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mercoledì 4 dicembre 2024

Tutte le grandi potenze coinvolte nella nuova guerra in Siria

 di Gianandrea Gaiani

L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste dell’Esercito Nazionale Siriano (ENS, la formazione delle forze anti-governative), incluse quelle dell’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo note come Fronte al-Nusra e inserite nella rete di al-Qaeda (sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib) va inserita nel più ampio contesto conflittuale che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria e da Israele all’Iran.

I miliziani raccolti intorno al gruppo islamico Hayat Tahrir al-Sham (HTS) con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un'offensiva contro le forze governative conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l'aeroporto militare di Abu Dhuhur, tra Hama e Aleppo, anche se in città sembra siano ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (FDS), impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori caduti nelle mani dei jihadisti.

L’offensiva ha visto coinvolte milizie jihadiste kirghize, uzbeke e di altre nazionalità inclusi i ceceni del gruppo salafita Ajnad al Kavkazgià impegnato nella guerra civile siriana, poi trasferito sul fronte ucraino ed ora rientrati nel nord della Siria. Proprio ai ceceni e forse agli uomini dell’intelligence militare ucraina (GUR) la cui presenza tra i ribelli siriani viene da tempo segnalata da fonti russe, ucraine, turche e curde, si devono alcune modalità tattiche adottate dai ribelli che hanno espanso il più possibile la loro presenza sul territorio utilizzando social e media per tentare di dimostrare la rapida conquista di diverse località.

Per questa operazione sono state di fatto riunite tutte le milizie dell’internazionale del jihad che costituirono la “legione straniera” di al-Qaeda e più tardi dello Stato Islamico, jihadisti che oggi con qualche imbarazzo vengono considerati combattenti legittimi o “ex terroristi” da turchi e occidentali.

Nulla di nuovo a ben guardare: durante la guerra civile che sconvolse la Siria tra il 2012 e il 2020 le milizie dello Stato Islamico ricevettero per un periodo ampio supporto dalla Turchia (dove l’ISIS vendeva il petrolio estratto clandestinamente in Siria e Iraq) mentre molte milizie “moderate” addestrate in territorio turco dai consiglieri militari di Stati Uniti e alcune nazioni europee appena attraversato il confine siriano confluivano nelle milizie qaediste o dell’Isis.

Per Bashar Assad l'offensiva dei ribelli jihadisti filo-turchi nel nord della Siria è un tentativo di "ridisegnare la mappa della regione" mentre il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan (ex capo dell’intelligence di Ankara), ha affermato che le attuali tensioni in Siria non sono dovute all'intervento di Paesi stranieri ma a questioni risalenti alla guerra civile iniziata nel 2011 che non sono ancora state risolte. «Damasco deve trovare un riconciliazione con l'opposizione» e ha sottolineato che la Turchia può aiutare a questo proposito.

Sul piano militare l’esercito siriano è stato costretto a ripiegare poiché indebolito dal ritiro delle milizie libanesi di Hezbollah che fornirono un ampio supporto alle forze di Damasco, ma erano state richiamate in Libano in vista del conflitto con Israele.

L’offensiva jihadista in Siria è stata scatenata, non certo casualmente, subito dopo il cessate il fuoco (più o meno stabile) tra Hezbollah e Israele. Del resto negli ultimi mesi le forze aeree israeliane si erano accanite sulle postazioni e i depositi di armi e munizioni di Hezbollah e dell’esercito siriano intorno alla città di Aleppo. Area distante dal confine israeliano a conferma che lo Stato ebraico ha volutamente indebolito le forze siriane e i suoi alleati in quella regione per favorire l’attacco jihadista.

Anche quella tra qaedisti e israeliani non è certo un’alleanza inedita dal momento che negli anni scorsi molti ribelli salafiti rimasti feriti negli scontri con le truppe siriane nel sud della Siria sono stati curati negli ospedali militari israeliani nelle alture del Golan, territorio siriano che Israele occupa dal 1967. Più sorprendente invece è l’intesa tra Israele e la Turchia, nazione che ha certamente chiuso un occhio sull’afflusso di armi e munizioni che hanno consentito ai miliziani jihadisti di scatenare l’offensiva, inclusi droni FPV e altri equipaggiamenti provenienti con ogni probabilità dagli arsenali ucraini.

Del resto Israele punta sulla caduta del regime di Bashar Assad per interrompere la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna sciita” che unisce Iran, Iraq, Siria e Libano consentendo l’alimentazione di Hezbollah. Allo stesso modo Recep Teyyp Erdogan sembra aver rinunciato a negoziare con Bashar Assad il rientro in Siria di almeno due milioni di profughi siriani da anni ospitati in Turchia, Vladimir Putin si era offerto di mediare la riappacificazione tra i due capi di governo ma la l’attacco jihadista certo non facilita colloqui.

Erdogan potrebbe quindi puntare sia a rimpatriare i profughi nelle aree sotto controllo dei miliziani sia a utilizzare questi territori per ampliare le operazioni militari contro le forze curde, schierate nel nord e nell’est della Siria che fanno parte del Fronte Democratico Siriano sostenuto dagli Stati Uniti i quali però sembrano avere interesse nel sostenere lo sviluppo dell’offensiva jihadista per colpire Assad e gli interessi russi.

Negli ultimi tempi l’amministrazione Biden ha ammorbidito le sue posizioni nei confronti della Turchia aprendo a forniture di armi fino a ieri negate, come i moderni aerei F-16 Viper o forse addirittura gli F-35, accettando quindi che Ankara schieri missili da difesa aerea russi S-400. Un ammorbidimento che Erdogan potrebbe aver compensato sostenendo senza troppo clamore l’offensiva jihadista in Siria o lasciando transitare armi dirette ad alimentarla.

Circa il ruolo degli Stati Uniti l’offensiva jihadista sembra rientrare tra i “colpi di coda” dell’Amministrazione Biden, intenzionata a lasciare in eredità il maggior numero possibile di crisi da gestire. Non è un caso che dopo la vittoria elettorale di Donald Trump sia stato dato il via libera agli ucraini per colpire il territorio russo con i missili balistici ATACMS, siano esplose rivolte anti-governative in Georgia e sia stata scatenata l’offensiva jihadista in Siria.

Peraltro in Siria gli Stati Uniti mantengono una presenza militare di occupazione, illegale per il diritto internazionale. Delle 4 aree che controllano quella meridionale di al-Tanf è a ridosso del confine giordano e permette di proteggere diversi gruppi di ribelli anti-Assad ma le altre tre nella Siria Orientale sono dislocate in prossimità di pozzi petroliferi. Truppe americane che hanno da anni il solo compito di impedire al governo siriano di sfruttare le risorse energetiche per la ricostruzione post-bellica.    

Vale la pena ricordare che nel suo primo mandato Trump si era espresso a favore del ritiro dei militari dalla Siria ma le pressioni del Pentagono bloccarono quell’iniziativa. Nei mesi scorsi però il governo iracheno ha stabilito che le truppe statunitensi e alleate schierate in Iraq dai tempi della guerra allo Stato Islamico dovranno ritirarsi entro settembre 2025. Senza le basi in Iraq non sarà più possibile mantenere quelle in Siria a meno che non vi sia un cambio di regime a Damasco.

Del resto la posizione assunta da Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania appare chiara pur celandosi dietro qualche ambiguità. «L'attuale escalation non fa che sottolineare l'urgente necessità di una soluzione politica del conflitto a guida siriana, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite», si legge in una dichiarazione congiunta rilasciata dal Dipartimento di Stato statunitense, che fa riferimento alla risoluzione Onu del 2015 che approva un processo di pace in Siria e cioè la fine del regime di Bashar Assad. 

Una posizione che sembra mutuata direttamente da quella di Washington, dove il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha detto che «i principali sostenitori del governo siriano - Iran, Russia ed Hezbollah - erano tutti distratti e indeboliti da conflitti ed eventi altrove».

L’Amministrazione Biden non sembra quindi aver perso l’occasione per contribuire alla destabilizzazione anche in questa regione colpendo così gli interessi di Russia e Iran, che però non restano a guardare.

