Dialogo
con Suor Marta - Rimini,
21 agosto 2023
La
mostra racconta il senso del nostro essere là. Questo ha a che fare
un po’ con storia del Mediterraneo: il Mediterraneo come luogo di
incontro delle culture. La vita monastica nasce nel III secolo in
Egitto ma anche in Siria, per noi dunque è il ritorno alle origini.
Poi in Occidente si sviluppò il ramo benedettino, da san Benedetto
ai Cistercensi che sono la riforma del 1090, con un ritorno alla vita
più conforme alla regola, più semplice. Fino alle radici più
vicine a noi, la nascita delle nostre comunità italiane,
Vitorchiano, Valserena, da cui siamo poi nate noi.
Vedrete
nella mostra i 4 punti essenziali: Citeaux, Valserena, Tibhirine –
i monaci dell’Algeria che per noi sono stati la spinta di tutto
questo – e poi la Siria. . Con la morte dei Fratelli di Tibhirine,
oltre alla celebrazione del loro sacrificio, si è scoperta la loro
vita, una comunità molto precaria che l’Ordine voleva chiudere
perché non avevano possibilità di vocazioni, dovevano sempre
chiedere ad altri monasteri. Doveva essere firmato l’ordine di
chiusura e il Padre Generale è morto la sera prima. Il Signore certo
ci è andato un po’ pesante, ma di fatto loro sono andati avanti.
Vivevano un’amicizia grossissima con il mondo che li circondava, il
mondo musulmano. Questo nasceva prima di tutto da un’esperienza
personale che aveva segnato il priore, padre Christian de Chergè.
All’epoca nella quale l’Algeria era un protettorato francese,
Christian viveva in Algeria dove suo padre era militare. Una sera
camminando con un amico era stato minacciato da alcuni giovani
musulmani e il suo amico lo difese. Il giorno dopo questo stesso
amico fu trovato assassinato, per aver preso le difese. Questo segnò
profondamente Christian : “io devo la vita a un amico, musulmano,
che ha dato la vita per me”. La cosa interessante è che lui
legge questo fatto nella chiave del Vangelo. Dice: “Per Gesù, non
c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici.
Quindi questo ragazzo ha vissuto il Vangelo a modo suo”. I nostri
fratelli non hanno mai vissuto la loro vicinanza con il mondo
musulmano come un diminuire la loro esperienza cristiana profonda.
Non hanno mai fatto sincretismi. Per loro era la sequela di Cristo,
ma proprio questo li rendeva liberi di essere aperti al mondo che
avevano accanto, al diverso. Questo è molto importante, perchè si
rischia di identificare la solidarietà come un “ci vogliamo bene,
ci apriamo a tutti” … Non funziona così. E’ vivendo veramente
come cristiani la nostra identità e il nostro rapporto con Cristo,
con un Dio che è Dio di comunione, che possiamo veramente essere
aperti agli altri. Non è a partire dalle nostre forze, ma vivendo
la vita di Cristo in noi. Questa è una delle sfide.
Questo
è il percorso che ha spinto la nostra comunità, in un processo
lungo, a decidere di raccogliere l’eredità di questi Fratelli e
aprire una comunità nel Mediterraneo, fino ad approdare, per via di
una serie di segni della Provvidenza, alla Siria. Lì si è aggiunta
una nuova realtà, che i nostri Fratelli non avevano in Algeria: la
scoperta – perché sapevamo con la testa ma non con l’esperienza
– che in Siria ci sono tutte le comunità arabe ma cristiane
antichissime. Così, a questo desiderio di vivere radicalmente la
nostra vita si è aggiunto il desiderio di sostenere le comunità
cristiane presenti.
Siamo
là dal 2005. Il nostro percorso è illustrato dalla mostra.
Non
va dimenticato poi che a un certo punto la nostra vicenda si è
inserita nella vicenda tragica della guerra, dal 2011. Una realtà
che c’è stata, durissima, c’è stata e c’è ancora. E la
descrizione della Siria oggi, è proprio esemplificata nella mostra
da foto che riproducono una casa aggiustata in mezzo alla macerie, un
fiore su un balcone, : là dove si può, si vive, pur in mezzo alle
macerie passate, presenti e – mi sa – per un po’ anche per il
futuro. Non saprei descriverla in altro modo.
