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venerdì 18 luglio 2025

La Siria è spacciata

I raid aerei con cui Tel Aviv ha imposto alle truppe di Damasco il ritiro dalla città drusa di Sweida e bombardato il ministero della Difesa fanno da cupo presagio al futuro della Siria (Scaglione)


 Avvenire  17 luglio 2025 - di Fulvio Scaglione

I raid aerei con cui l’aviazione di Israele prima ha imposto alle truppe siriane il ritiro dalla città a maggioranza drusa di Sweida e poi ha bombardato il ministero siriano della Difesa nel cuore della capitale Damasco, dimostrando di poter colpire liberamente in qualunque punto del Paese, non parlano tanto di Israele ma fanno da cupo presagio al futuro della Siria. Per almeno due ragioni.

La prima ha a che fare con la sua storia contemporanea. Nei lunghi e drammatici anni della guerra civile, si era diffusa l’illusione che la rimozione del dittatore Bashar al-Assad avrebbe portato, quasi di per sé, a una specie di riconciliazione nazionale in nome della riconquistata libertà. Assad è scappato a Mosca ma è successo il contrario: sparatorie tra milizie curde e sunnite, bombe islamiste nelle chiese cristiane, stragi di alawiti da parte dei sunniti, una vera guerra tra i reparti sunniti fedeli al presidente al-Jolani/al-Sharaa e i gruppi di autodifesa della comunità drusa, a loro volta aiutati dagli alawiti. Tutte le vecchie faglie etnico-religiose si sono spalancate e rischiano di inghiottire il Paese, eccitate anche da un progetto di nuova Costituzione che, a credere alle voci che arrivano da Damasco, mostra più di un tratto islamista. Che corrisponde alla natura e all’origine dei nuovi governanti, ex dirigenti o capi militari del gruppo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ma ovviamente inquieta le numerose, corpose e influenti minoranze siriane.

E poi c’è la situazione internazionale. Nel 2011 Recep Tayyip Erdogan diceva di voler cacciare Assad per andare a pregare nella moschea degli Omayyadi di Aleppo. Nel dicembre scorso, lanciando all’offensiva gli uomini di HTS che aveva a lungo finanziato e armato, il presidente ha mostrato di non aver rinunciato al vecchio sogno. Anche lui, però, ha sbagliato molti conti. Fino a quel punto, infatti, aveva più o meno retto un equilibrio perverso ma utile per cui la Russia teneva a bada Assad, permetteva a Israele di attaccare le basi iraniane in Siria, trattava con la Turchia e faceva, più o meno, da elemento d’equilibrio. Non è un caso se a parlare con i capi delle comunità druse ora ribelli fossero, negli anni scorsi, più i militari russi che i funzionari assadiani.

Erdogan ha creduto che al-Jolani e i suoi potessero prendere in fretta il controllo del Paese, sottovalutando le difficoltà interne di cui sopra. In più, ha male interpretato le mosse di Israele, che del ribaltone siriano ha approfittato per allargare il cerchio delle proprie operazioni e rendere ancora più ambiziosa la propria strategia. Ora Erdogan è paralizzato: non vuole e non può fare la guerra a Israele ma non sa come difendere il “suo” al-Jolani, di bomba in bomba sempre più avviato al ruolo di sindaco di Damasco più che di presidente della Siria. Con il Nord controllato dal padre-padrone Turchia, il Golan a Sud dominato da Israele attraverso i drusi, l’Est ricco di petrolio sotto la tutela degli americani e dei loro protetti curdi.

Ed è proprio questo che giustifica i pronostici pessimistici sul futuro del Paese. Oggi tutti i Paesi occidentali corrono a stringere la mano ad al-Jolani e si affrettano a eliminare le sanzioni con cui è stato affamato per anni il popolo siriano, senza però muovere un dito per difendere la stabilità e l’integrità territoriale della Siria. È un paradosso solo in apparenza. Alle potenze regionali va benissimo poter rosicchiare parte del territorio siriano per soddisfare le loro più o meno credibili esigenze di sicurezza. Alle altre, quelle più lontane, non va male che in Medio Oriente venga realizzata l’ennesima ristrutturazione delle aree di influenza, se non anche dei confini, che in questo caso prevede la cacciata della Russia, la mortificazione delle ambizioni dell’Iran e la riduzione della stessa Siria a un piccolo Paese disarmato e fragile, avviato al ruolo di semplice piattaforma di interessi altrui. Una specie di secondo Libano, insomma, costretto a sperare nella benevolenza dei più forti. Con una certa libertà di azione, però, per Al Jolani o chi per esso. A difendere i Drusi è intervenuto Israele in base a precisi interessi strategici. A difendere gli Alawiti non è arrivato nessuno, e anche i venti cristiani uccisi in chiesa hanno destato un’attenzione insufficiente.

«Il mondo non distolga lo sguardo dalla Siria», ha detto papa Leone XIV pochi giorni fa. Ma la sensazione è che dei siriani e del loro destino importi poco. E che lo sguardo della comunità internazionale sia distolto, ma non per caso.

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FIDES, 14 luglio 2025

Arcivescovo Jacques Mourad: "Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

È tornato da pochi giorni l’Arcivescovo Jacques Mourad, dopo aver partecipato a Roma al Sinodo dei Vescovi della Chiesa siro cattolica. E subito è stato preso dalle tante cose che a Homs lo stavano aspettando. «In questi giorni celebro le prime comunioni dei bambini e delle bambine nelle parrocchie dei villaggi. È una gioia che tocca il cuore. Ringraziamo il Signore per tutti questi segni di speranza che Lui offre a noi, nella nostra povertà».

Calibra ogni parola, Jacques Mourad, quando parla del tempo che sta vivendo la sua Patria e il suo popolo.
Il monaco della comunità di Deir Mar Musa, divenuto Arcivescovo siro cattolico di Homs Hama e Nabek, ha anche lui nel cuore il tumulto per la strage dei cristiani massacrati a Damasco il 22 giugno, mentre erano riuniti con i fratelli e le sorelle per partecipare alla messa domenicale nella chiesa di Sant’Elia.

Le parole del Vescovo Jacques, nato a Aleppo e unitosi alla comunità monastica fondata dal gesuita romano Paolo Dall’Oglio, sono a tratti taglienti, mentre racconta il presente siriano.
Ripete che «Oggi la Siria è finita come Paese». Ma vede anche che, in tale naufragio, la Chiesa in Siria continua il suo cammino e la sua opera, per il bene di tutti. E ciò accade solo «perché questa è la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

La strage dei cristiani
  Il nuovo potere che domina a Damasco cerca parole rassicuranti. Anche dopo la strage nella chiesa di Sant’Elia, rappresentanti governativi ripetono che i cristiani sono una componente ineliminabile del popolo siriano. «E io voglio dire» scandisce l’Arcivescovo Mourad «che il governo porta direttamente la responsabilità di tutto quello che è successo. Perché ogni governo è responsabile della sicurezza del popolo. E non parlo solo dei cristiani. Anche tanti sunniti, tanti alawiti sono stati uccisi, tanti sono spariti. Se una squadra mandata da qualche organismo internazionale venisse a ispezionare le carceri, adesso ci troverebbe tanta gente che non ha nulla a che fare con i crimini del regime passato. Credo si possa dire che questo governo sta perseguitando il popolo. Tutto il popolo».

