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venerdì 18 luglio 2025

La Siria è spacciata

I raid aerei con cui Tel Aviv ha imposto alle truppe di Damasco il ritiro dalla città drusa di Sweida e bombardato il ministero della Difesa fanno da cupo presagio al futuro della Siria (Scaglione)


 Avvenire  17 luglio 2025 - di Fulvio Scaglione

I raid aerei con cui l’aviazione di Israele prima ha imposto alle truppe siriane il ritiro dalla città a maggioranza drusa di Sweida e poi ha bombardato il ministero siriano della Difesa nel cuore della capitale Damasco, dimostrando di poter colpire liberamente in qualunque punto del Paese, non parlano tanto di Israele ma fanno da cupo presagio al futuro della Siria. Per almeno due ragioni.

La prima ha a che fare con la sua storia contemporanea. Nei lunghi e drammatici anni della guerra civile, si era diffusa l’illusione che la rimozione del dittatore Bashar al-Assad avrebbe portato, quasi di per sé, a una specie di riconciliazione nazionale in nome della riconquistata libertà. Assad è scappato a Mosca ma è successo il contrario: sparatorie tra milizie curde e sunnite, bombe islamiste nelle chiese cristiane, stragi di alawiti da parte dei sunniti, una vera guerra tra i reparti sunniti fedeli al presidente al-Jolani/al-Sharaa e i gruppi di autodifesa della comunità drusa, a loro volta aiutati dagli alawiti. Tutte le vecchie faglie etnico-religiose si sono spalancate e rischiano di inghiottire il Paese, eccitate anche da un progetto di nuova Costituzione che, a credere alle voci che arrivano da Damasco, mostra più di un tratto islamista. Che corrisponde alla natura e all’origine dei nuovi governanti, ex dirigenti o capi militari del gruppo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ma ovviamente inquieta le numerose, corpose e influenti minoranze siriane.

E poi c’è la situazione internazionale. Nel 2011 Recep Tayyip Erdogan diceva di voler cacciare Assad per andare a pregare nella moschea degli Omayyadi di Aleppo. Nel dicembre scorso, lanciando all’offensiva gli uomini di HTS che aveva a lungo finanziato e armato, il presidente ha mostrato di non aver rinunciato al vecchio sogno. Anche lui, però, ha sbagliato molti conti. Fino a quel punto, infatti, aveva più o meno retto un equilibrio perverso ma utile per cui la Russia teneva a bada Assad, permetteva a Israele di attaccare le basi iraniane in Siria, trattava con la Turchia e faceva, più o meno, da elemento d’equilibrio. Non è un caso se a parlare con i capi delle comunità druse ora ribelli fossero, negli anni scorsi, più i militari russi che i funzionari assadiani.

Erdogan ha creduto che al-Jolani e i suoi potessero prendere in fretta il controllo del Paese, sottovalutando le difficoltà interne di cui sopra. In più, ha male interpretato le mosse di Israele, che del ribaltone siriano ha approfittato per allargare il cerchio delle proprie operazioni e rendere ancora più ambiziosa la propria strategia. Ora Erdogan è paralizzato: non vuole e non può fare la guerra a Israele ma non sa come difendere il “suo” al-Jolani, di bomba in bomba sempre più avviato al ruolo di sindaco di Damasco più che di presidente della Siria. Con il Nord controllato dal padre-padrone Turchia, il Golan a Sud dominato da Israele attraverso i drusi, l’Est ricco di petrolio sotto la tutela degli americani e dei loro protetti curdi.

Ed è proprio questo che giustifica i pronostici pessimistici sul futuro del Paese. Oggi tutti i Paesi occidentali corrono a stringere la mano ad al-Jolani e si affrettano a eliminare le sanzioni con cui è stato affamato per anni il popolo siriano, senza però muovere un dito per difendere la stabilità e l’integrità territoriale della Siria. È un paradosso solo in apparenza. Alle potenze regionali va benissimo poter rosicchiare parte del territorio siriano per soddisfare le loro più o meno credibili esigenze di sicurezza. Alle altre, quelle più lontane, non va male che in Medio Oriente venga realizzata l’ennesima ristrutturazione delle aree di influenza, se non anche dei confini, che in questo caso prevede la cacciata della Russia, la mortificazione delle ambizioni dell’Iran e la riduzione della stessa Siria a un piccolo Paese disarmato e fragile, avviato al ruolo di semplice piattaforma di interessi altrui. Una specie di secondo Libano, insomma, costretto a sperare nella benevolenza dei più forti. Con una certa libertà di azione, però, per Al Jolani o chi per esso. A difendere i Drusi è intervenuto Israele in base a precisi interessi strategici. A difendere gli Alawiti non è arrivato nessuno, e anche i venti cristiani uccisi in chiesa hanno destato un’attenzione insufficiente.

«Il mondo non distolga lo sguardo dalla Siria», ha detto papa Leone XIV pochi giorni fa. Ma la sensazione è che dei siriani e del loro destino importi poco. E che lo sguardo della comunità internazionale sia distolto, ma non per caso.

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FIDES, 14 luglio 2025

Arcivescovo Jacques Mourad: "Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

È tornato da pochi giorni l’Arcivescovo Jacques Mourad, dopo aver partecipato a Roma al Sinodo dei Vescovi della Chiesa siro cattolica. E subito è stato preso dalle tante cose che a Homs lo stavano aspettando. «In questi giorni celebro le prime comunioni dei bambini e delle bambine nelle parrocchie dei villaggi. È una gioia che tocca il cuore. Ringraziamo il Signore per tutti questi segni di speranza che Lui offre a noi, nella nostra povertà».

Calibra ogni parola, Jacques Mourad, quando parla del tempo che sta vivendo la sua Patria e il suo popolo.
Il monaco della comunità di Deir Mar Musa, divenuto Arcivescovo siro cattolico di Homs Hama e Nabek, ha anche lui nel cuore il tumulto per la strage dei cristiani massacrati a Damasco il 22 giugno, mentre erano riuniti con i fratelli e le sorelle per partecipare alla messa domenicale nella chiesa di Sant’Elia.

Le parole del Vescovo Jacques, nato a Aleppo e unitosi alla comunità monastica fondata dal gesuita romano Paolo Dall’Oglio, sono a tratti taglienti, mentre racconta il presente siriano.
Ripete che «Oggi la Siria è finita come Paese». Ma vede anche che, in tale naufragio, la Chiesa in Siria continua il suo cammino e la sua opera, per il bene di tutti. E ciò accade solo «perché questa è la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

La strage dei cristiani
  Il nuovo potere che domina a Damasco cerca parole rassicuranti. Anche dopo la strage nella chiesa di Sant’Elia, rappresentanti governativi ripetono che i cristiani sono una componente ineliminabile del popolo siriano. «E io voglio dire» scandisce l’Arcivescovo Mourad «che il governo porta direttamente la responsabilità di tutto quello che è successo. Perché ogni governo è responsabile della sicurezza del popolo. E non parlo solo dei cristiani. Anche tanti sunniti, tanti alawiti sono stati uccisi, tanti sono spariti. Se una squadra mandata da qualche organismo internazionale venisse a ispezionare le carceri, adesso ci troverebbe tanta gente che non ha nulla a che fare con i crimini del regime passato. Credo si possa dire che questo governo sta perseguitando il popolo. Tutto il popolo».

