Traduci

Visualizzazione post con etichetta Gian Micalessin. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Gian Micalessin. Mostra tutti i post

venerdì 13 settembre 2019

La Croce segna il destino dei cristiani di Aleppo


14 settembre, festa della Croce Gloriosa particolarmente venerata dai Cristiani siriani. 
La tradizione riferisce che dobbiamo all'imperatrice Elena la scoperta della Vera Croce. La madre di Costantino seguì suo figlio fino a Costantinopoli, dove soffrì gravemente per gli eccessi dell'Imperatore, per questo si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme. 
L'imperatore Adriano (76-138), dopo aver distrutto Gerusalemme e cacciato gli ebrei dal loro paese (136), aveva ribattezzato la città Aelia Capitolina e l'aveva fatta ricostruire e rimuovere da ogni memoria giudaico-cristiana; sul Golgota, luogo del Calvario, fece innalzare un tempio a Venere. 
Sant'Elena non trovò altro che rovine e rovine pagane nella Città Santa. 
La leggenda dice che per trovare la Croce, Elena accese un fuoco sulla cima del Golgota: ecco per quale ragione a Maaloula e in altre città cristiane nella notte del 13 settembre si accende il fuoco della Santa Croce. 
"In hoc signo vinces".

“Noi cristiani nel limbo, la sanzioni uccidono come la guerra"



di Gian Micalessin

Monsignor Joseph Tobji ci riconosce, ci sorride da lontano, alza il bastone pastorale, indica la facciata della cattedrale. “Guardate com’è cambiata”. Alziamo lo sguardo. Per anni la cattedrale maronita di Sant’Elia è stata un simbolo della guerra di Aleppo. Le granate l’avevano colpita, trafitta, martoriata. Nel 2012, quando ci venimmo per la prima volta,  i ribelli erano un centinaio di metri poco più indietro. Per avvicinarsi, bussare e riuscire ad entrare bisognava sfidare i loro colpi di mortaio.
Per sei lunghi anni nulla era cambiato. Ora invece la vecchia cattedrale annerita dal fumo degli incendi, morsicata dalle granate  è nascosta da un intrico di ponteggi e impalcature. Da qualche settimana si è trasformata in un enorme cantiere a cielo aperto. Lì tra cavi e tramezzi si arrampicano come formiche operose restauratori  e muratori.  Il vescovo maronita ride felice. Rievoca i brutti tempi andati. “Questa cattedrale un tempo era sulla linea del fuoco. Una volta i ribelli sono arrivati fino al portone d’ingresso, un’altra un obice ha sfondato la camera da letto di un nostro  vicino e l’ha fatto a pezzi nel suo letto… dopo sette anni  è ancora così non l’hanno neppure rimessa a posto” –  ricorda il vescovo indicando la voragine al secondo piano  del palazzo alla  destra della cattedrale.
Nel 2012 le prime granate avevano colpito la cupola lassù, poi un paio di missili erano caduti sul tetto. Un giorno mentre stavo lavorando  nel mio ufficio nella torre una gragnuola di colpi ha fatto tremare tutto l’edificio. Quel giorno ho detto basta… io chiudo. Ora la stiamo ricostruendo, fra un po’ la riapriremo ai fedeli. Un po’ di soldi li abbiamo raccolti qui, un po’ sono arrivati dall’estero e questo ci ha consentito di dare il via ai lavori. Ma fondamentale è anche il lavoro di un gruppo architetti italiani che ci aiutano a rimettere insieme i pezzi”.
Monsignor Tobji si blocca. Alza la mano. “Ma attenzione ricostruire la chiesa non basta. Qui ad Aleppo Ovest non c’è un metro quadrato che sia rimasto sano, se non s’incomincia a rimettere in piedi  anche il resto la gente non torna”. Dice gente, ma pensa soprattutto ai cristiani, alla tribù perduta di questa città. Aleppo un tempo era il terzo centro cristiano del Medioriente, ospitava tra le sue mura oltre 200mila fedeli. Oggi oltre la metà ha abbandonato le proprie case, vive all’estero e si guarda bene dal tornare. “Perché mai dovrebbero tornare? Come possiamo chiedergli di farlo se non possiamo  offrirgli un lavoro, se non siamo in grado di garantirgli  il sostentamento delle loro famiglie” – sospira rassegnato il monsignore. “Molti dicono che la guerra è finita, ma non è vero. Qui nel centro di Aleppo la situazione è tranquilla, ma ai confini sud occidentali della città le bombe e i missili dei ribelli jihadisti di Idlib continuano ad uccidere. Perché la comunità internazionale non dice niente? Perché l’Europa non fa nulla?”.

