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venerdì 25 ottobre 2024

Giornata Missionaria Mondiale: in Siria, missionarie di speranza all'ombra della guerra

 
Il racconto dalla Siria di suor Marta , superiora di Nostra Signora Fonte della Pace, monastero trappista nel villaggio rurale di Azer

Dal Settimanale della Diocesi di Como

In tutto il Vicino Oriente si sta verificando una accelerazione di eventi dai quali non si può prescindere per raccontare cosa si vive oggi.. Ma non si può neppure dimenticare che quella situazione che viene definita “guerra a bassa intensità” perdura ormai da anni .

Ciò significa che la guerra in Siria non è mai terminata veramente. Le aggressioni, cioè i bombardamenti e gli assassinii, sul suolo siriano e in quello dei paesi vicini (che hanno coinvolto militari ma anche civili), sono continuate regolarmente nonostante apparentemente fossimo in un tempo di pace. Mai, in tutti questi anni, tutte le voci che si sono alzate, a partire dalle Chiese ma non solo, sono riuscite a far togliere il cappio delle sanzioni internazionali. E’ vero, la gente qui ha una capacità di far fronte alle difficoltà della vita incredibile.. Ma questa situazione toglie speranza, mette a dura prova la voglia e la forza di resistere, di immaginare un futuro possibile. Non stupisce che ancora oggi la realtà dei migranti siriani sia così diffusa. E’ un’emorragia forse meno spettacolare, ma continua, ed altrettanto drammatica. Per i giovani – e non solo per loro- è molto difficile scegliere di restare..In occasione del terremoto avvenuto pochi mesi fa, la generosità dell’Italia e di altri paesi è stata davvero commovente: nel giro di pochissimi giorni sono arrivati aiuti importanti per soccorrere i tanti poveri in più che questa catastrofe ha creato. Ma senza il terremoto, ci si sarebbe ricordati della Siria?

L'eco della guerra

Oggi ancora una volta il Vicino Oriente diventa campo di scontro. C’è un senso di grande incertezza e sospensione, in attesa di vedere se davvero si scatenerà un conflitto senza ritorno. E’ di questi giorni l’attacco in Libano alla forza dell’ONU. Con la destabilizzazione del Libano, stiamo già assistendo al rincaro generale dei prezzi , e ad altri esodi, persino dalla terra Santa: ormai Israele –anzi, i Sionisti –sono fuori controllo, dichiarando apertamente di voler allargare il loro territorio fino ad una parte dell’Egitto e fino almeno a Damasco!.

In tutto questo, ciò che noi possiamo fare è continuare la nostra presenza qui, con una coscienza forse più forte oggi della forza della preghiera e dell’importanza di vegliare, come sentinelle, finchè si realizzi il disegno di salvezza che Dio porta a compimento nella storia.

Una presenza missionaria

La nostra vita resta quella di una comunità monastica di regola benedettina. La preghiera, la lectio Divina, la vita comune, il lavoro, l’accoglienza degli ospiti segnano il ritmo delle nostre giornate. Ma evidentemente in questa realtà che ci circonda la caratteristica “missionaria” acquista un peso particolare..

Prima di tutto da un punto di vista concreto. Cerchiamo di essere vicine alla povertà della gente, ai suoi bisogni materiali. Con gli aiuti che ci arrivano, possiamo dare lavoro a diverse persone e così sostenere qualche famiglia. I nostri aiuti non sono “strutturati” come quelli di una organizzazione ecclesiale o umanitaria, non è il nostro compito. Ma naturalmente le persone si rivolgono a noi, e come possiamo cerchiamo di aiutare. Per le necessità mediche, per i costi della scuola, a volte anche solo per poter avere il necessario per mangiare e vestirsi.. Soprattutto, cerchiamo di dare lavoro, che è molto più dignitoso che semplicemente dare denaro. Qualcuno lavora con noi nei campi, altri sono stati coinvolti nella costruzione del monastero. Ad esempio il gruppo di carpentieri, persone tanto brave quanto povere. Al momento di accettare il lavoro, non disponevano del legname necessario. Abbiamo così deciso di comprarlo noi, e lasciare che lo pagassero piano piano. Questo significa per loro poter lavorare, e alla fine disporre di legname proprio, e poter accettare altro lavoro.. E’ una piccola cosa, quello che è possibile per noi. Ma questo ha creato un bellissimo clima sul cantiere, di fiducia e dedizione. Due degli operai sono molto giovani, e studiano per diventare avvocati. Lavorano duramente tutto il giorno, e così si pagano l’università.

Altri, che hanno già esperienza di scalpellini, si dedicano alla pietra: pareti, muri di contenimento, colonne... Un gruppetto di donne del villaggio lavora con noi a piccoli artigianati: braccialetti in macramé, lavori con cartone, colla, segatura, materiali semplici che costino poco e ci permettano di preparare oggetti da rivendere come artigianato. Per la sussistenza della comunità, stiamo cercando di ampliare la nostra esportazione di sapone di Aleppo, solido e liquido, verso la Francia e l’Italia, e di una crema per le mani all’olio di oliva. Siamo ancora all’inizio, ma speriamo che questa attività cresca..

La vita è più forte

Ma la vera missionarietà ci sembra su un altro piano: missione è soprattutto annunciare il Vangelo, la buona Novella che Cristo è veramente risorto. Che la vita è più forte, che la speranza è possibile, è reale, perchè non si basa sulle condizioni esterne della vita, ma sull’incontro con Cristo, l’amicizia con Lui, che dà senso e forma alla nostra esistenza..Vivere la missione oggi è soprattutto vivere la speranza, viverla prima di tutto noi, per poterla condividere. Non ingenuamente- ci troviamo davvero in tempi Apocalittici, cioè di rivelazione della lotta tra il Bene e il Male- ma sapendo che questa battaglia è già vinta. L’accoglienza degli ospiti, che diventa poco a poco sempre più importante nella vita della comunità, insieme alla preghiera è il nostro vero servizio a queste chiese, a questo paese che ormai dopo vent’anni è il nostro. Cerchiamo di offrire uno spazio di preghiera, di silenzio, di pace, dove ognuno possa ritrovare se stesso sotto lo sguardo di Dio.

Intanto la comunità da una parte affronta la sfida della malattia per qualcuna, dall’altra si accresce di nuove presenze : due sorelle sono arrivate dall’Ecuador, un’altra è in arrivo dall’Argentina..

Infine, anche proporre la bellezza ci sembra una missione di pace e speranza: la costruzione del monastero continua, anche se siamo solo al completamento dei cementi armati e a qualche riempimento dei muri.
Da una parte è un po’ una follia, dall’altra è una grande Grazia. Dobbiamo trovare i fondi per continuare, ma già la struttura della chiesa, con i suoi archi che si stagliano nel cielo blu, parla della bellezza di Dio, rende orgogliosi gli operai che l’hanno realizzata, fieri gli abitanti del villaggio, e colma il cuore a noi, che già la sogniamo piena di persone in preghiera, vibrante di silenzio, gioiosa di canti...