L’Arcivescovo siro cattolico di Homs percepisce ostilità anche nelle formule rassicuranti utilizzate dal nuovo regime siriano verso i battezzati: «Ogni volta che sento parlare della “protezione” dei cristiani, sento che siamo messi sotto accusa. E sotto minaccia. Sono formule usate non per manifestare benevolenza, ma per incriminare. Quello che devo dire è che questo governo fa le stesse cose fatte dal regime di Assad contro il popolo. Ambedue i regimi, quello di Assad e quello di adesso, non hanno alcun rispetto per il popolo siriano e la sua storia».
 
Siria finita 

La Siria - riconosce l’Arcivescovo Jacques - ha una grande eredità, e ha il presente del suo popolo giovane. «Ma gli ultimi governi «sembrano voler annichilire, distruggere, questa civilizzazione, la civiltà di questo popolo. È un crimine mondiale, non riguarda solo noi».
 «L’Unesco proclama patrimonio dell'umanità tanti luoghi della Siria. Poi nessuno li protegge. E ora abbiamo bisogno di proteggere il nostro patrimonio vivente, non solo i monumenti».
 
Prima i megafoni, poi il terrore
   Le sigle del terrore cambiano spesso la loro “griffe”. Fonti governative siriane, per l'attentato alla chiesa di Damasco, hanno chiamato in causa non meglio specificati militanti di Daesh, lo "Stato Islamico". Ma a rivendicare la strage dei cristiani è stata una sigla jihadista appena inaugurata, Saraya Ansar al-Sunna, creata forse da fuoriusciti da Tahrir al-Sham. Strategie di mercato, gestione "professionale" della comunicazione e della propaganda.
 
I cristiani ortodossi della chiesa di Sant'Elia a Damasco - questo ripetono più fonti e testimoni sul campo -  sono stati massacrati "per punizione", dopo che alcuni di loro avevano avuto un alterco coi militanti islamisti che andavano di continuo davanti alla chiesa con gli altoparlanti montati sulle automobili per sparare a alto volume nelle orecchie dei battezzati i versetti del Corano e i richiami a convertirsi e a aderire all'Islam. La stessa cosa - conferma l'Arcivescovo Jacques - succede anche a Homs e in tutta la Siria: «Passano con le macchine di sicurezza del governo, e dagli altoparlanti chiedono ai cristiani la conversione. Se poi noi chiediamo ragione di questi comportamenti a quelli della sicurezza, ci rispondono che si tratta di iniziative individuali. Ma intanto continuano a usare le auto della sicurezza…il popolo non crede più a questo governo».

Sponsor d'Occidente
  Intanto chi comanda oggi in Siria continua a cercare accreditamenti da parte di circoli e poteri esterni. Rappresentanti del governo si sono detti pronti a rifare l'armistizio con Israele del 1974.
 «Io» riconosce l’Arcivescovo Mourad «non sono un politico. E vedo che quasi tutto il popolo siriano desidera la pace. Desidera anche arrivare a un accordo di pace con Israele, per tutti i Paesi del Medio Oriente. Dopo tutti questi anni sono tutti veramente stanchi di questa guerra, e di considerare gli ebrei come nemici. Ma se arrivassimo adesso a un accordo con Israele, ciò avverrebbe solo perché adesso la Siria è debole. E un simile accordo, in un momento come questo, sarebbe solo un altro atto di umiliazione del popolo.  Quindi, prima che il Presidente arrivi a siglare tale accordo, bisognerebbe almeno parlare chiaro al popolo, spiegare cosa significa questo accordo, e cosa c'è dentro. Quali sono le condizioni per Israele e per i siriani».
 
L’esercito israeliano - prosegue l’Arcivescovo siro cattolico di Homs «ha occupato tanti territori siriani dopo la fine del regime di Assad. Questo vuol dire che forse dobbiamo dimenticarci per sempre delle alture del Golan. E questo vuol dire che il popolo siriano, soprattutto a Damasco, potrà sempre essere sotto minaccia con lo strumento della sete, perché l'acqua a Damasco arriva dal Golan. E se rimaniamo sotto il potere di Israele per l'acqua, immaginiamoci per le altre cose…».
 
Oggi - aggiunge padre Jacques, entrando dentro i drammi del presente siriano «la Siria è finita come Paese. Continuiamo a ripetere che è il primo Paese del mondo, che Damasco e Aleppo sono le città più antiche del mondo, ma questo nel presente non vuol dire più niente. È finita, gran parte del popolo vive sotto il livello di povertà, siamo massacrati, umiliati, stanchi. Non abbiamo la forza di riprenderci da soli la nostra dignità. Se non c'è un sostegno politico sincero a favore del popolo, e non del governo, siamo finiti.  Nessuno può condannare il popolo siriano perché emigra, e cerca salvezza fuori dalla Siria. Nessuno ha il diritto di giudicare».  In una situazione dove tutta l'economia, e il sistema educativo, e anche quello sanitario sono al collasso.

Da dove ricominciare 
  È possibile trovare delle strade per andare avanti, quando l’orizzonte è così buio e sembra mancare il respiro?
L'Arcivescovo sceglie parole forti e impegnative per tratteggiare oggi la condizione e la missione delle Chiese e dei cristiani siriani.
«Secondo me la Chiesa è l'unico riferimento di speranza per tutto il popolo siriano. Per tutto, non solo per i cristiani. Perché noi facciamo tutto per sostenere il nostro popolo, nel modo che possiamo».
 
«Dopo la caduta di Assad, tanti nelle nostre comunità e parrocchie sono entrati in una crisi di paura. Una disperazione terribile. Anche io ho fatto visite a tutte le parrocchie, in ogni villaggio, per incoraggiare i cristiani, parlare del futuro. Grazie a Dio, ogni volta io mi sento accompagnato dal Signore, nelle parole, nel discorso che faccio per il popolo. E così, in questa situazione, siamo presi a organizzare regolarmente gli incontri per i giovani, per i bambini, per i gruppi impegnati nella Chiesa in diversi modi».
 
Anche in una situazione per molti versi tragica, la vita ordinaria delle comunità ecclesiali prosegue il cammino.
E proprio le comunità ecclesiali provano a promuovere il dialogo per la convivenza tra tutti i gruppi e le componenti, in un contesto lacerato, impregnato di dolore e risentimenti.
 «A Aleppo e anche a Damasco sono veramente bravi. I Vescovi hanno dato spazio anche ai laici per riflettere e prendere l'iniziativa.
A Homs proviamo di fare incontri con tutte le altre comunità. Alawiti, ismailiti, sunniti, cristiani. Le persone che incontriamo sono tutte preoccupate per la politica del governo, anche i musulmani. Siamo uniti, perché siamo tutti sulla stessa barca, come ripeteva Papa Francesco».
 
L’incontro con Papa Leone 
  È stato Papa Leone a chiedere ai Vescovi siro cattolici di venire a Roma per tenere nella città eterna il loro Sinodo ordinario, svoltosi dal 3 al 6 luglio. «È stata un'occasione bellissima poterlo incontrare, conoscerlo e avere la sua benedizione.  Ho seguito con attenzione i discorsi che lui ha fatto parlando delle Chiese orientali e dell’Oriente cristiano. Ho approfittato di questo incontro per ringraziarlo e chiedere di incoraggiare tutta la Chiesa cattolica a prendere l'iniziativa soprattutto per sostenere il popolo siriano nelle sue urgenze primarie».