L’Arcivescovo siro cattolico di Homs percepisce ostilità anche nelle formule rassicuranti utilizzate dal nuovo regime siriano verso i battezzati: «Ogni volta che sento parlare della “protezione” dei cristiani, sento che siamo messi sotto accusa. E sotto minaccia. Sono formule usate non per manifestare benevolenza, ma per incriminare. Quello che devo dire è che questo governo fa le stesse cose fatte dal regime di Assad contro il popolo. Ambedue i regimi, quello di Assad e quello di adesso, non hanno alcun rispetto per il popolo siriano e la sua storia».
 
Siria finita 

La Siria - riconosce l’Arcivescovo Jacques - ha una grande eredità, e ha il presente del suo popolo giovane. «Ma gli ultimi governi «sembrano voler annichilire, distruggere, questa civilizzazione, la civiltà di questo popolo. È un crimine mondiale, non riguarda solo noi».
 «L’Unesco proclama patrimonio dell'umanità tanti luoghi della Siria. Poi nessuno li protegge. E ora abbiamo bisogno di proteggere il nostro patrimonio vivente, non solo i monumenti».
 
Prima i megafoni, poi il terrore
   Le sigle del terrore cambiano spesso la loro “griffe”. Fonti governative siriane, per l'attentato alla chiesa di Damasco, hanno chiamato in causa non meglio specificati militanti di Daesh, lo "Stato Islamico". Ma a rivendicare la strage dei cristiani è stata una sigla jihadista appena inaugurata, Saraya Ansar al-Sunna, creata forse da fuoriusciti da Tahrir al-Sham. Strategie di mercato, gestione "professionale" della comunicazione e della propaganda.
 
I cristiani ortodossi della chiesa di Sant'Elia a Damasco - questo ripetono più fonti e testimoni sul campo -  sono stati massacrati "per punizione", dopo che alcuni di loro avevano avuto un alterco coi militanti islamisti che andavano di continuo davanti alla chiesa con gli altoparlanti montati sulle automobili per sparare a alto volume nelle orecchie dei battezzati i versetti del Corano e i richiami a convertirsi e a aderire all'Islam. La stessa cosa - conferma l'Arcivescovo Jacques - succede anche a Homs e in tutta la Siria: «Passano con le macchine di sicurezza del governo, e dagli altoparlanti chiedono ai cristiani la conversione. Se poi noi chiediamo ragione di questi comportamenti a quelli della sicurezza, ci rispondono che si tratta di iniziative individuali. Ma intanto continuano a usare le auto della sicurezza…il popolo non crede più a questo governo».

Sponsor d'Occidente
  Intanto chi comanda oggi in Siria continua a cercare accreditamenti da parte di circoli e poteri esterni. Rappresentanti del governo si sono detti pronti a rifare l'armistizio con Israele del 1974.
 «Io» riconosce l’Arcivescovo Mourad «non sono un politico. E vedo che quasi tutto il popolo siriano desidera la pace. Desidera anche arrivare a un accordo di pace con Israele, per tutti i Paesi del Medio Oriente. Dopo tutti questi anni sono tutti veramente stanchi di questa guerra, e di considerare gli ebrei come nemici. Ma se arrivassimo adesso a un accordo con Israele, ciò avverrebbe solo perché adesso la Siria è debole. E un simile accordo, in un momento come questo, sarebbe solo un altro atto di umiliazione del popolo.  Quindi, prima che il Presidente arrivi a siglare tale accordo, bisognerebbe almeno parlare chiaro al popolo, spiegare cosa significa questo accordo, e cosa c'è dentro. Quali sono le condizioni per Israele e per i siriani».
 
L’esercito israeliano - prosegue l’Arcivescovo siro cattolico di Homs «ha occupato tanti territori siriani dopo la fine del regime di Assad. Questo vuol dire che forse dobbiamo dimenticarci per sempre delle alture del Golan. E questo vuol dire che il popolo siriano, soprattutto a Damasco, potrà sempre essere sotto minaccia con lo strumento della sete, perché l'acqua a Damasco arriva dal Golan. E se rimaniamo sotto il potere di Israele per l'acqua, immaginiamoci per le altre cose…».
 
Oggi - aggiunge padre Jacques, entrando dentro i drammi del presente siriano «la Siria è finita come Paese. Continuiamo a ripetere che è il primo Paese del mondo, che Damasco e Aleppo sono le città più antiche del mondo, ma questo nel presente non vuol dire più niente. È finita, gran parte del popolo vive sotto il livello di povertà, siamo massacrati, umiliati, stanchi. Non abbiamo la forza di riprenderci da soli la nostra dignità. Se non c'è un sostegno politico sincero a favore del popolo, e non del governo, siamo finiti.  Nessuno può condannare il popolo siriano perché emigra, e cerca salvezza fuori dalla Siria. Nessuno ha il diritto di giudicare».  In una situazione dove tutta l'economia, e il sistema educativo, e anche quello sanitario sono al collasso.

Da dove ricominciare 
  È possibile trovare delle strade per andare avanti, quando l’orizzonte è così buio e sembra mancare il respiro?
L'Arcivescovo sceglie parole forti e impegnative per tratteggiare oggi la condizione e la missione delle Chiese e dei cristiani siriani.
«Secondo me la Chiesa è l'unico riferimento di speranza per tutto il popolo siriano. Per tutto, non solo per i cristiani. Perché noi facciamo tutto per sostenere il nostro popolo, nel modo che possiamo».
 
«Dopo la caduta di Assad, tanti nelle nostre comunità e parrocchie sono entrati in una crisi di paura. Una disperazione terribile. Anche io ho fatto visite a tutte le parrocchie, in ogni villaggio, per incoraggiare i cristiani, parlare del futuro. Grazie a Dio, ogni volta io mi sento accompagnato dal Signore, nelle parole, nel discorso che faccio per il popolo. E così, in questa situazione, siamo presi a organizzare regolarmente gli incontri per i giovani, per i bambini, per i gruppi impegnati nella Chiesa in diversi modi».
 
Anche in una situazione per molti versi tragica, la vita ordinaria delle comunità ecclesiali prosegue il cammino.
E proprio le comunità ecclesiali provano a promuovere il dialogo per la convivenza tra tutti i gruppi e le componenti, in un contesto lacerato, impregnato di dolore e risentimenti.
 «A Aleppo e anche a Damasco sono veramente bravi. I Vescovi hanno dato spazio anche ai laici per riflettere e prendere l'iniziativa.
A Homs proviamo di fare incontri con tutte le altre comunità. Alawiti, ismailiti, sunniti, cristiani. Le persone che incontriamo sono tutte preoccupate per la politica del governo, anche i musulmani. Siamo uniti, perché siamo tutti sulla stessa barca, come ripeteva Papa Francesco».
 
L’incontro con Papa Leone 
  È stato Papa Leone a chiedere ai Vescovi siro cattolici di venire a Roma per tenere nella città eterna il loro Sinodo ordinario, svoltosi dal 3 al 6 luglio. «È stata un'occasione bellissima poterlo incontrare, conoscerlo e avere la sua benedizione.  Ho seguito con attenzione i discorsi che lui ha fatto parlando delle Chiese orientali e dell’Oriente cristiano. Ho approfittato di questo incontro per ringraziarlo e chiedere di incoraggiare tutta la Chiesa cattolica a prendere l'iniziativa soprattutto per sostenere il popolo siriano nelle sue urgenze primarie».