Ad ogni parola, ad ogni frase la preoccupazione per il presente sembra scacciare la felicità per l’imminente rinascita della cattedrale. “Voi in Europa forse ve lo siete dimenticati, ma dove non arrivano le bombe arrivano le sanzioni. Uccidono anche quelle, sapete? Pensate ai bambini, ai malati, agli anziani  che non trovano cibo e medicine. Oggi da questo punto di vista è anche peggio di prima. Quando si sparava t’accontentavi di sopravvivere, di tutto il resto non t’importava. Oggi invece i cristiani tornano qui,  cercano di  capire se è possibile tornare a casa, ma scoprono che non si trova la benzina, che spesso non c’è il gas per il riscaldamento e che nelle farmacie mancano delle medicine indispensabili. E allora dopo aver  dato un occhiata rimettono i lucchetti alle case e se ne tornano all’estero. Alcuni fedeli rassegnati se ne sono andati negli ultimi mesi dopo aver resistito per tutti gli anni dell’assedio. Insomma la guerra forse è finita, ma  la situazione per noi cristiani non è migliorata. Sotto le bombe avevamo paura ma conservavamo la speranza. Oggi molti di noi hanno perso anche quella”.

sabato 27 aprile 2019

Monsignor Abu Khazen agli italiani: “pregate perché le sanzioni vengano tolte e ci venga restituito il diritto di vivere in pace”.

Monsignor George Abu Khazen è dal 2014 il vescovo latino di Aleppo. In quella città ha trascorso con i suoi fedeli i momenti più difficili della guerra. Eppure – come spiega in questa intervista esclusiva a Sputnik Italia - oggi la situazione è quasi peggiore di quando i ribelli jihadisti e l’Isis circondavano la città.

  Intervista di Gian Micalessin

“La guerra forse è finita, o sta per finire, ma qui ad Aleppo e in tutto il resto della Siria il peso delle sanzioni sta diventando insopportabile. Manca tutto. Noi cristiani, come tutti i siriani, viviamo in condizioni impossibili. Ogni cosa, anche la più essenziale, è razionata. La bombola del gas si può cambiare solo una volta ogni venti giorni. Le automobili private hanno diritto a venti litri di benzina ogni cinque giorni, i tassisti possono comprarne venti ogni secondo giorno. Le ripercussioni, credetemi sono assai pesanti. Molti mezzi pubblici non circolano più e i pullman delle scuole sono quasi tutti fermi così molti bimbi, soprattutto quelli dei quartieri più lontani e disagiati non riescono a raggiungere le aule. Se a tutto questo aggiungete un caro vita inarrestabile capite quanto la situazione sia difficile. Per la prima volta proviamo un peso quasi insopportabile”.

“La situazione è quasi peggiore perché allora c’erano la speranza e la voglia di reagire. Oggi invece c’è solo confusione. Quando ad Aleppo si combatteva la gente era motivata, aveva uno slancio interiore che la spingeva a sopportare le avversità. Oggi invece la gente è stanca e depressa….sta perdendo la speranza…non sa più come andrà a finire”.