La speranza traspare nelle opere concrete 
  «Per me» sottolinea Jacques Mourad «è importante che la Chiesa si coinvolga intensamente nella ricostruzione delle scuole e di tutto il tessuto educativo in Siria. E anche che nella costruzione di ospedali decenti per il nostro popolo. Già abbiamo in funzione delle scuole, a Aleppo, a Damasco, ma non bastano. A Homs non c’è niente. Dobbiamo lavorare su questo, perché questo può aiutare anche a arginare l’emigrazione dei cristiani. Tutti i genitori pensano al futuro dei loro figli. E se non possono garantire loro scuole dove studiare e ospedali che funzionino, rimane solo la scelta di andar via. Abbiamo bisogno di tutto. Abbiamo bisogno anche di far rinascere centri pastorali e culturali che possano accompagnare la crescita anche umana e culturale dei nostri giovani. E anche di case per i giovani che vogliono sposarsi. Così si possono incoraggiare tutti i giovani a rimanere nel Paese, a non andar via».

Così il presente e il futuro dell'Arcivescovo Jacques si riempie di cose buone da fare. Mancano le risorse, ma l'orizzonte è chiaro:  «Così possiamo andare avanti, nel cammino della nostra Chiesa in Siria. Perché questa è certo la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. Questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».
«E noi per primi, i discepoli di Cristo, e chi esercita delle responsabilità a nome suo, abbiamo il dovere di proteggere i nostri fedeli e fare tutto il possibile garantire il futuro della Chiesa in Siria». 

martedì 18 febbraio 2025

Per il bene della Siria servirebbe un’Europa coesa e con le idee chiare

I Paesi dell'Unione europea mostrano una volontà evidente di non perdere il treno della nuova Siria. Il problema vero, per l’Unione europea un po’ debole e sbandata di questi tempi, è che non basta avere a che fare con il presidente Al-Sharaa per risolvere le questioni.

di Fulvio Scaglione 

Quasi emarginata nell’avvio del negoziato tra Usa e Russia sull’Ucraina, l’Unione europea si è presa una certa rivincita su Donald Trump per quanto riguarda la Siria del post-Assad e del presidente ad interim Ahmad al-Sharaa (l’al-Jolani di quando lo consideravano un terrorista, nome di battaglia che ha definitivamente abbandonato forse anche per ragioni scaramantiche, visto che significa «quello del Golan», territorio sempre più occupato dalle truppe di Israele).

Nella gran corsa a trovare udienza presso il nuovo signore della Siria, i diplomatici europei si sono segnalati per tempestività. I ministri degli Esteri francese e tedesco sono arrivati a Damasco il 3 gennaio, il vicepremier e ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani il 10 gennaio, la commissaria Ue per la Gestione delle crisi Hadja Lahbib il 17 gennaio. In quest’ultima occasione è stato anche annunciato il varo di un pacchetto di aiuti umanitari Ue del valore di 235 milioni di euro. Ancor più importante, è stato avviato un processo di revoca delle sanzioni europee contro la Siria, a patto naturalmente di «vedere rispettato lo stato di diritto, i diritti umani, i diritti delle donne». Delle sanzioni si è discusso al consiglio dei ministri degli Esteri Ue del 27 gennaio, con l’idea di approvare un piano d’azione nella successiva riunione del 24 febbraio, avendo in mente soprattutto l’allentamento delle restrizioni su petrolio, gas e trasporti (ma non ancora sulle operazioni finanziarie).

Insomma, una volontà molto evidente di non perdere il treno della nuova Siria, soprattutto in un momento in cui i precedenti patron di Assad, ovvero la Russia e l’Iran, sembrano in palese difficoltà. Il problema vero, per l’Unione europea un po’ debole e sbandata di questi tempi, è che non basta avere a che fare con il presidente Al-Sharaa per risolvere le questioni. 

C’è la partita dello Stato islamico, che dipende dalle proclamate intenzioni di Donald Trump di ritirare le truppe Usa dal territorio siriano. 

C’è la partita dei curdi, che dipende dalle strategie del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che è stato il “padre” dell’azione anti-Assad. 

C’è la partita della ricostruzione in cui il Qatar – grande finanziatore del movimento Hayat Tahrir al-Sham di cui Al-Sharaa/Al-Jolani è stato il capo – giocherà argomenti importanti. 

E c’è la grande questione del Libano e del Golan, dove bisognerebbe poter esercitare una qualche influenza sul premier israeliano Benjamin Netanyahu, al quale finora la Ue ha fatto da sponda passiva. 

Insomma, anche per il bene della Siria servirebbe un’Europa coesa e con le idee chiare. Per ora, purtroppo, non se ne vede gran traccia.

https://www.terrasanta.net/2025/02/lue-cerca-una-rotta-nel-medio-oriente-che-muta/

venerdì 31 gennaio 2025

Siria, tutti alla corte di al-Jolani presidente


 di Fulvio Scaglione

Tra lo scetticismo diffuso dei rifugiati siriani all’estero prosegue il difficile "dopoguerra" in Siria. L'uomo forte Ahmed al-Sharaa (detto al-Jolani) il 29 gennaio è stato ufficialmente proclamato presidente ad interim. E i governi stranieri sembrano dar credito all'ex terrorista.

Facciamo un’ipotesi di pura fantasia. Yahya Sinwar, il capo dei terroristi di Hamas che organizzò le stragi di cittadini israeliani (e non solo) del 7 ottobre 2023 non è morto il 16 ottobre 2024 per mano dei soldati di Israele. Anzi: è sopravvissuto e ha guidato i palestinesi all’attacco dello Stato ebraico, dove è riuscito a prendere il potere. Adesso i rappresentanti di tutti i Paesi che, quando era solo il capo di Hamas, lo consideravano un terrorista e rifiutavano qualunque rapporto con lui e con la sua organizzazione, accorrono a Gerusalemme (ovviamente capitale del nuovo Stato da lui guidato) per incontrarlo. Sono arrivati rappresentanti degli Usa e della Ue, della Russia e dell’Italia. Gli Usa hanno ritirato la taglia che gli avevano messo sul capo e l’Unione europea è sul punto di ammorbidire le sanzioni che aveva deciso contro Gaza e Hamas. 

Pura fantasia, si diceva. Ma qualcosa del genere è successo veramente in Siria, dove nessuno prevedeva il crollo repentino del regime di Bashar al-Assad  e men che meno immaginava che un terrorista di lungo corso come Ahmed al-Sharaa, detto al-Jolani («quello del Golan»), l’uomo che nel 2011 Abu Bakr al-Baghdadi, il capo dello Stato islamico (Isis), aveva mandato in Siria per combattere Assad e che poi era passato ad al Qaeda, potesse diventare il padrone del Paese. Che cosa siano stati l’Isis e al Qaeda lo ricordiamo tutti benissimo. Eppure, ora che al posto di Assad c’è al-Jolani, ogni scrupolo è caduto. Gli Usa, la Russia e tutti i Paesi arabi sono corsi a rendergli omaggio e a promettere buone relazioni, e l’Unione europea, come detto prima per scherzo, sta lavorando a un piano per eliminare parte delle sanzioni (nel settore energia e trasporti, soprattutto) rimaste in vigore per oltre dieci anni e in parte responsabili della miseria in cui si trova il popolo siriano. Il tutto mentre il mondo intero sa che dietro al Jolani c’è il presidente turco Erdogan, non uso a fare beneficenza, che già occupa una fascia di territorio siriano nel Nord e che ha approfittato anche di quest’ultimo colpo di scena per bombardare i curdi. 