Nella guerra che finora sembra aver provocato meno di 500 vittime le forze aeree russe basate a Latakya sono intervenute fin dalle prime ore dell’offensiva e del resto da settimane i velivoli Sukhoi russi colpivano le milizie jihadiste nella regione di Idlib, forse sospettando imminenti minacce.

Se l’obiettivo di Washington e Kiev era di indurre Mosca a ritirare truppe dall’Ucraina per inviarle in Siria, almeno per ora non sembra essere stato raggiunto. I russi stanno intensificando i raid aerei e forse invieranno altre unità di forze speciali ma la nuova guerra in Siria, al pari dell’attacco ucraino alla regione di Kursk, non sembrano costringere Mosca a ridurre la pressione offensiva sui fronti ucraini.

Il grosso dei rinforzi destinati ad affiancare le truppe siriane sta affluendo dall’Iraq dove le milizie scite di mobilitazione popolare (MUP) sostenute dall'Iran ma integrate nelle forze armate di Baghdad (e già protagoniste della guerra contro l’ISIS) stanno trasferendo molti combattenti oltre il confine, nell’ambito del trattato tra Damasco e Baghdad che impegna entrambi al mutuo soccorsi contro la minaccia terroristica.

Le truppe governative siriane hanno costruito una linea difensiva nel nord della provincia di Hama nel tentativo di bloccare lo slancio offensivo jihadista raccogliendo tutte le forze disponibili. Anche l’Iran potrebbe inviare reparti di pasdaran dopo il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha incontrato domenica a Damasco il presidente Assad annunciando il pieno sostegno di Teheran. Ma di certo la presenza di più truppe iraniane in Siria non sarà gradita a Israele. Anche per questo il conflitto riesploso in Siria rischia di rappresentare l’anello di congiunzione tra la guerra in Ucraina e quella tra Israele e gli alleati dell’Iran.  

Il Cremlino continua a sostenere Assad (anche se ieri si siano diffuse voci di un golpe militare a Damasco) come ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. «Naturalmente continuiamo a sostenere Bashar al Assad», ha detto Peskov: «Continuiamo i nostri contatti ai livelli appropriati e analizziamo la situazione. Sarà valutato quello che è necessario fare per stabilizzare la situazione».

https://lanuovabq.it/it/tutte-le-grandi-potenze-coinvolte-nella-nuova-guerra-in-siria

lunedì 10 febbraio 2020

Cosa succede a Idlib?


di Gianandrea Gaiani 

Scontri annunciati e poi smentiti o ridimensionati tra truppe regolari siriane ed esercito turco, tensione alle stelle negli avamposti turchi nel nord ovest della Siria ormai circondati dalle truppe di Bashar Assad e russe; ed infine l’Iran, che a conferma della gravità della situazione, si offre di mediare tra Ankara e Damasco.
L’ennesima fase di tensione tra turchi e siriani, dopo l’attacco di Ankara nel nord della Siria dell’ottobre scorso, si è aperta nella provincia nord-occidentale di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli jihadisti sostenuti con armi e truppe dalla Turchia.

L’Esercito Arabo Siriano ha lanciato da un paio di settimane un’offensiva che potrebbe rivelarsi risolutiva spazzando via le milizie qaediste e di altri gruppi estremisti islamici e riconquistando la regione di confine con la Turchia nel nord ovest.
L'8 febbraio l’esercito siriano, sostenuto da aerei e truppe russi, ha conquistato dopo due giorni di duri combattimenti Saraqeb, crocevia strategico nella regione all'incrocio delle autostrade Latakia-Aleppo e Hama-Aleppo.
Mercoledì scorso i media governativi avevano annunciato la presa di Saraqeb, ma fonti sul terreno e miliziani anti-regime avevano smentito la circostanza.
L' Onu ha documentato lo sfollamento di più di 200mila persone nelle ultime due settimane dalla zona di Saraqeb e dei distretti circostanti investiti dall' offensiva governativa e russa. In tutto, sempre secondo l'Onu, sono quasi 600mila i civili sfollati a Idlib da inizio dicembre scorso, quando prese il via l’operazione siriana che potrebbe concludere la guerra civile in atto dal 2012.

Nei giorni precedenti, l’offensiva siriana aveva determinato numerosi contatti con le forze turche. L’uccisione di 5 soldati e 3 contractors di Ankara (già quasi 150 i caduti turchi in Siria), dopo che i siriani avevano lamentato l’arrivo di un convoglio di 240 camion turchi carichi di rifornimenti per i ribelli, aveva determinato un bombardamento di rappresaglia che avrebbe ucciso 13 soldati siriani e ferendone una ventina, anche se il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, ha rivendicato l'uccisione di 76 militari di Damasco.
Le forze governative siriane avevano poi circondato la postazione di osservazione militare turca di Tell Tuqan, nei pressi di Saraqeb, a est del capoluogo di Idlib e teatro degli scontri tra turchi e siriani.

Consapevole delle ripercussioni interne di un inasprimento del conflitto siriano, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha annunciato prossime consultazioni con Mosca, un asse strategico che finora ha garantito un equilibrio lungo tutto il confine siro-turco. Un accordo che prevedeva anche la tregua a Idlib anche se il legittimo desiderio di Assad di chiudere la guerra con la vittoria nell’ultima roccaforte dei ribelli jihadisti non può essere messo in discussione, soprattutto sul piano giuridico.

È evidente che la presenza di milizie jihadiste così come di militari turchi nel nord e statunitensi (questi ultimi intorno a un paio di pozzi petroliferi nella Siria orientale) è del tutto illegittima e autorizza Assad a compiere ogni azione per liberare il territorio nazionale.
La posizione russa mostra ambiguità poiché da un lato tende a rassicurare i turchi circa gli accordi raggiunti nelle zone di "de-escalation" ma poi appoggia con truppe e raid aerei ed elicotteri le offensive di Assad a Idlib.

Il 5 febbraio Erdogan è tornato a minacciare i siriani promettendo che Ankara "interverrà" se gli uomini di Damasco non si ritireranno entro febbraio dalle aree di Idlib dove sono presenti i turchi. "Ne ho parlato con il presidente russo Vladimir Putin e ho detto che il regime deve ritirarsi dalle aree dei nostri check point entro febbraio, come stabilito dagli accordi di Sochi, se il ritiro non avverrà saremo costretti a intervenire", ha detto Erdogan. "A Idlib abbiamo dei check-point costituiti d'accordo con la Russia e non vogliamo avere problemi con i nostri alleati con cui gli accordi e i patti saranno mantenuti. Con la Russia abbiamo relazioni ottime e ci aspettiamo sensibilità da parte di Mosca nel capire la nostra posizione in Siria”.
Damasco ha risposto con un portavoce del ministero della Difesa che ha reso noto che "i militari risponderanno a ogni attacco proveniente dalle forze turche nella regione di Idlib”.
L’obiettivo di Assad (e di Mosca) sembra quindi essere quello di ottenere rapidi successi sul fronte nord occidentale ma senza attaccare direttamente gli avamposti turchi per mettere Ankara di fronte alla rapida riconquista della provincia e indurre le truppe turche al ritiro.

Non è certo la prima volta che Siria e Turchia si trovano ai ferri corti dall’inizio del conflitto civile (largamente ispirato da Ankara) e certo Erdogan può mettere in campo un discreto dispositivo militare, ma sul fronte interno non può permettersi ulteriori gravi perdite tra i suoi soldati che avrebbero un forte peso sociale. Anche per questo i turchi impiegano preferibilmente, in Siria come in Libia, volontari e mercenari siriani arruolati tra i disertori sunniti dell’esercito di Assad, le milizie jihadiste sunnite e la minoranza turcomanna.