    Suor Marta dalla Siria

giovedì 18 gennaio 2024

La mostra sul Monastero di Azer visitabile a Milano

 
TEMPI, 17 gennaio 2024

L’associazione Charles Péguy porta a Milano la mostra, presentata la scorsa estate al Meeting di Rimini, “Azer. L’impronta di Dio. Un monastero nel cuore della Siria”

La mostra sarà esposta presso la sala espositiva Monastero San Benedetto, in Via Felice Bellotti, 10 , Milano, dal 20 al 28 gennaio 2024, e vuole essere un evento a livello cittadino.

Attraverso video, interviste, testi e foto questa mostra racconta lo stupore per la straordinaria vicenda di alcune suore trappiste del monastero di Azer, in Siria, paese di vicende drammatiche, in una zona abitata da popolazioni islamiche sciite e sunnite con l’eccezione di due piccoli villaggi cristiani: il luogo, quasi al confine Nord del Libano, è anche assai prossimo alle sconvolgenti azioni belliche in Palestina.

Nel marzo 2011 lo scoppio della guerra ha provocato devastazioni enormi, massacri senza fine e l’esodo di milioni di persone; dal marzo 2020 è giunta l’epidemia Covid-19; quindi, nel settembre 2022 un contagio di colera; infine, nel febbraio 2023, il terremoto. 

In questo lungo e drammatico periodo le monache hanno posto un seme di vita nuova, rimanendo con una presenza orante, laboriosa, gratuita: un germe vivente, di pace che Dio ha posto, in un tempo e in un luogo di guerre dilanianti. Un seme, una testimonianza anche per noi: chiamati noi stessi a generare per grazia di Dio cellule di vita nuova, oggi, qui…

L’incontro di presentazione della Mostra sarà: Venerdì 19 gennaio 2024 ore 21.00 - Auditorium CMC Largo Corsia dei Servi, 4 - Milano


QUI il link alla presentazione della Mostra al Meeting di Rimini e al dialogo di alcuni amici con suor Marta: https://oraprosiria.blogspot.com/2023/08/non-dimenticare-la-siria-dal-meeting.html

martedì 21 novembre 2023

Giornata Pro Orantibus, le trappiste in Siria: la vita è più forte di qualunque morte


 Vatican News, 21 novembre 2023

Hanno scelto di vivere ad Azeir, un piccolo villaggio rurale di circa 400 abitanti a due passi da Talkalakh, in Siria, per testimoniare che è possibile coltivare la speranza lì dove la guerra ha seminato morte e distruzione. Cinque monache trappiste hanno deciso di proseguire qui la missione che i loro “fratelli” cistercensi hanno iniziato in Algeria, a Tibhirine. Una presenza evangelica in terra musulmana pagata con il sangue, quella dei sette religiosi uccisi nel 1996. Ma un’eredità, la pacifica convivenza sperimentata con i fedeli dell’islam, che l’ordine contemplativo dei Cistercensi della Stretta Osservanza (OCSO) ha voluto far fruttificare. Per questo nel 2005, alcune claustrali del monastero di Nostra Signora di Valserena, in Toscana, hanno dato vita a una nuova comunità monastica nel Medio Oriente.

Quella delle trappiste italiane, che attualmente vivono nella foresteria del loro monastero ancora in costruzione, è una testimonianza preziosa che giunge nella Giornata Pro Orantibus, istituita da Pio XII nel 1953 e celebrata nella festa liturgica della Presentazione di Maria Vergine al Tempio. Una ricorrenza che invita a pregare per tutti i contemplativi e ai quali è dedicata la Messa che il cardinale João Braz de Aviz, prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, presiederà il 3 dicembre, a Roma, alle 11, nella Basilica dei Santi Quattro Coronati.

Suor Marta Luisa Fagnani, superiora del monastero Nostra Signora Fonte della Pace, racconta a Vatican News – Radio Vaticana del lavoro svolto nella piccola comunità siriana di Azeir, dove la gente – sia musulmana che cristiana – bussa per ricevere aiuti o semplicemente trovare “un posto sereno”. Lì, a due passi dal confine con il Libano, quello delle trappiste è un esempio di dialogo, di mutuo aiuto e di accoglienza.

Ascolta l'intervista a suor Marta Luisa Fagnani

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2023/11/20/18/137477908_F137477908.mp3

Suor Marta, come siete arrivate in Siria?

Il nostro arrivo in Siria ha origine dall’esperienza dei nostri fratelli in Algeria, i monaci di Tibhirine. Dopo la loro morte il nostro ordine si è interrogato su cosa raccogliere della loro testimonianza, fondamentalmente un’esperienza di vita monastica dentro un contesto di minoranza cristiana. Da lì è nata una riflessione in tutto l’ordine cistercense e anche il desiderio di monaci e monache di raccogliere questa eredità dentro un cammino, che è stato molto lungo. Poco a poco, la nostra comunità in Italia di Valserena ha capito che c’era una chiamata e abbiamo formato un primo gruppo. Abbiamo avuto dei contatti per la Siria, siamo venute a visitare il Paese e abbiamo trovato una grande accoglienza e apertura; alla fine, siamo arrivate a decidere di provare a iniziare una fondazione monastica. Così siamo partite nel 2005.

Qual è stato il primo impatto con il territorio?

Come dicevo, abbiamo trovato una grandissima accoglienza. La Siria, prima della guerra, era un Paese in crescita, molto aperto, dove da secoli convivono tradizioni religiose ed etnie diverse. Quindi un Paese ricco di storia, di cultura, molto accogliente ed ospitale. Questo ha incoraggiato l’idea di cominciare un’esperienza.

E adesso, a che punto è il monastero?

Abbiamo iniziato le prime costruzioni nel 2008, dopo aver vissuto cinque anni mezzo ad Aleppo, poi ci siamo trasferite ad Azer, in campagna, con l’idea di cominciare a edificare il monastero. Ma nel 2011 è scoppiata la guerra. Quindi stiamo ancora vivendo nella foresteria. In questi anni, con le pietre del terreno, abbiamo costruito una decina di piccole abitazioni con gli operai del posto per ospitare persone, ma il monastero vero e proprio abbiamo cominciato a costruirlo da un anno e mezzo.


Che tipo di relazioni sono nate con la gente del posto?