La speranza traspare nelle opere concrete 
  «Per me» sottolinea Jacques Mourad «è importante che la Chiesa si coinvolga intensamente nella ricostruzione delle scuole e di tutto il tessuto educativo in Siria. E anche che nella costruzione di ospedali decenti per il nostro popolo. Già abbiamo in funzione delle scuole, a Aleppo, a Damasco, ma non bastano. A Homs non c’è niente. Dobbiamo lavorare su questo, perché questo può aiutare anche a arginare l’emigrazione dei cristiani. Tutti i genitori pensano al futuro dei loro figli. E se non possono garantire loro scuole dove studiare e ospedali che funzionino, rimane solo la scelta di andar via. Abbiamo bisogno di tutto. Abbiamo bisogno anche di far rinascere centri pastorali e culturali che possano accompagnare la crescita anche umana e culturale dei nostri giovani. E anche di case per i giovani che vogliono sposarsi. Così si possono incoraggiare tutti i giovani a rimanere nel Paese, a non andar via».

Così il presente e il futuro dell'Arcivescovo Jacques si riempie di cose buone da fare. Mancano le risorse, ma l'orizzonte è chiaro:  «Così possiamo andare avanti, nel cammino della nostra Chiesa in Siria. Perché questa è certo la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. Questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».
«E noi per primi, i discepoli di Cristo, e chi esercita delle responsabilità a nome suo, abbiamo il dovere di proteggere i nostri fedeli e fare tutto il possibile garantire il futuro della Chiesa in Siria». 

lunedì 3 febbraio 2025

Il nuovo tempo siriano è pieno di enigmi e fantasmi

     «E’ iniziato un nuovo tempo per la Siria. Ed è di nuovo un tempo difficile».


di Gianni Valente

L’Arcivescovo Jacques Mourad parla con calma, come sempre. Il monaco della comunità di Deir Mar Musa, figlio spirituale di padre Paolo Dall’Oglio, nel 2015 visse mesi sotto sequestro dei jihadisti dello Stato Islamico. Forse quell’esperienza che ha reso ancora più trasparente il suo sguardo cristiano sulle cose. E oggi come Arcivescovo siro cattolico di Homs, le cose che vede e che sente sui nuovi patimenti della Siria non collimano con la rappresentazione mediatica prevalente, soprattutto in Occidente. Quella che racconta di un “regime change”, un cambio di regime riuscito e in via di assestamento, con nuovi leader di matrice islamista in cerca di accreditamento internazionale, dopo lo schianto del blocco di potere coagulatosi per oltre 50 anni intorno al clan degli Assad.

Nel racconto mediatico prevalente, ad esempio, non compare la violenza diffusa e la paura che hanno ripreso a tingere le giornate di buona parte del popolo siriano. Una violenza - ammette Jacques Mourad – che «sembra una trappola in cui cadono tutti quelli che qui conquistano il potere».

Nelle ultime settimane - spiega all’Agenzia Fides l’Arcivescovo siro cattolico di Homs – ci sono persone che spariscono, le prigioni si riempiono, «e lì dentro non si sa più chi è ancora vivo o chi è morto». Ci sono torture inflitte in pubblico a quelli accusati di connivenza col regime che è crollato. E anche «diversi casi di giovani cristiani minacciati e seviziati sulla strada, davanti a tutti, per incutere terrore e costringerli a abiurare la fede e diventare musulmani». Crimini che avvengono lontano da Damasco, dove sono concentrati i giornalisti.

Le cose non vanno bene, e padre Mourad ha l’impressione che «nessuno può fare nulla» per uscire da questo nuovo tempo di paura e vendetta. «Io - racconta - accolgo le persone. Provo a incoraggiare, consolare, chiedo di aver pazienza, cerco soluzioni. Nel periodo di Natale - aggiunge l’Arcivescovo Jacques - ho fatto un giro nelle nostre 12 parrocchie, anche quelle nei villaggi. Per incoraggiare, a custodire insieme la speranza. Ci sono stati incontri belli con diversi gruppi. Ma quando le violenze aumentano, le nostre parole e i nostri inviti alla pazienza non riescono a convincerli».

Il Cardinale Claudio Gugerotti, Prefetto del Dicastero per le Chiese orientali, ha da poco visitato la Siria come inviato del Papa, per testimoniare la vicinanza del Successore di Pietro alle comunità cristiane. Che vivono questo momento della martoriata vicenda siriana con un carico aggiuntivo di preoccupazioni, rispetto a quelle sofferte dagli altri siriani.

«Il regime di prima - spiega padre Mourad - si presentava come quello che difendeva i cristiani. Dicevano: se andiamo via noi, ritornano i fanatici. Adesso, molti sacerdoti sono pessimisti sul futuro, La mia risposta è sempre la stessa: in ogni caso, la situazione rimane imparagonabile a quella di prima, quando ci sono stati crimini inimmaginabili, ma da quando sono accadute le nuove violenze, c’è chi dice: “hai visto, è vero quello che diceva Bashar al Assad”. Il risultato è che adesso, ancora più di prima, tanti cristiani non vedono altra strada che emigrare. Andare via dalla Siria. E per noi è difficile dire che dobbiamo vivere nella speranza. Ci proviamo, ma le persone non credono ai nostri discorsi. Quello che vivono e che vedono è troppo diverso».

Nelle chiese, dal crollo del regime di Assad, per molti versi tutto sembra continuare come prima: messe, processioni, preghiere e opere di carità. I nuovi detentori del potere non hanno imposto regole coercitive che colpiscano in qualche modo la vita ecclesiale nella sua ordinarietà. Il capo riconosciuto Ahmad Sharaa, noto anche come Abu Muhammad Jolani, leader da gruppo armato jihadista Hayat tahrir al Sham e auto-proclamatosi il 29 gennaio Presidente “ad interim” della Siria, incontrando padre Ibrahim Faltas e i Francescani alla fine del 2024 aveva avuto parole di stima di Papa Francesco, aggiungendo che i cristiani espatriati durante e dopo la guerra civile dovranno tornare in Siria. Le violenze subite da giovani cristiani sono avvenute con attacchi a singole persone. Però – riferisce Jacques Mourad - quando sono iniziate le requisizioni delle armi, a essere disarmati sono stati i soldati cristiani e quelli alawiti. Nessuno ha tolto le armi ai sunniti. «E la realtà» aggiunge «è che non c’è un governo. Ci sono gruppi armati, diversi tra loro. Alcuni sono fanatici, altri no. E ognuno ha il suo potere e impone la sua regola, nei territori che controlla. E di armi ne hanno tante, ora che hanno preso anche quelle del vecchio regime». Anche lui, come altri Vescovi, ha incontrato rappresentanti delle nuove forze che dominano il campo. Discorsi rassicuranti, ma poi le cose non cambiano.

Jacques Mourad dice che non sa come le cose possono andare avanti. Intanto, lui continua a camminare.
  «Noi – dice - continuiamo la nostra vita come parrocchie e come diocesi, giorno per giorno». Dallo scorso aprile, l’Arcivescovo era diventato responsabile del catechismo per tutta la Siria. Anche allora la situazione era grave: niente lavoro, società e comunità cristiane ancora stravolte dalle conseguenze della guerra.
«Ho pensato che la cosa da fare, la cosa più importante, era ripartire dai bambini. Si può ripartire solo dai bambini e dai ragazzi, dopo che la guerra ha come cancellato tutto. E, insieme a loro, ripartire dalle cose essenziali, primordiali».