Fonte: https://lanuovabq.it/it/scontri-a-idlib-siria-e-turchia-non-si-tengono

I media non vi dicono perché la Turchia ha invaso la Siria. Facciamo chiarezza

Da parte dell’informazione su Idlib sembra in atto una congiura del silenzio. Anzi peggio: è in atto una distorsione delle notizie, una selezione e sostituzione delle parole (“ribelli” invece di pericolosi takfiri), la censura di altre. Finché a capovolgere in maniera diametralmente opposta i fatti, ci sono le campagne mediatiche dei soliti media center (in passato abbondantemente smascherati ma tornati magicamente alla ribalta).
Mentre questo fuoco di sbarramento informativo è per noi, la parte più dura la devono sopportare i siriani: le sanzioni internazionali rimangono, le centrali elettriche, i depositi di energia e impianti petroliferi siriani vengono attaccati frequentemente da droni di ”paesi” la cui tecnologia non è alla portata dei militanti jihadisti. Infine il simbolo ecco più efficace: Europa che si dice che lotta contro il terrorismo, ha minacciosamente mandato sulle coste della Siria la portaerei francese Charles de Gaulle. Non male per far sentire tutta la nostra amicizia, in un momento per la Siria di estrema difficoltà.
......
Poi c’ è un altro punto mai toccato riguardo alle tensioni tra Turchia e Siria di questi giorni. Nessuna testata giornalistica dice chiaramente cosa sta effettivamente facendo Erdogan,
 ovvero chi sono i soggetti che si combattono nella provincia di Idlib, chi la detiene, che tipo di vita conduce la popolazione e chi è l’aggressore. Non fornire mai questi elementi al giudizio pubblico, è molto scorretto da parte dell’informazione.

Il vero motivo per cui la Turchia non vuol mollare la Siria

Eppure è molto semplice : Erdogan”, fa ogni cosa, fa tutto ciò che sta facendo, ha preoccupazioni umanistiche perché semplicemente non vuol lasciare la Siria. Ed in questi giorni ha ammassato intorno ad Idlib una mole gigantesca di mezzi e truppe che vanno in crescendo. In questo contesto, gli Stati Uniti, già fanno per riavvicinarsi ad Erdogan mostrando il proprio sostegno. Nulla importa se in quell’area all’ufficio comunale siede il capo locale di al Qaeda, che ad amministrare la legge ci sia il tribunale della Sharia e che alle scuole i minorenni imparino solo la dottrina whabita. Non ci troviamo in Venezuela e non occorre un Guaido da contrapporre al cattivissimo Maduro, in Siria vanno bene i tagliagole di al Qaeda.
Ma lasciamo stare le ambiguità occidentali, alla sua lotta al terrorismo che serve solo a sfornare una nuova scusa utile all’occorrenza per intervenire dove si vuole o giustificare una sottrazione di libertà ai propri cittadini all’insegna della sicurezza. Torniamo a noi dicevo, torniamo ad Erdogan: a cosa mira Erdogan? Cosa si aspetta da tutto questo ”il Sultano”, a cosa mira? La risposta è semplice, anche se nessuno la proferisce: Erdogan semplicemente cerca di cambiare il quadro etnico nelle regioni del paese occupato dalla Turchia – per cacciare i curdi e gli arabi, per formare enclavi compatte per i turchi – Turkmeni siriani vicino ai turchi in lingua e cultura.
Nelle aree sotto il controllo dell’esercito turco, la lira turca è in circolazione e le scuole sono introdotte secondo gli standard turchi. Cosa c’è da capire? Viene a pensare che la stampa occidentale mentre si strappa le vesti per i civili che muoiono sotto i bombardamenti, sia in linea con Erdogan. Altrimenti caccerebbe le bande di Tharir al Sham da Idlib e restituirebbe la sovranità al paese. La stessa cosa farebbero gli USA la nord della Siria dove continuano ad uno stato sovrano (riconosciuto dalle Nazioni Unite), a distogliere risorse e a costruire basi.
L’Europa ed il mondo occidentale in genere, non parla chiaro, e questo non parlar mai chiaro non può uscire mai niente di buono anche se molti sono convinti del contrario. L’ambito che oggi detiene i principali diritti dell’uomo dell’uomo non si rende conto che agire in modo disonesto ed essere bravi solo con gli alleati ed agire in modo disonesto con tutti gli altri, alla lunga non paga. Agire in questo modo equivale a barare. Non si può intrattenere buoni rapporti solo con partner strategici: anche un piccolo paese deve poter essere sovrano, indipendente, rispettato  e vivere dignitosamente.

domenica 5 gennaio 2020

La pace del mondo in bilico dopo l'uccisione di Soleimani


Il nunzio apostolico in Iran, arcivescovo Leo Boccardi, dopo l’uccisione del generale Soleimani ha dichiarato in un’intervista a «VaticanNews» :
Tutto questo crea preoccupazione e ci dimostra quanto è difficile costruire e credere nella pace. La buona politica è al servizio della pace, tutta la comunità internazionale deve mettersi al servizio della pace, non soltanto nella regione ma nel mondo intero. Certamente, in queste ore, si respira una forte tensione in Iran. Ci sono state manifestazioni dove, dopo l’incredulità, si sono registrati violenza, dolore e protesta.
L’appello è quello di abbassare la tensione, chiamare tutti al negoziato e credere al dialogo sapendo, come la storia ci ha sempre insegnato, che la guerra e le armi non sono le soluzioni ai problemi che affliggono il mondo di oggi. Bisogna credere nel negoziato. Si deve credere nel dialogo. Bisogna rinunciare al conflitto e si deve “armarsi” con le altre armi che sono quelle della giustizia e della buona volontà.
Occorre continuare a prodigarsi e a portare all’attenzione della comunità internazionale la situazione del Medio Oriente. Una situazione che deve essere risolta e si devono chiamare tutti alla responsabilità diretta che abbiamo. Pacta sunt servanda, dice una regola importante della diplomazia. E le regole del diritto devono essere rispettate da tutti.”
L'immagine può contenere: strisce

America contro tutti con l’uccisione del generale Soleimani

  di Gianandrea Gaiani

L’uccisione a Baghdad del comandante della divisione al-Quds dei pasdaran iraniani, il generale Qassem Soleimani, non costituisce solo l’ennesima esecuzione mirata effettuata dagli Stati Uniti ormai in ogni angolo del mondo, ma rappresenta un vero e proprio spartiacque tra Washington e il resto del mondo, alleati inclusi.
Poco importa se, sul piano tecnico-militare i due veicoli Suv polverizzati all’aeroporto di Baghdad siano stati colpiti dai missili Hellfire lanciati da un elicottero AH-64E o da un velivolo teleguidato MQ-9 Reaper.
Quel che conta in termini politico-strategici è che gli Stati Uniti hanno ucciso Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis (vice comandante delle Unità di Mobilitazione Popolare, le milizie scite irachene filo-iraniane protagoniste della campagna vittoriosa contro lo Stato Islamico) come se si trattasse di capi talebani o di leader di milizie e gruppi terroristici qaedisti o dell’Isis.

Soleimani era un generale comandante di una forza governativa, cioè un’alta personalità dello Stato iraniano mentre al-Muhandis era un alto ufficiale di una milizia integrata nell’apparato militare dello Stato iracheno, lo stesso Stato che ha un accordo con Washington per ospitare forze statunitensi che certo non prevede vengano impiegate per colpire figure istituzionali oppure ospiti e amici dell’Iraq.
Non si tratta solo di ingerenza arbitraria ma di un raid effettuato dagli USA con velivoli decollati probabilmente dall’Iraq che hanno colpito a Baghdad personalità dello Stato iracheno e iraniano ritenute ostili da Washington che, come fa Ankara con i curdi, definisce “terroristi” tutti i suoi avversari inclusi gli iraniani.
Definizione improbabile tenuto conto del ruolo fondamentale ricoperto da pasdaran e milizie scite nello sconfiggere lo Stato Islamico in Iraq e Siria.

L’enormità di quanto è accaduto a Baghdad non può essere sottovalutata anche in termini di rispetto della sovranità di uno Stato amico degli stati Uniti. Come reagiremmo se aerei statunitensi decollati da Aviano o Sigonella colpissero alti ufficiali italiani e di un paese amico di Roma bombardando i loro veicoli all’aeroporto di Fiumicino? Come definiremmo il raid di un drone iraniano che uccidesse con un missile a Baghdad un generale dei marines o delle special forces statunitensi? Senza dubbio lo definiremmo un atto di terrorismo.
E’ vero che gli iraniani erano presenti alla violenta manifestazione tenutasi davanti all’ambasciata americana a Baghdad ma quell’evento è stata una risposta non molto pacifica a un atto di guerra quale i raid aerei statunitensi su una base delle milizie scite irachene.

