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venerdì 18 luglio 2025

La Siria è spacciata

I raid aerei con cui Tel Aviv ha imposto alle truppe di Damasco il ritiro dalla città drusa di Sweida e bombardato il ministero della Difesa fanno da cupo presagio al futuro della Siria (Scaglione)


 Avvenire  17 luglio 2025 - di Fulvio Scaglione

I raid aerei con cui l’aviazione di Israele prima ha imposto alle truppe siriane il ritiro dalla città a maggioranza drusa di Sweida e poi ha bombardato il ministero siriano della Difesa nel cuore della capitale Damasco, dimostrando di poter colpire liberamente in qualunque punto del Paese, non parlano tanto di Israele ma fanno da cupo presagio al futuro della Siria. Per almeno due ragioni.

La prima ha a che fare con la sua storia contemporanea. Nei lunghi e drammatici anni della guerra civile, si era diffusa l’illusione che la rimozione del dittatore Bashar al-Assad avrebbe portato, quasi di per sé, a una specie di riconciliazione nazionale in nome della riconquistata libertà. Assad è scappato a Mosca ma è successo il contrario: sparatorie tra milizie curde e sunnite, bombe islamiste nelle chiese cristiane, stragi di alawiti da parte dei sunniti, una vera guerra tra i reparti sunniti fedeli al presidente al-Jolani/al-Sharaa e i gruppi di autodifesa della comunità drusa, a loro volta aiutati dagli alawiti. Tutte le vecchie faglie etnico-religiose si sono spalancate e rischiano di inghiottire il Paese, eccitate anche da un progetto di nuova Costituzione che, a credere alle voci che arrivano da Damasco, mostra più di un tratto islamista. Che corrisponde alla natura e all’origine dei nuovi governanti, ex dirigenti o capi militari del gruppo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ma ovviamente inquieta le numerose, corpose e influenti minoranze siriane.

E poi c’è la situazione internazionale. Nel 2011 Recep Tayyip Erdogan diceva di voler cacciare Assad per andare a pregare nella moschea degli Omayyadi di Aleppo. Nel dicembre scorso, lanciando all’offensiva gli uomini di HTS che aveva a lungo finanziato e armato, il presidente ha mostrato di non aver rinunciato al vecchio sogno. Anche lui, però, ha sbagliato molti conti. Fino a quel punto, infatti, aveva più o meno retto un equilibrio perverso ma utile per cui la Russia teneva a bada Assad, permetteva a Israele di attaccare le basi iraniane in Siria, trattava con la Turchia e faceva, più o meno, da elemento d’equilibrio. Non è un caso se a parlare con i capi delle comunità druse ora ribelli fossero, negli anni scorsi, più i militari russi che i funzionari assadiani.

Erdogan ha creduto che al-Jolani e i suoi potessero prendere in fretta il controllo del Paese, sottovalutando le difficoltà interne di cui sopra. In più, ha male interpretato le mosse di Israele, che del ribaltone siriano ha approfittato per allargare il cerchio delle proprie operazioni e rendere ancora più ambiziosa la propria strategia. Ora Erdogan è paralizzato: non vuole e non può fare la guerra a Israele ma non sa come difendere il “suo” al-Jolani, di bomba in bomba sempre più avviato al ruolo di sindaco di Damasco più che di presidente della Siria. Con il Nord controllato dal padre-padrone Turchia, il Golan a Sud dominato da Israele attraverso i drusi, l’Est ricco di petrolio sotto la tutela degli americani e dei loro protetti curdi.

Ed è proprio questo che giustifica i pronostici pessimistici sul futuro del Paese. Oggi tutti i Paesi occidentali corrono a stringere la mano ad al-Jolani e si affrettano a eliminare le sanzioni con cui è stato affamato per anni il popolo siriano, senza però muovere un dito per difendere la stabilità e l’integrità territoriale della Siria. È un paradosso solo in apparenza. Alle potenze regionali va benissimo poter rosicchiare parte del territorio siriano per soddisfare le loro più o meno credibili esigenze di sicurezza. Alle altre, quelle più lontane, non va male che in Medio Oriente venga realizzata l’ennesima ristrutturazione delle aree di influenza, se non anche dei confini, che in questo caso prevede la cacciata della Russia, la mortificazione delle ambizioni dell’Iran e la riduzione della stessa Siria a un piccolo Paese disarmato e fragile, avviato al ruolo di semplice piattaforma di interessi altrui. Una specie di secondo Libano, insomma, costretto a sperare nella benevolenza dei più forti. Con una certa libertà di azione, però, per Al Jolani o chi per esso. A difendere i Drusi è intervenuto Israele in base a precisi interessi strategici. A difendere gli Alawiti non è arrivato nessuno, e anche i venti cristiani uccisi in chiesa hanno destato un’attenzione insufficiente.

«Il mondo non distolga lo sguardo dalla Siria», ha detto papa Leone XIV pochi giorni fa. Ma la sensazione è che dei siriani e del loro destino importi poco. E che lo sguardo della comunità internazionale sia distolto, ma non per caso.

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FIDES, 14 luglio 2025

Arcivescovo Jacques Mourad: "Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

È tornato da pochi giorni l’Arcivescovo Jacques Mourad, dopo aver partecipato a Roma al Sinodo dei Vescovi della Chiesa siro cattolica. E subito è stato preso dalle tante cose che a Homs lo stavano aspettando. «In questi giorni celebro le prime comunioni dei bambini e delle bambine nelle parrocchie dei villaggi. È una gioia che tocca il cuore. Ringraziamo il Signore per tutti questi segni di speranza che Lui offre a noi, nella nostra povertà».

Calibra ogni parola, Jacques Mourad, quando parla del tempo che sta vivendo la sua Patria e il suo popolo.
Il monaco della comunità di Deir Mar Musa, divenuto Arcivescovo siro cattolico di Homs Hama e Nabek, ha anche lui nel cuore il tumulto per la strage dei cristiani massacrati a Damasco il 22 giugno, mentre erano riuniti con i fratelli e le sorelle per partecipare alla messa domenicale nella chiesa di Sant’Elia.