– E’ solo colpa delle sanzioni?
– Sì, le sanzioni sono il principale ostacolo al ritorno alla normalità. La Siria grazie ai suoi giacimenti di petrolio e gas potrebbe essere autosufficiente, ma quei giacimenti sono nel nord est e lì ci sono i curdi e gli americani. Gli americani sono i primi sostenitori del blocco economico. Per questo ci impediscono non solo di utilizzare il nostro petrolio e il nostro gas, ma anche di ricevere combustibili da altri paesi. L’intervento di americani e turchi rende tutto molto confuso, non sappiamo proprio come andrà a finire.
– Ma almeno non si spara più…
– Neanche questo è vero… intorno ad Aleppo si è tornato a combattere. Non sono grandi battaglie, ma si spara. Ogni sera si sentono di nuovo le bombe, le raffiche di mitragliatrice, le esplosioni dei missili. I ribelli di Jabhat Al Nusra, la costola siriana di Al Qaida ormai controllano tutta la provincia di Idlib. Quindi sono praticamente alle porte di Aleppo. La Turchia dice di voler collaborare per mandarli via, ma in verità è il loro principale alleato. E poiché conosciamo i turchi e sappiamo che sono abituati a promettere una cosa e farne un'altra siamo molto inquieti.
– C’è stato un ritorno della comunità cristiana dopo la fine dell’assedio?
– Purtroppo no! I cristiani ritornati ad Aleppo sono pochissimi. Ma quel che più ci preoccupa è il malessere quelli rimasti. Per la prima volta li sento dire “abbiamo sbagliato a restare qui”. Durante la guerra nessuno diceva mai una cosa del genere. Ora, invece, lo dicono in tanti.. E non solo fra i cristiani. Questo è un pessimo segnale.
– C’è il rischio che la presenza cristiana non torni più quella di un tempo?
– Noi non abbiamo perso la speranza neanche nei momenti più bui della guerra. Sperare fa parte della nostra fede….. dunque non posso credere che la presenza cristiana vada perduta. Il nostro destino non è nelle mani degli uomini, ma nelle mani di Dio. Lui è il nostro unico salvatore e quindi la speranza non può e non deve andar mai perduta.
– Vi sentite appoggiati dal Vaticano?
– Noi siamo grati alle istituzioni della Chiesa che ci aiutano e a tutti i benefattori. Solo grazie a loro riusciamo a mantenere i cristiani e tanti altri fratelli siriani.
– E dell’Europa e dei suoi paesi cosa pensate? Avete l’impressione che si siano scordati di voi?
– Magari si scordassero di noi...purtroppo si ricordano di noi solo per colpirci e farci del male imponendoci le sanzioni. Tolte Ungheria e Polonia tutte le altre nazioni europee sembrano volerci fare del male.
– E l’Italia?
– L’Italia deve fare un esame di coscienza e riflettere sulle conseguenze del blocco economico imposto alla Siria. Gli italiani devono capire che le sanzioni non toccano gli alti funzionari dello Stato e non contribuiscono a fermare le importazione di armi. Le sanzioni toccano solo la povera gente. A noi cristiani delle armi non importa nulla. A noi interessano le condizioni della povera gente. Che colpa hanno milioni di famiglie con anziani, malati e bambini a carico. Perché bisogna farli soffrire? Voi italiani dovete rendervi conto che la guerra forse è finita, ma le sanzioni volute dagli americani rendono sempre più difficile la nostra vita. Il nostro messaggio agli italiani è uno solo “pregate perché le sanzioni vengano tolte e ci venga restituito il diritto di vivere in pace”.
– Ma ci sarà qualcuno che vi aiuta?
– La Russia è la sola che ci ha sempre aiutato. Solo grazie a Mosca i jihadisti non hanno preso il potere in tutta la Siria. Solo grazie alla Russia oggi si discute pace.

DALLE MONACHE TRAPPISTE DI AZEIR , UNA CONFERMA
"Volevo raccontarvi un po' anche delle sanzioni, ora che si ripresenta ancora una volta a giugno la votazione, e dirvi quanto incidono, perchè è la prima volta in tutti questi anni che vediamo la gente veramente scoraggiata perchè le sanzioni stanno ancora una volta incidendo pesantemente: non c'è gas, non c'è benzina, non c'è gasolio e , nella nostra regione che è soprattutto agricola, la gente coltiva  e poi non c'è possibilità di portare frutta e verdura a Damasco o sui mercati , quindi è tutto fermo. Anche tutte le piccole attività, per esempio da noi molte cose si conservano ancora col ghiaccio e chi fa il ghiaccio non riesce a produrre, non c'è elettricità per i freezer nè benzina per portare in giro i blocchi di ghiaccio, è tutto così... Il pane è la stessa cosa, il pane è razionato perchè i forni funzionano col gasolio... insomma questa realtà e davvero pesante e la gente è veramente scoraggiata. Non era mai successo fino ad oggi di sentire le persone dire "quanto mai non siamo partiti!". 
Davvero queste voci non sono ascoltate agli alti livelli, quello che non si è riusciti ad ottenere con la guerra lo si sta ottenendo facendo stancare le gente: penso che dobbiamo reagire, perchè tutto diventa difficile..., non c'è gas, noi possiamo cucinare perchè abbiamo i pannelli solari, abbiamo il fornellino elettrico e le donne del villaggio vengono a cucinare su da noi, sul nostro fornello elettrico, ma come si può pensare che il Paese riparta, con una vessazione così pesante? Ci sono dei militari di leva che stanno magari ad Homs, finiscono il loro turno e non possono tornare semplicemente a casa per le ore di congedo perchè non ci sono pulmini. La gente che deve andare a prendere qualcosa non trova le macchine oppure la benzina ha costi talmente alti che rinunciano a spostarsi, quindi anche il lavoro diventa più impegnativo e diventa più costoso. La merce triplica i prezzi. Davvero è una situazione insostenibile."
Da una comunicazione di Suor Marta delle Trappiste di Azeir

lunedì 26 novembre 2018

I ribelli colpiscono con i missili al cloro i civili di Aleppo, ma stavolta nessuno s’indigna