Sono stati ricostituiti i comitati regionali per lavorare insieme sulla formazione dei catechisti, perché «tanti di quelli con esperienza erano andati via. Ora ci sono i giovani, che hanno entusiasmo, ma devono ancora fare un cammino spirituale e di formazione catechistica e biblica». Si sono unite le forze: le diocesi, i Gesuiti, la Bible Society, «per iniziare a cammino insieme. Ringraziamo il Signore, perché tanti giovani mostrano tanto desiderio, tanto coraggio e generosità». E lo stesso vale per le liturgie, e per la ripresa dei pellegrinaggi, verso Mar Musa e tutti gli altri monasteri, «per far rifiorire la memoria, in questa situazione di povertà e sofferenza, che rimane gravissima. E vedere se qualcosa rinasce, come un nuovo germoglio». 

http://www.fides.org/it/news/75981-ASIA_SIRIA_L_Arcivescovo_Mourad_il_nuovo_tempo_siriano_e_pieno_di_enigmi_e_fantasmi

martedì 3 dicembre 2024

Jacques Mourad, Arcivescovo di Homs: Vogliono far finire la grande storia dei cristiani di Aleppo


Agenzia Fides 3/12/2024

“Siamo veramente stanchi. Siamo veramente sfiniti, e siamo anche finiti, in tutti i sensi”. Le parole di padre Jacques, come sempre, vibrano della sua fede e della sua storia.
Jacques Mourad, monaco della Comunità di Deir Mar Musa, dal 3 marzo 2023 è Arcivescovo siro cattolico di Homs, la città dove continuano a arrivare i profughi in fuga da Aleppo, tornata in mano ai gruppi armati dei “ribelli” jihadisti. Lui ad Aleppo c’è nato, li ha alcuni tra i ricordi e i compagni di destino più cari. Lui, figlio spirituale di padre Paolo Dall’Oglio (il gesuita romano, fondatore della Comunità di Deir Mar Musa, scomparso il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, a quel tempo capitale siriana di Daesh) nel maggio 2015 era stato sequestrato da un commando di jihadisti e aveva vissuto lunghi mesi di prigionia, dapprima in isolamento e poi insieme a più di 150 cristiani di Quaryatayn, presi anche loro in ostaggio nei territori allora conquistati da Daesh. 

Anche per questo padre Jacques sa cosa dice, quando ripete che “non possiamo sopportare tutta questa sofferenza delle genti che arrivano qui distrutte, dopo 25 ore di strada. Assetati, affamati, infreddoliti, senza più niente”. Il racconto che condivide con l'Agenzia Fides è come sempre una testimonianza di fede. Una fede che domanda “perché tutto questo, perché dobbiamo sopportare questa sofferenza”, E intanto si muove con sollecitudine operosa, verso le vite che fuggono da Aleppo di nuovo straziata.

“La situazione a Homs” racconta padre Jacques “è pericolosa. Tanti profughi di Aleppo, anche cristiani, sono arrivati da noi nei primi giorni dopo l’assalto dei gruppi armati, passando per la strada vecchia. Non eravamo pronti per tutto questo, abbiamo fatto subito un incontro tra i Vescovi e abbiamo organizzato due punti di accoglienza con l’aiuto dei Gesuiti e anche contando sulla disponibilità di sostegno espressa da Œuvre d’Orient e da Aiuto alla Chiesa che Soffre. Per aiutare i profughi serve cibo, materassi, coperte e diesel”.

La carità operosa si coniuga con un giudizio lucido e incalzante su quello che sta succedendo. “E’ una sofferenza immensa, i siriani sono sconvolti per quello che è stato fatto. Chi e come ha deciso di fare questa azione dei gruppi armati, quando tutti conosciamo quello che abbiamo visto per anni, quello che accade quando un gruppo armato entra in un paese, e subito la reazione del governo e dei russi è quella di bombardare le città e i villaggi occupati… Perché fanno questo strazio di Aleppo? Perché vogliono distruggere questa città storica, simbolica, importante per tutto il mondo? Perché il popolo siriano deve pagare ancora, dopo 14 anni di sofferenza, di miseria, di morte? Perché siamo così abbandonati in questo mondo, in questa ingiustizia insopportabile?”

L’Arcivescovo di Homs dei siri cattolici non ha remore a chiamare in causa “la responsabilità delle potenze straniere, America, Russia, Europa… Hanno tutti responsabilità diretta di quello che è successo a Aleppo”. Un “crimine” prosegue padre Jacques “che è un pericolo per tutta l’area, per Hama, per la regione di Jazira”, e dove la “responsabilità diretta non ricade solo sul regime o sui gruppi armati ribelli, ma sulla Comunità internazionale”, e sui “giochi politici che tutti stanno facendo in quest’area”.

Padre Jacques, che nella sua diocesi stava lavorando a rilanciare i corsi di catechismo dei bambini e dei ragazzi come punto reale di ripartenza per le comunità cristiane dopo gli anni di dolore della guerra, ha ben presente i sentimenti che ora cominciano a attraversare i cuori di tanti fratelli e sorelle nella fede:

“Dopo l’azione di questi gruppi armati” dice all’Agenzia Fides “i cristiani di Aleppo saranno convinti che non si può rimanere a Aleppo. Che per loro è finita. Che non hanno più una ragione per rimanere. Questa cosa che si sta facendo a Aleppo è per far finire la storia ricca, grande e unica dei cristiani di Aleppo”.

http://www.fides.org/it/news/75751-ASIA_SIRIA_Jacques_Mourad_Arcivescovo_di_Homs_Vogliono_far_finire_la_grande_storia_dei_cristiani_di_Aleppo

mercoledì 3 gennaio 2024

Mons Jacques Mourad: il mondo sta lasciando morire il popolo siriano

 L’arcivescovo di Homs lancia un drammatico appello dopo l’interruzione, a partire dal primo gennaio, del piano di aiuti del Programma alimentare mondiale: "Le famiglie siriane mangiano una volta al giorno, hanno dimenticato cosa sia il riscaldamento, cosa sia l’acqua calda, cosa sia una società. E si vive nell’oscurità, senza luce”

Vatican News , 2 gennaio 2024

Sei mesi fa lo avevano dimezzato, dal primo gennaio è del tutto soppresso. Il piano di aiuti del Programma alimentare mondiale - l’agenzia Onu incaricata dell’assistenza alimentare nel mondo – alla Siria è stato interrotto. Più di cinque milioni di persone dipendevano dalla consegna di alimenti e di generi di prima necessità, in un Paese prossimo al 13.mo anno di guerra (marzo 2024) e ulteriormente fiaccato, nel febbraio 2023, da un drammatico terremoto nelle zone al confine con la Turchia. All’origine della decisione, spiega il Pam, vi sarebbe l’assenza di fondi, messi a rischio dall’epidemia di Covid, dalla guerra in Ucraina e ora anche da quella a Gaza, che avrebbero azzerato il budget a disposizione. E ora la stima di chi versa in gravi condizioni di insicurezza alimentare supera i 12milioni di persone.

Decisione terribile e ingiusta

“Il popolo siriano è condannato a morire senza poter dire nulla”, è la drammatica constatazione di monsignor Jacques Mourad, da un anno arcivescovo di Homs, terza città, per estensione, della Siria. “E’ una decisione terribile e ingiusta”, continua l’arcivescovo, che si chiede perché mai si sia arrivati a questo. “Per noi è come se il mondo dicesse al popolo siriano ‘sei condannato a morire, senza alzare la voce, senza dire nulla’. E per che cosa? Che colpa ha il popolo siriano?”. 