Le parole del Vescovo Jacques, nato a Aleppo e unitosi alla comunità monastica fondata dal gesuita romano Paolo Dall’Oglio, sono a tratti taglienti, mentre racconta il presente siriano.
Ripete che «Oggi la Siria è finita come Paese». Ma vede anche che, in tale naufragio, la Chiesa in Siria continua il suo cammino e la sua opera, per il bene di tutti. E ciò accade solo «perché questa è la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

La strage dei cristiani
  Il nuovo potere che domina a Damasco cerca parole rassicuranti. Anche dopo la strage nella chiesa di Sant’Elia, rappresentanti governativi ripetono che i cristiani sono una componente ineliminabile del popolo siriano. «E io voglio dire» scandisce l’Arcivescovo Mourad «che il governo porta direttamente la responsabilità di tutto quello che è successo. Perché ogni governo è responsabile della sicurezza del popolo. E non parlo solo dei cristiani. Anche tanti sunniti, tanti alawiti sono stati uccisi, tanti sono spariti. Se una squadra mandata da qualche organismo internazionale venisse a ispezionare le carceri, adesso ci troverebbe tanta gente che non ha nulla a che fare con i crimini del regime passato. Credo si possa dire che questo governo sta perseguitando il popolo. Tutto il popolo».

L’Arcivescovo siro cattolico di Homs percepisce ostilità anche nelle formule rassicuranti utilizzate dal nuovo regime siriano verso i battezzati: «Ogni volta che sento parlare della “protezione” dei cristiani, sento che siamo messi sotto accusa. E sotto minaccia. Sono formule usate non per manifestare benevolenza, ma per incriminare. Quello che devo dire è che questo governo fa le stesse cose fatte dal regime di Assad contro il popolo. Ambedue i regimi, quello di Assad e quello di adesso, non hanno alcun rispetto per il popolo siriano e la sua storia».
 
Siria finita 

La Siria - riconosce l’Arcivescovo Jacques - ha una grande eredità, e ha il presente del suo popolo giovane. «Ma gli ultimi governi «sembrano voler annichilire, distruggere, questa civilizzazione, la civiltà di questo popolo. È un crimine mondiale, non riguarda solo noi».
 «L’Unesco proclama patrimonio dell'umanità tanti luoghi della Siria. Poi nessuno li protegge. E ora abbiamo bisogno di proteggere il nostro patrimonio vivente, non solo i monumenti».
 
Prima i megafoni, poi il terrore
   Le sigle del terrore cambiano spesso la loro “griffe”. Fonti governative siriane, per l'attentato alla chiesa di Damasco, hanno chiamato in causa non meglio specificati militanti di Daesh, lo "Stato Islamico". Ma a rivendicare la strage dei cristiani è stata una sigla jihadista appena inaugurata, Saraya Ansar al-Sunna, creata forse da fuoriusciti da Tahrir al-Sham. Strategie di mercato, gestione "professionale" della comunicazione e della propaganda.
 
I cristiani ortodossi della chiesa di Sant'Elia a Damasco - questo ripetono più fonti e testimoni sul campo -  sono stati massacrati "per punizione", dopo che alcuni di loro avevano avuto un alterco coi militanti islamisti che andavano di continuo davanti alla chiesa con gli altoparlanti montati sulle automobili per sparare a alto volume nelle orecchie dei battezzati i versetti del Corano e i richiami a convertirsi e a aderire all'Islam. La stessa cosa - conferma l'Arcivescovo Jacques - succede anche a Homs e in tutta la Siria: «Passano con le macchine di sicurezza del governo, e dagli altoparlanti chiedono ai cristiani la conversione. Se poi noi chiediamo ragione di questi comportamenti a quelli della sicurezza, ci rispondono che si tratta di iniziative individuali. Ma intanto continuano a usare le auto della sicurezza…il popolo non crede più a questo governo».

Sponsor d'Occidente
  Intanto chi comanda oggi in Siria continua a cercare accreditamenti da parte di circoli e poteri esterni. Rappresentanti del governo si sono detti pronti a rifare l'armistizio con Israele del 1974.
 «Io» riconosce l’Arcivescovo Mourad «non sono un politico. E vedo che quasi tutto il popolo siriano desidera la pace. Desidera anche arrivare a un accordo di pace con Israele, per tutti i Paesi del Medio Oriente. Dopo tutti questi anni sono tutti veramente stanchi di questa guerra, e di considerare gli ebrei come nemici. Ma se arrivassimo adesso a un accordo con Israele, ciò avverrebbe solo perché adesso la Siria è debole. E un simile accordo, in un momento come questo, sarebbe solo un altro atto di umiliazione del popolo.  Quindi, prima che il Presidente arrivi a siglare tale accordo, bisognerebbe almeno parlare chiaro al popolo, spiegare cosa significa questo accordo, e cosa c'è dentro. Quali sono le condizioni per Israele e per i siriani».
 
L’esercito israeliano - prosegue l’Arcivescovo siro cattolico di Homs «ha occupato tanti territori siriani dopo la fine del regime di Assad. Questo vuol dire che forse dobbiamo dimenticarci per sempre delle alture del Golan. E questo vuol dire che il popolo siriano, soprattutto a Damasco, potrà sempre essere sotto minaccia con lo strumento della sete, perché l'acqua a Damasco arriva dal Golan. E se rimaniamo sotto il potere di Israele per l'acqua, immaginiamoci per le altre cose…».
 
Oggi - aggiunge padre Jacques, entrando dentro i drammi del presente siriano «la Siria è finita come Paese. Continuiamo a ripetere che è il primo Paese del mondo, che Damasco e Aleppo sono le città più antiche del mondo, ma questo nel presente non vuol dire più niente. È finita, gran parte del popolo vive sotto il livello di povertà, siamo massacrati, umiliati, stanchi. Non abbiamo la forza di riprenderci da soli la nostra dignità. Se non c'è un sostegno politico sincero a favore del popolo, e non del governo, siamo finiti.  Nessuno può condannare il popolo siriano perché emigra, e cerca salvezza fuori dalla Siria. Nessuno ha il diritto di giudicare».  In una situazione dove tutta l'economia, e il sistema educativo, e anche quello sanitario sono al collasso.