Direi molto buone. Abbiamo avuto prima l’esperienza della vita in città, vivendo in un appartamento vicino a delle scuole che ci hanno aiutato ad inserirci. Abbiamo, quindi, imparato a conoscere le comunità cristiane presenti, la vita della gente. Da subito ci siamo sentite a casa e abbiamo anche ritrovato la nostra storia e le nostre radici, perché la Siria è il luogo dove la vita monastica è nata. Ci siamo trasferite poi in campagna e anche qui le relazioni con la gente sono molto buone, sia con cristiani che con musulmani. Il fatto di essere potute rimanere nonostante la guerra sicuramente ha cementato ancora di più il rapporto con le persone, vivendo quello che loro stessi vivevano. In questi ultimi anni la situazione si è un po’ normalizzata e le persone cominciano a venire numerose per dei ritiri da noi. Abbiamo contatti con diversi gruppi cristiani da Aleppo, Damasco, Homs, e anche i nostri vicini musulmani vengono, perché il posto è bello. Cerchiamo di curare la natura, l’ambiente, qui c’è un clima di serenità.

E in particolare con i musulmani, come sono i vostri rapporti?

C’è molta naturalezza, molto rispetto. Siamo in un piccolo villaggio cristiano e intorno ci sono villaggi musulmani; anche durante la guerra, abbiamo cercato di dare lavoro ad operai cristiani e musulmani, sia sunniti che alawiti. Ci sono anche diversi musulmani che vengono da noi per un incontro personale, ma anche semplicemente per amicizia. È un ambiente misto e la vita quotidiana, i contatti per la spesa, le visite mediche, avvengono in un contesto in cui si vive insieme. Direi quindi che è un rapporto quotidiano basato non su grandi discorsi, ma su un rispetto reciproco. Certo, la guerra ha rotto un po’ questo equilibrio, perché certe situazioni sono state molto pesanti, ma di fondo, in Siria, c’è grande apertura verso l'altro. E noi lo sperimentiamo ancora oggi, nonostante le ferite.


Chi viene a bussare alla porta della vostra comunità?

Gente con tante situazioni di bisogno. Anche se noi vogliamo rimanere una comunità contemplativa, cerchiamo di aiutare come possiamo tutti, senza differenza, cristiani e musulmani. C’è gente che ha necessità di aiuti materiali o gente che ha bisogno di serenità, che viene semplicemente per trovare un ambiente bello; c’è chi ha bisogno di confrontarsi su domande circa la guerra, la distruzione, il senso di quello che sta attraversando la Chiesa in questo momento. Poco a poco sta crescendo anche un desiderio di una relazione con Cristo che dia veramente senso e risposta alle domande più difficili.

Quale testimonianza volete dare?

Innanzitutto vivere la vita monastica così com’è, ma soprattutto una testimonianza di speranza e prossimità. Stare semplicemente qui, con le nostre fragilità, con la nostra povertà in tante cose (la lingua, l’inculturazione, eccetera), significa scegliere di rimanere, invece in molti la tentazione di andare via è sempre più forte. Allora noi vogliamo rimanere con la speranza di costruire: dove tutto si distrugge vogliamo cercare di trovare un senso alle cose e testimoniare semplicemente la forza di una vita che comunque è più forte di qualunque situazione di morte che ci sia attorno. Tutto questo in nome di Cristo. È chiaro che possiamo vivere tutto questo perché il Signore è il primo che resta con noi. Quindi non ci basiamo sulle nostre forze umane, ma su una speranza che ha una radice più profonda, la fede.


Da quando siete arrivate, ci sono stati dei momenti particolarmente difficili che avete vissuto?

Sicuramente la guerra. Per almeno 3-4 anni, quello in cui ci troviamo è stato un territorio di passaggio di bande jihadiste, di ribelli contro il governo, di scontri fra l’esercito e i ribelli, quindi la popolazione ha vissuto questi combattimenti, e noi con loro. Non è stato facile, anche a causa di tutte le problematicità che si sono aggiunte: la difficoltà a procurarsi le cose necessarie, la corrente elettrica che manca, le insicurezze per il futuro. E anche l’essere pronte da un momento all’altro a lasciare tutto. Siamo rimaste tre anni con la valigia pronta e il passaporto. Ma era la stessa precarietà che vivevano tutti. Ringraziamo Dio di averla potuta vivere con la nostra gente. Allo stesso tempo, siamo state anche molto aiutate e protette. Adesso la fatica più grossa è quella di vedere la nostra gente partire, perché le condizioni di vita sono molto dure e questo rattrista, è pesante da vedere.

Quella della Siria viene definita una tragedia dimenticata, quali sono le necessità più grandi lì dove siete voi?

È vero che è una tragedia dimenticata: dieci/undici anni di guerra hanno distrutto il Paese, l’hanno impoverito. Dopo il terremoto - una tragedia nella tragedia - per assurdo qualcuno ha detto: “Meno male che c’è stato il terremoto perché ci sono accorti ancora di noi”. Gli aiuti sono stati infatti generosissimi e c’è stata grande vicinanza verso il Paese; allo stesso tempo c’è stata un’emorragia incredibile di persone. E molti continuano ancora a lasciare il Paese: professionisti, medici e ingegneri, tecnici, manodopera specializzata, giovani. La Siria oggi è un Paese che manca sempre di più di risorse, di potenziale umano, oltre a essere una nazione che ha una povertà strutturale. Si pensi pure alle sanzioni internazionali che non si è mai riusciti a mitigare nonostante i tantissimi appelli. Il bisogno fondamentale è di poter creare un minimo di vita, di commercio, di lavoro che permetta una vita sostenibile, che aiuti a non emigrare, che consenta alle persone di restare con una speranza di vita dignitosa.


Voi monache di cosa avete bisogno in particolare?

Noi possiamo solo ringraziare il Signore di tutto ciò che abbiamo, perché ogni giorno riceviamo qualcosa. Certo, vorremmo terminare il nostro monastero, perché pensiamo che sia un segno importante e abbiamo bisogno anche di essere sostenute per sostenere a nostra volta le persone attorno a noi. Abbiamo bisogno, soprattutto che la Siria non sia dimenticata. Vuol dire, prima di tutto, mantenere un’informazione corretta, quindi conoscere la realtà e non dimenticarla. Spero poi che con il tempo e con una situazione politica generale del Medio Oriente più favorevole si possono riprendere anche le visite, che sono anche un segno di speranza.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2023-11/giornata-orantibus-trappiste-siria-tibhirine-guerra-speranza.html

'Cuori e mani per la vita' : Ci sono donne del villaggio di Azer con bambini piccoli che hanno bisogno di lavorare. Hanno imparato il macramé e lavorando da casa e presso il monastero , con la piccola entrata dei braccialetti, molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti sono disponibili per l'acquisto in Italia : per sostenere il progetto delle Monache Trappiste a favore delle donne siriane rivolgersi alla mail: oraprosiria@gmail.com

venerdì 25 agosto 2023

Non dimenticare la Siria, dal Meeting l’appello di suor MartaLuisa Fagnani

 Vatican News 23 agosto 2023

Alla manifestazione di Cl a Rimini parla Suor Marta Luisa Fagnani: “La precaria situazione mondiale ha fatto diminuire l’attenzione della comunità internazionale. La Chiesa è presente e da sempre dialoga con i musulmani. Il fondamentalismo è fomentato dall’esterno”.