Certo, le tensioni tra statunitensi e milizie filo-iraniane in Iraq avevano messo da tempo a dura prova i rapporti tra Baghdad e Washington ma le pesanti ripercussioni dell’uccisione di Soleimani non sfuggono neppure ai vertici dell’Amministrazione Trump.
Il Pentagono ha subito tenuto a precisare che “per ordine del Presidente le forze armate hanno adottato misure difensive decisive per proteggere il personale americano all’estero uccidendo Qassem Soleimani”. Una dichiarazione che cerca di giustificare l’omicidio come un’azione difensiva attribuendo al tempo stesso la responsabilità a Trump.

Il segretario di Stato, Mike Pompeo, si è impegnato a spiegare ad amici e alleati le ragioni degli USA ma ha incassato un plauso solo da Gerusalemme (peraltro scontato) mentre ovunque dilagano scetticismo, sconcerto e condanne più o meno manifeste. Intanto i presidenti russo e francese discutono ormai sempre più apertamente su come contrastare la politica muscolare degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Di fronte agli scarsi risultati ottenuti dalla sua campagna in cerca di consenso e comprensione, Pompeo, ha pensato bene di bacchettare gli alleati europei (ancora !!) che, a suo giudizio, non sono stati “così disponibili” nel comprendere le ragioni che hanno spinto gli americani a uccidere Soleimani. “Ho parlato con i nostri partner nella regione del Medio Oriente per spiegare loro cosa stessimo facendo, perchè lo stessimo facendo, e per chiedere loro assistenza. Tutti sono stati fantastici. Ma le mie conversazioni con i nostri partner in altri luoghi non sono state altrettanto positive. Francamente, gli europei non sono stati così disponibili come avrei voluto che fossero. Gli inglesi, i francesi, i tedeschi, tutti devono capire ciò che hanno fatto gli americani, hanno salvato vite umane anche in Europa”.
Valutazione che ben spiega quale sia il concetto di alleanza con l’Europa della leadership statunitense, già peraltro ben evidenziato in passato.

Di fatto Washington (fin da prima dell’attuale amministrazione) ci dice da anni che dobbiamo accettare che i russi siano di nuovo “cattivi”, che dobbiamo spendere di più per la Difesa (ma comprando prodotti “made in USA”), che l’accordo sul nucleare con l’Iran andava abrogato (cin sanzioni economiche annesse) pur in assenza di violazioni da parte di Teheran e ora pretende di convincerci che se gli americani ammazzano chiunque desiderino e bombardano ovunque ritengano necessario in barba a ogni norma del diritto, lo fanno per il nostro bene.
Meglio metterlo in conto: con visioni così semplicistiche e supponenti i rapporti con gli USA saranno per tutti sempre più ardui e complicati mentre la pretesa di averci come vassalli plaudenti rende agli europei sempre più difficile essere amici e alleati degli Stati Uniti.

Difficile scongiurare l’escalation che l’uccisione di Soleimani con ogni probabilità finirà per generare, soprattutto in un Iraq già da tempo in preda a una profonda crisi interna che mina la residua credibilità delle istituzioni in mano agli sciti e rilancia, per l’ennesima volta dalla rimozione del regime di Saddam Hussein, il confronto tra sciti e sunniti.
L’Iran potrebbe rispondere presto all’uccisione di Soleimani in termini militari mentre Baghdad sarà con ogni probabilità costretta da pressioni da parte di molti partiti sciti e di Teheran a chiedere agli Stati Uniti di ritirare i circa 5mila militari presenti nel paese nell’ambito della Coalizione anti-Isis di cui fanno parte anche i contingenti alleati inclusi 900 militari italiani.
Soldati barricati nelle basi nel timore di trovarsi coinvolti in qualche rappresaglia, scambiati per americani, dopo il raid all’aeroporto di Baghdad circa il quale gli USA non avevano neppure informato gli alleati della coalizione.

L’aperta ostilità con l’Iran e il mondo scita, ufficializzata platealmente con l’uccisione di Soleimani, preoccupa Roma (che schiera soldati a Baghdad e Irbil ma anche in mezzo agli Hezbollah nel libano del Sud) ma anche le stesse monarchie del Golfo che vedono oggi ancor più concreto il rischio di una guerra con Teheran ma soprattutto devono oggi guardare con crescente diffidenza le forze militari statunitensi presenti sul loro territorio.
Forze che evidentemente Washington considera di poter impiegare senza limitazioni nonostante gli accordi sottoscritti. Un aspetto su cui necessariamente rifletteranno da oggi in tanti, in Medio Oriente come in Europa.
E’ ancora tollerabile per Baghdad e il mondo arabo che in queste ore i caccia statunitensi basati in Giordania, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti sorvolino liberamente l’Iraq per proteggere le proprie basi e, qualora lo ritenessero necessario, bombardino installazioni e milizie in territorio iracheno?
Queste forze statunitensi costituiscono ancora un elemento di stabilizzazione regionale o non sono al contrario strumenti per accentuarne una destabilizzazione? Una destabilizzazione che colpirebbe anche in termini petroliferi i paesi produttori e i principali consumatori, eccetto quelli già autosufficienti come gli Stati Uniti.
L'immagine può contenere: spazio all'aperto e acqua
Milioni di iraniani si uniscono per  la cerimonia di addio per il generale Soleimani e i suoi compagni

Secondo alcuni analisti l’uccisione così plateale di Soleimani ha l’obiettivo di ripristinare la deterrenza statunitense nel Golfo, per ammonire Teheran che gli USA sono sempre pronti a mordere le forze iraniane e dei suoi alleati quali Hezbollah o le milizie scite in Iraq. L’impressione è invece che l’attacco contro il leader dei pasdaran punti a far saltare i precari equilibri che tengono malamente insieme l’Iraq facendolo sprofondare nella guerra civile. Soleimani era un “obiettivo pagante” ma la sua eliminazione non costituisce nessun vantaggio: al suo posto è già stato nominato il suo vice, il generale Esmael Ghaani (nella foto sotto), che continuerà a guidare i pasdaran per garantire gli interessi dell’Iran oltre i confini nazionali.
Anzi, in un Iran diviso al suo interno dalla crescente insofferenza nei confronti del regime, la morte di un eroe nazionale così popolare come Suleimani aiuterà a cementare il patriottismo intorno al governo.

Ancora Mike Pompeo, subito dopo il raid ha annunciato su Twitter che si vedono iracheni in festa per strada dopo l’annuncio della morte del generale iraniano. “Gli iracheni danzano nelle strade per la libertà, grati che il generale Soleimani non c’è più”.
A esprimere tanta gioia erano però gli abitanti dei quartieri sunniti di Baghdad e del resto Soleimani ha guidato gran parte delle operazioni contro l’insorgenza sunnita accentrata intorno al Califfato: dalla difesa di Baghdad nell’estate del 2014 (gestita dai pasdaran) fino alla riconquista di tutto il nord e l’ovest dell’Iraq nonché di parte dell’Est siriano.
Difficile immaginare che il tweet di Pompeo fosse inconsapevole, tenuto conto che l’attuale segretario di Stato è stato al vertice della CIA, ma se dopo aver istituito la Coalizione anti Isis ora Washington punta ad alimentare il revanchismo sunnita (specie ora che l’Isis sta rialzando la testa) è evidente che l’obiettivo ultimo è la definitiva destabilizzazione dell’Iraq.
Un obiettivo funzionale, nella visione strategica degli USA, a interrompere la continuità geografica e strategica della “Mezzaluna scita” che si estende dall’Iran bagnato dall’Oceano Indiano e dalle acque del Golfo Persico fino alle coste del Libano meridionale sulle rive del Mediterraneo attraverso Iraq e Siria.
Un obiettivo certo non nuovo per gli USA che fino a ieri lo hanno perseguito cercando di interrompere questa continuità geografica con il controllo dei territori orientali siriani (in mano ai curdi sostenuti da militari statunitensi, francesi e britannici) ad altri ribelli appoggiati dalle forze USA in Giordania, nel settore di al-Tanf.