Da dove ricominciare 
  È possibile trovare delle strade per andare avanti, quando l’orizzonte è così buio e sembra mancare il respiro?
L'Arcivescovo sceglie parole forti e impegnative per tratteggiare oggi la condizione e la missione delle Chiese e dei cristiani siriani.
«Secondo me la Chiesa è l'unico riferimento di speranza per tutto il popolo siriano. Per tutto, non solo per i cristiani. Perché noi facciamo tutto per sostenere il nostro popolo, nel modo che possiamo».
 
«Dopo la caduta di Assad, tanti nelle nostre comunità e parrocchie sono entrati in una crisi di paura. Una disperazione terribile. Anche io ho fatto visite a tutte le parrocchie, in ogni villaggio, per incoraggiare i cristiani, parlare del futuro. Grazie a Dio, ogni volta io mi sento accompagnato dal Signore, nelle parole, nel discorso che faccio per il popolo. E così, in questa situazione, siamo presi a organizzare regolarmente gli incontri per i giovani, per i bambini, per i gruppi impegnati nella Chiesa in diversi modi».
 
Anche in una situazione per molti versi tragica, la vita ordinaria delle comunità ecclesiali prosegue il cammino.
E proprio le comunità ecclesiali provano a promuovere il dialogo per la convivenza tra tutti i gruppi e le componenti, in un contesto lacerato, impregnato di dolore e risentimenti.
 «A Aleppo e anche a Damasco sono veramente bravi. I Vescovi hanno dato spazio anche ai laici per riflettere e prendere l'iniziativa.
A Homs proviamo di fare incontri con tutte le altre comunità. Alawiti, ismailiti, sunniti, cristiani. Le persone che incontriamo sono tutte preoccupate per la politica del governo, anche i musulmani. Siamo uniti, perché siamo tutti sulla stessa barca, come ripeteva Papa Francesco».
 
L’incontro con Papa Leone 
  È stato Papa Leone a chiedere ai Vescovi siro cattolici di venire a Roma per tenere nella città eterna il loro Sinodo ordinario, svoltosi dal 3 al 6 luglio. «È stata un'occasione bellissima poterlo incontrare, conoscerlo e avere la sua benedizione.  Ho seguito con attenzione i discorsi che lui ha fatto parlando delle Chiese orientali e dell’Oriente cristiano. Ho approfittato di questo incontro per ringraziarlo e chiedere di incoraggiare tutta la Chiesa cattolica a prendere l'iniziativa soprattutto per sostenere il popolo siriano nelle sue urgenze primarie».

La speranza traspare nelle opere concrete 
  «Per me» sottolinea Jacques Mourad «è importante che la Chiesa si coinvolga intensamente nella ricostruzione delle scuole e di tutto il tessuto educativo in Siria. E anche che nella costruzione di ospedali decenti per il nostro popolo. Già abbiamo in funzione delle scuole, a Aleppo, a Damasco, ma non bastano. A Homs non c’è niente. Dobbiamo lavorare su questo, perché questo può aiutare anche a arginare l’emigrazione dei cristiani. Tutti i genitori pensano al futuro dei loro figli. E se non possono garantire loro scuole dove studiare e ospedali che funzionino, rimane solo la scelta di andar via. Abbiamo bisogno di tutto. Abbiamo bisogno anche di far rinascere centri pastorali e culturali che possano accompagnare la crescita anche umana e culturale dei nostri giovani. E anche di case per i giovani che vogliono sposarsi. Così si possono incoraggiare tutti i giovani a rimanere nel Paese, a non andar via».

Così il presente e il futuro dell'Arcivescovo Jacques si riempie di cose buone da fare. Mancano le risorse, ma l'orizzonte è chiaro:  «Così possiamo andare avanti, nel cammino della nostra Chiesa in Siria. Perché questa è certo la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. Questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».
«E noi per primi, i discepoli di Cristo, e chi esercita delle responsabilità a nome suo, abbiamo il dovere di proteggere i nostri fedeli e fare tutto il possibile garantire il futuro della Chiesa in Siria». 

domenica 8 maggio 2022

Siria. La crisi si aggrava ora serve cambiare passo

Volontari Maristi di Aleppo nel campo profughi di Al Shahba 

Riprendiamo da Avvenire la lettera del Direttore della ONG AVSI , impegnata con vari progetti in Siria e in Libano, della quale condividiamo preoccupazioni e obiettivi. Ancora una volta, alla prossima Conferenza UE sulla Siria vogliamo rimarcare che la prima modalità di salvaguardare 'la dignità della popolazione siriana' è togliere l'iniquo impedimento ad accedere alle risorse energetiche di cui è ricco il Paese e togliere le sanzioni che precludono alla popolazione ogni scambio economico e produttivo.   OraproSiria 

 

Caro direttore,
la tentazione di inseguire l’ultima notizia, di concentrare attenzione e risorse sull’ultima emergenza umanitaria, distraendosi da altre 'vecchie' situazioni di bisogno, resta sempre molto forte. E così non solo non si risolvono i 'conflitti dimenticati', ma il loro bilancio drammatico cresce. Per questo la conferenza internazionale sulla crisi siriana, che si tiene per la sesta volta a Bruxelles (9 maggio), merita quest’anno particolare attenzione: ci costringe a ricordare che mentre siamo tutti rivolti all’Ucraina, in Siria la pace è ancora lontana e i siriani hanno fame.

La crisi in questo Paese, scivolato in un cono d’ombra, è catastrofica: 14 milioni e 600mila persone hanno bisogno di aiuto umanitario, e tra questi sono 2 milioni e mezzo i bambini che non vanno a scuola. Un dato questo che getta sul futuro infinita preoccupazione. Chi lavora qui sul terreno da undici anni accanto ai più vulnerabili, ha il privilegio di una prospettiva diversa sui bisogni di questo popolo e desidera lanciare un appello chiaro ai grandi donatori che si riuniranno nella città belga: è tempo di cambiare modo di esserci e agire. Riconosciamo che la risposta a questa crisi con interventi d’emergenza – come fatto fin qui – non è più efficace.

Dobbiamo attivare misure che permettano di pensare a domani e dopodomani, a uno sviluppo sostenibile in Siria e in tutta la regione. Diverse situazioni politiche di certo non facilitano questa transizione, e il percorso è a ostacoli. Ma, se non modifichiamo il nostro approccio, la situazione peggiorerà.