La
mostra illustra anche la nostra vicenda. Il senso di essere lì, e
del perché la pazzia di costruire un monastero dentro questa realtà
segnata.
Noi
ovviamente cerchiamo anche di aiutare, grazie anche a chi ci
sostiene, con interventi sociali. Ma il senso di costruire un
monastero è come il balsamo sprecato come quello sui piedi del
Signore. C’è una gratuità, anzitutto per Dio. La nostra gente,
cristiana e musulmana, in Siria ha ancora questo senso: che per Dio
si può fare qualcosa di gratuito, non immediatamente efficace. I
nostri operai musulmani sono contenti di costruire la chiesa.
Ma
c’è anche altro. I soldi oggi nel mondo ci sono. Nella nostra
zona, in tre o quattro anni di guerra pesante, ci passavano sulla
testa quindici-venti missili, ognuno dei quali costava migliaia di
dollari. Pensiamo alla cifre di una guerra. Quindi non mi si venga a
dire che non ci sono nel mondo le risorse. Allora noi come monastero
ma non solo, abbiamo un compito: creare una mentalità e far crescere
una visione, una coscienza. Così che le persone potranno in futuro
influire sull’uso delle risorse. Non è costruire una chiesa che
impoverisce i poveri, ma è il non avere una visione che ci permette
poi nei nostri ambiti di influire sulle scelte che poi vengono fatte.
Si
può fare gratuitamente, per Dio, dunque, come 'il balsamo sprecato'.
Il nostro mondo del medioriente concepisce ancora che si può fare
qualcosa per Dio che non sia immediatamente 'efficace'. Al tempo
stesso però c’è anche una ragionevolezza in questa follia.
Costruiamo le persone. Saranno poi le persone che non vivono solo di
cose materiali. Certo, devi dargli da mangiare - e il livello di
povertà in Siria è incredibile, il 90% delle persone vive sotto
la soglia della povertà- ma questo a una persona non basta.
E
questo ci supera totalmente. Pensiamo: siamo poche, siamo anziane, si
fa una fatica tremenda per imparare l'arabo. Ma questo ci fa pensare
che non siamo noi che facciamo. Quel poco che possiamo fare, la gente
viene, e lo respira. Il resto lo farà il Signore, ma questo ci
motiva. Vengono anche musulmani, perché il posto è bello, chiedendo
anche incontri, ma non come dialogo intellettuale, invece si vive
insieme.
Poi
la mostra documenta l’esperienza dell’amicizia con Banco Building
con il dono dei pannelli solari, che ha permesso a noi di sopperire
alla mancanza di elettricità, ma anche ci permette di coltivare, e
la verdura in più la condividiamo con i nostri operai; e l’acqua
potabile con chi non ha il pozzo. Dunque il fatto di poter vivere,
dare lavoro e portare avanti delle attività è importante.
Un
video riassume le testimonianze e racconta perché vale la pena
costruire un monastero. E’ un messaggio di uno spazio che ci dà
forma. Non viviamo solo a livello di cuore e di testa, viviamo in una
totalità. L’esperienza di camminare in un monastero, di avere una
chiesa, uno spazio nel quale puoi alzare gli occhi dal lavoro e
camminare in un chiostro e arrivare alla chiesa. E’ un’esperienza
che speriamo di poter offrire anche a delle giovani. E’ un modo di
condividere per noi. Come possiamo vivere l’esperienza di un
rapporto con Dio, se non lo offriamo? Un monastero lo si fa, ma in
realtà è il monastero che ti forma. Da secoli è uno spazio che
racconta, fatto di luci, di ombre, di silenzio, di lode insieme.
Un’architettura che si costruisce in un ascolto di Dio.
Siamo
arrivate in Siria diciotto anni fa, nel 2005; per cinque anni siamo
state ad Aleppo; intanto abbiamo comprato il terreno quando nel 2008
costava pochissimo, ad Azeir, e abbiamo iniziato la foresteria. Siamo
ad Azeir, fra Homs e Tartous, vicino al confine nord del Libano. Una
zona agricola, bella, semplice, appartata, ci si va solo perché ci
si vuole andare. Zona musulmana, di sunniti e alauiti, e due villaggi
cristiani maroniti.
Ci
siamo trasferite nel settembre 2010. E nel 2011 è scoppiata la
guerra. Poi siamo andate avanti, aggiungendo piccole cose: i trullini
fatti di sassi, ad esempio. Durante la guerra, avevamo solo tre cose:
i sassi, il cemento e gli operai che avevano bisogno di lavorare.