La Chiesa non può coprire tutti i bisogni

Le sue parole sono accorate, pensando alla sofferenza che in tutti questi anni il popolo ha subito e che ancora subirà, generata da una guerra che non sembra dover finire e che continua a infrangere qualsiasi speranza. “Questa decisione - prosegue il presule - è stata presa per gettare il popolo siriano nella disperazione completa, per spegnere ogni luce che poteva restare accesa grazie alla nostra fede e grazie alla speranza. Ma in questa situazione noi veramente siamo finiti”. Organizzazioni non governative e Chiesa cattolica, in questi anni, hanno davvero operato miracoli in Siria, supportando la popolazione in ogni modo. Oggi, di fronte all’interruzione degli aiuti umanitari, che ormai servivano quasi i 2/3 della popolazione, ci si chiede se ci sia ancora una speranza che possa impedire alle persone di morire di fame. “La Chiesa, così come le organizzazioni non governative, non possono coprire tutto il bisogno del popolo siriano - continua mons. Mourad - la loro capacità di finanziamento è limitata. Inoltre, far arrivare il denaro in Siria è impossibile a causa delle sanzioni imposte da Stati Uniti e Onu, e quindi come facciamo? Come può il popolo siriano vivere? Già tante famiglie siriane mangiano una volta al giorno, solo una volta al giorno. Abbiamo dimenticato che cosa significhi scaldare, perché non possiamo comprare il diesel o la legna, abbiamo dimenticato cosa sia l'acqua calda, abbiamo dimenticato cosa sia una società. E viviamo nell'oscurità totale, le città in Siria sono senza luce, certamente i quartieri ricchi che contano solo il 5% della popolazione non sono rappresentativi della situazione del popolo siriano”. 

I siriani così sono condannati a morte

Per monsignor Mourad l’unica soluzione è rappresentata, oltre che dalla Chiesa cattolica, dall’Unione europea, la sua speranza è che l’Ue prenda una posizione chiara, dettata da “una sensibilità umana e sincera”. L’appello dell’arcivescovo di Homs è straziante. “Perché si vuole far morire questo popolo?” è la domanda atroce che viene posta al mondo: “Non è possibile che tutto il mondo abbandoni il popolo siriano, che cosa abbiamo fatto di male per essere condannati a morire?”.

venerdì 14 ottobre 2022

Le reliquie di Mar Elian tornano nel monastero di Qaryatayn

 Sette anni dopo la sua distruzione da parte dell'Isis, il monastero di Mar Elian in Siria sta tornando in vita. Padre Mourad ha riferito dello stato di avanzamento dei lavori e annunciato il ritorno, lo scorso settembre, delle reliquie di san Giuliano.

da  Terrasanta.net

Si tratta di un monastero incendiato e ridotto in rovina il 21 agosto 2015 dai bulldozer dei militanti del cosiddetto Stato islamico. Questi avevano anche profanato la tomba di san Giuliano d’Emesa, custodita nel monastero. «Come se volessero cancellare quello che avevano riconosciuto come il cuore pulsante del complesso monastico», ha spiegato lo scorso 4 ottobre l’agenzia Fides, che ha riferito anche dello stato di avanzamento dei lavori di restauro di Deir Mar Elian el-Sheikh, il monastero di San Giuliano a Quaryatayn, in Siria, un centro quasi equidistante da Homs, Damasco e Palmira.

I lavori sono iniziati nel marzo 2022, come ha spiegato padre Jacques Mourad, fondatore di questo monastero di rito siro-cattolico e al quale è stato affidato il restauro.

Monaco e sacerdote, padre Mourad fa parte della comunità di Mar Musa, una comunità monastica molto attiva per il dialogo islamo-cristiano e fondata in Siria da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano scomparso dal 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, in quel periodo capitale siriana dell’Isis.

Padre Jacques Mourad era stato incaricato, a partire dagli anni 2000, di edificare un monastero e una cappella sulle rovine del monastero di Mar Elian costruito 1.500 anni fa. Circondato da ulivi e vigneti, l’attività agricola contribuiva alla sua sussistenza… fino al maggio 2015. Quando anche padre Jacques Mourad fu rapito da un commando di jihadisti proprio a Mar Elian, luogo che verrà distrutto tre mesi dopo il suo rapimento. Il monaco fu rilasciato il 10 ottobre successivo. 

Segni di resurrezione…

Oggi i lavori di restauro sono proseguiti bene nonostante «le difficoltà legate alla situazione economica del nostro Paese, per le sanzioni imposte», spiega padre Mourad. Negli ultimi otto mesi, però, il sito è stato ripulito e sono stati cotti mattoni di argilla per rialzare il muro perimetrale. Sono stati piantati duecentocinquanta ulivi perché erano stati sradicati gli alberi da frutto, ulivi e viti. Sono state ritrovate le pietre della porta d’ingresso e del battistero e sono state ricostruite le pareti e il tetto della cripta. Anche la chiesa, incendiata, è stata riparata e dotata di un nuovo altare.

Il restauro è stato eseguito senza ripulire completamente la fuliggine inglobata nelle murature in modo da preservare tracce visibili del conflitto recente. Inoltre, un archeologo di Homs ha restaurato la tomba di san Giuliano d’Emesa, martire guaritore, venerato da cristiani e musulmani, con i resti rinvenuti nel sito. Inoltre, sono state rifatte sette camere da letto. 

e di riconciliazione

L’obiettivo era celebrare la festa di Mar Elian presso il monastero lo scorso 9 settembre e riportare nel luogo le reliquie di san Giuliano, trovate da padre Jacques e portate in salvo a Homs. L’area intorno al monastero è stata strappata all’Isis dall’esercito siriano nell’aprile 2016. 

Per il giorno della festa di san Giuliano, più di 350 persone sono giunte da tutta la regione, oltre a tanti sacerdoti siro-cattolici da tutta la Siria e amici musulmani del monastero. La cerimonia di riconsacrazione è stata presieduta da monsignor Youhanna Jihad Battah, arcivescovo siro-cattolico di Damasco, e invitato speciale è stato l’arcivescovo siro-ortodosso di Homs, Mor Timotheos Matta al-Khoury.

I due vescovi hanno unto insieme, con olio santo, la cripta e la chiesa restaurate. La cerimonia si è quindi rivelata «una meravigliosa opportunità per vivere la comunione tra le due Chiese sorelle», che in passato avevano vissuto periodi di conflitto sulla proprietà del monastero. 

«Il momento più commovente – ha detto padre Jacques – è stato quando le reliquie di Mar Elian, san Giuliano, sono arrivate alle porte del monastero. Un cristiano e un musulmano le hanno portate e le hanno deposte davanti all’altare». Sono stati benedette e poste in un sarcofago. «Non era facile immaginare di poter vivere la gioia di un tale incontro – ha aggiunto –. Esiste certamente una forza che va oltre i nostri limiti umani».

Durante la celebrazione un professore di filosofia, in rappresentanza della comunità musulmana, ha invitato i cristiani a tornare nelle loro case a Quaryatayn, una città di 30mila abitanti, in prevalenza sunniti. Prima di cadere nelle mani dell’Isis, la città era un simbolo di convivenza tra cristiani e musulmani. Dal 2010 fino alla primavera del 2015, padre Mourad si è occupato anche della parrocchia cattolica della città.

mercoledì 2 novembre 2016

Padre Jacques Mourad: Fermare la vendita di armi!

Durante il recente viaggio attraverso il Canada, padre Jacques Mourad,  monaco della comunità di Mar Mousa in Siria, ha parlato con Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Il sacerdote - già rapito e detenuto da Daesh (ISIS) da maggio a ottobre 2015 - chiede ai canadesi di riflettere sull'impatto della vendita di armi, in particolare quelle agli stati della regione del Golfo , che a suo dire, finiscono poi nelle mani dei combattenti in Siria.

31 ottobre 2016, 
 Aiuto alla Chiesa che Soffre Canada.

ACS: Cosa vorrebbe dire alla gente del Canada riguardo alla guerra in Siria?

Padre Jacques Mourad: Come primo punto, desidero ringraziare e trasmettere i miei ringraziamenti da parte dei cittadini della Siria, in particolare dei cristiani in Siria, alle persone canadesi che hanno aperto i loro cuori e il loro paese.