ASCOLTA L'INTERVISTA CON SUOR MARTA:

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2023/08/23/11/137276130_F137276130.mp3


In margine alla visita alla mostra presentata al Meeting "Azer, l'impronta di Dio - Un monastero nel cuore della Siria" – un piccolo gruppo ha avuto l'opportunità di conversare con Madre Marta e porle domande  sulla storia, le ragioni e il contesto storico in cui si è stabilita lo loro presenza monastica dal 2005 in terra siriana. Qui trascriviamo in forma di appunti le risposte della Madre alle nostre domande.  OraproSiria

Dialogo con Suor Marta - Rimini, 21 agosto 2023

La mostra racconta il senso del nostro essere là. Questo ha a che fare un po’ con storia del Mediterraneo: il Mediterraneo come luogo di incontro delle culture. La vita monastica nasce nel III secolo in Egitto ma anche in Siria, per noi dunque è il ritorno alle origini. Poi in Occidente si sviluppò il ramo benedettino, da san Benedetto ai Cistercensi che sono la riforma del 1090, con un ritorno alla vita più conforme alla regola, più semplice. Fino alle radici più vicine a noi, la nascita delle nostre comunità italiane, Vitorchiano, Valserena, da cui siamo poi nate noi.

Vedrete nella mostra i 4 punti essenziali: Citeaux, Valserena, Tibhirine – i monaci dell’Algeria che per noi sono stati la spinta di tutto questo – e poi la Siria. .  Con la morte dei Fratelli di Tibhirine, oltre alla celebrazione del loro sacrificio, si è scoperta la loro vita, una comunità molto precaria che l’Ordine voleva chiudere perché non avevano possibilità di vocazioni, dovevano sempre chiedere ad altri monasteri. Doveva essere firmato l’ordine di chiusura e il Padre Generale è morto la sera prima. Il Signore certo ci è andato un po’ pesante, ma di fatto loro sono andati avanti. Vivevano un’amicizia grossissima con il mondo che li circondava, il mondo musulmano. Questo nasceva prima di tutto da un’esperienza personale che aveva segnato il priore, padre Christian de Chergè. All’epoca nella quale l’Algeria era un protettorato francese, Christian viveva in Algeria dove suo padre era militare. Una sera camminando con un amico era stato minacciato da alcuni giovani musulmani e il suo amico lo difese. Il giorno dopo questo stesso amico fu trovato assassinato, per aver preso le difese. Questo segnò profondamente Christian : “io devo la vita a un amico, musulmano, che ha dato la vita per me”. La cosa interessante è che lui legge questo fatto nella chiave del Vangelo. Dice: “Per Gesù, non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici. Quindi questo ragazzo ha vissuto il Vangelo a modo suo”. I nostri fratelli non hanno mai vissuto la loro vicinanza con il mondo musulmano come un diminuire la loro esperienza cristiana profonda. Non hanno mai fatto sincretismi. Per loro era la sequela di Cristo, ma proprio questo li rendeva liberi di essere aperti al mondo che avevano accanto, al diverso. Questo è molto importante, perchè si rischia di identificare la solidarietà come un “ci vogliamo bene, ci apriamo a tutti” … Non funziona così. E’ vivendo veramente come cristiani la nostra identità e il nostro rapporto con Cristo, con un Dio che è Dio di comunione, che possiamo veramente essere aperti agli altri. Non è a partire dalle nostre forze, ma vivendo la vita di Cristo in noi. Questa è una delle sfide.

Questo è il percorso che ha spinto la nostra comunità, in un processo lungo, a decidere di raccogliere l’eredità di questi Fratelli e aprire una comunità nel Mediterraneo, fino ad approdare, per via di una serie di segni della Provvidenza, alla Siria. Lì si è aggiunta una nuova realtà, che i nostri Fratelli non avevano in Algeria: la scoperta – perché sapevamo con la testa ma non con l’esperienza – che in Siria ci sono tutte le comunità arabe ma cristiane antichissime. Così, a questo desiderio di vivere radicalmente la nostra vita si è aggiunto il desiderio di sostenere le comunità cristiane presenti.

Siamo là dal 2005. Il nostro percorso è illustrato dalla mostra.

Non va dimenticato poi che a un certo punto la nostra vicenda si è inserita nella vicenda tragica della guerra, dal 2011. Una realtà che c’è stata, durissima, c’è stata e c’è ancora. E la descrizione della Siria oggi, è proprio esemplificata nella mostra da foto che riproducono una casa aggiustata in mezzo alla macerie, un fiore su un balcone, : là dove si può, si vive, pur in mezzo alle macerie passate, presenti e – mi sa – per un po’ anche per il futuro. Non saprei descriverla in altro modo.

La mostra illustra anche la nostra vicenda. Il senso di essere lì, e del perché la pazzia di costruire un monastero dentro questa realtà segnata.

Noi ovviamente cerchiamo anche di aiutare, grazie anche a chi ci sostiene, con interventi sociali. Ma il senso di costruire un monastero è come il balsamo sprecato come quello sui piedi del Signore. C’è una gratuità, anzitutto per Dio. La nostra gente, cristiana e musulmana, in Siria ha ancora questo senso: che per Dio si può fare qualcosa di gratuito, non immediatamente efficace. I nostri operai musulmani sono contenti di costruire la chiesa.

Ma c’è anche altro. I soldi oggi nel mondo ci sono. Nella nostra zona, in tre o quattro anni di guerra pesante, ci passavano sulla testa quindici-venti missili, ognuno dei quali costava migliaia di dollari. Pensiamo alla cifre di una guerra. Quindi non mi si venga a dire che non ci sono nel mondo le risorse. Allora noi come monastero ma non solo, abbiamo un compito: creare una mentalità e far crescere una visione, una coscienza. Così che le persone potranno in futuro influire sull’uso delle risorse. Non è costruire una chiesa che impoverisce i poveri, ma è il non avere una visione che ci permette poi nei nostri ambiti di influire sulle scelte che poi vengono fatte.

Si può fare gratuitamente, per Dio, dunque, come 'il balsamo sprecato'. Il nostro mondo del medioriente concepisce ancora che si può fare qualcosa per Dio che non sia immediatamente 'efficace'. Al tempo stesso però c’è anche una ragionevolezza in questa follia. Costruiamo le persone. Saranno poi le persone che non vivono solo di cose materiali. Certo, devi dargli da mangiare - e il livello di povertà in Siria è incredibile, il 90% delle persone vive sotto la soglia della povertà- ma questo a una persona non basta.

