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domenica 13 settembre 2015

Il dramma di Aleppo: manca tutto

Gli scontri, migliaia di morti, 7 milioni di sfollati: è questa la Siria oggi. La città più colpita diventa però il simbolo della rinascita: tre coraggiosi frati francescani aiutano la gente portando acqua, cibo e aiutando gli studenti.

di Maria Acqua Simi

Quattro anni di guerra, oltre sette milioni di sfollati, metà del Paese in balìa di gruppi di briganti e ribelli islamisti o delle milizie dell’ISIS. Mentre l’altra metà - quando non si combatte nelle città, quartiere per quartiere - è ancora sotto il debole controllo dell’esercito regolare del presidente Bashar al Assad. È questa la Siria da cui centinaia di migliaia di persone stanno fuggendo: cristiani, musulmani, curdi. È la Siria di Aylan, il bambino annegato al largo delle coste turche e la cui foto (vedete l’editoriale) ha fatto il giro del mondo.

La grande fuga
Qualcuno cerca di arrivare in Europa, altri in Canada o in Australia. Ma sono i più ricchi. I poveracci muoiono per strada, rimangono intrappolati sui confini o nelle città siriane teatro di violenze indicibili. Senz’acqua, elettricità, lavoro, medicine. Sia le forze di sicurezza che i gruppi “ribelli”  hanno condotto diverse operazioni  su larga scala in villaggi e città, sfociate in esecuzioni di  massa, uccisioni, arresti,  conversioni forzate, rapimenti  e torture. In questo caos molte imprese, specialmente esportatrici  e importatrici, hanno chiuso i battenti.
Le folle di turisti che erano la linfa di un’industria moderna e fiorente che aveva creato milioni di posti di lavoro nei trasporti, nel settore dei servizi e degli alloggi, non vengono più. L’embargo internazionale sta impedendo qualunque possibilità di esportare, mentre i prezzi si sono impennati. Aleppo è forse l’esempio più grande di tutto questo. Proviamo a raccontarlo, con gli occhi di un amico francescano che è laggiù, padre Ibrahim, e che vogliamo provare ad aiutare nei prossimi mesi con una colletta del GdP, proprio come è stato ed è per i cristiani iracheni in fuga dall’ISIS, a Erbil, qualche mese fa.

La vita ad Aleppo
La casa di Bassam e della sua famiglia si trova a Middàn, che in arabo significa “campo”. Da quando è scoppiata la guerra in Siria, quattro anni fa, questo quartiere di Aleppo si è trasformato in un campo, sì, ma di battaglia. La zona è abitata prevalentemente da famiglie cristiane di origine armena, con molti figli ed è un dedalo di strade strette e case costruite una sopra all’altra, i negozi incollati alle abitazioni, le finestre piccole, gli edifici invece alti anche cinque o sei piani.
La casa di Bassam è a metà di una di queste: uno spazio modesto, due stanze e una cameretta dove si possono sedere quattro persone strette strette.  Era così, prima che una bomba di gas, seguita da alcuni colpi di mortaio, distruggesse lo sgabuzzino e incendiasse l’edificio vaporizzando in pochi secondi le povere cose che arredavano gli interni». La zona di Middàn ha subìto e continua a subire la sorte peggiore.
Le famiglie, in maggioranza poverissime, non ce la fanno ad abbandonare le case poiché non hanno altro luogo in cui rifugiarsi. Se ne stanno rintanate nelle loro case a distanza di solo 100 metri dalle milizie armate. la casa di Bassam ora ha un tetto di zinco, perché rifarlo in muratura è troppo rischioso». Ce lo racconta padre Ibrahim Alsabagh, 44 anni, francescano siriano parroco della comunità latina di Aleppo.  È grazie all’amicizia con lui e ai suoi racconti che possiamo entrare nel cuore della città, incontrare la famiglia di Bassam e la gente di Middàn. Che poi sono le famiglie di Maloula, Raqaa, Latakia, Knayeh, Yakoubieh e di altri nomi antichissimi che popolano i villaggi di questa bella e antica terra. Una terra che oggi ha bisogno di tutto.