Allora si è fatto: trullini, muretti, stradine. La gente ha
cominciato a chiedere ospitalità.
Un
anno e mezzo fa abbiamo ripreso l’idea del monastero, iniziando con
gli scavi. Ancora una volta, si può dire: ma come? in Siria la gente
è morta, tanti scappano, costruire un monastero appare un po’ una
follia. Ma abbiamo avuto tanti segni, oltre al discernimento fatto
con i nostri superiori, le chiese locali che ci incoraggiano; gli
operai musulmani lavorano, i cristiani sentono che rimanere lì è un
sostegno alla loro presenza.
DOMANDE:
La
speranza continua? Ecco questa è la cosa dura in questo momento.
Durante la guerra i siriani sono stati incredibili, hanno passato
fasi terribili, ma dicendo: finirà. Adesso da tre-quattro anni il
peggio è passato (anche se la guerra c’è ancora) e non si vede
niente davanti. Non c’è un miglioramento, non c’è speranza di
lavoro, la vita è invivibile. Gli stipendi medi – negli ultimi
giorni sono saliti ma sono saliti automaticamente anche i prezzi –
anche di un insegnante o un ingegnere statale erano, pochi giorni fa,
100.000 lire siriane: bastano per comprare 4 litri di olio. O dieci
pacchi di pane. Nient’altro. Vive chi ha aiuti di organizzazioni o
parenti da fuori che mandano 100-150 dollari e allora te la cavi.
Non
si vede la speranza. Il terremoto di febbraio è stato rivelatore.
Certo, sono morte molte persone (la maggior parte dei morti è stata
nella parte turca) e case già bombardate con il terremoto sono
crollate. Ma quello che abbiamo sentito è stato lo sgomento. Avevano
passato cose terribili, i tagliagole eccetera, ma questo terremoto ha
segnato gli animi. A casa nostra è arrivato con una scala del
6,2-6,3, ad Aleppo è stata 8 e più. Ci dicevano: “Finora c’era
la guerra, ma almeno sapevi che quando eri in casa, avevi la casa.
Adesso non c’è più neanche quella”. Il senso che è caduta ogni
sicurezza. La goccia finale.
Non
si ha una risposta alla ragione del male. La risposta al male e alla
sofferenza ce la diamo lungo tutta la vita piano piano. Non è mai
nel momento della sofferenza acuta. C’è un mistero grande nel male
e questo ci può aiutare a dire “prepariamoci a vedere”, se lo
affrontiamo fin da ora capiamo anche che c’è sempre una
possibilità. Ma nel momento della sofferenza è difficile vedere
chiaro. Noi lo diciamo: Dio non ci ha mai promesso che non ci sarebbe
stato il male, la sofferenza. Gesù non ha mai risolto la malattia,
la povertà. Ma Gesù ci dà una strada per capire come passarci
dentro verso la vita,come ha fatto Lui. E ognuno deve farlo nella sua
vita, e certe volte è meglio tacere: non è possibile dare risposte
facili alla gente, bisogna stare accanto e vivere con le persone la
sofferenza, perchè possano attingere quella forza della vita che c'è
. Il nostro compito e cercare di viverla noi questa speranza. Anche a
noi viene lo sgomento, vedendo la gente che se ne va; tutti che
dicono “parto, prega per me”; noi sentiamo il dissanguarsi della
nostra realtà.
La
diocesi maronita di Aleppo viene molto spesso da noi; hanno portato
diversi gruppi per fare l’esperienza monastica. Con un gruppo di
persone adulte che avevano visto partire diversi loro figli, abbiamo
parlato della speranza, e qualcuno diceva: “ma cosa possiamo
fare?”. E si capisce perchè un giovane parte, cerchiamo di far sì
che non partano ma lo comprendiamo. E allora cosa possiamo fare di
fronte alla tristezza? Possiamo pregare, e poi che altro? Noi
cerchiamo di dire – e anche a noi stesse : “viviamo NOI una
speranza, un incontro con il Cristo che dia un senso al nostro oggi,
perché domani, quando i figli partiti si troveranno davanti al senso
della vita e si gireranno, se trovano un’esperienza vera,
un'esperienza per voi vivente, sapranno dove attingere.”
