli beduini. Un musulmano viene a prendermi in moto e mi porta fuori travestito dal villaggio. Poi nei giorni successivi i beduini nascondono sui loro carri e sui camion più di duecento cristiani». Sono loro, i musulmani e i beduini, a portarli fuori dal villaggio, a farli passare sotto gli occhi dei miliziani e dei check point.  «Oggi in quel villaggio non ci sono più cristiani.  Sono tutti salvi.  Il vero miracolo del Signore non è stata la mia salvezza, ma quella di tutti i miei confratelli»

sabato 21 novembre 2015

La risposta al terrore è la santità e la fede: fra Ibrahim e padre Mourad, due esempi

La bomba durante la messa, le ostie macchiate di sangue, la fede che resiste. 

IL FOGLIO, 21 novembre 2015
di Matteo Matzuzzi




 Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo. E' stato un miracolo, c' è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell' edificio, fatto di semplici tegole d' argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. 
Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d'Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas - partita da una base di lancio per missili - ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. 

Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: "I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane". Basta guardare la chiesa per capire subito che l' obiettivo non era stato scelto a caso: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto". Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: "La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l'esplosione è avvenuta proprio nell' ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45". Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: "Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L' avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l'edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva". La gente gridava, "io ho fatto alcuni passi verso l' altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani", ma subito "sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. 
Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c' erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti". 
La memoria, poi, va ineluttabilmente sull' immagine che più d' ogni parola fotografa la portata della tragedia: "In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza". Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, "pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco". La gente, in quei momenti, era terrorizzata, non sapeva che fare: "Ho invitato i fedeli rimasti a uscire fuori nel giardino e lì ho continuato la distribuzione della santa comunione. Abbiamo recitato un Pater, Ave, Gloria come ringraziamento al Signore e a sua madre Maria, concludendo con la benedizione solenne". 
E' questo che sorprende nelle parole del parroco di Aleppo, la cui serenità - nonostante l'orrore della guerra vissuta giorno dopo giorno appena fuori la porta del monastero - è percepibile anche al telefono, nonostante la linea spesso disturbata. Una bombola di gas lanciata sulla chiesa, danni ingenti, uomini e donne sconvolti, eppure con il tempo di ringraziare Dio. E' la prospettiva a essere diversa rispetto a quella propria dell' uomo occidentale, che guarda con distacco quanto avviene da anni nel vicino oriente, avviluppato in lotte intestine che, come la tela di Penelope, paiono non avere mai fine. 
Padre Ibrahim lo sa e spiega cosa porti a lodare Dio tra la polvere e i frammenti di vetro sparsi qua e là: "Il male pianificato contro di noi era enorme. Se solo il grande lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso in un colpo solo una decina di persone raccolte lì sotto al momento della comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, ha ridimensionato questo male, indirizzandolo sulle sole pietre, mentre noi tutti siamo stati salvati. Egli si è glorificato in mezzo al male dandoci, per l' ennesima volta, un segno del suo amore provvidente. Così, invece dei lamenti e delle grida di spavento e di terrore, le nostre bocche hanno innalzato a Lui un inno di ringraziamento ricolmo d'amore e di gratitudine". 

Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell' ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: "Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell' indomani mattina", dice padre Ibrahim.
 E infatti, il giorno dopo alle 7.30 "ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. 
La giornata è proseguita con l' arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l' evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva". Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato.
 "Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt' altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa". 
Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall' attualità e il senso più profondo della fede cristiana: "Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura". 
La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, "il giorno della bomba". Ricorda che poco prima dell'attacco "avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno". 
E' calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. "Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì - dice senza tradire incertezze nella voce - assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l' intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?". 
La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l'ha assicurato Cristo, e tanto basta. E' questa speranza a fortificare l'animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. "Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell'odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione", dice padre Ibrahim. 

Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: "Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all' altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato 'battezzato' ed è diventato simbolo dell' amore che perdona e dà vita". 
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l' unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, "poiché i miliziani dello Stato islamico l' avevano interdetta all' esercito regolare". Al mercato non si trovava più nulla: "Non c' era gasolio, carburante, gas", dice il nostro interlocutore. "Non c' erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po' di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza - ma con un grande sense of humour, diceva 'siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe'. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e - ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte - come si potrebbe pagarlo? Non c' era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato". La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti". 
L'impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: "Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione". Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini "perché si sentono minacciati dall' avanzata da sud dell' esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi". Manca acqua ed elettricità, non c' è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. 
Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d'occidente che "hanno bisogno di svegliarsi". Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l' immagine del "gigante addormentato" per rappresentare i credenti europei: "Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall' acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E' un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede". Che fare, dunque? "L' occidente dovrebbe tornare all' essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve". 
In concreto, si tratta di "vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all' essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo". 
E', sostiene padre Ibrahim, "purificata". "E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito".

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/siria-ibrahim-alsabagh-parroco-ad.html


Padre Mourad: Nelle mani dello Stato islamico ho avuto compassione dei miei rapitori

AsiaNews, 20 novembre 2015


 “Questa grazia mi è stata accordata per essere di conforto a un gran numero di persone”. A raccontarlo ad AsiaNews è p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica. Di passaggio a Beirut, lo abbiamo incontrato nei saloni della chiesa di Nostra Signora dell’Annunciazione, a Beirut. Priore del monastero di Mar Elian e dei fedeli del villaggio di Qaryatayn, non lontano da Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), il 21 maggio 2015. Egli è rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare, il 10 ottobre, in quello che noi siamo soliti chiamare “il mondo libero”.

Perseguitato, minacciato, sottoposto a pressioni continue perché si convertisse all’islam, egli è stato minacciato a più riprese di venire decapitato, frustato in una occasione e, il giorno successivo, fatto oggetto di una finta esecuzione. Confinato in una stanza da bagno rischiarata solo da un lucernario piazzato in alto, con un seminarista ad assisterlo, ridotto a un regime forzato di riso e acqua, distribuiti due volte al giorno, senza elettricità né orologio, tagliato fuori in tutto dal mondo esterno, egli è riuscito a rimanere comunque vigile e non ha mai vista una sola volta scalfita la sua fede. Al contrario.
La grazia, o meglio il miracolo di cui parla p. Mourad è di essere rimasto vivo, di non aver rinnegato la sua fede, di aver ritrovato la libertà. “La prima settimana è stata la più difficile” racconta. “Dopo avermi tenuto per qualche giorno all’interno di una macchina, la domenica di Pentecoste mi hanno portato a Raqqa. Ho vissuto questi primi giorni di prigionia diviso fra la paura, la collera e la vergogna”.
La grande svolta nella sua prigionia è coincisa, secondo p. Jacques, con l’ingresso nella sua cella, l’ottavo giorno, di un uomo vestito di nero, con il viso mascherato, come quelli che compaiono nei video delle esecuzioni resi celebri da Daesh. La mia ora è arrivata, si è detto, in preda al terrore. Ma, al contrario, dopo avergli chiesto quale fosse il suo nome e quello del suo compagno di prigionia, l’uomo si è rivolto a lui con un “assalam aleïkoun” di pace ed è entrato nella sua cella. In seguito, egli ha intavolato una lunga discussione, come se lo sconosciuto cercasse davvero di conoscere meglio i due uomini di fronte a lui.
“Prendilo come un ritiro spirituale” gli ha risposto lo sconosciuto, quando p. Jacques lo ha interrogato sulle ragioni della sua prigionia. “Da quel momento - racconta il sacerdote - le mie preghiere, le mie giornate, hanno acquisito un senso. Come posso spiegarvi... Ho avvertito che attraverso di lui, era il Signore stesso che mi rivolgeva queste parole. Quel momento è stato davvero di grande conforto”.
“Grazie alla preghiera, io ho potuto ritrovare la mia pace” riferisce il sacerdote siriano. “Era maggio, il mese di Maria. Ci siamo messi a recitare il Rosario, che non ero solito pregare molto in passato. Tutto il mio rapporto con la Vergine Maria è stato rinnovato. La preghiera di santa Teresa d’Avila ‘Niente ti turbi, niente ti spaventi…’ anch’essa ha contribuito a sostenermi; e per lei, una notte, ho composto una melodia che ho poi iniziato a canticchiare. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi tra le mani del Signore, con la consapevolezza che non mi era dato di scegliere. Perché tutto portava a pensare che l’esito finale sarebbe stata la conversione all’islam, oppure la decapitazione".
Quasi ogni giorno, continua, "entravano nella mia cella e mi interrogavano sulla mia fede. Ho vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma non ho mai abiurato. Dio mi ha donato due cose: il silenzio e la cortesia. Sapevo che certe risposte potevano essere colte come provocazione, che qualunque parola può diventare la fonte della tua condanna. Così, mi hanno interrogato sulla presenza di vino al convento. Quell’uomo mi ha interrotto all’improvviso, quando ho iniziato a rispondere. Egli ha giudicato le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Grazie alla preghiera, ai salmi, sono entrato in un mondo di pace, che non mi ha più lasciato. Mi sono ricordato anche delle parole di Cristo nel Vangelo di san Matteo: ‘Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano’. Ero felice di poter vivere nel concreto questa parola. Non è cosa da poco, poter vivere il Vangelo, in particolare questi versi così difficili, che fino a quel momento erano solo teoria. Ho iniziato a provare compassione per i miei sequestratori”.
“In quell’occasione, mi sono tornate in mente anche le canzoni poetiche di Feyrouz - confessa p. Jacques - e in particolare una di quelle che parla del crepuscolo, che ero solito cantare quando su Raqqa calavano le lunghe notti di giugno, che ci lasciavano avvolti nell’oscurità. Anche queste parole e la loro musica diventavano fonte di preghiera. Esse parlavano della sofferenza ‘iscritta nel crepuscolo’”.