L’emergenza sanitaria
Ad Aleppo la parrocchia di San Francesco, quella di padre Ibrahim, si trova nel quartiere di Azizìeh, zona ancora sotto il controllo del l’esercito regolare di Damasco. I frati - che in Siria vivono da secoli - sono presenti anche nella chiesa di Sant’Antonio di Padova, e poco lontano a El Ram, nel Convento di San Bonaventura.
Nonostante la linea del fronte sia ad un passo, con bombe e cecchini in ogni angolo, ospitano dalle 7 di mattina alle 20 di sera studenti universitari e liceali che vogliono studiare ma non hanno più un luogo dove farlo. Accolgono tutti: cristiani, musulmani, curdi.
Aiutano a distribuire l’acqua e il cibo, hanno realizzato un oratorio per i bambini, cercano di aiutare la gente a  pagare gli affitti e le rette scolastiche anche se ora si è aggiunta la drammatica emergenza sanitaria.
Occorrono nuovi fondi per fornire cure mediche e comprare medicine: molti medici  hanno abbandonato il Paese o sono stati uccisi e imprigionati. Ad Aleppo molto spesso è quasi impossibile eseguire interventi per la mancanza di acqua ed elettricità.  Per mancanza di farmaci chemioterapici i trattamenti sono sospesi e i prezzi delle operazioni più banali lievitati: oggi una semplice appendicite costa 1500 dollari invece di 400.  Sono in grave aumento le epidemiie e così l’impegno più grande dei francescani di Terra Santa è quello di riparare uno dei pochi ospedali rimasti in piedi nella città. Padre Ibrahim e i suoi fratelli non hanno però paura.

«Nonostante i nostri sensi ci dicano che non c’è più speranza e che Aleppo non avrà un domani, con gli occhi della fede continuiamo a vedere una salvezza per il nostro popolo. Continuiamo a sperare che, là dove gli uomini falliscono nella ricerca della pace, il Signore Risorto riuscirà. Noi saremo lì fino all’ultimo, punto di riferimento per i nostri e forse anche per gli altri. Basta guardare a come siamo diventati amici di tanti musulmani che prima - quasi - non guardavamo in faccia.  E poi tutta la solidarietà internazionale, che ci permette di sopravvivere. Anche se a volte non è sufficiente, ogni giorno sperimento il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci».

«Ne vale la pena»
Chiediamo a Ibrahim se vale la pena di rimanere, se c’è qualche segno di speranza. Ed è con la sua risposta che vogliamo chiudere questo articolo. «Valeva la pena di visitare le case semi-distrutte con gli uomini, le donne, i ragazzi e i bambini  che le abitano? Ho continuato a pormi questa domanda fino a quando il buon Pastore stesso ha mi dato la risposta, con un’altra domanda che spiega tutto: “Valeva la pena di toccare il lebbroso, prima di guarirlo? Non si poteva cioè guarirlo senza toccarlo?”.
Se si tratta di manifestare la tenerezza di Dio che distrugge tutte le divisioni e le barriere fra l’uomo e il suo Dio, se si tratta di manifestare il Suo Amore verso la Sua creatura colpita e martoriata, sì, stare qui vale la pena, perché ci ricorda come anche oggi Gesù non si vergogna di toccare la lebbra, pur di manifestare quanto Lui è presente».

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I 14 frati della Custodia di Terra Santa non hanno mai lasciato il Paese in guerra e operano in diverse zone: Lattakia, Damasco, Aleppo e in alcuni villaggi della valle Orontes.
Portano aiuti alla popolazione locale senza distinzione di appartenenza religiosa o nazionalità. Hanno anche creato quattro centri di accoglienza, che provvedono ai bisogni più immediati dei più poveri della popolazione: acquisto di cibo, indumenti e coperte in vista dell’inverno.  Si cerca anche di tamponare l’emergenza sanitaria dispensando medicine e provvedendo all’assistenza medica fondamentale, specialmente attraverso l’ospedale di Aleppo e i dispensari medici dei monasteri francescani. Cercano poi di offrire  sostegno agli sfollati trovando loro soluzioni di alloggio in caso le loro abitazioni non siano più accessibili, o ricostruendo le loro case.