E questo ci supera totalmente. Pensiamo: siamo poche, siamo anziane, si fa una fatica tremenda per imparare l'arabo. Ma questo ci fa pensare che non siamo noi che facciamo. Quel poco che possiamo fare, la gente viene, e lo respira. Il resto lo farà il Signore, ma questo ci motiva. Vengono anche musulmani, perché il posto è bello, chiedendo anche incontri, ma non come dialogo intellettuale, invece si vive insieme.

Poi la mostra documenta l’esperienza dell’amicizia con Banco Building con il dono dei pannelli solari, che ha permesso a noi di sopperire alla mancanza di elettricità, ma anche ci permette di coltivare, e la verdura in più la condividiamo con i nostri operai; e l’acqua potabile con chi non ha il pozzo. Dunque il fatto di poter vivere, dare lavoro e portare avanti delle attività è importante. 

Un video riassume le testimonianze e racconta perché vale la pena costruire un monastero. E’ un messaggio di uno spazio che ci dà forma. Non viviamo solo a livello di cuore e di testa, viviamo in una totalità. L’esperienza di camminare in un monastero, di avere una chiesa, uno spazio nel quale puoi alzare gli occhi dal lavoro e camminare in un chiostro e arrivare alla chiesa. E’ un’esperienza che speriamo di poter offrire anche a delle giovani. E’ un modo di condividere per noi. Come possiamo vivere l’esperienza di un rapporto con Dio, se non lo offriamo? Un monastero lo si fa, ma in realtà è il monastero che ti forma. Da secoli è uno spazio che racconta, fatto di luci, di ombre, di silenzio, di lode insieme. Un’architettura che si costruisce in un ascolto di Dio.

Siamo arrivate in Siria diciotto anni fa, nel 2005; per cinque anni siamo state ad Aleppo; intanto abbiamo comprato il terreno quando nel 2008 costava pochissimo, ad Azeir, e abbiamo iniziato la foresteria. Siamo ad Azeir, fra Homs e Tartous, vicino al confine nord del Libano. Una zona agricola, bella, semplice, appartata, ci si va solo perché ci si vuole andare. Zona musulmana, di sunniti e alauiti, e due villaggi cristiani maroniti.

Ci siamo trasferite nel settembre 2010. E nel 2011 è scoppiata la guerra. Poi siamo andate avanti, aggiungendo piccole cose: i trullini fatti di sassi, ad esempio. Durante la guerra, avevamo solo tre cose: i sassi, il cemento e gli operai che avevano bisogno di lavorare. Allora si è fatto: trullini, muretti, stradine. La gente ha cominciato a chiedere ospitalità.

Un anno e mezzo fa abbiamo ripreso l’idea del monastero, iniziando con gli scavi. Ancora una volta, si può dire: ma come? in Siria la gente è morta, tanti scappano, costruire un monastero appare un po’ una follia. Ma abbiamo avuto tanti segni, oltre al discernimento fatto con i nostri superiori, le chiese locali che ci incoraggiano; gli operai musulmani lavorano, i cristiani sentono che rimanere lì è un sostegno alla loro presenza.

DOMANDE:

La speranza continua? Ecco questa è la cosa dura in questo momento. Durante la guerra i siriani sono stati incredibili, hanno passato fasi terribili, ma dicendo: finirà. Adesso da tre-quattro anni il peggio è passato (anche se la guerra c’è ancora) e non si vede niente davanti. Non c’è un miglioramento, non c’è speranza di lavoro, la vita è invivibile. Gli stipendi medi – negli ultimi giorni sono saliti ma sono saliti automaticamente anche i prezzi – anche di un insegnante o un ingegnere statale erano, pochi giorni fa, 100.000 lire siriane: bastano per comprare 4 litri di olio. O dieci pacchi di pane. Nient’altro. Vive chi ha aiuti di organizzazioni o parenti da fuori che mandano 100-150 dollari e allora te la cavi.

Non si vede la speranza. Il terremoto di febbraio è stato rivelatore. Certo, sono morte molte persone (la maggior parte dei morti è stata nella parte turca) e case già bombardate con il terremoto sono crollate. Ma quello che abbiamo sentito è stato lo sgomento. Avevano passato cose terribili, i tagliagole eccetera, ma questo terremoto ha segnato gli animi. A casa nostra è arrivato con una scala del 6,2-6,3, ad Aleppo è stata 8 e più. Ci dicevano: “Finora c’era la guerra, ma almeno sapevi che quando eri in casa, avevi la casa. Adesso non c’è più neanche quella”. Il senso che è caduta ogni sicurezza. La goccia finale.

Non si ha una risposta alla ragione del male. La risposta al male e alla sofferenza ce la diamo lungo tutta la vita piano piano. Non è mai nel momento della sofferenza acuta. C’è un mistero grande nel male e questo ci può aiutare a dire “prepariamoci a vedere”, se lo affrontiamo fin da ora capiamo anche che c’è sempre una possibilità. Ma nel momento della sofferenza è difficile vedere chiaro. Noi lo diciamo: Dio non ci ha mai promesso che non ci sarebbe stato il male, la sofferenza. Gesù non ha mai risolto la malattia, la povertà. Ma Gesù ci dà una strada per capire come passarci dentro verso la vita,come ha fatto Lui. E ognuno deve farlo nella sua vita, e certe volte è meglio tacere: non è possibile dare risposte facili alla gente, bisogna stare accanto e vivere con le persone la sofferenza, perchè possano attingere quella forza della vita che c'è . Il nostro compito e cercare di viverla noi questa speranza. Anche a noi viene lo sgomento, vedendo la gente che se ne va; tutti che dicono “parto, prega per me”; noi sentiamo il dissanguarsi della nostra realtà.

La diocesi maronita di Aleppo viene molto spesso da noi; hanno portato diversi gruppi per fare l’esperienza monastica. Con un gruppo di persone adulte che avevano visto partire diversi loro figli, abbiamo parlato della speranza, e qualcuno diceva: “ma cosa possiamo fare?”. E si capisce perchè un giovane parte, cerchiamo di far sì che non partano ma lo comprendiamo. E allora cosa possiamo fare di fronte alla tristezza? Possiamo pregare, e poi che altro? Noi cerchiamo di dire – e anche a noi stesse : “viviamo NOI una speranza, un incontro con il Cristo che dia un senso al nostro oggi, perché domani, quando i figli partiti si troveranno davanti al senso della vita e si gireranno, se trovano un’esperienza vera, un'esperienza per voi vivente, sapranno dove attingere.” Altrimenti, è inutile che stiamo nella nostalgia di qualcosa che non c’è. Ciò che possiamo fare oggi è vivere noi. E questo un domani servirà, se non ai figli che sono partiti, a quelli che sono rimasti. E’ duro, ma è quello che possiamo fare. Una speranza concreta.