Altrimenti, è inutile che stiamo nella nostalgia di qualcosa che non
c’è. Ciò che possiamo fare oggi è vivere noi. E questo un domani
servirà, se non ai figli che sono partiti, a quelli che sono
rimasti. E’ duro, ma è quello che possiamo fare. Una speranza
concreta.
Non
avevate paura, visto che vivete vicino ai musulmani? No. In Siria
i cristiani sono sempre rispettati e possono costruire chiese. C’è
stato, durante la guerra, un periodo nel quale i fondamentalisti
stavano prendendo il sopravvento. E noi sapevamo, insieme ai
cristiani del villaggio, che da un momento all’altro potevano
mandarci via...forse saremmo riusciti a scappare forse no. Certo la
paura c’è stata ma l’abbiamo condivisa, la precarietà del
futuro, con tutti. Ma normalmente siamo accettate, aiutate, stimate.
Il pericolo era l’ISIS, certo la paura c’era. Ma è la stessa
precarietà che vivono altrove, pensiamo anche all’Iraq adesso.
Cos’è
il politically correct?
Una
bella zuppa che non serve a nulla. E’ l’idea che nel vivere con
gli altri - visto che siamo tutti figli di un’unica umanità e
gente evoluta, matura, non facciamo più le guerre per le cose in cui
crediamo - e questo va bene – ci rispettiamo, cercando di togliere
tutte le cose sulle quali pensiamo in modo un po’ diverso, e
vediamo su cosa possiamo venirci incontro ( la natura, difendiamo la
terra, tutti sono liberi di fare quello che vogliono perchè i
diritti individuali sono importanti...) cerchiamo le cose che ci
mettono tutti insieme. Il problema è che noi che abbiamo la grazia
di un’esperienza di fede, abbiamo bisogno di un rapporto con Dio
che ci dà un’idea di cosa è essere uomini, ci dà dei valori.
L’idea è: io sento che questa cosa è vera, che Dio mi vuole in un
certo modo, che mi dà un determinato valore per vivere, che mi
disseta. Ma se ne parlo con te che pensi diverso, rompiamo
l’amicizia. Allora lasciamo lì questa cosa e andiamo a prendere
una pizza, tutti umanamente fratelli... ma in questo modo
nell’amicizia con te non metto in gioco la cosa più vera che ho,
le cose in cui credo, il mio modo di percepirmi come persona, che
comporta anche una fede, una visione delle cose. Io rinuncio a questa
parte più vera di me, tu anche e ci accontentiamo di quello che può
andare bene a entrambi. Ma questo non è un rapporto vero. E’
meglio avere un confronto, dire ok tu pensi questa cosa, io ne penso
un’altra, possiamo credere che ciascuno di noi fa un cammino vero,
che ognuno è una persona degna anche se pensiamo in modo diverso?
Dobbiamo avere il coraggio di essere noi stessi. Poi domani magari
cambiamo idea, ma se oggi io credo questo, e lo condivido con te che
credi una cosa diversa, ma possiamo camminare insieme, da persone che
cercano la verità. Invece, il politically correct è dire: mettiamo
da parte la verità perché sennò non andiamo d’accordo, e viviamo
un po’ in superficie.
Che
attività di aiuto alla popolazione fate? Noi non vogliamo
diventare una ONG. Per questo di fronte alle richieste importanti di
aiuto rispondo che devo sentire il Vescovo . Ma appena possibile,
grazie ai vostri aiuti , cerchiamo di rispondere ai bisogni che ci
sottopongono . C'è un mondo intorno a noi che non ha alcun
riferimento … E suor Marta ci racconta di una ragazza in condizioni
familiare difficilissime che con un piccolo aiuto ha fatto un
negozietto.
I
braccialetti. Ci sono donne del nostro villaggio con bambini piccoli
che hanno bisogno di lavorare. Allora hanno imparato il macramé e
lavorando da casa e da noi , con la piccola entrata dei braccialetti,
molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al
salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti
sono disponibili per l'acquisto in Italia .
Il
nostro sapone di Aleppo nasce dalla collaborazione con un amico
aleppino – che ha scelto di restare in Siria malgrado tutti partano
e ci sostiene molto . Il vero sapone di Aleppo si può produrre solo
ad Aleppo: lui ci dà la pasta della materia prima, noi facciamo la
seconda parte della lavorazione, stampiamo, inscatoliamo. E lo
trovate in vendita in Italia .