In secondo luogo, ciò che speriamo dai paesi democratici come il Canada, che pur non essendo in grado di fermare questa guerra, continueranno ad accogliere i profughi, così facendo salvano le loro vite, soprattutto la vita di coloro che si trovano nelle zone dove più sono in pericolo (come ad Aleppo tra l'altro).
Tuttavia, dico anche che l'emigrazione della popolazione siriana in Canada non è una buona soluzione.
E' possibile portare fuori l'intero Paese? Per tutti in Siria è pericoloso! Pertanto, lo sforzo necessario da un paese con un buon cuore e che possiede la sua libertà, come il vostro, è quello di fare tutto ciò che è necessario per sensibilizzare l'opinione pubblica, circa le conseguenze della guerra, e convincere il vostro governo a fare tutto quanto è in suo potere per fermare la vendita di armi.

Perché è con queste armi, come quelle che il Canada sta producendo e che vengono vendute nei Paesi del Golfo, è con queste armi, che finiscono nelle mani di tutti coloro che combattono, che la popolazione siriana viene uccisa. Non abbiamo idea del numero di morti, la miseria, ecc...! Il fatto che questo paese continua a produrre e vendere armi, vi rende in parte responsabili della guerra in Siria.
"I canadesi sono invitati a interpellare il loro governo, perché rifletta e prenda in considerazione il fatto che siamo consapevoli di ciò che sta accadendo, che siamo feriti e che stiamo soffrendo."

Padre Mourad invita tutti i Canadesi a pregare per le persone che sono in Siria e per l'avvento della pace . 

Fin dagli inizi della guerra nel marzo 2011, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sostenuto tante persone in Siria per mezzo di progetti di emergenza elaborati dalle Chiese locali, sia le necessità di sostegno richieste per l'alloggio di anziani e malati che non possono lasciare il paese, o per la distribuzione di pannolini, cibo e vestiti caldi per i bisognosi. La carità pontificia ha fornito il supporto per un importo di circa 19 milioni di dollari.

I progetti continuano a svilupparsi. Insieme con il rinnovo del progetto per il latte e pannolini per aiutare le famiglie, l'organizzazione sostiene sacerdoti anziani e religiose che stanno vivendo al limite dell'esaurimento, con collette e offerte di messa. Infine, 600 famiglie riceveranno aiuto per pagare il riscaldamento questo inverno, visto che il costo del mazut (un olio combustibile) resta proibitivo.

   (trad. OpS)

giovedì 14 gennaio 2016

Padre Jacques Mourad ripercorre la sua esperienza: "Lui mi guardò rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…"

“La mia miracolosa  fuga dall’Isis”


Gian Micalessin

Gli Occhi della Guerra, 14 gennaio 2016

Padre Jacques Murad spezza il pane, recita il Padre Nostro in arabo, poi fissa la famiglia, gli amici riuniti intorno alla tavola imbandita. “Non speravo di sopravvivere, figuratevi rivedere Roma e i miei amici siriani. Me l’avessero detto mesi fa non ci avrei creduto”.  Padre Jacques Murad una volta era un prete. Oggi è l’incarnazione di un miracolo. Un’incarnazione ancora incredula di fronte alla propria sorte, alla propria sopravvivenza.
«Pochi sono riusciti a farsi liberare dallo Stato Islamico. Ancora meno a sfuggirgli vivi. Solo il Signore m’ha concesso entrambe le cose». Padre Jacques guarda Samaan, l’amico siriano, il confratello con moglie e figli ritrovato nella capitale italiana. Si conoscono da oltre 15 anni, da quando Samaan frequentava Mar Musa, il monastero messo in piedi da padre Jacques e padre Paolo Dall’Oglio. Così in questo pranzo a Roma  Padre Jacques dà fondo ai ricordi e alle riflessioni della prigionia. Le più travagliate riguardano Padre Dall’Oglio, l’amico comune di Jacques e Samaan, l’amico scomparso nel nulla il 29 luglio 2013, quando raggiunse Raqqa appena occupata per incontrare i capi dello Stato Islamico.   «Ci ho pensato da quando mi hanno chiuso in quel bagno di Raqqa dove sono rimasto per 83 giorni. Non una galera con altri prigionieri, ma un semplice bagno, dove incontravo solo i miei carcerieri. La mia impressione è che nessuno, oltre a loro, dovesse sapere di me. Per questo mi sono convinto che Dall’Oglio possa essere ancora vivo. Che per qualche imperscrutabile ragione, chiara solo a chi dirige quel mostro chiamato Daesh, Paolo sia un asso nella manica da tirare fuori al momento opportuno».
Prende fiato, si spiega meglio. «Dentro Daesh nulla succede per caso. Al Baghdadi, o chi per lui, decide anche il più banale dettaglio. E nessuno piglia iniziative senza sue disposizioni. Padre Dall’Oglio non può esser stato ucciso senza un suo ordine. E soprattutto senza un motivo. L’avessero ammazzato ne avrebbero spiegato la ragione. Lo fanno sempre. Io in Siria non sono un personaggio chiave, ma ogni fase del mio rapimento dalla preparazione al rilascio, è stata approvata ai massimi livelli. E per ragioni ben precise. Quando mi hanno preso il 21 maggio sapevano già a cosa gli servivo. Mi sorvegliavano da settimane, erano pronti a conquistare il villaggio. Dovevano solo eliminare chi come me parlava con i musulmani, chi mediava e impediva allo Stato Islamico di conquistarsi il consenso. Gli amici musulmani me l’avevano detto: Daesh è già dentro, vattene finché sei in tempo. Ma io non potevo abbandonare. Quando mi hanno rapito non è stata una sorpresa. La vera sorpresa a Raqqa è stato l’incontro con lo sceicco saudita che m’interrogava. Era gentile, beneducato. Spiegava con un sorriso le cose più terribili. Mi ordinò di convertirmi. Io dissi: Mai. Lui mi guardo rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…. Lo so bene, ma non mi convertirò mai. Lui sorrise. In fondo – disse – la capisco». 
Da quel momento padre Jacques è confuso. «Pensavo a quando mi avrebbero decapitato, ma capivo anche di non essere un semplice prigioniero. Ero una pedina in un gioco più grande di me e di chi m’interrogava. Ero uno strumento per l’occasione più opportuna». L’occasione arriva ad agosto, subito dopo la caduta di Qaryatayn e di 250 cristiani, nelle mani di Daesh. Padre Jacques non sa quel che succede, ma intuisce che per lui qualcosa sta cambiando. Ricorda la visita di un iracheno incappucciato che parla a nome di Al Baghdadi.
«Il Califfo ha considerato il suo caso e quello dei 250 cristiani catturati nel suo villaggio e ha deciso in base a quattro possibilità. Può farvi tutti schiavi, uccidere gli uomini e tenere schiave le donne, oppure farvi scegliere tra conversione e decapitazione. Ma la quarta possibilità, quella scelta dal Califfo, è di farvi dono della vita. In cambio dovrete pagare la jizya, la tassa che consente ai cristiani di vivere nelle terre del Califfato».   Così dopo tre mesi di prigionia a Raqqa, padre Jacques si ritrova scortato dai miliziani jihadisti in viaggio verso Qaryatayn
«Appena arrivati mi hanno portato dai miei fedeli. Ero felice, ma al tempo stesso ho capito perché mi avevano lasciato in vita. Mi avevano preso, tenuto vivo e riportato al villaggio per piegare non solo il Qaryatayn, ma tutti i cristiani di Siria alle loro regole». La consapevolezza di essere uno strumento nelle mani dei propri carcerieri diventa ancor più dolorosa quando Padre Jacques tenta inutilmente di fermare il ratto di alcune ragazze cristiane, strappate alle famiglie per venir date in sposa ai militanti di Daesh.
«In quel momento tutto mi diventa chiaro. Capisco che restando lì diventerei la giustificazione vivente delle loro nefandezze. Per questo comincio a pianificare la mia fuga e quella dei miei confratelli. La mia fortuna sono i miei vecchi amici musulmani e quelli beduini. Un musulmano viene a prendermi in moto e mi porta fuori travestito dal villaggio. Poi nei giorni successivi i beduini nascondono sui loro carri e sui camion più di duecento cristiani». Sono loro, i musulmani e i beduini, a portarli fuori dal villaggio, a farli passare sotto gli occhi dei miliziani e dei check point.  «Oggi in quel villaggio non ci sono più cristiani.  Sono tutti salvi.  Il vero miracolo del Signore non è stata la mia salvezza, ma quella di tutti i miei confratelli»