Al-Jolani, che ha abbandonato la mimetica per un più sobrio completo, ovviamente promette moderazione, rispetto per tutte le etnie e le minoranze, apertura al resto del mondo e buone relazioni con tutti. Qualche fatto a supporto delle parole si è pur visto: il Natale dei cristiani, per esempio, è stato rispettato e le festività sono trascorse in un discreto clima. Da altri luoghi della Siria, per esempio dalla fascia costiera dove sono concentrati gli alawiti (la minoranza cui appartenevano gli Assad) giungono invece voci e immagini di rastrellamenti e violenze. 

Vedremo. Un dopoguerra come questo non è facile per nessuno, nemmeno per uno come al-Jolani (ufficialmente proclamato capo dello Stato ad interim il 29 gennaio 2025 – ndr). E la speranza in questi casi è un dovere. Anche se il primo scetticismo di cui tener conto è quello dei rifugiati siriani all’estero, che proprio non sembrano affollarsi alle frontiere per tornare in patria il più in fretta possibile. 

Certi voltafaccia, però, non possono passare così lisci, quasi inosservati, come se la Siria fosse passata dalle mani di un delinquente a quelle di un benefattore. Sa troppo di speculazione. Ai bambini siriani che in questi anni sono morti per la carenza di medicine e strutture ospedaliere generata dalle sanzioni chi glielo spiega che sono stati sacrificati perché un giorno la Siria potesse essere governata da al-Jolani?

https://www.terrasanta.net/2025/01/siria-tutti-alla-corte-di-al-jolani-presidente/

mercoledì 26 gennaio 2022

L'assalto alla prigione di Hassakeh: a chi giova il ritorno di Daesh ?

 Continua da giorni, violenta e senza esclusione di colpi, nel nord-est della Siria la battaglia di Al-Hasaka, per stoppare un tentativo di evasione di detenuti dell'Isis. Molte le forze in campo, alto il numero delle vittime. Le responsabilità internazionali...

di Fulvio Scaglione

Al-Hasaka, nel nord-est della Siria. Dovremmo segnarci nome e posizione di questa città dove, ormai da una settimana, infuria una battaglia. Riepilogo: il 20 gennaio due auto-bomba vengono lanciate contro i portoni dell’ex scuola che, ad Hasaka appunto, è stata trasformata in una prigione fetida dove sono ammassate circa 4 mila persone. È un colpo ben organizzato, che mira a far fuggire centinaia di detenuti che appartengono (o sono sospettati di appartenere) all’Isis e che dopo le esplosioni vengono forniti di armi. Inizia così la battaglia che dura ancora adesso e che ha visto l’intervento a terra delle Forze democratiche siriane (milizie formate da curdi e da elementi delle tribù arabe ribelli al presidente Bashar al-Assad), i bombardamenti degli elicotteri statunitensi e le incursioni dei commando inglesi e americani.

Con tutto questo spiegamento di forze, gli aspiranti evasi, pur decimati (si parla di 200 morti), ancora resistono in un’ala del carcere. E i loro complici scatenano scontri improvvisi per le strade della città. È un combattimento brutale. Il carcere è stato bombardato senza alcuna remora e i militanti dell’Isis hanno usato come scudi umani decine di ragazzi delle loro famiglie, in cella con loro, mentre i bambini e le donne sono in altri campi di detenzione. Almeno un civile è stato decapitato e molti altri sono stati uccisi. Migliaia di famiglie hanno lasciato Hasaka per non essere coinvolte.

Vedremo quando e come finirà. Ma due considerazioni s’impongono in ogni caso. La prima è che, con ogni evidenza, i resti del sedicente Stato islamico si stanno in qualche modo riorganizzando. Le notizie che arrivano dalla Siria dicono che la base dei revanscisti sia nella zona di Deir ez-Zor, dove i nuovi adepti dell’Isis si finanziano con estorsioni ai danni degli allevatori e di coloro che estraggono petrolio illegalmente con macchinari improvvisati. In quell’area, il Centro informazioni del Rojava (l’entità autonoma creata dai curdi nel nord-est della Siria – ndr) ha documentato 19 attacchi armati nel solo mese di novembre 2021. E 11 soldati iracheni sono stati uccisi in una recente incursione oltre frontiera.

Aggiungendo lo sfacelo dell’economia siriana, piagata dalle sanzioni internazionali, e la peggiore siccità degli ultimi settant’anni, si ottiene la miscela perfetta per promuovere la vecchia ricetta jihadista. Bisognerebbe fare qualcosa ma la cosiddetta “comunità internazionale”, tra i Paesi che ancora sognano di veder tracollare Assad e quelli che lo appoggiano ma non hanno la forza necessaria, si è abbandonata a un’inerzia che si scarica sul popolo siriano.

L’altra considerazione è che, in mancanza di una decente soluzione politica per la Siria, dovrebbe almeno prodursi un minimo di sensibilità umanitaria. Ma i Paesi europei rifiutano di accogliere i “loro” jihadisti, ovvero quegli europei che ora sono prigionieri ma che partirono da Francia, Germania e Regno Unito per andare a distruggere la Siria. Quel che è peggio, però, è che rifiutano anche i figli incolpevoli di quegli stessi jihadisti, lasciandoli a soffrire nei campi di prigionia e nelle carceri, abbandonati alla custodia dei curdi che, a loro volta, dopo un decennio di guerra, non ne possono più di fare i carcerieri.

https://www.terrasanta.net/2022/01/la-battaglia-di-hasaka-riporta-lisis-alla-ribalta/