Dobbiamo perciò ripartire da tre pilastri: salute, agricoltura ed educazione. Un’assistenza sanitaria accessibile a tutti, un’agricoltura che garantisca alle famiglie sicurezza alimentare e reddito, un’educazione che sia formazione e cura delle giovani generazioni, integrata a percorsi di sostegno psicosociale in scuole finalmente riabilitate. Su questi tre pilastri si possono realizzare progetti che coinvolgano le autorità locali e la società civile nel costruire un nuovo tessuto sociale e permettano agli sfollati di rientrare, di ritrovare una nuova normalità in luoghi non più provvisori.

Il temuto processo di 'palestinizzazione' dei rifugiati siriani va smontato favorendo la collaborazione tra i governi dei Paesi ospitanti e le comunità di profughi, che insieme possono trovare strumenti di reciproco riconoscimento, come i certificati di istruzione, formazione, stato civile. Vorremmo invitare chi si riunisce a Bruxelles a rimuovere gli ostacoli che bloccano questa ripartenza: la lentezza dei processi di approvazione dei progetti, la logica dei silos che impedisce il lavoro comune tra le diverse Direzioni Generali della Ue (che resta uno dei donatori più generosi), le banche di sviluppo, agli attori privati e la società civile.

Chiediamo ai grandi donatori di promuovere finanziamenti integrati e pluriennali con approccio regionale: non reindirizziamo i fondi destinati alla Siria verso nuove emergenze, ma aumentiamo il dialogo tra le istituzioni europee e tutti gli attori coinvolti centrandolo sulla dignità della popolazione siriana. Favoriamo la partnership tra le istituzioni e organizzazioni internazionali e le realtà della società civile, presenti sul terreno che conoscono nel dettaglio i bisogni dei siriani. Non abbiamo più tempo per indugiare in un modo di lavorare superato dalla realtà: a rischio è un capitale umano e sociale fondamentale per il Medio Oriente, per noi, per il mondo intero.

di Gianpaolo Silvestri , Segretario generale di Avsi

sabato 14 marzo 2020

 Entrando nel decimo anno di guerra in Siria

Questa opera d'arte è stata realizzata in un parco
siriano, per ricordare tutte le madri che hanno dato
alla luce i soldati che hanno perso la vita in questi
anni per la difesa del Paese. (E. Vigna)

La drammatica situazione in cui ci ha precipitato il Coronavirus forse aiuterà molti a comprendere 'sulla pelle' questa testimonianza proveniente dalla Siria, dove la gente da 9 anni vive in uno stato costante di incertezza e di tensione, dove milioni di persone subiscono le conseguenze delle sanzioni che i nostri governi impongono. 

Chiediamo con tutto il cuore che il Signore ci liberi dal male e ci renda più umani e giusti verso tutti i fratelli nel mondo.
    OraproSiria 

"IL CONFLITTO SARA' FINITO SOLO SENZA L'EMBARGO" 
Da Avvenire del 8 marzo 2020
intervista di Luca Geronico 

Ingegnere meccanico con un passato in una compagnia farmaceutica, Riad Sargi, originario di Damasco, è dal 2016 direttore di Caritas Siria, quando il suo Paese era già nel bel mezzo della guerra civile.
Il Venerdi Santo del 2019, assieme alla moglie Rouba Farah e ai tre figli, ha portato la Croce durante la Via Crucis al Colosseo.

Dottor Riad Sargi, gli ultimi appelli dell'ONU parlano di un'emergenza umanitaria che coinvolge almeno un milione di sfollati. Qual è la sua percezione di una situazione che Papa Francesco, domenica 23 febbraio a Bari, ha definito una "immane tragedia"?
  Quanto sta avvenendo ora a Idlib, è realmente una immensa tragedia, come ha detto Papa Francesco, specialmente per le donne ed i bambini. Per quanto concerne i profughi, posso assicurare che la maggior parte sono sfollati in luoghi che non sono sotto il controllo siriano, e solo alcune famiglie si sono spostate da Aleppo, Tartous, Lattakia.
Riad Sargi, direttore di Caritas Siria: gli sfollati dal Nord-Ovest
non sono nel territorio sotto il controllo del governo.
Che tipo di progetti avete in campo, o state organizzando per far fronte a questa emergenza?
  Tutti noi operatori di Caritas Siria siamo molto preoccupati per la situazione di queste famiglie di sfollati e abbiamo intenzione di cercarli per poi prenderci cura di loro. Fino ad ora i profughi sono soltanto ospitati da diverse comunità.

Caritas Siria sta operando con sei uffici regionali, organizza progetti umanitari il tutto il Paese: un lavoro di cui beneficiano, in base ai vostri report, 100.000 persone per un impegno complessivo pari a sei milioni di Euro. In generale, guardando a questi quasi 9 anni di guerra civile, qual è la maggiore difficoltà, qual è il più importante bisogno che voi, in quanto Caritas Siria, dovete soccorrere?
  Per sostenere migliaia di famiglie durante gli anni di guerra abbiamo dovuto fronteggiare enormi difficoltà, delle quali la principale è dovuta alla sanzioni economiche imposte alla Siria dalla comunità occidentale. In particolare il blocco delle transazioni bancarie è un ostacolo che ci impedisce di poter realizzare i nostri obiettivi per soccorrere i bisogni delle famiglie.

Quali sono in particolare, i rischi per la sopravvivenza della Comunità Cristiana che è in Siria che vive in una situazione di minoranza?
  Nei fatti, come comunità cristiana non dobbiamo affrontare nessuna difficoltà, dal momento che non siamo considerati una minoranza. Alla fine, siamo tutti cittadini siriani. Noi già soccorriamo tutti i bisogni delle famiglie siriane senza alcuna discriminazione. Così cerchiamo di fare del nostro meglio per essere un buon esempio nel processo di riconciliazione delle comunità locali.