Nell’ottobre scorso l’intervento turco nel nord della Siria e il successivo accordo tra Ankara e Mosca hanno cambiato tutto mettendo fuori gioco gli statunitensi e permettendo a Damasco di riprendere il controllo dell’est del paese.
L’anello debole della “mezzaluna scita” su cui oggi Washington potrebbe far leva è quindi l’Iraq, sostenendo e alimentando l’insofferenza dei sunniti nei confronti del governo scita di Baghdad sostenuto dall’Iran e afflitto da sempre dai mali del settarismo e della corruzione.

venerdì 7 settembre 2018

Monsignor HINDO: «È in atto un piano per cacciar via i Cristiani dalla regione»

La Scuola Elementare 'Amal' in Hassakè (foto AINA).
Hassakeh contava 420 000 abitanti di cui 50 000 cristiani prima che Daesh circondasse la zona, ora la città conta solo 150 000 abitanti di cui 5000 cristiani. Ricordiamo che le chiese assire siriane fanno parte del patrimonio mondiale e sono tra le più antiche della cristianità.

di Gianandrea Gaiani
Dopo aver subito uccisioni, espropri, stupri e violenze di ogni tipo da parte dei miliziani jihadisti, prima qaedisti e salafiti e poi dello Stato Islamico, che hanno ridotto al lumicino la loro presenza, i cristiani delle regioni nord orientali siriane subiscono da tempo la “pulizia etnica” attuata dalle forze curde.
"Sono anni che lo ripeto, è in atto un tentativo da parte dei curdi di eliminare la presenza cristiana da quest' area della Siria" ha detto sabato monsignor Jacques Behnam Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, nel nord-est della Siria. Il presule conferma all’organizzazione Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS - autrice ogni anno di un rapporto che evidenzia le persecuzioni dei cristiani perpetrate in tutto il mondo e in particolare nel mondo islamico) la chiusura di alcune scuole cristiane da parte delle Forze Democratiche Siriane (FDS), la milizia curdo-araba istituita dagli Stati Uniti per strappare le aree tra Raqqa e la provincia di Deir Ezzor all’Isis e impedire alle truppe regolari di Damasco di riconquistare la regione orientale del Paese. Grazie agli aiuti Usa, che in quell’area mantengono basi e oltre 2mila militari, la regione nord orientale siriana è di fatto un territorio autonomo amministrato dalle Forze di difesa popolare curde (Ypg - braccio militare del partito curdo dell'Unione Democratica – PDY), protagoniste della difesa di Kobane e celebrate in Occidente come le più acerrime avversarie del Califfato.
"Già dall' inizio dell'anno, l'amministrazione locale ha preso possesso di un centinaio di scuole statali, nelle quali ha imposto un proprio programma scolastico e i propri libri di testo” – ha sottolineato monsignor Hindo. “I funzionari curdi ci avevano assicurato che non si sarebbero neanche avvicinati alle scuole private, molte delle quali sono cristiane. Invece non soltanto ci si sono avvicinati, ma ne hanno anche serrato le porte". La motivazione ufficiale della chiusura di varie scuole cristiane nelle città Qamishli, Darbasiyah e Malikiyah, è che tali istituti hanno rifiutato di conformarsi al programma imposto dalle autorità della regione. "Loro non vogliono che si insegni nella lingua della Chiesa, il siriaco antico, e non vogliono che insegniamo la storia, perché preferiscono inculcare agli alunni la propria storia". Nulla di diverso, in fondo, da quanto attuato negli stessi territori negli anni scorsi quando erano controllati dallo Stato Islamico.
Hindo non nasconde la preoccupazione, sia per la probabile chiusura di altre scuole cristiane - ve ne sono altre sei soltanto ad Hassaké - sia per i gravi danni che il programma scolastico "curdo", differente da quello ufficiale siriano, potrà causare agli studenti. "Ho detto ad un funzionario curdo che così una intera generazione verrà penalizzata, perché non potrà accedere a gradi di istruzione superiori. Lui mi ha risposto che sono disposti a sacrificare anche sei o sette generazioni pur di imporre la loro ideologia". La vicenda rappresenta una conferma del tentativo di "curdizzazione" di quella regione, un piano che secondo Hindo prevede anche l'allontanamento della locale comunità cristiana.
"È almeno dal 2015 che continuiamo a denunciare tale pericolo. Vogliono cacciar via noi cristiani per aumentare la loro presenza”. Ad oggi i curdi rappresentano soltanto il 20 percento della popolazione siriana ma controllano quasi per intero l’oriente siriano, a est del fiume Eufrate, soltanto grazie al sostegno dell’Occidente, Stati Uniti e Francia in testa, che grazie alle milizie curde cercano di impedire che l’intera Siria torni nelle mani di Assad e dei suoi alleati russi e iraniani. Le FDS controllano infatti un’area molto più ampia di quella abitata dalla popolazione curda siriana e la “pulizia etnica” ha l’obiettivo di allontanare i cristiani e “omogeneizzare” la popolazione ricollocando in queste aree le popolazioni curde cacciate dai militari turchi dalle aree di Afrin e Manbji. Attraverso ACS, il presule ha lanciato un appello alla comunità internazionale ed in particolare alle nazioni europee. "La chiusura delle nostre scuole ci addolora. È dal 1932 che la Chiesa gestisce questi istituti e mai ci saremmo immaginati che potessero venire chiusi. L'Occidente non può rimanere in silenzio. Se siete davvero cristiani dovete gettare luce su quanto sta accadendo ed impedire nuove violazioni dei nostri diritti e ulteriori minacce alla nostra presenza nella regione" ha concluso Hindo.
Non è la prima volta che i curdi, in Siria come in Iraq, puntano ad allargare le aree sotto il loro controllo a spese di minoranze di peso etnico inferiore. Lo hanno fatto nella città petrolifera irachena di Kirkuk cacciando soprattutto i turcomanni e, più a est nel Sinjar, gli Yazidi. Dopo la caduta di Mosul e la sconfitta dell’Isis in Iraq, l’invio di truppe di Baghdad e di milizie scite filo-iraniane in quelle regioni ha fatto tramontare il sogno indipendentistico del Kurdistan iracheno relegandolo a un’autonomia molto limitata. In Siria invece l’espansionismo curdo continua a manifestarsi grazie al supporto militare di Washington che finora ha impedito che prendesse piede la proposta di Damasco che offre autonomia ai curdi, ma limitata alla regione del Rojava, in cambio della restituzione allo Stato siriano dei territori oggi occupati dalle FDS che includono giacimenti e pozzi di gas e petrolio.
Il regime siriano di Bashar Assad ha sempre tutelato minoranze e confessioni diverse ed è stato in questi anni di guerra l’unico a sostenere le comunità cristiane. Donald Trump ha più volte manifestato l’intenzione di ritirare i militari statunitensi dalla Siria, iniziativa che renderebbe problematico per le FDS far fronte alle truppe di Damasco e ai loro alleati, inclusi gli iracheni che, come i turchi, non vedono certo di buon occhio la nascita “de facto” di uno Stato curdo nella Siria Orientale.

martedì 20 marzo 2018

A Damasco i jihadisti fanno un massacro, ma l’Occidente continua ad appoggiarli

Oggi, 20 marzo, 35 civili sono morti e almeno 40 feriti per un missile lanciato dai terroristi, trincerati nella Ghouta, sul mercato di Khashkoul nel quartiere Jaramana, oltre a causare grande distruzione di edifici e beni nel luogo. 
Altri razzi lanciati dalla Ghouta sono caduti su Mezzeh e hanno colpito le chiese di Bab Touma.


 di Gianandrea Gaiani


Come accadde durante la guerra libica del 2011 e come accade ormai da sette anni n Siria, da quando iniziò la guerra civile, è la propaganda jihadista a ispirare la comunità internazionale e il mondo dei media. Come è successo ad Aleppo e oggi a Ghouta Est, l’Occidente si indigna per le stragi di civili provocate dalle forze di Bashar Assad e ignora i morti provocati dai ribelli, premendo per instaurare tregue e cessate il fuoco che andranno a tutto vantaggio delle milizie jihadiste.
Per inciso, le stesse che ideologicamente propugnano lo Stato islamico retto dalla sharia e appoggiano e giustificano il terrorismo e il jihad contro gli infedeli (cioè noi) che colpisce negli Usa e in Europa.
Difficile distinguere tra buoni e cattivi in una guerra civile ma, pragmaticamente, pare evidente che l’alternativa al governo di Damasco non è la democrazia cantonale svizzera ma uno Stato islamico basato sulla legge coranica e in cui non ci sarebbe spazio per sciti, cristiani o altre fedi diverse dal più ortodosso islam sunnita.
Ciò nonostante Usa ed Europa continuano a sostenere i ribelli siriani appoggiati da Turchia e monarchie sunnite del Golfo benchè questo conflitto abbia comportato una serie di minacce devastanti per il Vecchio Continente, dalla fuga dei cristiani all’immigrazione illegale, dai foreign fighters al terrorismo.   Una cecità spiegabile solo con la valutazione che la nostra classe politica non sa quello che fa o che i miliardi di petrodollari investiti in Europa dai monarchi del Golfo hanno permesso di comprare non solo aziende, armi, alberghi e squadre di calcio ma anche molte coscienze politiche.
Non si può interpretare diversamente la credibilità accordata dai governi e dai media Occidentali, così come dalle organizzazioni internazionali, alle notizie provenienti da Ghouta, sobborgo di Damasco in mano da anni a diverse milizie jihadiste, alle notizie a senso unico fornite da Ong e fonti tutte legate a doppio filo agli insorti.