mercoledì 27 maggio 2020

Da Assad bacchettate agli oligarchi: un'opportunità per una Siria migliore

di Fulvio Scaglione
27 maggio 2020

All’ombra della tregua imposta a Idlib dalle pressioni internazionali e dal coronavirus, a Damasco partono i primi regolamenti di conti tra il presidente Bashar al-Assad e gli oligarchi che, negli anni tremendi della guerra, hanno accresciuto le proprie fortune e, soprattutto, hanno preteso di proiettare qualche ombra sul vertice siriano. Le due cose vanno di pari passo. L’economia della Siria è a pezzi e il contesto esterno non fa che accrescere le già enormi difficoltà. Le sanzioni americane ed europee bloccano gran parte dei commerci e degli investimenti. E la profonda crisi finanziaria del Libano, con il blocco delle attività bancarie, fa il resto, visto che almeno un terzo della liquidità in dollari dei siriani giace in quei forzieri ora inservibili. La lira siriana sprofonda: 48 lire per un dollaro prima della guerra, 700 per quasi tutti gli anni del conflitto, 1.200 adesso.
Assad ha quindi l’assoluta necessità di tenere sotto controllo le risorse del Paese. Le speculazioni personali, prima tollerate come strumento di costruzione del consenso, ora non sono più (tutte) permesse. Soprattutto se chi ha ammassato miliardi speculando sulla benevolenza del regime e sull’economia di guerra aspira a un ruolo che non gli compete.
Il caso più clamoroso è quello di Rami Makhlouf, cugino di Assad e nipote di Anisa Makhlouf, moglie di Hafez al-Assad. Makhlouf è l’uomo più ricco della Siria, tanto che prima del conflitto gli si attribuiva, forse esagerando, il controllo più o meno diretto del 60 per cento delle attività economiche del Paese. È noto come proprietario di Syriatel, una delle due compagnie telefoniche nazionali, ma i suoi interessi spaziano dall’immobiliare al petrolio, dal commercio alla televisione, in pratica ovunque ci sia da guadagnare. In Siria ma anche nel vicino Libano, dove possiede alberghi di lusso e catene di ristoranti.
Makhlouf ha goduto per lungo tempo del favore di Assad, ovviamente. Ma negli ultimi tempi, come si usa dire, si è un pò allargato. Non si tratta delle spacconate da super-ricco cui era abituato un tempo (per esempio, le foto circondato dalle Ferrari del suo parco macchine) e a cui non sanno rinunciare i suoi figli Muhammad e Alì, che si sono vantati su Facebook di avere due milioni di dollari ciascuno nel conto corrente. Sbrodolate che, in una Siria quasi alla fame, con metà della popolazione ancora sfollata o rifugiata all’estero, sono di pessimo gusto e anche poco furbe. Gli errori “pesanti” di Makhlouf sono di altro genere.
Il cugino ricco di Assad, durante la guerra, ha creato una milizia che è arrivata a contare diverse migliaia di uomini. Una formazione armata che, pagata milioni di dollari dal governo siriano, avrebbe dovuto difendere una serie di campi petroliferi e impianti per la distribuzione del gas naturale come quello di Hayyan, che riforniva un terzo della Siria. Avrebbe, perché nella realtà è passata da un fallimento all’altro, il più clamoroso proprio ad Hayyan, dove l’impianto da 300 milioni di dollari fu fatto saltare in aria dai terroristi dell’Isis. Di quella milizia, però, Makhlouf ha provato a servirsi anche per costruirsi un’influenza presso la comunità alawita, alla quale si è proposto (tra l’altro, con donazioni in denaro e in generi di prima necessità) come protettore e come leader para-religioso, in nome di un maggiore avvicinamento alla comunità sciita. Operazione sul fronte interno del tutto speculare a quella condotta sul fronte esterno, in particolare in Libano, dove Makhlouf ha stretto i rapporti con Hezbollah, anche a suon di dollari. Altro passo falso, perché Assad, alawita e laico, tutto vuole tranne che nella sua comunità d’origine venga seminato il germe della divisione e dell’integralismo.
Così Assad ha cominciato a tirare le briglie. Syriatel è stata investita da una serie di ispezioni finanziarie che hanno rivelato un sistema per caricare i bilanci di spese fasulle e quindi ridurre l’imponibile per la tassazione. Il governo ha disdetto una serie di contratti che aveva con le aziende di Makhlouf. Le scuole private che l’oligarca possedeva a Damasco sono state nazionalizzate. La sua milizia sciolta. A buon intenditor…

mercoledì 22 gennaio 2020

I calcoli spregiudicati di Trump in Siria


di Fulvio Scaglione 
Quante cose in più capiremmo se solo riuscissimo ad affrancarci dall’abitudine di considerare delle specie di minorati mentali tutti i leader che non ci piacciono. È successo con Boris Johnson, che alla fine con la sua idea di Brexit ha convinto gli inglesi. E succede regolarmente con Donald Trump. Prendiamo la politica in Medio Oriente, che è «sua» quando pare fallimentare ed è di altri (generali, consiglieri, Stato profondo) quando pare avere successo. In particolare, guardiamo le ultime vicende relative alla Siria.
Il 6 ottobre scorso Trump annunciò l’intenzione di ritirare le truppe (un migliaio di soldati) dispiegate sul territorio siriano. Pochi giorni dopo, però, arrivò l’annuncio contrario: non ci ritiriamo, restiamo. Tutti cominciarono a dire: ecco, il solito confusionario. Sicuri? A posteriori, e visti anche gli esiti della crisi semi-militare con l’Iran, la realtà sembra un po’ diversa. A Trump (o a chi per lui) interessava garantire a Erdogan la possibilità di occupare una fetta di territorio siriano. Non a caso il 17 ottobre Mike Pompeo, segretario di Stato Usa, volò a Istanbul per incontrare il presidente turco e consegnarli l’approvazione della Casa Bianca al piano che sarebbe stato poi condiviso anche dalla Russia di Vladimir Putin.
E veniamo alle truppe mai ritirate. Trump spiegò che le lasciava nel Nord-Est della Siria per mettere sotto controllo i pozzi di petrolio siriani. Aggiunse anzi che avrebbe cercato di coinvolgere una qualche grande compagnia petrolifera americana, per fare le cose per bene. Anche in quel caso Trump fu dileggiato. Qualcuno fece notare che i pozzi siriani estraevano, prima della guerra civile, meno di 400 mila barili al giorno, un’inezia per gli Usa che, grazie allo shale oil, sono diventati il primo produttore mondiale di petrolio. E che, ovviamente, nessuna compagnia petrolifera aveva risposto al suggerimento presidenziale, visto che i costi sarebbero stati molto superiori ai ricavi.
Ma è davvero un po’ di petrolio ciò che cerca Trump in Siria? In realtà, controllando quei pochi pozzi la Casa Bianca centra una serie di obiettivi. Azzoppa la rinascita della Siria di Bashar al-Assad, che prima del 2011 vantava una quasi assoluta autonomia energetica. Tiene sotto pressione l’Iran e le milizie sciite filo-iraniane che operano nel confinante Iraq. Dà da pensare a Russia e Turchia, che sempre più spesso (dopo la Siria, anche in Libia) filano d’amore e d’accordo. In caso di necessità, ha risorse economiche pronte per finanziare le milizie curde fedeli agli Usa.
Il tutto, tra l’altro, a un costo ridicolo. I mille soldati americani che fanno la guardia ai pozzi siriani sono lo 0,5 per cento di tutte le truppe che gli Usa dispiegano all’estero. E dal momento dell’intervento in Siria nel 2014, sono morti sul campo «solo» otto soldati americani. Dal punto di vista americano, e chiunque l’abbia deciso, un intervento redditizio.
https://www.terrasanta.net/2020/01/trump-e-la-siria-da-unaltra-prospettiva/