Non avevate paura, visto che vivete vicino ai musulmani? No. In Siria i cristiani sono sempre rispettati e possono costruire chiese. C’è stato, durante la guerra, un periodo nel quale i fondamentalisti stavano prendendo il sopravvento. E noi sapevamo, insieme ai cristiani del villaggio, che da un momento all’altro potevano mandarci via...forse saremmo riusciti a scappare forse no. Certo la paura c’è stata ma l’abbiamo condivisa, la precarietà del futuro, con tutti. Ma normalmente siamo accettate, aiutate, stimate. Il pericolo era l’ISIS, certo la paura c’era. Ma è la stessa precarietà che vivono altrove, pensiamo anche all’Iraq adesso.

Cos’è il politically correct?

Una bella zuppa che non serve a nulla. E’ l’idea che nel vivere con gli altri - visto che siamo tutti figli di un’unica umanità e gente evoluta, matura, non facciamo più le guerre per le cose in cui crediamo - e questo va bene – ci rispettiamo, cercando di togliere tutte le cose sulle quali pensiamo in modo un po’ diverso, e vediamo su cosa possiamo venirci incontro ( la natura, difendiamo la terra, tutti sono liberi di fare quello che vogliono perchè i diritti individuali sono importanti...) cerchiamo le cose che ci mettono tutti insieme. Il problema è che noi che abbiamo la grazia di un’esperienza di fede, abbiamo bisogno di un rapporto con Dio che ci dà un’idea di cosa è essere uomini, ci dà dei valori. L’idea è: io sento che questa cosa è vera, che Dio mi vuole in un certo modo, che mi dà un determinato valore per vivere, che mi disseta. Ma se ne parlo con te che pensi diverso, rompiamo l’amicizia. Allora lasciamo lì questa cosa e andiamo a prendere una pizza, tutti umanamente fratelli... ma in questo modo nell’amicizia con te non metto in gioco la cosa più vera che ho, le cose in cui credo, il mio modo di percepirmi come persona, che comporta anche una fede, una visione delle cose. Io rinuncio a questa parte più vera di me, tu anche e ci accontentiamo di quello che può andare bene a entrambi. Ma questo non è un rapporto vero. E’ meglio avere un confronto, dire ok tu pensi questa cosa, io ne penso un’altra, possiamo credere che ciascuno di noi fa un cammino vero, che ognuno è una persona degna anche se pensiamo in modo diverso? Dobbiamo avere il coraggio di essere noi stessi. Poi domani magari cambiamo idea, ma se oggi io credo questo, e lo condivido con te che credi una cosa diversa, ma possiamo camminare insieme, da persone che cercano la verità. Invece, il politically correct è dire: mettiamo da parte la verità perché sennò non andiamo d’accordo, e viviamo un po’ in superficie.

Che attività di aiuto alla popolazione fate? Noi non vogliamo diventare una ONG. Per questo di fronte alle richieste importanti di aiuto rispondo che devo sentire il Vescovo . Ma appena possibile, grazie ai vostri aiuti , cerchiamo di rispondere ai bisogni che ci sottopongono . C'è un mondo intorno a noi che non ha alcun riferimento … E suor Marta ci racconta di una ragazza in condizioni familiare difficilissime che con un piccolo aiuto ha fatto un negozietto.

I braccialetti. Ci sono donne del nostro villaggio con bambini piccoli che hanno bisogno di lavorare. Allora hanno imparato il macramé e lavorando da casa e da noi , con la piccola entrata dei braccialetti, molto più dignitosa del ricevere un’offerta, contribuiscono al salario familiare. Cercano i modelli, si consultano. I braccialetti sono disponibili per l'acquisto in Italia .

Il nostro sapone di Aleppo nasce dalla collaborazione con un amico aleppino – che ha scelto di restare in Siria malgrado tutti partano e ci sostiene molto . Il vero sapone di Aleppo si può produrre solo ad Aleppo: lui ci dà la pasta della materia prima, noi facciamo la seconda parte della lavorazione, stampiamo, inscatoliamo. E lo trovate in vendita in Italia . 






martedì 8 agosto 2023

Siria: in onore dell'amore alla Siria del cappellano della comunità trappista


 Ci giunge oggi la notizia della tragica morte per incidente in montagna di Dom Godefroy Raguenet de St  Albin (1970-†2023) , attualmente abate della comunità trappista di Acey, che nel 2015 partì per la Siria per essere cappellano delle nostre Sorelle nella piccola comunità di Fons Pacis, vicino a Homs, dove rimase per tre anni.

Pubblichiamo qui una intervista in esclusiva che gli facemmo durante una visita alle Sorelle di Azer , mai pubblicata sul nostro sito nè in altro media, da cui possiamo comprendere quale apertura, con quale visione padre Godefroy avesse abbracciato la realtà del Paese tanto amato.

Che il caro Padre Godefroy accolto oggi nella luce del Signore trasfigurato, ottenga benedizioni a tutti noi e la pace alle comunità cristiane e a tutta la povera Siria!


Intervista a padre Godefroy, Marzo 2017

D: Cosa è oggi la Siria?

R: Terra di combattimento, ma io ne colgo soprattutto l'aspetto spirituale … Qualcuno vuole che questo paese sia frammentato, che la Siria con tutto quello che rappresenta di convivenza e anche di cultura, aveva interesse a sopprimerlo.

Giovanni Paolo II parla del Libano come un patrimonio unico con quella particolarità di pluralità di confessioni, ma penso che dopo la guerra i valori del Libano sono moribondi e adesso è la Siria che è attaccata in questo aspetto.

D: che cos'è un monaco qui, in questa situazione ?

R: è qualcosa di molto semplice e umile.... Io sono arrivato per servire la presenza delle Sorelle. Una vita monastica è sempre un segno, per chi vuole leggere il segno ... Qui è un segno di speranza, di una vita possibile anche nelle circostanze dove sembra che non c'è futuro, che non c'è possibilità di vivere.

Per me è molto importante in questo tempo in cui molti vanno fuori dal Paese di fare il percorso nell'altro senso : che restiamo qui, una semplice presenza.

Come monaci Trappisti non abbiamo nessuna opera, le Sorelle come donne hanno una capacità di maternità, e in modo discreto aiutano gente, ma questa non è la ragione profonda dell'essere qui . E' piuttosto il segno di Colui che ci sostiene, siamo una presenza di preghiera.

Quando sono venuto qui, ho risposto a una richiesta ed ero molto felice di farlo perché come molta gente in Europa soffrivo per la situazione di questo popolo, di tanti anni di sofferenza per la guerra, l'ingiustizia... È vero che la preghiera non ha bisogno.. è capace di raggiungere ogni situazione.. si può pregare a Aiguebelle in Francia ma nello stesso tempo era per me molto importante che questa presenza si incarnasse su questa terra, quindi sono stato felice di raggiungere le Sorelle che erano qui.