«Aleppo, i martiri di una guerra che è artificiale»


Appesi alla speranza

Intervista  Padre Rodrigo Miranda
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«La Siria non è divisa. Si mantiene come un blocco e quello è ciò che dà loro forza. Quello fa anche arrabbiare chi la vuole distruggere. Il popolo non ha mai chiesto questa catastrofe in nome di chissà quale libertà. Chi vuole la distruzione della Siria? Gruppi terroristici finanziati e, spesso, composti da stranieri, appoggiati dalle potenze dell’Occidente, con un gruppo manipolato e minimo di siriani. In quelli che vengono chiamati “ribelli” ci sono circa 33 diversi gruppi, composti da quasi 83 Paesi diversi. Dall'altra parte si trova il governo e il popolo siriano. Il conflitto in Siria è stato conformato in questo modo fin dall'inizio e non con l'arrivo di Isis. Per questo dico che è un conflitto “artificiale”, perché è stato creato ad hoc da vari anni, premeditato da amministrazioni di Paesi che oggi tentano di apparire come i salvatori del Medio Oriente, ma che sono i colpevoli (identificati da tutti laggiù) della sofferenza». 
......     LEGGI QUI L'INTERVISTA:
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-aleppo-i-martiri-di-una-guerra-che-e-artificiale-13745.htm

PER SOSTENERE LE OPERE DEL VICARIATO APOSTOLICO DI ALEPPO:
Delegazione di Terra Santa - Banca CARIGE Agenzia 11 - ROMA
Iban:  IT48A0343105018000000155180
CAUSALE: Vicariato Apostolico di Aleppo

venerdì 20 febbraio 2015

Aleppo, un parroco racconta la battaglia nella città martire simbolo di una "guerra artificiale"



Padre Rodrigo Miranda, cileno, ha trascorso gli ultimi quattro anni nell'inferno della città siriana. Ha assistito i suoi parrocchiani durante i tre anni di assedio tra le violenze, le uccisioni, i sequestri. Ha vissuto in prima persona la battaglia iniziata nell'estate del 2012, che più delle altre riassume la tragedia della popolazione. "La gente non ha mai chiesto un cambiamento, né politico, né culturale. Stava bene come stava. Non voglio canonizzare Assad, ma tra i ribelli solo il 2% sono siriani, la maggioranza sono stranieri, di 83 diverse nazionalità"

Repubblica.it, 
 17 febbraio 2015
di ALESSANDRA BENIGNETTI e ROBERTO DI MATTEO


ROMA - Padre Rodrigo Miranda, quarant'anni, cileno, è un missionario dell'Istituto del Verbo Incarnato che ha trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita in Siria, nell'inferno di Aleppo. Parroco della Cattedrale del Bambino Gesù, dal 2011 ha assistito i suoi parrocchiani durante i tre anni di assedio della città, tra le violenze, le uccisioni e i sequestri. A Roma è tornato da pochi mesi, e qui lo abbiamo incontrato per ascoltare la sua testimonianza. La testimonianza di chi ha vissuto in prima persona la battaglia per Aleppo che, iniziata nell'estate del 2012, più di tutte le altre riassume la tragedia della popolazione siriana. Quella della gente, che abitava la città più ricca e popolosa della Siria e che d'un tratto si è ritrovata al centro di uno scontro violentissimo tra i ribelli e l'esercito di Assad, costato la vita a migliaia di civili.