Poi, un giorno, p. Jacques viene frustato…
“Era il 23mo giorno della mia prigionia” ricorda. “Sono entrati all’improvviso. Era una sorta di messa in scena. La flagellazione è durata circa una trentina di minuti. La frusta era composta da un pezzo di tubo da giardino e delle corde. Ho avvertito il male fisico ma, nel profondo, mi sentivo in pace. Percepivo una grande consolazione nel sapere che potevo condividere in qualche modo le sofferenze di Cristo. Al contempo, mi sentivo per questo assai confuso, poiché pensavo di non essere degno di quella grazia. Perdonavo il mio aguzzino, nel momento stesso in cui egli mi colpiva. Ogni tanto, confortavo con un sorriso il diacono Boutros, mio compagno di cattività, che a stento riusciva a trattenersi nel vedermi oggetto di frustate. Dopo di che, mi sono ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la sua forza. Ne ero sempre più sorpreso, perché mi sentivo debole, sia a livello spirituale che fisico. Vedete, io soffro di mal di schiena sin dall’infanzia e le condizioni di prigionia erano tali da far aumentare, in un primo momento, il male. Al monastero avevo a disposizione un materasso speciale, e una sedia ergonomica. In cella, dormivo per terra e non c’era modo di camminare in questi servizi igienici”.
“La grande paura - prosegue p. Jacques - l’ho conosciuta poco dopo, quando un uomo armato di pugnale è entrato nella nostra cella; ho sentito sul collo la lama del coltello e ho pensato che fosse iniziato il conto alla rovescia per la mia esecuzione. Nello spavento, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio. In realtà, si trattava solo di una messa in scena”.
Il 4 agosto scorso, il gruppo jihadista ha assunto il controllo di Palmira e, da lì, di Qaryatayn. Il giorno successivo, all’alba, hanno preso in ostaggio la popolazione, almeno 250 persone, portandole a Palmira.
L’11 agosto, p. Jacques e il suo compagno hanno intrapreso lo stesso percorso. Ecco come: “Uno capo saudita è entrato nella nostra cella. ‘Sei tu padre Jacques?' ha chiesto. 'Ecco, allora vieni con me! I cristiani di Qaryatayn ci hanno fatto una testa quadra parlandoci di te!' Ho subito pensato che mi stavano prelevando per essere giustiziato. A bordo di un van, abbiamo compiuto un tragitto di quattro ore. Superata Palmira, abbiamo imboccato una strada di montagna che conduce a un edificio chiuso da una grande porta di ferro. Appena aperta, quello che vedo è tutta la popolazione di Qaryatayn lì radunata, meravigliata nel vedermi davanti a sé. Quello è stato un momento di sofferenza indicibile per me. Per loro, un momento straordinario di gioia".
Venti giorni più tardi, il primo settembre, "ci hanno portato a Qaryatayn, liberi, ma col divieto di lasciare il villaggio. In quel momento si è venuta a creare una sorta di contratto religioso collettivo: noi eravamo ormai sotto la loro protezione (‘ahl zemmé’), dietro pagamento di una tassa speciale, la jizya, che riguardava i non musulmani. Potevamo anche praticare i nostri riti, a condizione che questo non fosse elemento di scandalo per i musulmani. Qualche giorno più tardi, alla morte di uno dei nostri parrocchiani, deceduto per un cancro, siamo andati al cimitero, nei pressi del convento di Mar Elian. Ed è in quel momento che ho visto che era stato raso al suolo. Curiosamente, non ho avuto alcun tipo di reazione. Dentro di me, mi è sembrato di cogliere che Mar Elian abbia voluto sacrificare il suo convento e la sua tomba per la nostra salvezza”.