Riad Sargi, quando, al di là delle dichiarazioni ufficiali, la guerra sarà realmente finita per il popolo siriano?
  La guerra in Siria finirà quando la maggior parte delle nazioni straniere avrà tolto le sanzioni alla Siria e i foreign fighters (combattenti stranieri) saranno tornati alle loro case. Allora, la riconciliazione e il perdono riempiranno i cuori di tutti i Siriani.

martedì 26 marzo 2019

Daesh. I figli e le spose del nemico

di Marina Corradi

Ha un viso giovane, ma già provato da tutta la morte passata sotto ai suoi occhi neri. Nesrin Abdullah è la portavoce delle unità combattenti curde femminili. È un ufficiale e come tante compagne ha aspramente combattuto, eppure quando incontra, nelle terre appena riconquistate al Daesh-Isis, un inviato del 'Corsera', per prima cosa non parla della vittoria, ma del destino di duemila bambini. I lettori di 'Avvenire' già sanno che anche questa storia minore e straziante (ne abbiamo cominciato a dare conto nella primavera di un anno fa con il reportage di Federica Zoja: «Spose del Daesh, le nuove perseguitate»), si sta scrivendo sotto i troppo rari titoli concessi in Occidente a una guerra poco vista e ancor meno raccontata.
E ora Nasrin dice di duemila figli delle donne del Daesh, giovani madri che li hanno educati nel mito della guerra santa per il Califfato, e che continueranno a farlo, anche se con Baghuz l’ultima roccaforte degli jihadisti è caduta. Bambini di magari cinque anni, già addestrati a sacrificarsi in attentati suicidi. Bambini, però. E Nesrin Abdullah si domanda che cosa l’esercito curdo potrà fare ora di loro, e come sarà possibile separare da madri che educano nell’odio i figli piccolissimi. Duemila figli di ceceni, turchi, tunisini, francesi, e anche italiani, raccolti con le mamme tra le rovine di Baghuz. Che ne faremo, si chiede la donna soldato Abdullah, aggiungendo con angoscia: «Per noi, è come vedere un serpente crescere nel ventre di una madre ». Immagine tremenda, ma comprensibile nella ferocia della guerra siriana. La bandiera del Daesh è stata ammainata, però cellule scampate, come in una metastasi, potrebbero riorganizzarsi.
E quei duemila bambini cresceranno rapidamente. Non si capisce, dalle parole della militare curda, se prevalga verso i figli del nemico il timore, o un’apprensione anche materna: che sarà di loro, adesso? Di loro, e delle giovanissime madri, spesso adolescenti, indottrinate alla guerra santa dai loro uomini. Che forse ora sono morti o, comunque, si sono dileguati. Ma la guerra continua: i figli sono educati al sacrificio della vita. (Chissà, nel plagio, quanta violenza devono usare su se stesse queste madri, per insinuare l’idea della morte in un figlio che hanno messo al mondo e allattato, in un figlio che amano). In un regime dittatoriale, la risposta alla domanda di Nesrin Abdullah sarebbe semplice. In un regime dittatoriale i figli del nemico, sottratti alle madri, verrebbero rinchiusi in qualche istituto di rieducazione intensiva, dove accumulerebbero odio su odio.
Ma la giovane curda sembra porsi in un’altra prospettiva, se si chiede come separare i figli dalle madri, e che fare di queste donne giovanissime. Che l’Europa ci aiuti, dice al giornalista italiano. Come immaginando che l’Occidente offra asilo e rieducazione a bambini e madri, che accolga in sé il nido del nemico e riporti queste giovani vite nell’orbita della pace.
Che grande prova, pensi, sarebbe per un’Europa stanca, e avvilita in orizzonti ristretti. Ma, temi, ci vorrebbe un altro respiro, un altro coraggio, un’altra certezza di ciò che siamo e vogliamo essere. Che fine faranno dunque i bambini del Daesh e le loro madri ragazzine? Nelle rovine ancora fumanti del Califfato nero dubitiamo che siano considerati la prima emergenza dalle potenze interessate al destino della Siria. Forse solo perché sotto la tuta mimetica di quell’ufficiale c’è una donna, questo dramma almeno per un momento torna a emergere chiaro.
Perché gli uomini, nella storia, si sono sempre preoccupati di vincere le guerre, di annientare i nemici, di issare nuove bandiere sulle terre conquistate. Ma ci sono, dietro a una guerra intestina e feroce come quella siriana, altre guerre, che non si vincono con le armi, e sono le più ardue. Sono la ricomposizione delle lacerazioni nella popolazione, e dell’ansia di vendetta; la cura degli orfani, l’educazione della nuova generazione, l’unità da ritrovare. Una vittoria militare si raggiunge bombardando, piegando, annientando. Molto maggiore è la umana fatica per ricominciare, per tessere la pace. Uccidere è un attimo, tornare a far vivere richiede anni di pazienza e fiducia nel prossimo.
Per questo i duemila piccoli figli del Daesh sono una domanda grave non solo per i curdi e la regione siriana, ma anche per l’Occidente, del Califfato nero il grande nemico. Come recuperarli dall’odio in cui sono stati allattati? E che vittoria sarebbe, già impegnarsi in una tale impresa; vittoria senza schianti di bombe, né carri armati che sfilano trionfanti. Un’altra, sommessa vittoria. Non è cosa per eserciti. Per padri, invece, e madri, per uomini e donne miti e tenaci, che non issano bandiere su campi di battaglia annichiliti nel fuoco e nella polvere.

giovedì 4 agosto 2016

La battaglia di Aleppo: quando la disinformazione impazza.....

Sono giorni drammatici per gli abitanti di Aleppo, che con l'offensiva dei russi e dei governativi  iniziavano a sperare la liberazione dai micidiali ordigni che per 4 anni hanno martoriato la città, riducendo il popolo alla disperazione, come ha testimoniato la giovane Rand Mittri alla GMG.  Ci meraviglia che perfino nella informazione cattolica oggi si diffondano versioni menzognere su quanto sta accadendo.  


Raccogliamo ancora una volta le attendibili testimonianze dei cristiani di Aleppo.