sabato 21 novembre 2015

La risposta al terrore è la santità e la fede: fra Ibrahim e padre Mourad, due esempi

La bomba durante la messa, le ostie macchiate di sangue, la fede che resiste. 

IL FOGLIO, 21 novembre 2015
di Matteo Matzuzzi




 Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo. E' stato un miracolo, c' è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell' edificio, fatto di semplici tegole d' argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. 
Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d'Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas - partita da una base di lancio per missili - ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. 

Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: "I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane". Basta guardare la chiesa per capire subito che l' obiettivo non era stato scelto a caso: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto". Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: "La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l'esplosione è avvenuta proprio nell' ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45". Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: "Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L' avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l'edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva". La gente gridava, "io ho fatto alcuni passi verso l' altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani", ma subito "sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. 
Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c' erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti". 
La memoria, poi, va ineluttabilmente sull' immagine che più d' ogni parola fotografa la portata della tragedia: "In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza". Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, "pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco". La gente, in quei momenti, era terrorizzata, non sapeva che fare: "Ho invitato i fedeli rimasti a uscire fuori nel giardino e lì ho continuato la distribuzione della santa comunione. Abbiamo recitato un Pater, Ave, Gloria come ringraziamento al Signore e a sua madre Maria, concludendo con la benedizione solenne". 
E' questo che sorprende nelle parole del parroco di Aleppo, la cui serenità - nonostante l'orrore della guerra vissuta giorno dopo giorno appena fuori la porta del monastero - è percepibile anche al telefono, nonostante la linea spesso disturbata. Una bombola di gas lanciata sulla chiesa, danni ingenti, uomini e donne sconvolti, eppure con il tempo di ringraziare Dio. E' la prospettiva a essere diversa rispetto a quella propria dell' uomo occidentale, che guarda con distacco quanto avviene da anni nel vicino oriente, avviluppato in lotte intestine che, come la tela di Penelope, paiono non avere mai fine. 
Padre Ibrahim lo sa e spiega cosa porti a lodare Dio tra la polvere e i frammenti di vetro sparsi qua e là: "Il male pianificato contro di noi era enorme. Se solo il grande lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso in un colpo solo una decina di persone raccolte lì sotto al momento della comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, ha ridimensionato questo male, indirizzandolo sulle sole pietre, mentre noi tutti siamo stati salvati. Egli si è glorificato in mezzo al male dandoci, per l' ennesima volta, un segno del suo amore provvidente. Così, invece dei lamenti e delle grida di spavento e di terrore, le nostre bocche hanno innalzato a Lui un inno di ringraziamento ricolmo d'amore e di gratitudine". 

Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell' ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: "Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell' indomani mattina", dice padre Ibrahim.
 E infatti, il giorno dopo alle 7.30 "ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. 
La giornata è proseguita con l' arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l' evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva". Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato.
 "Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt' altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa". 
Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall' attualità e il senso più profondo della fede cristiana: "Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura". 
La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, "il giorno della bomba". Ricorda che poco prima dell'attacco "avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno". 
E' calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. "Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì - dice senza tradire incertezze nella voce - assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l' intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?". 
La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l'ha assicurato Cristo, e tanto basta. E' questa speranza a fortificare l'animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. "Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell'odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione", dice padre Ibrahim. 

Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: "Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all' altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato 'battezzato' ed è diventato simbolo dell' amore che perdona e dà vita". 
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l' unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, "poiché i miliziani dello Stato islamico l' avevano interdetta all' esercito regolare". Al mercato non si trovava più nulla: "Non c' era gasolio, carburante, gas", dice il nostro interlocutore. "Non c' erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po' di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza - ma con un grande sense of humour, diceva 'siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe'. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e - ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte - come si potrebbe pagarlo? Non c' era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato". La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti". 
L'impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: "Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione". Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini "perché si sentono minacciati dall' avanzata da sud dell' esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi". Manca acqua ed elettricità, non c' è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. 
Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d'occidente che "hanno bisogno di svegliarsi". Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l' immagine del "gigante addormentato" per rappresentare i credenti europei: "Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall' acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E' un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede". Che fare, dunque? "L' occidente dovrebbe tornare all' essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve". 
In concreto, si tratta di "vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all' essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo". 
E', sostiene padre Ibrahim, "purificata". "E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito".

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/siria-ibrahim-alsabagh-parroco-ad.html


Padre Mourad: Nelle mani dello Stato islamico ho avuto compassione dei miei rapitori

AsiaNews, 20 novembre 2015


 “Questa grazia mi è stata accordata per essere di conforto a un gran numero di persone”. A raccontarlo ad AsiaNews è p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica. Di passaggio a Beirut, lo abbiamo incontrato nei saloni della chiesa di Nostra Signora dell’Annunciazione, a Beirut. Priore del monastero di Mar Elian e dei fedeli del villaggio di Qaryatayn, non lontano da Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), il 21 maggio 2015. Egli è rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare, il 10 ottobre, in quello che noi siamo soliti chiamare “il mondo libero”.