 Certo l’assenza di fonti neutrali è dovuta anche al rischio di omicidio e rapimenti che corrono i giornalisti che dovessero spingersi nelle aree in mano ai ribelli ma è altrettanti evidente che queste aggressioni compiute più volte ai danni dei media hanno il chiaro obiettivo di tenere lontane dal fronte le fonti neutrali per poter spacciare a piene mani la propaganda jihadista.
Gli esempi più eclatanti? I supposti attacchi con armi chimiche attribuiti al regime di Damasco sono stati maldestramente documentati da “Aleppo media center” e “Idlib media center”, cioè dagli uffici stampa delle milizie di al-Qaeda in Siria amplificati da diverse tv e media arabi per lo più basati nelle monarchie del Golfo ma hanno ugualmente avuto ampia eco e patenti di credibilità in tutto l’Occidente
Un copione già visto nel 2011 durante la guerra libica che determinò la caduta e la morte di  Muanmmar Gheddafi.  Ciò nonostante da sette anni i media italiani e di tutto il mondo riportano quasi sempre acriticamente le informazioni diffuse dall’Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), Ong con sede a Londra e a tutti gli effetti vicina ai ribelli.  L’Ondus diffonde dati sulle vittime dei raid aerei e dei bombardamenti di artiglieria governativi su Ghouta impossibili verificare ma che vengono ciò nonostante riportati dai media senza esporre dubbi circa la loro veridicità o circa l’affidabilità della fonte, di parte come lo è, dall’altro lato della barricata, l’agenzia di stampa governativa siriana SANA.
Per questo è ridicolo che UE e Onu si straccino le vesti per le condizioni dei civili a Ghouta, sotto attacco in seguito all’offensiva delle truppe di Assad ma non si preoccupino della popolazione di Damasco bersagliata dai mortai e dai razzi dei ribelli (di cui peraltro parlano in pochissimi).  Eppure fonti di tenore opposto o meno allineate, come quelle del clero cristiano siriano, non mancherebbero per cercare di offrire un’informazione quanto meno bilanciata.
Ad Aleppo come a Raqqa e ora a Ghouta i jihadisti non consentono l’evacuazione dei civili perché li utilizzano come scudi umani e per sacrificarli sull’altare della propaganda. Lo hanno fatto in precedenza anche i miliziani dello Stato Islamico a Sirte e Mosul e quelli di Hamas a Gaza, a conferma che si tratta di una tattica comune ai gruppi insurrezionali.
In questo contesto appare chiaro per quale ragione la comunità internazionale chieda il ripristino di un cessate il fuoco a Ghouta che ha l’obiettivo non certo di soccorrere i civili ma di dare respiro alle milizie jihadiste circondate e condannate alla sconfitta.  Qualcuno vuole forse farci credere che cibo e medicinali consegnati a Ghouta Orientale vengano distribuiti alla popolazione invece che gestiti direttamente dai miliziani islamisti?
Le truppe governative appoggiate dalle milizie sciite alleate e dalle forze aeree russe avanzano su tutti i fronti applicando la stessa tattica utilizzata con successo per espugnare il centro di Aleppo, città tornata a una parvenza di vita normale dopo la cacciata dei ribelli, in gran parte stranieri.   Inevitabili, come in tutti i conflitti, le vittime tra i civili ma attribuirle a una sola fazione in campo significa voler diffondere “fake news” (quelle che fino a ieri definivamo “bufale”) in modo consapevole.
Eppure lo stesso Occidente che piange per i ribelli jihadisti di Ghouta , dove i governativi evacuano i civili per completare le operazioni belliche, sembra aver dimenticato i curdi che pure celebravamo come eroi quando combattevano lo Stato Islamico a Kobane. Ora che combattono gli invasori dell’esercito turco e delle milizie “moderate” dell’Esercito Siriano Libero, l’Europa si volta dall’altra parte.
Del resto c’è poco da aspettarsi dai “Cuor di Leone” che governano l’Europa, proni ai petrodollari del Golfo e al “sultano” di Ankara che ci prende ormai da anni a calci da Cipro alla Libia, dal fronte dei flussi migratori a quello del gas senza mai perdere occasione di accusare gli europei di nazismo e islamofobia.  Certo alla Turchia si può rimproverare la mancanza di scrupoli ma non certo di coerenza nel perseguire i propri interessi nazionali: negli anni scorsi Ankara non ha esitato a sostenere lo Stato Islamico, acquistandone il petrolio estratto nei pozzi occupati in Iraq e Siria e favorendo l’attacco jihadista a Kobane, pur di cacciare o vedere sottomessi i curdi in Siria.
Ciò nonostante non c’è bisogno di scomodare grandi giuristi per sapere che l’invasione turca di Afrin viola il diritto internazionale, così come la presenza militare statunitense in Siria. Possibile che in quella grande coniglieria che è divenuta l’Europa nessuno senta il bisogno di mostrare un sussulto di dignità?  Anche in virtù dei nostri interessi considerato che ogni occupazione militare porta alla fuga di masse di persone che almeno in parte cercheranno di riversarsi in Europa, anche perchè le ricche monarchie sunnite del Golfo che hanno voluto la guerra civile siriana non li vogliono.
D’altra parte quali equilibri guidino oggi la cosiddetta “comunità internazionale” anche nell’ambito della gestione dei conflitti è apparso chiaro l’anno scorso quando un rapporto dell’Onu accusò i sauditi e le altre monarchie del Golfo Persico impegnate nel conflitto nello Yemen di colpire volontariamente i civili nelle regioni in mano ai ribelli sciiti Houthi.   Riad minacciò di togliere i suoi cospicui finanziamenti alle Nazioni Unite se il documento di condanna non fosse stato ritirato e il segretario generale, all’epoca Ban Ki-moon, obbedì al diktat saudita pur esprimendo “profondo rammarico”.