“Oggi - conclude p. Jacques, che ha sfidato il divieto di lasciare Qaryatayn e ha trovato il modo di fuggire, pur mantenendo uno stretto riserbo sulle modalità di fuga - continuo a provare per i miei rapitori lo stesso sentimento che provavo quando ero nelle loro mani: la compassione. Questo sentimento deriva dalla contemplazione dello sguardo di Dio nei loro confronti, a dispetto della loro violenza, come egli la prova verso tutti gli uomini: uno sguardo di pura misericordia, senza il minimo sentimento di vendetta”.

“Oggi - prosegue il sacerdote, un tempo monaco al monastero di Mar Moussa, fondato da p. Paolo Dall’Oglio - sappiamo che la preghiera è la via della salvezza. Bisogna continuare a pregare per i vescovi e i sacerdoti che sono tuttora scomparsi e di cui non si sa niente. Pregare per il mio fratello Paolo Dall’Oglio (scomparso a Raqqa nel luglio 2013). Dobbiamo infine pregare per una soluzione politica in Siria. Oggi ricordiamo il centenario del massacro e l’esodo del 1915. Senza una soluzione politica, l’emigrazione completerà il lavoro che i massacra del 1915 hanno iniziato”.

http://www.asianews.it/notizie-it/P.-Mourad:-Nelle-mani-dello-Stato-islamico-ho-avuto-compassione-dei-miei-rapitori-35941.html

mercoledì 11 novembre 2015

Un appuntamento da non perdere

Incontro con P. Jacques Mourad, rapito e rimasto nelle mani del'Isis per quattro mesi in Siria.

Padre Jacques Murad si racconta sul canale arabo della tivù pubblica inglese

Terrasanta.net | 30 ottobre 2015

Un'inquadratura di padre Jacques Murad durante l'intervista alla BBC.
 «Ho deciso che dovevo scappare da Qaryatayn quando ho visto coi miei occhi che i miliziani dello Stato islamico avevano distrutto il monastero di Mar Elian, di cui ero priore, e la tomba del santo (Mar Elian, un monaco del IV secolo che ebbe tra i suoi discepoli anche Efrem il Siro - ndr). Sono fuggito per incoraggiare gli altri cristiani del mio villaggio a non rimanere sotto lo Stato islamico e ad imitarmi».

Emergono nuovi particolari sulla vicenda di padre Jacques Murad, sacerdote siro cattolico rapito da uomini dello Stato islamico (Isis) lo scorso 21 maggio e fuggito dalle loro mani il 12 ottobre, dopo cinque mesi di prigionia. Oggi padre Jacques si trova nei pressi di Homs. Qui è stato raggiunto da una troupe dei programmi in lingua araba dell’emittente britannica BBC, che lo ha intervistato sabato 24 ottobre. Le immagini riprendono padre Jacques finalmente libero, mentre celebra una messa in un cortile con qualche decina di fedeli. L’altare usato per la celebrazione è un tavolino coperto da un panno, appoggiato ad una parete del cortile. La croce che lo sovrasta è formata da due semplici rami legati insieme. Durante l’omelia padre Jacques si pone ad alta voce la domanda che tutti i cristiani di Siria, in fondo, si portano dentro: «Tanti si chiedono dov’è Dio? Quando verrà a salvare il suo popolo da queste stragi?».