Preghiamo anche in arabo - o almeno tentiamo di farlo- questo è qualcosa di importante: l'arabo è una lingua sacra, per la maggioranza dei siriani musulmani è la lingua della liberazione, ma non è una proprietà musulmana. È molto importante per quelli che vengono qui , dall'Italia o dalla Francia, sentire che il nome di Allah è anche il nome che usano i cristiani per pregare, e che usavano cinque secoli prima dei musulmani , fa parte di questo segno di una presenza incarnata, che vuole avvicinarsi alla situazione di questo popolo.

Questo dono che abbiamo di pregare con il gioiello della preghiera, con il Salterio, che è il condensato di tutta la preghiera della storia santa di Israele e sono tutti i gridi dell'umanità che risuonano in questi salmi: gridi di sofferenza, di violenza, di desiderio di vendetta, e gridi di gioia e di speranza, è tutta questa pasta umana che si mette dinanzi a Dio con queste parole, che sono parole che riceviamo come parole rivelate.

Offrire questa umanità , nel modo semplice della preghiera salmica, non è niente ed è insieme tutto, come un contadino nel lavoro semplice dei campi, anche se come monache e monaci non vediamo i frutti di questo seminare. Veramente siamo costretti a raggiungere il cuore della fede, che si nutre di ciò che non si vede , ma la nostra fede è l'unirsi al cuore dell'amore divino, è l'opera fondamentale che permette all'umanità di prendere un cammino di umanità piuttosto che il cammino della barbarie . Questa scelta oggi, proprio in questa guerra : non siamo qui per scegliere un lato o l'altro, partigiani del governo o dei jihadisti, o di una riforma , ma per fare una scelta di umanità, affermare questa capacità dell'uomo di rispondere all'amore, di scegliere la convivenza piuttosto che l'odio e la violenza.Pur senza vedere. Gli ospiti che vengono qui, la gente del villaggio , con una riflessione o senza riflessione, toccano questo segno che è il rimanere su questa terra, attraverso un niente che fa segno.

D. Come trascorre le sue giornate in questo minuscolo pezzo di terra siriana?

R: Siccome le mie capacità linguistiche sono molto limitate, dall'inizio ho preparato un piccolo giardino che era un segno di gratuità, e anche di rispetto e di onore per questa terra: se viene perduto questo legame con la terra non vi è ragione di rimanere.

Certo è una situazione particolare, ma c'è una grazia per questa situazione, a cui non sono sicuro di corrispondere pienamente .

Ho risposto di sì con tutto il cuore veramente, e con la generosità della mia comunità, io pensavo di portare qualche cosa, ma invece scopro che ho ricevuto tanto e sto ricevendo tanto.

Non conoscevo la Siria e non avevo capito quanta ricchezza, che questo è il primo luogo, la culla della Chiesa,, stiamo scoprendo questa ricchezza immensa di tradizione, e anche di radici monastiche , c'è un volto originale siriano del monachesimo dal quale abbiamo ricevuto - attraverso Cassiano e via via tutti i monaci, come Isacco di Ninive, sant'Efrem e altri che conosciamo meno come Giovanni di Apamea - , insomma qui c'è un tesoro spirituale , beviamo alla stessa sorgente .

Questo è bellissimo ed è molto importante per le relazioni con altre esperienze come alcuni monasteri ortodossi che ho visitato soprattutto nel Libano. L'accoglienza è sempre un momento stupendo di fraternità e di apertura, poi emergono presto tutte le cause di divisione, il sacco di Costantinopoli è presente ancora oggi nelle memorie ferite , ma essere capaci di dire che abbiamo gli stessi padri della vita monastica e che apprezziamo molto queste radici è importante. La vita monastica è veramente un ponte, è un'opportunità, una porta aperta, ma c'è tanto lavoro da fare, ed è una sofferenza vedere in questa guerra quanti passi ci sono da fare perché anche per i cristiani il restare qui sia assai più che una coabitazione .

 Io non ho l'esperienza di Aleppo, ma so che là si è maturato, nella loro diversità , in una situazione di minoranza, una possibilità di unità tra le varie chiese.

Ogni giorno è un cammino di arricchimento, di apertura , pur dentro l'ostacolo della lingua ogni incontro è un modo di arricchirsi mutuamente.

Ho l'occasione ogni volta di ringraziare nel vedere il cammino che fanno queste persone dentro la sofferenza che patiscono , ricevo testimonianze bellissime di una crescita spirituale e umana: l'ho toccato soprattutto nei cristiani, ma veramente lo si scopre anche nei musulmani. Se guardiamo per esempio al modo di lavorare qui nel cantiere , nei musulmani, sunniti e alauiti, c'è una rettitudine che è veramente colpisce... 

Ciò di cui ora i siriani hanno più bisogno non è di container, ma di fratelli, di una vicinanza, una fratellanza manifestata, di sapere che non sono da soli . 

Perché per i cristiani è terribile accorgersi che per la politica internazionale non esistono, invece c'è una sete di relazione, di un'apertura, di una vicinanza. Anche nei musulmani... quando vado a fare un giro a piedi nel villaggio sunnita qui sotto la collina dove sorge il Monastero, c'è una manifestazione di interesse, sono felici di vedere un monaco straniero .

L'aspetto materiale del bisogno non è tutto, e rischia di far dimenticare l'essenziale .

Mi ha colpito quell'organizzazione francese SOS Chretiens d'Orient : la prima cosa che hanno fatto è stato di venire a vivere il Natale , questo è un gesto che tocca molto , forse più che 10 container : è importante anche aiutare, ma prima viene lo stare. È una immensa sfida, e lo sarà anche per la Chiesa , con una dimensione oggi molto più ridotta come sarà capace di avere questo ruolo così importante ? , come minoranza si, ma una minoranza che è stata indispensabile per una convivenza tra le altre religioni e i musulmani stessi.

sabato 8 luglio 2023

Al Meeting di Rimini 2023 visiteremo la mostra "Azer, l'impronta di Dio - Un monastero nel cuore della Siria"

Vent’anni fa alcune monache dell’abbazia di Valserena aderirono alla proposta dell’abate generale dell’Ordine di dare vita a un convento di clausura in Siria, la terra percorsa da Pietro e Paolo, dove nei primi secoli dell’età cristiana era nata l’esperienza monastica, una regione che all’alba del Terzo Millennio era esempio di pacifica convivenza fra genti di religioni diverse.

 

Con fede, pazienza e fatica, le monache si sono insediate ad Azer, provincia di Homs, sede di ben conosciute drammatiche vicende, non lontano dal confine con il nord del Libano, in una zona abitata da sciiti e sunniti, con l’eccezione di due piccoli villaggi cristiani.

 

Attraverso video, interviste, testi e foto la mostra "Azer, l'impronta di Dio - Un monastero nel cuore della Siria", racconterà lo stupore per la straordinaria vicenda di alcune monache trappiste e l’amicizia, nata in modo del tutto imprevedibile, con persone ed esperienze, in particolare con il Banco Building di Milano.