mercoledì 14 giugno 2017

La rimonta dell'esercito siriano

in rosso i territori retti dallo stato siriano

di Gianandrea Gaiani
La Bussola Quotidiana, 14 giugno 2017

Lo Stato Islamico sta crollando in Iraq e Siria, Abu Bakr al-Baghdadi è stato probabilmente ucciso, ma l’intera vicenda sta passando sotto un profilo fin troppo basso rispetto alla sua portata, forse perché la fine del Califfato non porterà la pace e la stabilizzazione da molti auspicata in quella regione.
Nell’area di Raqqa, venerdì scorso, sarebbe stato ucciso il Califfo nel corso di un raid aereo dei jet di Damasco. Lo ha riportato la tv di Stato siriana rilanciata anche dai media russi, ma la notizia non è stata finora confermata da nessuna altra fonte ufficiale. Le forze curdo-siriane sostenute dagli Stati Uniti sono entrate il 9 giugno a Raqqa, “capitale” dell’Isis nel nord della Siria, e hanno conquistato terreno nella parte orientale della città. Nelle ultime ore le milizie curde e arabe delle Forze Democratiche Siriane (SDF) sono avanzate dal quartiere Mashlab vero la zona industriale e sono in corso combattimenti a poche centinaia di metri dal perimetro orientale dell'antica cinta muraria della città sull'Eufrate.
L’offensiva che ha portato le SDF, appoggiate da forze speciali anglo-americane, a raggiungere la capitale del Califfato avrebbe provocato anche 653 vittime civili dal 15 marzo ad oggi a causa dei raid della Coalizione internazionale a guida Usa e dei bombardamenti dell’artiglieria delle milizie curde, secondo quanto riferito ad Aki-Adnkronos International da attivisti siriani. Come spiega Khalil al-Abdallah “negli ultimi due mesi il numero delle vittime civili è aumentato notevolmente, poiché l’amministrazione Usa ha consegnato armi alle milizie curde e ha allentato i vincoli imposti ai raid dei caccia della Coalizione".
L’aspetto più rilevante è però che l’offensiva sulla città è in corso su tre lati: da est, da nord e da ovest lasciando un corridoio a sud che consente ai 4mila miliziani, che si stima difendano la città, di ritirarsi verso le aree in cui lo Stato Islamico combatte contro le truppe di Damasco. Il comando russo in Siria accusa la Coalizione a guida Usa e i gruppi armati curdi di permettere ai miliziani dell’Isis di lasciare Raqqa e di “dirigersi verso le province dove sono attive le forze governative siriane. Invece di eliminare i terroristi colpevoli dell’uccisione di centinaia e migliaia di civili siriani – ha detto il comandante delle truppe russe in Siria, generale Serghiei Surovikin – la Coalizione a guida Usa assieme alle SDF, agiscono in collusione con i capibanda dell’Isis che lasciano senza combattere gli insediamenti che avevano preso e si dirigono verso i luoghi in cui sono attive le forze governative siriane”. Una valutazione resa ancora più credibile dalle reiterate azioni belliche delle forze aeree Usa basate in Giordania contro le unità militari di Damasco e dei loro alleati nel settore di al-Tanf.

Anche la decisione di Washington di vietare l’accesso alle forze di Damasco a quella porzione di territorio siriano è stata duramente condannata da Mosca. Secondo gli statunitensi tali forze pongono una minaccia alle basi Usa e ai campi per l’addestramento dei miliziani dell’opposizione nel sud della Siria, ma è evidente che è del tutto illegittimo impedire alle truppe siriane di completare il controllo del territorio nazionale. Nonostante i raid aerei americani, che vorrebbero impedire la saldatura tra le forze siriane e quelle sciite irachene che procedono a nord di Mosul verso il confine siriano, l’avanzata delle forze di Damasco lungo il confine giordano e iracheno ha di fatto circondato le milizie sostenute dagli anglo-americani e dalla Giordania.

“La guerra civile in Siria si è praticamente fermata” dopo che il 4 maggio ad Astana è stato firmato un memorandum per la creazione delle zone di de-escalation, ha dichiarato il capo del dipartimento generale operativo dello Stato maggiore russo, generale Serghiei Rudskoi che ha reso noto che 2.640 miliziani siriani hanno utilizzato le procedure di amnistia del governo siriano e hanno abbandonato le armi nel nord della provincia di Damasco, nelle città di Zabadani, Madaya e Buqeyn. "L’operazione per liberare il territorio siriano dai gruppi terroristici Isis e Jabhat al-Nusra continuerà fino alla loro completa eliminazione”, ha affermato il generale Surovikin precisando che le sue forze aeree hanno eseguito 1.268 raid in Siria nell’ultimo mese, colpendo 3.200 obiettivi terroristici tra cui stazioni di controllo, depositi di armi e munizioni, basi di trasferimento e campi di addestramento.
Il tracollo non solo dell’Isis ma di tutte le milizie anti-Assad rappresenta la più importante vittoria per le forze russe che hanno conseguito la vittoria militare in meno di due anni di campagna siriana. L’esercito di Assad continua ora ad avanzare su tutti i fronti: ha ripreso il controllo di 105 chilometri del confine con la Giordania, ha liberato 83 insediamenti nella parte nordorientale della provincia di Aleppo per oltre 500 chilometri quadrati uccidendo (secondo il comando russo) oltre 3.000 miliziani dell’Isis inclusi decine di comandanti e distruggendo 20 carri armati, 7 veicoli da combattimento e 9 pezzi di artiglieria pesante. Le forze siriane hanno inoltre raggiunto la frontiera con l’Iraq, nell’Est del Paese, per la prima volta dal 2015 coordinandosi con l’esercito di Baghdad per il controllo della frontiera.
Le forze armate irachene hanno l’ordine di non oltrepassare la frontiera siriana, ma le milizie sciite filo iraniane potrebbero avere mano libera ad unirsi alle forze di Damasco per chiudere la partita con l’Isis e liberare Deyr ez Zor dove la guarnigione siriana è sotto assedio da oltre due anni. “In cooperazione con i nostri alleati, le nostre unità hanno preso il controllo di numerosi siti e postazioni strategici nel deserto di Badiya, in una zona di circa 20.000 chilometri quadrati”, ha dichiarato il comando generale dell’esercito siriano. “Questa avanzata rappresenta una svolta strategica nella lotta contro il terrorismo e un trampolino per estendere le operazioni militari nel deserto della Badiya e lungo le frontiere con l’Iraq”, ha proseguito il comando.
I successi dei siriani rischiano quindi di provocare nuove tensioni con la Coalizione internazionale a guida Usa, che oggi appare preoccupata più dall’avanzata delle forze di Damasco e delle milizie sciite provenienti dall’Iraq che dalla lotta allo Stato Islamico, nell’ottica della linea strategica anti iraniana dell’Amministrazione Trump. Dopo che la Turchia si è schierata col Qatar nella diatriba in atto tra Doha e i sauditi, Riad potrebbe puntare sulla Giordania per riorganizzare l’opposizione armata al regime di Damasco e riprendere le ostilità con l’appoggio degli USA.

Tensioni non meno forti riguardano il futuro dell’Iraq dopo la caduta di Mosul dive i miliziani dell’Isis controllano solamente le aree della Città Vecchia, al-Shifa e Bab al-Sinjar. Il governo di Baghdad ha annunciato che respingerà ogni decisione unilaterale presa dalle autorità del Kurdistan iracheno per ottenere l’indipendenza. Lo ha sottolineato lunedì una nota del portavoce dell’esecutivo, Saad al-Haddithi, commentando la decisione presa due giorni fa dal presidente del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, di fissare un referendum per l’indipendenza dall’Iraq il 25 settembre.
Anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, sponsor del Kurdistan iracheno autonomo (ma non indipendente) ha definito il referendum sull'indipendenza della regione autonoma del Kurdistan iracheno da Baghdad "sbagliato e una minaccia all'integrità territoriale dell'Iraq. Un passo del genere in un processo così cruciale non serve a nessuno", ha aggiunto Erdogan. La Turchia, acerrima nemica dell’autonomia dei curdi di Siria alleati del PKK (i miliziani curdi di Turchia) si oppone da sempre con forza alla creazione di entità curde indipendenti.
Per questo se la guerra al Califfato sta per esaurirsi (ma non la  minaccia terroristica dell’Isis in Europa), non ci sono molte ragioni per credere che la conflittualità nella regione andrà scemando in tempi brevi.

lunedì 27 giugno 2016

La proposta dei diplomatici USA: bombe su Assad (ossia guerra con Russia e consegnare la Siria alla sharia)



Analisi Difesa, 20 giugno 2016

Una “vera e propria rivolta”, come l’ha definita Ugo Caltagirone dell’Ansa. Oppure una “protesta senza precedenti”, come scrive il New York Times.
Ben 51 diplomatici americani hanno criticato duramente la strategia del presidente americano in Siria chiedendo con un documento  reso noto il 17 giugno a Barack Obama di autorizzare raid aerei contro il regime di Bashar Assad “per fermare le continue violazioni del cessate il fuoco da parte delle forze di Damasco”. La proposta propone un “uso giudizioso” di missili da crociera e raid aerei contro obiettivi del regime per spingere Assad a cercare una soluzione negoziata.
Il senso di malcontento e di frustrazione tra le feluche covava da tempo e alla fine il caso è esploso mettendo la Casa Bianca e il segretario di Stato John Kerry (nella foto sotto) in grande imbarazzo anche se lo stesso Kerry non solo non ha preso le distanze dai “ribelli” ma ha espresso pubblicamente apprezzamento per il testo firmato dai 51 diplomatici.