«Tre settimane prima che mi rapissero ho avuto la percezione di essere in pericolo, che qualcuno mi stesse sorvegliando – ha raccontato padre Jacques ad Assaf Aboud, il giornalista della BBC che lo ha intervistato –. Poi, il 21 maggio (quando ancora Qaryatayn non era nelle mani dell’Isis - ndr) alcuni uomini con il volto coperto sono venuti al villaggio. Due di loro sono entrati nel monastero e hanno preso me e un seminarista. Ci hanno legati e incappucciati e, con la macchina del monastero, ci hanno portati a mezz’ora di strada dal villaggio, sulla montagna. Dopo quattro giorni ci hanno trasferito nella città di Raqqa. Qui, per 84 giorni sono rimasto in prigione. In generale mi hanno trattato bene. Non siamo stati torturati. Ma tutti i giorni entravano nella mia cella e mi parlavano duramente: mi dicevano che eravamo infedeli, che sbagliavamo e che l’unica religione vera è l’islam che propone lo Stato islamico. Dicevano di essere venuti per portare la religione giusta. Sono gente dalle grandi ambizioni: vogliono arrivare a (controllare) Roma e Mosca».
Durante tutto il periodo di prigionia padre Jacques ha subito interrogatori da parte degli emiri dello Stato islamico. Nei primi giorni, quando ancora non era a conoscenza del fatto che l’Isis avesse preso il suo villaggio, un emiro gli ha fatto insistenti domande sui luoghi cristiani di Qaryatayn: «Ho risposto che abbiamo due chiese, una siriaco ortodossa e una siriaco cattolica e che poi c’è un monastero. “E cosa è questo monastero?” Mi ha chiesto l’emiro. Allora ho pensato che non sapesse quanto fosse importante il monastero per noi cristiani e musulmani di Qaryatayn. Così gli ho detto che era solo un luogo dove avevamo delle terre coltivate. Ho cercato di nascondere quanto è importante… ma loro sapevano tutto».

«Pensavamo che questi dello Stato islamico fossero dei beduini, degli ignoranti, ma non è così – commenta amaramente il sacerdote –. Specialmente quelli venuti dall’estero, tunisini, algerini e iracheni, sono laureati, hanno studiato e sono molto determinati nel raggiungere i loro obiettivi».
Dopo quasi tre mesi di prigionia a Raqqa i miliziani dell’Isis hanno riportato padre Jacques a Qaryatayn: «Per arrivarci siamo passati da Palmira. Trenta chilometri più oltre, la macchina è entrata in un luogo coperto - racconta padre Murad -. Ci hanno fatti scendere e siamo entrati in un locale con una grande porta di ferro. La prima cosa che ho visto sono stati due dei ragazzi cristiani del mio villaggio. Poi, alzando lo sguardo, ho visto tutti gli altri miei cristiani! Sono stati giorni pieni di sofferenza; per me era molto difficile pensare che i miei figli fossero imprigionati, specialmente gli anziani e i disabili. La cosa che mi ha fatto soffrire di più è stato il fatto che, tra gli altri, c’erano anche una donna e un bambino di dieci anni, entrambi malati di tumore. Avevano bisogno di cure particolari, di medicine… e noi pregavamo gli emiri che avevano responsabilità su di noi, perché almeno questi due potessero andare a farsi curare, potessero cercare le medicine… Non hanno mai accolto la nostra richiesta».

«Il 31 agosto, alla fine, sono venuti da me cinque o sei emiri – continua il racconto –. Mi hanno chiamato e io ho avuto paura, ho temuto davvero che mi avrebbero ucciso. Erano venuti per annunciare cosa aveva deciso il califfo per i cristiani di Qaryatayn. Allora mi sono messo una mano sul cuore e ho detto dentro di me: basta. È finita! Invece il califfo ci lasciava scegliere tra quattro possibilità: la prima che gli uomini fossero uccisi e le donne fatte schiave; la seconda che tutti fossero ridotti in stato di schiavitù. La terza era la conversione di tutti all’islam; e la quarta era di accettare la grazia del califfo. La grazia consisteva nel vivere nella terra dell’Isis, pagando una tassa. Tutti hanno scelto questa possibilità. Così gli emiri hanno preso nota dei nomi di tutti i cristiani. Il giorno dopo hanno preso due grandi camion, ci hanno caricato e ci hanno riportato nel nostro villaggio. Ci hanno dato dei documenti con cui potevamo andare ovunque, anche fino a Mosul, nelle terre governate dallo Stato islamico. Quando ho potuto, sono fuggito, per dare anche agli altri cristiani il coraggio di fuggire. Tra i cristiani di Qaryatayn, infatti, ci sono persone che hanno difficoltà a pensare di andare via. Preferiscono morire nella loro terra. E ci sono cristiani che pensano che sia possibile vivere anche sotto l’Isis».