Un conflitto artificiale.  "Con il suo mosaico di culture e religioni, Aleppo è sempre stata una città modello della convivenza tra cristiani e musulmani" ci racconta Padre Rodrigo, e "la guerra è arrivata all'improvviso, contro persone che mai si sarebbero aspettate una reazione del genere di fronte ad un conflitto artificiale". Ci incuriosisce quest'ultima affermazione. "La popolazione siriana", spiega il sacerdote, "non ha mai chiesto un cambiamento, né politico, né culturale. Mai. La gente stava bene così come stava". "Con questo non voglio canonizzare Assad", continua, "ma voglio dire che il conflitto è stato il frutto di un processo estremamente veloce e violento. Tra i combattenti dell'esercito libero, infatti, solo il 2% sono siriani. La maggioranza sono stranieri, di 83 diverse nazionalità".

Le persecuzioni contro i cristiani.  Prima della guerra, ad Aleppo i cristiani erano circa 300.000. Dei 4.000 fedeli che frequentavano la parrocchia di Padre Rodrigo, oggi ne sono rimasti solo 25. Gli altri sono scappati, oppure "sono stati uccisi, soprattutto donne e giovani". "Molti sequestrati" racconta il sacerdote. In effetti, i cristiani, più di altri, in Siria, sono stati presi di mira dai gruppi islamici radicali. "Succede perché hanno una grande influenza in molti settori della società, e perché hanno la capacità di dialogare, di aprirsi all'altro, di rispettarlo. Quando sentiamo che l'Isis avanza nel nord dell'Iraq o della Siria è perché queste zone sono popolate da cristiani, e la risposta di un cristiano è molto diversa rispetto a quella di altri". Sul fronte umanitario, poi, la situazione non migliora: "ieri ho parlato con i miei parrocchiani: non hanno acqua, luce ed elettricità da dodici giorni. Le promesse delle Nazioni Unite di inviare aiuti sono rimaste solo promesse".

Un grado di violenza inaudito.  A pochi metri di distanza dalla parrocchia di Padre Rodrigo si trovava l'università di Aleppo, che il 15 gennaio del 2013 è stata il teatro di un violento attentato in cui hanno perso la vita centinaia di giovani studenti. "Era mezzogiorno, l'ora di punta, quando sono caduti i tre missili. L'università era piena e molte persone erano in strada" ci racconta. "Quando è caduto il primo missile ho iniziato ad aiutare le persone che avevo davanti a me. Poi mentre stavo correndo verso l'università per aiutare gli altri, ho visto il secondo missile che arrivava. Ho cercato di rifugiarmi tra un muro e alcune auto. Ho sentito un rumore, uno strano silenzio, e poi il disastro. È stato un massacro". 
"All'inizio", continua, "hanno detto che i missili erano dell'esercito di Assad. Ma il nostro quartiere è controllato dall'esercito: sarebbe come dire che hanno sparato contro loro stessi. Poi, che l'esercito aveva colpito per sbaglio. Ma se sbagli, sbagli una volta, non tre. L'altra ipotesi è che siano stati i ribelli, che sparavano per colpire l'esercito che controlla il nostro quartiere".  Il ricordo che è rimasto più vivido nella mente del sacerdote è proprio il "grado di violenza contro i civili". Ascoltiamo il suo racconto e ci viene in mente solo una domanda, la più banale. Non ha mai avuto paura? Mai, ci risponde sorridendo: "in quei secondi non riesci neanche ad avere paura. Pensi soltanto ad aiutare".

Le bugie dell'informazione.  "Quello che il popolo siriano desidera sopra ogni altra cosa è che fuori dalla Siria si racconti finalmente cosa succede davvero in Siria". La disinformazione riguardo il conflitto, secondo il sacerdote, è stata enorme. 
Gli chiediamo qual è la bugia più grande: "quella dei 'regimi', il voler catalogare a tutti i costi come 'dittatorì tutti quelli che non fanno come vogliono loro", ci risponde senza esitare. "Non si può applicare la 'democrazià come la intendiamo noi, in Paesi dove c'è un substrato culturale totalmente diverso: il rispetto della diversità e della cultura dell'altro è il presupposto per garantire la pace". Altrimenti, il rischio è quello di "una radicalizzazione sempre maggiore". Che è pronta a diffondersi anche in Europa, come già sta accadendo.

http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2015/02/17/news/aleppo-107564261/