 

Il percorso della mostra si svilupperà  lungo 5 ambienti in cui, attraverso i racconti delle monache, scopriremo le loro vocazioni, la preghiera, la libertà, e il progetto del monastero.


Nel lungo e drammatico periodo attraversato da guerra, Covid, epidemia di colera e dal devastante terremoto del febbraio 2023, le monache non sono mai venute meno al loro impegno di presenza orante e gratuita, continuando ad essere testimoni credibili e segno di speranza per tutti. Anche per noi.


https://www.meetingrimini.org/road-to-meeting/road-2023/road-to-meetingnona-tappa/


La 44ma edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, con il titolo “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”, si terrà da domenica 20 a venerdì 25 agosto 2023, nella Fiera di Rimini (via Emilia, 155 - 47921 Rimini).

venerdì 10 marzo 2023

Siria: Nostra Signora Fonte della Pace e la Speranza che rimane Presente

di Sr. Veronica, ocso


In una zona rurale al confine con il Libano del Nord. Accanto due villaggi cristiani, tutt’intorno villaggi musulmani, sciiti e sunniti. Cinque sorelle dal Monastero cistercense di Valserena (Pisa – Italia): cosa ci fanno un pugno di monache di clausura in territorio musulmano, in tempi così duri?

Sono presenti dal 2005, dopo che l’Ordine Cistercense si è sentito interpellato dalla morte dei sette monaci rapiti e uccisi a Tibhirine, in Algeria a raccogliere la loro eredità, vivendo la Regola di San Benedetto in un contesto in cui i cristiani sono minoranza.

Diciotto anni, sufficienti a vivere in prima persona la parabola di dolore della Siria.

Al loro arrivo le Sorelle sono state accolte da un Paese in piena crescita, con contraddizioni, ma anche ricchezze culturali, religiose, umane, spirituali. C’era tolleranza. Una capacità di stare insieme nella diversità, cosa che la guerra ha cercato di spezzare in ogni modo.

In Occidente non è mai stato facile capire il conflitto siriano, tra informazioni montate ad arte e un arcipelago d’interessi in gioco. La guerra insegna che bene e male non stanno mai da una parte sola e che non puoi mai giudicare dalle apparenze. La guerra è stata orchestrata a tavolino e strumentalizzata da poteri  regionali e internazionali, per interessi economici e geopolitici. A nessuno interessano i diritti dei popoli; altrimenti, invece di riempire la Siria di armi, si sarebbe lavorato per far crescere la coscienza, la cultura, la formazione. E invece ci ritroviamo ad assistere a un martirio senza fine, fatto oggi di sanzioni, furti e soprusi che generano una povertà sempre più nera.

Per anni le Sorelle hanno passato le notti in dormiveglia, attente ai movimenti dei mercenari che entravano dal Libano. Hanno vissuto lo sconforto al pensiero che la Siria non ce l’avrebbe fatta. La guerra è stata un passaggio profondo alla radice della vocazione tuttavia sempre sono rimaste. In tutti questi anni, chicco dopo chicco, hanno costruito un luogo bello per accogliere chiunque cercasse pace.

La preghiera liturgica, il lavoro e l’accoglienza scandiscono la loro giornata.  La gente accorre sempre numerosa al monastero di pietra e di spirito, nel deserto della povertà. Si prega, si condivide, si parla nei limiti della comprensione della lingua araba. Ad alcuni si tenta di offrire un lavoro e un compenso che consentano la sopravvivenza familiare.

Quando la situazione ha iniziato a ritrovare un equilibrio, pur nella diffusa povertà causata dalle sanzioni contro la Siria, dopo aver attraversato anche il tunnel del Covid e del colera, si era iniziata la costruzione di un vero edificio monastico e di una chiesa che potesse essere Casa per tutti. Le Sorelle si sono tanto interrogate se non fosse follia, in una tale situazione di bisogno materiale. Però  chi vive l’esperienza monastica sa che là dove più nascono domande sulla vita e sulla morte, quello è il posto giusto per un monastero.  Si percepisce in Siria, tra la gente, una sete spirituale profonda. C’è bisogno di spazi per accogliere questa sete e ricostruire le persone. Alcuni generosi benefattori si sono provvidenzialmente presentati e così la costruzione è cominciata.

La gente, in quel Paese, è abituata al fatto che chiunque abbia messo piede in Siria in questi anni prendeva qualcosa per sé: risorse, potere, vendetta. Al contrario, il piccolo monastero cistercense vuole essere una presenza diversa, gratuita, abitata da cuori che tutto hanno lasciato per amare un Paese non loro, imparare una lingua e una cultura lontani e tentare di vivere la speranza di un sì sempre rinnovato a Dio.

In quelle terre Dio non è una presenza astratta e privata, ma vive nella vita di tutti, cristiani e musulmani, così che, pur nella dissipazione di un mondo globalizzato, il rimando a Lui è sempre possibile e familiare. Certo, potevano rimanere in Italia e pregare per tutti, ma quei luoghi risuonano di echi profondi, di una storia antica. E inserirsi in questa Grazia lo considerano un privilegio e un onore.

Oggi tutti ci fermiamo attoniti di fronte al mistero di un terremoto feroce come pochi altri, che ha mietuto innumerevoli vittime in una sola notte, tra gente che da 12 anni aveva resistito a infinite prove.

Che senso abbia tutto questo lo domandiamo a quel Dio, Creatore e Redentore, che non smettiamo di sentire Padre.

Dagli uomini di potere esigiamo invece clemenza, quella vera: l’eliminazione delle sanzioni e non solo parole di cordoglio.

Dalle immagini rilanciate in tutto il mondo chiunque può constatare che chi soffre sono i poveri, la gente normale, che a fatica riesce a mangiare e scaldarsi in questo ennesimo inverno, e in quest’ora tragica vede la vita e gli affetti perire sotto macerie che pare impossibile rimuovere per la scarsità dei mezzi a disposizione.

Noi, con le nostre Sorelle in Siria, non smettiamo di sperare.

 https://www.fondazionemonasteri.it/azer-provincia-di-homs-siria-nostra-signora-fonte-della-pace/


L'appello delle Trappiste per l'abolizione delle SANZIONI :

https://oraprosiria.blogspot.com/2023/02/appello-pressante-dalle-trappiste.html


Per donazioni in aiuto alle popolazioni colpite dal terremoto in Siria:

INTESA SANPAOLO
intestato a Monastero Cistercense di Valserena
IBAN: IT10K0306909606100000002045
BCITITMM

Causale: Terremoto

Per chi ha bisogno della ricevuta valida per la detrazione può fare la donazione attraverso l’associazione Nostra Signora della Pace specificando bene la causale. (deducibili dalle tasse ai sensi del D.L.G. 460/97)

INTESA SANPAOLO
intestato a: Associazione Nostra Signora della Pace
IBAN: IT61M0306909606100000002047
BCITITMM

Causale: Terremoto