Del resto da tempo a Washington c’è un vero e proprio braccio di ferro sulla Siria.
Da una parte il Dipartimento di Stato che chiede un maggior interventismo per porre fine a una guerra civile che ha già fatto oltre 400 mila morti (secondo le stime statunitensi, per altri meno di 300 mila) e che crea grande instabilità nella regione.
Dall’altra il Pentagono e i vertici militari Usa che predicano cautela, viste le implicazioni dovute all’appoggio che la Russia continua a dare al regime siriano.
Finora Obama si è sempre schierato con i secondi, rifiutando ogni ipotesi di maggior coinvolgimento degli Usa nel conflitto.

Del resto il messaggio che è stato ribadito lo stesso giorno dal Cremlino è chiaro: “Rovesciare Bashar al-Assad in Siria potrebbe far sprofondare la regione nel caos più totale.
E difficilmente potrà essere d’aiuto per una lotta efficace contro il terrorismo”, sottolinea Dimitri Peskov, portavoce del presidente Vladimir Putin.
Il rischio di una escalation della guerra fredda tra Stati Uniti e Russia è dunque altissimo ma non sembra venga tenuto in grande considerazione dai diplomatici “ribelli”, tra cui l’ex vice ambasciatore americano a Damasco, che hanno firmato un memo interno inviato al cosiddetto ‘dissent channel’ del Dipartimento di Stato, una canale creato ai tempi della guerra del Vietnam attraverso il quale funzionari e diplomatici possono esprimere il loro dissenso sulle politiche dell’amministrazione senza il rischio di essere puniti disciplinarmente.

Nel documento si sottolinea come la politica americana in Siria sia stata sopraffatta da una violenza senza fine e si fa appello alla necessità di raid aerei mirati per convincere Assad a negoziare seriamente con le opposizioni.
Perché proseguendo sulla strada attuale “lo status quo in Siria continuerà a porre crescenti e disastrose sfide dal punto di vista umanitario, diplomatico e da quello del terrorismo”.

Sorprende che proprio dei diplomatici non si rendano conto che attaccare le forze lealiste siriane significa entrare in guerra con Mosca, una guerra in prospettiva ben più grave, ampia e sanguinosa di quella siriana.
In secondo luogo, ma non per importanza, far cadere Bashar Assad significa oggi consegnare la Siria non certo a forze laiche e liberal democratiche ma alla sharia del Califfato e della coalizione islamica dell’Esercito della conquista che riunisce al-Qaeda (fronte al-Nusra), Fratelli Musulmani e Salafiti.
Difficile comunque che per il momento la Casa Bianca cambi direzione ed è molto probabile che per un eventuale cambio di strategia si debba aspettare il prossimo Commander in Chief.

http://www.analisidifesa.it/2016/06/bombe-su-assad-la-pazza-idea-dei-diplomatici-usa/

LEGGI ANCHE :
ISIS è in ritirata, perchè il mirino degli USA torna su Assad?
http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2016/6/20/SIRIA-L-Isis-e-in-ritirata-perche-il-mirino-degli-Usa-torna-su-Assad-/711632/

giovedì 31 marzo 2016

L’attentato in Pakistan e la liberazione di Palmira

Piccole Note,
30 marzo 2016

Il feroce attentato in Pakistan, che ha causato 72 vittime innocenti, ha oscurato la notizia della conquista di Palmira ad opera delle forze di Damasco. È proprio quanto si riproponevano gli autori della strage di Pasqua, d’altronde le Agenzie del terrore conoscono a menadito le tecniche della propaganda e le sanno manipolare in maniera più che sofisticata, come hanno ampiamente dimostrato in questi anni.
Già, perché la conquista di Palmira è ormai derubricata a episodio secondario, mentre invece ha una rilevanza geopolitica di primaria importanza, sotto diversi profili.
Anzitutto strategici, perché ha dimostrato che nonostante la ritirata dei russi la controffensiva di Damasco contro le milizie jihadiste, e l’Isis in particolare, non si è affatto conclusa e anzi continua con efficacia (mentre in Iraq la fantomatica coalizione internazionale guidata dagli Usa continua a latitare).

Di immagine, perché ha strappato all’Isis una città che era diventata simbolo della barbarie identificativa di tale movimento terrorista, che attraverso l’odiosa quanto inutile distruzione delle antichità archeologiche amplificava nel mondo il suo messaggio apocalittico (altro esempio di propaganda sofisticata).

Infine, la riconquista di Palmira toglie all’Isis un ulteriore mezzo di finanziamento, dal momento che il business dei reperti archeologici, rivenduti in Occidente ha fatto entrare nelle casse dell’Agenzia del terrore e dei suoi capibastone milioni di euro (nessuno degli acquirenti di tali reperti è stato ancora identificato, nonostante le indagini in tal senso non siano affatto impossibili) .
Il fatto poi che Palmira sia stata riconquistata nel giorno di Pasqua non è affatto casuale: sarebbe potuta cadere il giorno prima o quello dopo. Invece si è scelto proprio questo giorno, per lanciare un messaggio di speranza al mondo. Da qui anche la pronta reazione delle forze del caos in Pakistan, che anzitutto vogliono annichilire la speranza.

Aver lasciato ad Assad il merito della liberazione della città è stato un capolavoro tattico di Putin: rafforza il presidente siriano sia in patria che all’estero, favorendo così la chiusura dei negoziati di Ginevra, Questi, infatti, potranno avere un esito positivo solo se i suoi avversari internazionali capiranno che lo spazio per un regime-change in Siria si è definitivamente chiuso.
Il fatto che la conquista di Palmira sia avvenuta poco dopo gli attentati di Bruxelles indica chi davvero sta contrastando l’Agenzia del terrore, nonostante tanta narrativa occidentale tesa a dipingere Assad e Putin come dittatori sanguinari, figure pericolose per la pace del mondo.

L’Isis, e chi lo supporta a livello internazionale, sa invece perfettamente chi sono i suoi veri avversari. Tanto che con la bomba in Pakistan ha inteso inviare un ulteriore segnale: il terrorismo può colpire in Asia e dilagare fino ai confini della Russia. Un progetto che le agenzie del terrore coltivano da tempo .

Non solo: il tentativo di far dilagare il caos in Pakistan punta anche a destabilizzare il governo di Nawaz Sharif, che sta tentando di chiudere il decennale contrasto con l’India attraverso la mediazione russa. Una riconciliazione necessaria per restringere gli spazi di manovra alle forze del caos nel cuore dell’Asia.
In tutto questo, e nonostante tutto questo, le cancellerie occidentali continuano a considerare Mosca un nemico più che un partner indispensabile per porre un argine al terrore globale. Una scelta folle, che condanna l’Europa a dispiegare un’azione di contrasto al terrorismo totalmente inadeguata.
Urgono correttivi, ma l’élite europea (culturale, economica e politica) da tempo ha dimostrato una scarsa propensione alla lungimiranza. 
Del simbolismo esoterico della strage di Pasqua  potete leggere  qui.

http://piccolenote.ilgiornale.it/27950/lattentato-in-pakistan-e-la-liberazione-di-palmira


PALMIRA LIBERATA MA NON È MERITO DELL’OCCIDENTE

Danni gravissimi con stime di almeno 5 anni per ristrutturare quanto è stato distrutto secondo Maamoun Abdelkarim, responsabile per le antichità e i musei siriani.

di Gianandrea Gaiani 
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La liberazione di Palmira rappresenta lo specchio più nitido dell’ambiguità dell’Occidente, incapace o privo della volontà di combattere davvero lo Stato Islamico e prono di fronte alle pretese dei regimi islamisti di Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti pretenderebbero di sostituire il regime di Assad con la dittatura della sharia.
Neppure i rapporti stilati negli ultimi dieci anni da diversi servizi d’intelligence (e resi noti da Wikileaks) che denunciano la massiccia infiltrazione di imam Salafiti in Europa ad opera dei sauditi (o dei Fratelli Musulmani finanziati da turchi e Qatar) ha indotto le cancellerie europee ad aprire gli occhi sulla natura di alcuni “alleati”.....

.... leggi l'articolo completo qui :