Su Avvenire oggi fra Ibrahim risponde: 
«Quando l’esercito siriano avanza con forza accadono sempre ritorsioni di questa entità. La violenza di questi giorni è provocata da chi ancora non ha voluto cedere ». Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano di Aleppo, racconta gli scontri che stanno facendo vivere alla “capitale del Nord” i giorni «più terribili dall’inizio del conflitto». Secondo alcune Ong locali, sono almeno 50 i ribelli morti dall’avvio della controffensiva lanciata da Assad assieme ai russi e sono decine i caduti tra le forze del regime. Quaranta morti – più della metà donne e bambini – il bilancio degli attacchi che nelle ultime 48 ore hanno colpito le aree sotto il controllo delle forze del regime. «Il presidente Assad ha concesso un’amnistia completa a quanti si arrendono e lasciano le armi e, stando alle notizie che ci arrivano, una buona parte dei ribelli lo ha già fatto. I corridoi umanitari creati sono stati battuti da diverse famiglie, poi accolte». Alcuni però resistono, e rispondono al fuoco con ostinazione. «A opporre maggiore resistenza sono soprattutto i combattenti stranieri. L’esercito siriano – continua il frate damasceno – sta avanzando con determinazione, e questi piccoli gruppi di jihadisti hanno reagito violentemente perché si sentono accerchiati».

Hanno cominciato a utilizzare armi chimiche, «gas nervini da cui è impossibile scappare». Alcuni colpi hanno raggiunto anche le altre succursali francescane di Aleppo, come l’ex collegio di Terra Santa. Un parrocchiano di 55 anni è morto sotto le bombe incessanti. «La gente ha paura, fatica a dormire. Nella succursale colpita di al-Ram, ieri, non abbiamo nemmeno potuto celebrare la festa della Porziuncola in chiesa. Era troppo pericoloso, ci siamo dovuti rifugiare in un seminterrato e lì abbiamo celebrato la Messa, con i pochi che avevano rischiato di uscire di casa».

È una ritorsione diversa dalle altre volte, e padre Ibrahim lo sa bene. Questa volta l’esercito è determinato a «farla finita con i terroristi che si trovano lì», come ha dichiarato l’ambasciatore di Damasco in Russia, Riad Haddad. «Sembra proprio che sia così. L’esercito ha ripreso zone sotto l’occupazione dei jihadisti, limitando i rifornimenti di armi, e gli attacchi sono diventati più violenti, più disperati ». Ultime cartucce di un’opposizione frammentaria, che tenta il tutto e per tutto per non perdere la città. «Una signora della parrocchia, sordomuta e madre di due piccoli, è stata colpita all’occhio dalla scheggia di una bomba. Se da una parte siamo convinti che questa guerra non continuerà ancora a lungo, di certo non sarà corta». Il parroco è consapevole che la crisi potrebbe durare ancora alcuni mesi, e «ho la netta sensazione che questo sia il momento peggiore. Assisto sempre più spesso a casi di febbre gialla ed esaurimenti nervosi. Il caldo è terribile e tanti soffrono di febbre notturna. Il vero dramma è che gli aleppini non sanno più dove trovare le medicine, perché anche l’emergenza sanitaria ha raggiunto picchi mai visti prima».

Secondo l’Unicef, «sono circa 1,5 milioni le persone, tra cui almeno 660mila bambini, che vivono in zone difficili da raggiungere tra il governatorato e la città di Aleppo: cifre impressionanti». «In questi giorni pieni di paura e di morte – conclude padre Ibrahim – andando per le strade vedevo uomini piangere come bambini. Seduti in strada, disperati. C’era un signore accovacciato sul ciglio di una strada che aveva già cambiato molte case, a causa degli scontri che mettevano in pericolo la sua famiglia. “Fino a quando?”, mi chiedeva, “Fino a quando dovremo vivere da profughi nel nostro Paese?”».

http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/Aleppo-stretta-finale-I-giorni-pi-atroci-1.aspx


E, in replica a Médecins sans frontières e a l'Orient le Jour, il dottor Nabil Antaki dei Fratelli Maristi di Aleppo, risponde alla giornalista Silvia Cattori: 



No, Aleppo non è assediata dall'Esercito siriano. Sono i gruppi armati che invasero alcuni quartieri orientali della città nel luglio del 2012. 

 Si, i terroristi assediavano Aleppo da quattro anni. L'offensiva dell'Esercito siriano doveva e deve liberarare la città. In parte, la missione è stata portata a termine giovedì 28 luglio, quando l'esercito ha finalmente cacciato i gruppi armati dal quartiere Bani Zeid. Questi gruppi hanno terrorizzato durante quattro anni gli abitanti di Aleppo, lanciando quotidianamente razzi e bombole di gas riempite di chiodi ed esplosivi che ogni giorno causavano decine di morti e feriti. 

 No, le strutture sanitarie non sono colpite deliberatamente dai bombardamenti aerei. Gli ospedali citati non esistevano prima della guerra e quindi, se fosse vero che esistono, questi luoghi di cura sono ospitati in edifici comuni. Inoltre, anche per ammissione di Médecins sans frontières (MSF), queste strutture sanitarie non sono state segnalate nè all'ONU, nè agli Stati Uniti, nè alla Russia. Bisogna sottolineare che gli edifici ospitanti strutture sanitarie sono anche impiegati dai terroristi per il loro sinistro lavoro: l'ospedale oftalmologico in Aleppo-est è inoltre il quartier generale di Al Nusra per la regione di Aleppo. E perché non si citano mai gli ospedali nelle zone controllate dallo Stato siriano [Ndlr], incendiati o distruttti dai terroristi sin dall'inizio del conflitto? 

 Si, i terroristi che occupano Aleppo-est fanno parte di Al Nusra, considerato gruppo terroristico da tutta la comunità internazionale (Europa et USA compresi). Dovrebbe essere neutralizzato come Daesh: la qual cosa gli aerei della coalizione internazionale a guida USA non fanno. 

 No, gli abitanti di Aleppo-est non temono di spostarsi nella parte della città controllata dallo Stato siriano, attraverso corridoi umanitari che le autorità hanno aperto perché il passaggio avvenga col minimo rischio di perdite civili, durante le incursioni o le battaglie. Al contrario, essi vorrebbero raggiungere gli altri 500.000 abitanti di Aleppo-est, già scappati dalle zone circostanti sotto controllo dei terroristi per rifugiarsi sotto la protezione dello Stato siriano. Sono i ribelli-terroristi che gli impediscono di allontanarsi e che li usano come scudi umani. 