lunedì 28 ottobre 2019

Al Baghdadi non serve più

l'operazione contro lo Stato islamico a Barisha ha lasciato solo terra bruciata
di Fulvio Scaglione
Famiglia Cristiana, 27/10/2109
Il suo vero e completo nome era Ibrahim Awed Ibrahim Ali al-Badri al-Samarra’i, in breve Ibrahim di Samarra. Era nato molte volte. La prima, quella per i genitori e per l’anagrafe, appunto a Samarra il 28 luglio del 1971. Ma era nato di nuovo nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, quando era entrato nei ranghi di Al Qaeda. Un’altra volta era nato nel dicembre del 2004, quando era stato rilasciato da Camp Bucca, un carcere americano per terroristi in Iraq, dopo una detenzione di pochi mesi. Altra nascita nel maggio del 2010, quando diventa il capo del ramo iracheno di Al Qaeda. Ultima e definitiva nascita il 29 giugno del 2014, allorché viene proclamato califfo dello Stato islamico con il nome di Abu Bakr al-Baghdadi. L’uomo dalle molte nascite è morto una volta sola e per sempre. Poche ore fa, nella provincia siriana di Idlib dove sono ormai radunati gli ultimi irriducibili dell’Isis e delle altre formazioni islamiste. E, per dirla con Donald Trump, il Presidente più splatter della storia, è morto “piangendo e urlando come un codardo”.
Più prosaicamente, Al Baghdadi ha cercato di sfuggire alle truppe speciali Usa piombategli addosso su otto elicotteri e, quando si è visto in trappola, si è fatto saltare insieme con tre dei suoi figli. È lo stesso Al Baghdadi che il 30 aprile di quest’anno era comparso in un video “stile Osama”, ambiente anonimo, kalashnikov al fianco, minacce per tutti. La sua seconda apparizione pubblica dopo quella di cinque anni prima, il sermone tenuto alla Grande Moschea di Mosul, l’esordio come califfo dello Stato dell’islam armato che avrebbe dovuto ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Cinque anni di riuscita latitanza, mentre i servizi segreti di mezzo mondo gli davano la caccia e lui era costretto a muoversi in ambienti dove il tradimento è all’ordine del giorno, erano quasi un record. Infatti scrissi allora che, con ogni evidenza, Al Baghdadi a qualcuno serviva ancora. 
Bisogna scrivere oggi, quindi, che Al Baghdadi non serviva più. E che la sua morte manda a tutti noi una serie di messaggi di grande interesse. Il primo è questo: certifica che il pericolo di una rinascita dell’Isis, di cui si è molto favoleggiato sulla stampa occidentale per via della triste sorte dei curdi che ne tengono molti nelle prigioni da loro controllate nel Rojava e nel Nord-Est della Siria, era appunto una favola. È chiaro, potranno esserci azioni disperate e sanguinose da parte di qualche residuo aspirante martire. Ma Al Baghdadi non serve più, in questa fase, perché è proprio dell’Isis che non c’è più bisogno.
Il progetto (saudita, qatariota, turco, americano e chi più ne ha più ne metta) di inserire una zeppa di estremismo sunnita nella Mezzaluna Fertile dominata dagli sciiti, e in particolare tra Siria e Iraq, chiamandolo Califfato, è fallito. Ha quasi annichilito la Siria e ha tenuto centinaia di milioni di persone con il fiato sospeso ma è fallito. L’Isis può tornare a dormire. Rinascerà con altro nome e altri leader quando i suoi signori e padroni, pieni di miliardi, riterranno di averne bisogno, come hanno avuto in passato bisogno dei mujaheddin del popolo, di Al Qaeda, degli estremisti ceceni, di Al Nusra o di uno qualunque dei tanti movimenti che, tra Medio Oriente e Asia, parlano molto del Corano ma sono in realtà al servizio di precisi piani politici. 
Nel Nord della Siria succedono cose che vanno ben oltre l’Isis e quei fanatici senz’arte nè parte che da tempo sono rimasti senza soldi e senza protettori. Per capirlo sarebbe bastato osservare la sequenza degli eventi che si sono scaricati sui curdi. Eccola, in estrema sintesi. Trump annuncia il ritiro delle truppe Usa. Poche ore dopo l’esercito turco già si muove contro le postazioni dei curdi. Trump rinforza con migliaia di uomini le basi americane in Arabia Saudita. L’Iran annuncia una serie di manovre militari al confine con la Turchia ma non se lo fila nessuno. I turchi avanzano in Siria verso Sud. Anche i siriani avanzano, verso Nord. Vladimir Putin e Recep Erdogan si incontrano e si accordano su una gestione comune dell’area. 
Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non capire che alla base di questi eventi c’è un accordo, più o meno tacito, tra Turchia, Usa e Russia, una sorta di grande compromesso per uscire da una situazione che non vedeva (e non avrebbe potuto vedere) né vinti né vincitori. Che cosa c’entra tutto questo con Al Baghdadi? Intanto è un po’ sospetto che il grande latitante sia stato pizzicato proprio in coda a quei fatti. La sua eliminazione, probabilmente, era uno dei capitoli di quel contratto tra potenze. Fa fare “bella figura” a tutti. Soprattutto a Donald Trump che, con il fragore di questa notizia, cancella tutto quel gran parlare di “tradimento dei curdi” che poteva diventare una macchia della sua campagna elettorale. E infatti, a eliminazione di Al Baghdadi avvenuta, Trump ha ringraziato i siriani, i turchi e soprattutto i russi che hanno messo a disposizione alcune basi e i curdi che hanno collaborato al raid. Ulteriore conferma che questi Paesi, in teoria avversari o nemici, si stanno parlando, e tanto. Succede qualcosa di nuovo, in quella parte di Medio Oriente. Prima o poi capiremo anche cosa.