venerdì 22 maggio 2015

Il rapimento di padre Jacques Mourad e l'orrore di Palmyra


Rapito padre Jacques Murad, della stessa comunità di padre Paolo Dall'Oglio

Agenzia Fides  22/5/2015

Homs 
 Il sacerdote Jacques Murad, Priore del Monastero di Mar Elian, è stato rapito da alcuni sequestratori che lo hanno prelevato dal Monastero sotto la minaccia delle armi. Secondo alcune fonti locali, contattate dall’Agenzia Fides, il sequestro sarebbe avvenuto lunedì 18 maggio, mentre altre fonti sostengono che il sacerdote è stato rapito nella giornata di giovedì 21 maggio. La notizia è stata confermata oggi dall’arcidiocesi siro cattolica di Homs, che ha chiesto a tutti i fedeli di invocare il Signore nella preghiera affinchè padre Jacques sia liberato e possa tornare alla sua vita di preghiera, al servizio dei fratelli e di tutti i siriani. Secondo alcune fonti locali, insieme a padre Jacques sarebbe stato prelevato dai rapitori anche il diacono Boutros Hanna. Ma tale indiscrezione non è stata al momento confermata dall’arcidiocesi siro-cattolica di Homs.
Secondo le prime ricostruzioni, il rapimento è stato realizzato da uomini armati giunti in moto al Monastero di Mar Elian. I sequestratori hanno costretto padre Jacques a mettersi alla guida della propria auto e, sotto la minaccia delle armi, gli hanno imposto di dirigersi verso una destinazione sconosciuta. 
Fonti locali consultate da Fides ipotizzano che dietro il rapimento ci siano gruppi salafiti presenti nella zona, che si sono sentiti rafforzati dai recenti successi dei jihadisti di al-Nusra e dello Stato Islamico in territorio siriano.
Padre Jacques Murad è Priore del Monastero di Mar Elian e parroco della comunità di Qaryatayn, 60 chilometri a sud est di Homs. L'insediamento monastico, collocato alla periferia di Quaryatayn, rappresenta una filiazione del Monastero di Deir Mar Musa al Habashi, rifondato dal gesuita italiano p. Paolo Dall'Oglio, rapito anche lui il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, capoluogo siriano da anni sotto il controllo dei jihadisti dello Stato Islamico. 
Negli anni del conflitto, la città di Qaryatayn era stata più volte conquistata da miliziani anti-Assad e bombardata dall'esercito siriano. Proprio padre Jacques, insieme a un avvocato sunnita, avevano assunto la funzione di mediatori per garantire che il centro urbano di 35mila abitanti fosse risparmiato per lunghi periodi dagli scontri armati. 
Nel Monastero sono stati ospitati centinaia di rifugiati, compresi più di cento bambini sotto i dieci anni. Padre Jacques e i suoi amici hanno provveduto a trovare il necessario per la loro sopravvivenza anche ricorrendo all'aiuto di donatori musulmani. 
Bastano questi pochi cenni a far intuire quale oasi di carità rappresenti il Monastero di Mar Elian per tutto il popolo siriano, massacrato da una guerra assurda, alimentata dall'esterno. 


Vive inquiétude après l’enlèvement d’un prêtre syrien près de HOMS

.....   « Alors que je lui proposais de quitter un moment Qaryatyan avec le rapprochement du DAECH il m’a répondu « comme prêtre et pasteur je ne quitterai jamais le lieu tant qu’il y a des gens, sauf si on ne chasse » nous confie-t-il .....


Se una colonna vale più di un uomo

In queste ore l'Isis compie massacri spaventosi nelle stesse aree, ma a quegli orrori ci stiamo abituando ....  Piangiamo per le pietre, ma non muoviamo un dito per gli umani. E forse per questo rischiamo di venir sconfitti.