Si, gli abitanti di Aleppo hanno sofferto per quattro anni. Hanno subito numerosi blocchi imposti dai terroristi. Un milione e cinquecentomila abitanti hanno subito penurie gravissime e nessuno ne ha parlato, nessuno si è indignato, nessuno ha protestato. 

 No, lo Stato siriano e gli alleati russi non vogliono fare vittime civili durante i combattimenti, nè vogliono provocare danni collaterali come è accaduto durante i bombardamenti francesi sul villaggio di al Tokhar del 19 luglio scorso con 164 vittime civili, o con il bombardamento americano dell'ospedale di Kunduz 

 Si, smettetela di manipolare l’opinione pubblica con la disinformazione. Ogni volta che i terroristi sono sotto assedio in qualche parte della Siria, governi e media lanciano l'allarme con la giustificazione di voler evitare una pretesa catastrofe umanitaria, quando in realtà il vero scopo è di allentare la stretta dell'Esercito governativo sui terroristi. I terroristi non cessano di colpire. Com'è che riescono ad essere riforniti di munizioni ed armi, ma vogliono far credere che non arrivano derrate alimentari e carburanti e che i civili corrono gravi rischi? 

 Nabil Antaki, Aleppo, 29 luglio 2016 
trad. Maria Antonietta Carta

sabato 2 luglio 2016

Da Istanbul a Dacca: il sospetto di una regia


di Fulvio Scaglione

lunedì 6 giugno 2016

L'oratorio estivo dei francescani chiama l'Italia


Avvenire, 4 giugno 2016
di Giorgio Paolucci

Un oratorio a prova di bomba. L’immagine non sembri irriverente né spropositata né troppo ottimistica, perché è quello che accade in questi giorni ad Aleppo e che si propone davvero come sfida alla logica umana. 

Trecentocinquanta bambini dai 3 ai 15 anni, aderendo all’invito dei frati minori che curano la parrocchia latina di San Francesco, tornano a essere protagonisti di un oratorio estivo in un contesto totalmente sfavorevole, devastato e devastante. Si gioca, si canta, si prega, si diventa amici, mentre tutto intorno si combatte, con il boato delle esplosioni a fare da sottofondo. 

È una luce nel buio della città martire della guerra siriana, definita dall’Onu la più sanguinosa dopo il secondo conflitto mondiale: 250mila morti, milioni e milioni e milioni di sfollati. Sembra incredibile, eppure accade: un’oasi di pace abitata da trecentocinquanta bambini e ragazzi, cento in più dell’anno scorso, più della metà dei piccoli cristiani rimasti ad Aleppo. Cattolici, ortodossi, armeni, melchiti, tra i quali l’esperienza dell’unità prevale sulla differenza delle antiche screziature confessionalinel segno della «gioia del Vangelo» e di quell’«ecumenismo del sangue» più volte evocato da papa Francesco proprio in riferimento alla situazione dei cristiani nel Vicino Oriente.

Quest’anno, poi, c’è una novità che riguarda direttamente il nostro Paese:l’Associazione Pro Terra Sancta, che opera al servizio della Custodia di Terra Santa affidata ai francescani dal 1217, ha proposto alle parrocchie italiane di avviare dei gemellaggi perché i piccoli siriani sperimentino la vicinanza dei loro coetanei italiani, e questi ultimi possano conoscere da vicino come si vive laggiù, con l’ausilio di un libretto che documenta la pratica delle opere di misericordia corporale, filo conduttore di questo anno giubilare (i dettagli dell’iniziativa ). 

Migliaia di bambini italiani che frequentano il "Grest" – come viene chiamato in molte nostre città l’oratorio estivo – possono leggere e vedere cosa significa concretamente dar da mangiare agli affamati, visitare gli ammalati, vestire gli ignudi, seppellire i morti. Ad Aleppo, con la sua gente. E i piccoli siriani, molti dei quali sono nati in guerra e porteranno per sempre negli occhi e nella mente il macabro ricordo del quotidiano crepitare delle armi e l’urlo straziante delle vittime, potranno trarre conforto ricevendo piccole-grandi testimonianze di amicizia: disegni, poesie, lettere provenienti dagli oratori del nostro Paese. 

«Abbiamo bisogno di questa comunione con voi», fa sapere da Aleppo padre Firas Lutfi, responsabile dell’oratorio estivo. E Ibrahim Alsabagh, il parroco, racconta che «in una Aleppo semidistrutta la gioia di stare insieme riesce a prendere il sopravvento» dentro una esperienza di vita e di amicizia nel nome di Gesù. 
Da dove viene questa irriducibile positività che potrebbe sembrare addirittura fuori luogo in un contesto di dolore come quello che da anni attanaglia l’antichissima città? Viene dalla certezza che la morte non è l’ultima parola, perché Qualcuno l’ha vinta con il sacrificio della propria vita

È una certezza generatrice di gesti che lasciano a bocca aperta. Come la preghiera recitata ogni giorno all’oratorio di Aleppo per chiedere la conversione dei cuori dei jihadisti che, poco lontano, lanciano ordigni mortali e predicano l’odio. 

O come la decisione di trasformare il residuato di una bomba caduta sulla chiesa in un vaso riempito di fiori che durante la celebrazione della messa, al momento dell’offertorio, viene portato all’altare in segno di ringraziamento. Per testimoniare che uno strumento di male può diventare strumento di bene. In quella stessa chiesa, in dicembre, era stata aperta la porta santa della misericordia, l’unica vera medicina per curare il tumore dell’odio reciproco. 

Non a caso, «Misericordiosi come il Padre nostro» è il tema che guida le otto settimane dell’oratorio estivo: sanno a Chi guardare, questi nostri fratelli che non cedono alla logica della violenza e ripongono tutta la loro fiducia in un amore capace di un perdono umanamente inconcepibile. 