giovedì 16 maggio 2019

Quella lezione al mondo intero dei Cristiani di Siria

di Fulvio Scaglione
16 maggio 2019

La guerra in Siria, come ci dimostrano le cronache, era tutt’altro che conclusa. Da giorni l’offensiva dell’esercito di Damasco e delle truppe russe contro Idlib e l’ultimo caposaldo di ribelli e jihadisti provoca altre centinaia di migliaia di sfollati e moltissimi morti tra i civili. 
L'immagine può contenere: 7 persone, persone in piedi, persone che camminano, folla e spazio all'apertoTra loro, anche sei bambini uccisi da un missile nel villaggio cristiano di Al-Squalbiyeh.
Mentre il dramma continua, proprio la situazione dei cristiani consente di allargare lo sguardo sull’intera regione. In Siria, come si sa, in questi otto anni di guerra più di metà degli abitanti ha dovuto abbandonare la propria casa. Milioni di persone si sono trasformate in sfollati interni (quasi 6,5 milioni) o rifugiati all’estero (quasi 5 milioni). Tra coloro che hanno dovuto o voluto abbandonare il Paese ci sono, ovviamente, anche molti cristiani. Secondo uno studio di Aiuto alla Chiesa che soffre, già nel 2017 il numero dei cristiani di Siria si era dimezzato, passando dal 10 al 5% della popolazione (circa 20 milioni di persone nel 2011). In certi luoghi il crollo è stato verticale: ad Aleppo, i quattro anni di assedio e di bombardamenti hanno ridotto i cristiani dai 150mila del 2011 ai 35-40 mila attuali.  
 Ai numeri, comunque indicativi, andrebbero aggiunte altre considerazioni. Per esempio: l’esodo ha spesso privato le comunità cristiane, e la Siria intera, della classe dirigente, della borghesia delle professioni e dei mestieri, decisiva soprattutto quando si dovrà avviare l’opera di ricostruzione del Paese. E l’opera indefessa delle Chiese, che si battono per far tornare in patria i loro fedeli acquistando biglietti aerei, trovando appartamenti ai senza tetto, pagando in parte o in toto le pigioni, scovando o addirittura inventando posti di lavoro, pare spesso una goccia nel mare dei bisogni. 
Per quanto si possa essere pessimisti, però, una cosa è già chiara: non succederà in Siria quanto è successo in Iraq, dove la comunità cristiana nel suo insieme è arrivata vicina all’estinzione. Prendiamo, per l’Iraq, i numeri forniti da Sua Beatitudine Louis Raphael I Sako, patriarca della Chiesa caldea cattolica. Prima dell’invasione anglo-americana del 2003 in Iraq c’era un milione e mezzo di cristiani. Nel 2014 ne restava mezzo milione. Poi, in quell’anno, arrivò l’Isis e ora i cristiani sono ridotti a 300mila. Molti dei quali tuttora ammassati nei campi profughi del Kurdistan.
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In estrema sintesi: mentre i cristiani dell’Iraq rischiano di sparire, quelli di Siria hanno sofferto e soffrono ma resistono come parte importante del mosaico etnico-religioso del Paese. Questo per due ragioni fondamentali. La prima è che la Siria ha un innegabile Dna cristiano. Qui si sviluppò, per opera di san Paolo convertito, non a caso, sulla via di Damasco, il cattolicesimo come noi lo conosciamo. Qui, tra fine Ottocento e primi del Novecento, e quasi sempre per opera di pensatori cristiani, nacque il nazionalismo panarabo e poi il nazionalismo siriano. 
Qui, negli anni atroci di questa guerra civile, le Chiese cristiane hanno saputo proporsi come un modello di intervento sociale superiore a qualunque divisione politica, etnica o confessionale.
L’altra ragione, piaccia o no ammetterlo e qualunque opinione si abbia di Bashar al Assad e dei suoi, è che in Siria i cristiani nono sono stati abbandonati. Il governo o, per chi preferisce, il regime, si è occupato dei cristiani, ha cercato di difenderli, ha esaltato il loro ruolo nella società siriana. In Iraq è successo esattamente il contrario. Essendo una minoranza pacifica e disarmata, i cristiani sono diventati il bersaglio di tutte le parti in guerra. E chi avrebbe dovuto proteggerli, soprattutto nel 2003, cioè prima i governi invasori di Usa e Regno Unito e poi il governo da loro insediato, si è di fatto disinteressato della loro sorte.
Per tutte queste ragioni ai cristiani del Medio Oriente, e soprattutto ai cattolici, servirebbe ora un segno forte di sostegno da parte della Santa Sede e di papa Bergoglio. Intendiamoci, l’attenzione è sempre stata altissima. Basterebbero a dimostrarlo la nomina a cardinale, nel 2016, di monsignor Mario Zenari, dal 2008 nunzio vaticano a Damasco, un inedito nella storia della Chiesa visto che mai prima era accaduto che un diplomatico vaticano ottenesse la porpora. E anche la nomina del patriarca Sako a membro del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
Ma è inutile nascondere che ciò che i cristiani del Medio Oriente ora si aspettano è un viaggio di papa Francesco, che è appena stato negli Emirati Arabi Uniti e in Marocco e che nel 2020 dovrebbe partecipare alla Conferenza per il dialogo cattolico-islamico organizzata a Beirut dalla Lega musulmana mondiale, anche nelle loro tormentatissime terre. La Siria è una meta troppo complessa per l’enorme valenza politica che un simile viaggio porterebbe inevitabilmente con sé. Ma non l’Iraq, dove il sostegno di Roma ai profughi non è certo mancato in questi anni. L’Iraq dove il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, si è recato lo scorso Natale. L’Iraq dove i cristiani rischiano di sparire come presenza visibile e organizzata. Diverse fonti vaticane, e in prima persona il cardinale Parolin attraverso una lunga intervista a Tv2000, hanno fatto sapere che “per un viaggio del Papa in Iraq ci devono essere quel minimo di condizioni che permettano al viaggio stesso di realizzarsi ma che attualmente non esistono”. Il pensiero va ai problemi della sicurezza, tuttora cruciali nel Paese dove, per fare un solo esempio, con ogni probabilità da cinque anni latitante lo stesso Al Baghdadi. Nondimeno, e proprio per questo, posando anche solo un piede in Iraq, papa Francesco farebbe un’ineguagliabile iniezione di coraggio a chi ha scelto di testimoniare la fede fino al possibile martirio.  In un’epoca in cui la persecuzione dei cristiani è diventata, secondo tutti gli indicatori, un allarme mondiale.
https://it.insideover.com/senza-categoria/cristiani-siria-lezione.html

lunedì 23 luglio 2018

I cristiani di Siria e la cecità dell’Occidente


La Siria era e rimane una terra ricca di spiritualità, nonostante il lungo conflitto che continua a tormentarla. Una domanda sorge spontanea: come hanno vissuto la guerra i cristiani di Siria? In questa intervista (seconda puntata del nostro dialogo-approfondimento sul conflitto nel Paese arabo) il reporter di guerra Fulvio Scaglione ci racconta la vita e le sofferenze di una comunità antichissima, che abita quelle terre da due millenni.
Intervista a Fulvio Scaglione di Alessandro Bonetti 