Perseguitato, minacciato, sottoposto a pressioni continue perché si convertisse all’islam, egli è stato minacciato a più riprese di venire decapitato, frustato in una occasione e, il giorno successivo, fatto oggetto di una finta esecuzione. Confinato in una stanza da bagno rischiarata solo da un lucernario piazzato in alto, con un seminarista ad assisterlo, ridotto a un regime forzato di riso e acqua, distribuiti due volte al giorno, senza elettricità né orologio, tagliato fuori in tutto dal mondo esterno, egli è riuscito a rimanere comunque vigile e non ha mai vista una sola volta scalfita la sua fede. Al contrario.
La grazia, o meglio il miracolo di cui parla p. Mourad è di essere rimasto vivo, di non aver rinnegato la sua fede, di aver ritrovato la libertà. “La prima settimana è stata la più difficile” racconta. “Dopo avermi tenuto per qualche giorno all’interno di una macchina, la domenica di Pentecoste mi hanno portato a Raqqa. Ho vissuto questi primi giorni di prigionia diviso fra la paura, la collera e la vergogna”.
La grande svolta nella sua prigionia è coincisa, secondo p. Jacques, con l’ingresso nella sua cella, l’ottavo giorno, di un uomo vestito di nero, con il viso mascherato, come quelli che compaiono nei video delle esecuzioni resi celebri da Daesh. La mia ora è arrivata, si è detto, in preda al terrore. Ma, al contrario, dopo avergli chiesto quale fosse il suo nome e quello del suo compagno di prigionia, l’uomo si è rivolto a lui con un “assalam aleïkoun” di pace ed è entrato nella sua cella. In seguito, egli ha intavolato una lunga discussione, come se lo sconosciuto cercasse davvero di conoscere meglio i due uomini di fronte a lui.
“Prendilo come un ritiro spirituale” gli ha risposto lo sconosciuto, quando p. Jacques lo ha interrogato sulle ragioni della sua prigionia. “Da quel momento - racconta il sacerdote - le mie preghiere, le mie giornate, hanno acquisito un senso. Come posso spiegarvi... Ho avvertito che attraverso di lui, era il Signore stesso che mi rivolgeva queste parole. Quel momento è stato davvero di grande conforto”.
“Grazie alla preghiera, io ho potuto ritrovare la mia pace” riferisce il sacerdote siriano. “Era maggio, il mese di Maria. Ci siamo messi a recitare il Rosario, che non ero solito pregare molto in passato. Tutto il mio rapporto con la Vergine Maria è stato rinnovato. La preghiera di santa Teresa d’Avila ‘Niente ti turbi, niente ti spaventi…’ anch’essa ha contribuito a sostenermi; e per lei, una notte, ho composto una melodia che ho poi iniziato a canticchiare. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi tra le mani del Signore, con la consapevolezza che non mi era dato di scegliere. Perché tutto portava a pensare che l’esito finale sarebbe stata la conversione all’islam, oppure la decapitazione".
Quasi ogni giorno, continua, "entravano nella mia cella e mi interrogavano sulla mia fede. Ho vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma non ho mai abiurato. Dio mi ha donato due cose: il silenzio e la cortesia. Sapevo che certe risposte potevano essere colte come provocazione, che qualunque parola può diventare la fonte della tua condanna. Così, mi hanno interrogato sulla presenza di vino al convento. Quell’uomo mi ha interrotto all’improvviso, quando ho iniziato a rispondere. Egli ha giudicato le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Grazie alla preghiera, ai salmi, sono entrato in un mondo di pace, che non mi ha più lasciato. Mi sono ricordato anche delle parole di Cristo nel Vangelo di san Matteo: ‘Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano’. Ero felice di poter vivere nel concreto questa parola. Non è cosa da poco, poter vivere il Vangelo, in particolare questi versi così difficili, che fino a quel momento erano solo teoria. Ho iniziato a provare compassione per i miei sequestratori”.
“In quell’occasione, mi sono tornate in mente anche le canzoni poetiche di Feyrouz - confessa p. Jacques - e in particolare una di quelle che parla del crepuscolo, che ero solito cantare quando su Raqqa calavano le lunghe notti di giugno, che ci lasciavano avvolti nell’oscurità. Anche queste parole e la loro musica diventavano fonte di preghiera. Esse parlavano della sofferenza ‘iscritta nel crepuscolo’”.

Poi, un giorno, p. Jacques viene frustato…
“Era il 23mo giorno della mia prigionia” ricorda. “Sono entrati all’improvviso. Era una sorta di messa in scena. La flagellazione è durata circa una trentina di minuti. La frusta era composta da un pezzo di tubo da giardino e delle corde. Ho avvertito il male fisico ma, nel profondo, mi sentivo in pace. Percepivo una grande consolazione nel sapere che potevo condividere in qualche modo le sofferenze di Cristo. Al contempo, mi sentivo per questo assai confuso, poiché pensavo di non essere degno di quella grazia. Perdonavo il mio aguzzino, nel momento stesso in cui egli mi colpiva. Ogni tanto, confortavo con un sorriso il diacono Boutros, mio compagno di cattività, che a stento riusciva a trattenersi nel vedermi oggetto di frustate. Dopo di che, mi sono ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la sua forza. Ne ero sempre più sorpreso, perché mi sentivo debole, sia a livello spirituale che fisico. Vedete, io soffro di mal di schiena sin dall’infanzia e le condizioni di prigionia erano tali da far aumentare, in un primo momento, il male. Al monastero avevo a disposizione un materasso speciale, e una sedia ergonomica. In cella, dormivo per terra e non c’era modo di camminare in questi servizi igienici”.
“La grande paura - prosegue p. Jacques - l’ho conosciuta poco dopo, quando un uomo armato di pugnale è entrato nella nostra cella; ho sentito sul collo la lama del coltello e ho pensato che fosse iniziato il conto alla rovescia per la mia esecuzione. Nello spavento, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio. In realtà, si trattava solo di una messa in scena”.
Il 4 agosto scorso, il gruppo jihadista ha assunto il controllo di Palmira e, da lì, di Qaryatayn. Il giorno successivo, all’alba, hanno preso in ostaggio la popolazione, almeno 250 persone, portandole a Palmira.
L’11 agosto, p. Jacques e il suo compagno hanno intrapreso lo stesso percorso. Ecco come: “Uno capo saudita è entrato nella nostra cella. ‘Sei tu padre Jacques?' ha chiesto. 'Ecco, allora vieni con me! I cristiani di Qaryatayn ci hanno fatto una testa quadra parlandoci di te!' Ho subito pensato che mi stavano prelevando per essere giustiziato. A bordo di un van, abbiamo compiuto un tragitto di quattro ore. Superata Palmira, abbiamo imboccato una strada di montagna che conduce a un edificio chiuso da una grande porta di ferro. Appena aperta, quello che vedo è tutta la popolazione di Qaryatayn lì radunata, meravigliata nel vedermi davanti a sé. Quello è stato un momento di sofferenza indicibile per me. Per loro, un momento straordinario di gioia".
Venti giorni più tardi, il primo settembre, "ci hanno portato a Qaryatayn, liberi, ma col divieto di lasciare il villaggio. In quel momento si è venuta a creare una sorta di contratto religioso collettivo: noi eravamo ormai sotto la loro protezione (‘ahl zemmé’), dietro pagamento di una tassa speciale, la jizya, che riguardava i non musulmani. Potevamo anche praticare i nostri riti, a condizione che questo non fosse elemento di scandalo per i musulmani. Qualche giorno più tardi, alla morte di uno dei nostri parrocchiani, deceduto per un cancro, siamo andati al cimitero, nei pressi del convento di Mar Elian. Ed è in quel momento che ho visto che era stato raso al suolo. Curiosamente, non ho avuto alcun tipo di reazione. Dentro di me, mi è sembrato di cogliere che Mar Elian abbia voluto sacrificare il suo convento e la sua tomba per la nostra salvezza”.

“Oggi - conclude p. Jacques, che ha sfidato il divieto di lasciare Qaryatayn e ha trovato il modo di fuggire, pur mantenendo uno stretto riserbo sulle modalità di fuga - continuo a provare per i miei rapitori lo stesso sentimento che provavo quando ero nelle loro mani: la compassione. Questo sentimento deriva dalla contemplazione dello sguardo di Dio nei loro confronti, a dispetto della loro violenza, come egli la prova verso tutti gli uomini: uno sguardo di pura misericordia, senza il minimo sentimento di vendetta”.

“Oggi - prosegue il sacerdote, un tempo monaco al monastero di Mar Moussa, fondato da p. Paolo Dall’Oglio - sappiamo che la preghiera è la via della salvezza. Bisogna continuare a pregare per i vescovi e i sacerdoti che sono tuttora scomparsi e di cui non si sa niente. Pregare per il mio fratello Paolo Dall’Oglio (scomparso a Raqqa nel luglio 2013). Dobbiamo infine pregare per una soluzione politica in Siria. Oggi ricordiamo il centenario del massacro e l’esodo del 1915. Senza una soluzione politica, l’emigrazione completerà il lavoro che i massacra del 1915 hanno iniziato”.

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