«Non riusciranno ad avere la nostra paura – dice padre Firas da Aleppo –. Perché ogni giorno vogliamo sfidare le bombe e la morte con la nostra gioia di vivere». 
Di quella stessa gioia di vivere hanno bisogno i nostri figli, qui in Italia. E ne abbiamo bisogno – tanto bisogno – noi uomini e donne d’Occidente, troppo spesso incapaci di uno sguardo positivo sull’esistenza, succubi come siamo di uno scetticismo che sembra avere dimenticato il fascino di una Bellezza disarmata e disarmante, perciò ultimamente vincente. Per questo possiamo dire che oggi, davvero, da Aleppo arriva una buona notizia.

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/paolucci-luce-bambina-aleppo.aspx


«La soluzione dei problemi non verrà dalle mani dell’uomo, ma per intervento divino»


TEMPI.it , 6 giugno 2016

di Rodolfo Casadei

Di cosa sono fatti questi preti che restano sul posto, al servizio di un popolo sempre più piccolo? Questi vescovi che continuano a vigilare sul gregge anche se il pascolo è quasi diserbato e sopra ci piovono razzi e bombe? Tre quarti degli abitanti di Aleppo  se ne sono andati, in fuga per la salvezza o falciati dai cecchini e dalle esplosioni. Invece il 95 per cento del clero resiste lì dove la guerra lo ha trovato quattro anni fa, e alcuni confratelli sono giunti nel frattempo a dare manforte. Gli assenti sono quasi tutti giustificati: sono stati rapiti o uccisi nel corso della guerra. Le comunità si sono assottigliate, ma la vita comunitaria cristiana si è intensificata grazie alla dedizione dei sacerdoti. Nessuno di loro lascia mai la sua postazione, se non temporaneamente per poi tornare a servire meglio la comunità.
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Le notizie dal fronte come sempre oscillano fra l’illusione e la disperazione. Pare essere alle viste una grande offensiva delle Forze democratiche siriane, cioè curdi e arabi armati e sostenuti dal Pentagono, supportati dall’aviazione della coalizione a guida statunitense, contro Raqqa, la capitale dell’Isis. Pare che i russi abbiano concesso una tregua ai ribelli per incoraggiarli a staccarsi da Jabhat al Nusra e che vogliano unirsi all’offensiva contro Raqqa, ma gli americani hanno risposto “niet”. 
Intanto i turchi ritornano all’attacco con la loro proposta di creare una zona di non sorvolo e di protezione umanitaria all’interno del territorio siriano, garantita dalla Nato: la questione dei profughi è un puro pretesto, Erdogan vuole poter occupare fette di territorio siriano con l’approvazione della comunità internazionale o almeno di arabi e occidentali. 
I siriani come padre Ibrahim guardano con scetticismo a questi sviluppi. Ma soprattutto con una certezza di fede che spiazza l’interlocutore: «La soluzione dei nostri problemi non verrà dalle mani degli uomini, ma per intervento divino. Abbiamo fiducia nella preghiera nostra e vostra. Il futuro è avvolto nella nebbia, tanti pensano di emigrare, noi restiamo per la forza della fede».

Finiti i soldi ne arrivano altriLa parrocchia di san Francesco ad Azizieh è diventata un centro di resistenza umana non solo per le 600 famiglie di parrocchiani latini rimaste in città, ma per tutte le 12 mila famiglie cristiane ancora presenti e per i musulmani sfollati nei quartieri a maggioranza cristiana a causa della guerra. Che si tratti del pacco alimentare, delle sovvenzioni per l’acquisto di medicinali o di carburante per i generatori, dell’accesso all’acqua dei pozzi quando si interrompe l’erogazione di quella della rete cittadina, dell’oratorio estivo, del catechismo, dei gruppi di studio per gli alunni delle superiori e universitari, del té delle cinque per le signore nel cortile della parrocchia, delle visite ai malati, agli anziani, ai feriti e ai poveri («più del 90 per cento di tutti i nostri parrocchiani vive sotto la linea della povertà», dice padre Ibrahim), la parrocchia latina è diventata punto di riferimento per tantissimi aleppini in cerca di aiuto e di calore umano nella città semideserta e impoverita. Per arrivare a questo ci voleva il coraggio dei frati di restare, la capacità di intrecciare rapporti coi donatori in Europa, le qualità pastorali appropriate per una situazione limite come quella di una guerra che va avanti per anni senza che se ne intraveda la conclusione all’orizzonte.
Tutto questo non poteva condensarsi senza una maturazione di fede. Questo è ciò che il francescano spiega: 
«Ad Aleppo siamo circondati dal male, ne facciamo esperienza quotidianamente e questo male ci spaventa. Ma proprio l’azione di questo male per reazione produce in noi il bene. La nostra natura spirituale, colpita dal male, genera il bene. Nel momento in cui ci affidiamo a Dio, Lui agisce in noi attraverso il suo Spirito, ci dona la carità, e la carità ci insegna cosa fare, ci spinge oltre i nostri limiti, ci permette di affidarci alla Provvidenza. Faccio un esempio: all’inizio io avevo molto paura di spendere il denaro che mi era stato affidato, temevo di sbagliare, di restare senza, di non poter affrontare emergenze future. Quando mi sono fidato della Provvidenza, e ho svuotato le mie tasche del denaro che c’era, e ho speso come un incosciente, allora ho fatto esperienza della Provvidenza: abbiamo risposto ai bisogni, è arrivato altro denaro a prendere il posto di quello che non avevamo più, e la cosa è andata sempre crescendo. Quando leggo le cifre dei soldi che abbiamo ricevuto e speso in questi mesi, mi spavento. Mi chiedo come abbiamo fatto e come facciamo a continuare così. Mi rispondo: affidandoci allo Spirito Santo. Questo fa sorgere in noi la carità, che è virtù coraggiosa, e la carità rende presente il Regno di Dio qui e ora, in mezzo all’inferno e al purgatorio della Aleppo di tutti i giorni: famiglie rimaste senza casa, persone fatte a pezzi dalle bombe, gente che impazzisce, gente che soffre per la povertà o per le ferite». «Siamo riusciti a fare cose che gli enti istituzionali non riuscivano più a fare, a intervenire tempestivamente laddove le Ong ci mettevano mesi perché ponevano condizioni e avanzavano pretese che si possono soddisfare soltanto avendo a disposizione molto tempo. Ma nel frattempo tanti sarebbero morti, se noi non ci fossimo buttati subito».