D: In questi anni c’è stata nella guerra siriana anche una forte persecuzione anticristiana. Com’è il rapporto fra cristiani e musulmani che vivono fianco a fianco?
R: Se si guarda al Medio Oriente in generale, la Siria era quasi un’oasi dal punto di vista dei rapporti interreligiosi. C’erano decine di gruppi diversi che comunque convivevano e andavano avanti. Adesso i rapporti fra cristiani e musulmani sono improntati a grande comprensione, tolleranza e stima reciproche. I cristiani hanno sicuramente fatto tanti punti durante questi anni della guerra perché, avendo una maggiore esperienza e capacità nell’intervento umanitario e caritativo, hanno oggettivamente fatto tanto e per tutti: porte aperte, nel senso che anche tanti musulmani hanno goduto dell’accoglienza nei tempi difficili.   Quindi, a livello di gerarchie, c’è sicuramente una grande disponibilità all’intesa, il che non vuol dire che non ci siano poi dei problemi sul terreno. Per fare un esempio, ad Aleppo, ma non solo lì, molti cristiani sono scappati e nei quartieri cristiani sono arrivati a vivere molti musulmani, molti più musulmani di prima. Questo, detto così, non sembra niente. Però in una situazione come quella del Medio Oriente, dove le comunità hanno un fortissimo ruolo, cominciare a incrinarle non è una cosa piacevole; è una cosa che i cristiani non vivono bene e che molti musulmani vivono come una sorta di occupazione, perché nei quartieri cristiani si vive bene, sono di solito quartieri più calmi, più ordinati.    Comunque, certe tensioni sono passate ma non sono dimenticate. È ovvio che, comunque la si giri, anche se quella siriana non è stata una guerra di religione, chi ammazzava tanta gente innocente erano dei musulmani o sedicenti musulmani. Loro, quelli dell’Isis e di altri gruppi jihadisti, si considerano dei buoni musulmani, anzi i migliori musulmani.   Quindi è un’esperienza che ha in ogni caso lasciato un segno. Dovranno essere molto in gamba le rispettive gerarchie, perché questa cosa ha lasciato delle cicatrici profondissime nel Paese in tutti i sensi. Non è così semplice. Anche se, ripeto, c’è un grande sforzo da parte degli esponenti delle chiese cristiane e dell’islam siriano per superare questi traumi.
D: A proposito di gerarchie, proprio gli alti prelati cristiani di Siria in questi anni hanno parlato molto contro il coro mediatico, dicendo cose che spesso a noi, abituati a una certa narrazione del conflitto siriano, sembravano strane. Si sono schierati a volte apertamente a sostegno di Assad…
R: … ma certo, senza se e senza ma. Nessuno di loro ritiene che il sistema siriano sia perfetto o non sia migliorabile, questo assolutamente no. Però Assad è comunque il presidente dei siriani e loro sono siriani. Bisogna poi tenere presenti alcune questioni. Punto primo: lo spirito nazionale siriano. Noi siamo abituati a parlare di sciiti, sunniti, eccetera, ma in Siria c’è un forte spirito nazionale.   Punto secondo: mentre noi ci siamo raccontati un po’ di balle, i siriani hanno visto che sono arrivati a combattere settanta-ottantamila stranieri, tunisini, egiziani, europei, e di altre nazionalità. Per loro è un’invasione, non è una guerra civile. Nel momento in cui arrivano dall’estero settanta-ottantamila mercenari, fanatici e ideologizzati ma mercenari, bombardamenti americani, bombardamenti israeliani, i turchi, loro non la vivono come una guerra civile, loro la vivono come un’aggressione internazionale contro il loro Paese.  In ogni caso quando gli esponenti delle chiese cristiane dicono che, prima della guerra, la Siria rispetto allo standard del Medio Oriente era un’oasi di convivenza religiosa hanno ragione, non mentono, dicono una cosa giusta, sacrosanta. Quindi non c’è da stupirsi.  Poi qui stiamo parlando di fanatismo sterminatore alla Al-Baghdadi, ci siamo solo noi [occidentali n.d.r.] che sono sette anni che andiamo avanti con questa storia della rivolta democratica. La rivolta democratica è durata due settimane. Gli altri sei anni e cinquanta settimane sono stati semplicemente una guerra di terrorismo finanziata dall’esterno contro un Paese che non era in guerra con nessuno. È inutile che ce la raccontiamo. Quindi non c’è assolutamente da stupirsi che i cristiani stiano dalla parte di Assad e del suo governo. È assolutamente normale. Siamo noi che non siamo normali, siamo noi che non abbiamo avuto uno sguardo obiettivo nei confronti di questa crisi. Anzi, abbiamo avuto uno sguardo molto di parte.   Inoltre, non dimentichiamo che molti cristiani siriani hanno preso le armi contro i jihadisti. Ci sono dei posti come Sednaya che hanno una storia significativa. A Sednaya c’è un grande monastero ortodosso: è un villaggio in montagna dove c’è questo centro religioso molto antico e dove la componente cristiana è maggioritaria. Gli abitanti si sono autotassati, hanno comprato le armi, hanno costruito delle difese intorno al loro villaggio e al monastero e quando si sono presentati i miliziani di Al-Nusra gli hanno sparato addosso e hanno avuto anche dei morti.
Su questa questione dei cristiani poi c’è qualche bello spirito anche in ambito cattolico che pontifica a vanvera e dice che i cristiani fanno così perché Assad ha dato loro dei privilegi. Innanzitutto i cristiani non godono di nessun privilegio rispetto alle altre confessioni religiose, men che meno nei confronti dei musulmani. Punto secondo: in Medio Oriente è così. In Medio Oriente la comunità, qualunque sia, sciita, cristiana, ortodossa, cristiana cattolica, non esiste se non ha una proiezione esterna. Deve avere una proiezione nella vita della società, che vuol dire scuole, ospedali, attività. Per avere questo è ovvio che in qualche modo si deve avere un rapporto con il potere politico. Ma questo vale per tutto il Medio Oriente. Forse i cristiani copti in Egitto non hanno un rapporto politico con Al-Sisi? È così dappertutto. Quindi questa obiezione è ridicola. Terza cosa: in un Paese come l’Italia che ha addirittura il Concordato che certifica i rapporti fra Stato e Chiesa, accusare i cristiani del Medio Oriente di avere una relazione politica con chi comanda fa veramente ridere. È normale, è così. Dev’essere così.
D: Quindi in definitiva cos’è che manca nella comprensione da parte di noi occidentali di quello che è successo in Siria in questi sette anni?
R: Manca tutto, è il nostro atteggiamento generale che è patetico. Guarda questa cosa degli attacchi chimici: erano tutti lì con la mano sulla bocca [si riferisce alla campagna sui social in cui alcuni personaggi pubblici si facevano ritrarre con la mano davanti alla bocca per protestare contro un presunto attacco chimico compiuto dal governo siriano, n.d.r.] e adesso il primo rapporto degli ispettori dell’OPAC è negativo. Quindi questi, i vari Saviano e compagnia bella, sapevano già tutto, erano già assolutamente certi dell’attacco mentre gli ispettori, che sono degli specialisti nel campo e hanno ricevuto nel 2013 il premio Nobel per la loro attività contro le armi chimiche, dopo mesi di indagini ancora non hanno trovato nulla? È chiaro: c’è una colossale opera di propaganda.
Inoltre, la nostra civiltà vive costantemente il cosiddetto tradimento dei chierici, cioè gli intellettuali e i giornalisti possono raccontarcela come vogliono ma alla fine dicono tutti quello che il potere vuole che loro dicano. Finisce sempre così. Credono di fare delle grandi battaglie ma alla fine sono manovrati e strumentalizzati. Nel 2011 si arrivava sull’onda delle primavere arabe e allora sembrava che anche in Siria dovesse succedere qualcosa… Certo, c’erano delle ragioni per protestare contro il governo di Assad, c’erano ragioni di insoddisfazione, ma se nessuno avesse messo il becco nella crisi siriana, come sarebbe finita? Sarebbe finita probabilmente come in Egitto e nessuno ha pensato che bisognava fare la guerra per la democrazia in Egitto. Perché in Egitto no e in Siria sì? Perché in Siria c’erano degli altri interessi: infatti abbiamo visto affluire i miliardi dai Paesi del Golfo, decine di migliaia di combattenti chissà come… Qui crediamo ancora che sia stata una cosa spontanea, ci raccontiamo che circolava la voce su Internet e allora settanta-ottantamila persone raccolte in mezzo mondo, ai quali non fregava niente dei palestinesi e di nessuna causa più o meno democratica del Medio Oriente, di colpo volevano portare la libertà in Siria… Come si fa a credere a queste stronzate?   Ma lo si vede in tutto. Si fanno tante storie sulla libertà di stampa in Turchia e si sono santificati quei giornalisti che sono stati messi in galera e poi sono scappati in Germania, ma non si dice mai perché erano finiti in galera. Quei giornalisti turchi non sono finiti in galera per l’astratta libertà di stampa, ma perché hanno rivelato e denunciato che Erdogan forniva le armi all’Isis. Questo però non viene detto mai. Erdogan, finché dava le armi all’Isis, nessuno l’ha criticato. Abbiamo cominciato dopo a scoprire che era antidemocratico… È tutto così.
E noi abbiamo questo mito della democrazia, dietro cui nascondiamo tutte le porcherie che ci piace fare. Ma il Medio Oriente non è nato ieri, il Medio Oriente e il mondo islamico in particolare hanno una storia più che millenaria. Non ci viene il pensiero del perché in tutto questo tempo loro non hanno avuto neanche una filosofia della democrazia o una discussione sulla democrazia? Sporadicamente qui e là personalità ne hanno parlato, ma non c’è un dibattito collettivo su questo tema nella loro storia. Forse perché non gli interessa o forse perché per la loro tradizione, cultura, realtà non è il sistema migliore. Perché l’alternativa è pensare che sono tutti cretini, sono 500 milioni di cretini e hanno bisogno che arriviamo noi e gli diciamo “oh, c’è la democrazia”, “ah, già è vero”. Come si fa a pensare così? Come è possibile? Però gli stupidi vanno appresso a questa cosa. Poi ci sono quelli intelligenti, che non sono in buona fede, che aderiscono a un progetto politico folle, demenziale, che produce solo disastri. Perché in Afghanistan è un disastro, in Iraq è stato un disastro, in Libia è stato un disastro, in Siria è stato un disastro. Questo progetto non produce altro che casini, però qualcuno ci crede. Ma non ci si può credere in buona fede, se ci credi in buona fede sei veramente uno scemo.