Il Giornale, Ven, 22/05/2015
di Gian Micalessin 

Ormai c'indigniamo per una statua ridotta in briciole, ma rimaniamo impassibili di fronte ad una, dieci, cento teste umane mozzate. Un giorno storici e antropologi lo chiameranno, forse, il paradosso di Palmira.


Ma per il momento non è una sindrome antica o esotica. È solo una tragedia orribile e crudele. Pronta a compiersi. Sotto i nostri occhi. Sempre più avvezzi all'orrore. Sempre più indifferenti. Succede ora. Adesso. Mentre leggete questo pezzo centinaia di uomini in divisa e in abiti civili sono costretti ad inginocchiarsi davanti ai boia dello Stato Islamico. Quando avrete finito di leggere il loro urlo sarà solo un gorgoglio di sangue e fiato spento.
Succede a Palmira. Succede a poco più di duecento chilometri a est di Damasco. Lì sono entrati mercoledì notte i tagliagole del Califfato. Lì il Califfato ha creato la sua nuova roccaforte pronta a congiungersi in linea retta con Ramadi in Iraq e con Raqqa più a nord. Una roccaforte da cui avanzare verso Homs per stringere in una morsa implacabile Damasco e quel che resta della Siria di Bashar Assad. Mentre i militari governativi fuggivano, mentre i responsabili di musei e siti archeologici caricavano sui camion le ultime statue loro già rapivano e massacravano.
Samaan, l'amico cristiano compagno di tanti viaggi nella disgraziata Siria in guerra, me lo racconta al telefono. «Sono andati casa per casa. Quelli dell'Isis si sono fatti guidare dai jihadisti di Palmira. Si sono fatti indicare tutti quelli che collaboravano con il governo, con l'esercito o con le milizie. Un mio amico, uno che conoscevo da tanti anni, l'hanno decapitato subito assieme a una decina di altri civili e a tanti soldati. Gli altri attendono la sentenza della Corte islamica. Ma lo sappiamo tutti, per loro non ci sarà pietà. Tra poche ore anche le loro teste rotoleranno nella sabbia».
Palmira Samaan la conosce bene. Ci ha lavorato per anni come guida turistica. Ci ha portato migliaia di turisti italiani. A Palmira ha ancora tanti, troppi amici. «Non so neanche per chi preoccuparmi. A uno hanno già tagliato la testa, lo so per certo. Un altro è prigioniero e probabilmente verrà mandato a morte. Ma gli altri dove sono? Che fine hanno fatto? Non riesco a sentirli, i telefoni hanno smesso di funzionare. Non so più nulla di loro».
È la tragedia di Palmira. Quella vera. Quella di centinaia di migliaia di esseri umani inermi di fronte alla barbarie e alla crudeltà che avanza. Uomini e donne destinati alla morte o alla schiavitù. Certo l'antica «porta del deserto», la millenaria tappa della via della seta è anche un patrimonio dell'Unesco. È anche una distesa di reperti d'inestimabile valore. Non a caso per lei si è mobilitata la direttrice generale dell'Unesco, Irina Bokova, assieme a decine di intellettuali e artisti occidentali.
Eppure la tragedia vera, quella per cui nessuno qui in Occidente sembra più voler piangere, è quella dei suoi civili, dei militari colpevoli soltanto di averla difesa. Il loro destino è segnato. Nelle prossime ore le loro teste verranno passate a fil di coltello dai tagliagole con le bandiere nere mentre un lugubre e roco «Allah Akbar» consacrerà l'ennesima barbarie. È già successo a Mosul con yazidi e cristiani. Sta succedendo, sempre in queste ore, a Ramadi dove le vittime sono migliaia di civili e militari sciiti. Continuerà a succedere nelle prossime settimane e nei prossimi mesi ovunque arriverà la legge del Califfato.
Eppure questo nuovo mattatoio ci appare ormai un dettaglio, un appendice rispetto al destino di opere d'arte e siti archeologici destinati, come già successo a Ninive, Hatra e Nimrud a subire la furia distruttrice e iconoclasta dei fanatici di Allah. Solo questo ormai c'impressiona. Piangiamo per le pietre, ma non muoviamo un dito per gli umani. E forse per questo rischiamo di venir sconfitti.