di Gian Micalessin

Stavolta nessuno indagherà, nessuno condannerà e nessuno, tantomeno, bombarderà. A differenza di quelli messi a segno a Ghouta nel 2013, a Khan Shaykun nel 2017 o a Douma nell'aprile 2018 l'attacco chimico lanciato sabato notte nella zona di al-Khalidiya, un quartiere sul versante occidentale di Aleppo, non indigna, né scandalizza nessuno. Anche perché stavolta a venir colpita non è una zona controllata dai ribelli, ma una città completamente pacificata dove la popolazione civile è stata restituita da quasi due anni all'autorità del governo di Damasco. A spazzar via l'atmosfera di precaria tranquillità che si respira ad Aleppo è bastata una salva di missili partiti dalle zone della provincia di Idlib, l'ultima roccaforte jihadista nella parte nord occidentale del paese.

I missili non sono una grande novità. I civili di Aleppo ci hanno fatto il callo. Sanno che di tanto in tanto i ribelli, nonostante le trattative per arrivare ad una loro evacuazione pacifica da quei territori, non resistono alla tentazione di punire una città colpevole di aver resistito per anni all' assedio jihadista.

Nessuno però si aspettava un attacco chimico in piena regola. Un attacco messo a segno colpendo Aleppo con delle testate al cloro. Quell'attacco, stando a fonti d'informazioni siriane, ha causato l'intossicazione di almeno 41 persone mentre i contaminati sarebbero oltre un centinaio. Secondo la testimonianza di un medico dell'ospedale di Aleppo trasmessa dalla televisione di stato almeno due persone restano in conduzioni critiche mentre quasi tutto gli altri soffrono di difficoltà respiratorie e ridotte capacità visive. L'attacco viene segnalato anche da Rami Abdurrahman, il titolare di quel discusso "Osservatorio Siriano per i Diritti Umani" basato in Gran Bretagna considerato, sin dal 2011, il portavoce delle fazioni ribelli.

Stavolta neppure l'assai poco imparziale "Osservatorio Siriano" se la sente di negare l'attacco ad una città dove da due anni non c'è più la guerra. Una città dove, invece di combattere, si cerca di ricostruire. Proprio per questo l'utilizzo delle testate al cloro è sicuramente più proditorio e più vigliacco. Eppure nessuno sembra volersi sbilanciare. Certo stavolta è un po' difficile ripetere le litanie del passato quando ogni responsabilità veniva fatta cadere sul governo di Bashar Assad e sui suoi alleati russi. Stavolta anche il più scatenato sostenitore della causa ribelle ha qualche difficoltà nell'accusare il "dittatore" di aver colpito con le armi chimiche quei cittadini di Aleppo che non solo si sono opposti per anni all'assedio dei ribelli, ma stanno salutando il ritorno di migliaia di profughi rientrati nelle zone controllate dal governo. Ed ancor più difficile è ribaltare la verità sostenendo, come fecero alla vigilia dei bombardamenti dello scorso aprile Emmanuel Macron e Theresa May, di aver in mano le prove certe della colpevolezza del regime. 
Stavolta l'unica cosa sicura e certa è che nessuno verrà né accusato, né punito. Perché se s'incominciasse ad indagare anche le certezze del passato incomincerebbero a traballare. E l'intero castello di carte costruito sugli attacchi chimici attribuiti al governo siriano e ai suoi alleati rischierebbe di crollare. 

venerdì 23 febbraio 2018

Ghouta, parlano i religiosi di Damasco: "Per quanto tempo ancora si poteva sopportare tutto questo?"


di Fulvio Scaglione, 23 febbraio 2018

Ci sono momenti in cui anche una raffica di kalashnikov sembra nulla. Quella che risuona nel telefono, mentre sono in linea con Damasco e parlo con suor Yola Girges, è la sparatoria rituale che accompagna il funerale di un soldato siriano morto nella battaglia per Ghouta, il sobborgo ancora controllato dai terroristi islamisti.    Suor Yola, nata a Damasco in una famiglia originaria però di Ghassanieh (provincia di Idlib), un villaggio cristiano del Nord dove nel 2013 fu ucciso il francescano padre Francois Mourad e dove tuttora sono insediati i terroristi di Al Nusra, è una delle missionarie del Cuore Immacolato di Maria che lavorano nella casa della Custodia di Terra Santa presso il Memoriale delle Conversione di San Paolo, nella capitale siriana.   Siamo nei quartieri di Tabbaleh, Bab Touma e Dawaleh, dove si concentrano i cristiani. E come molti altri cristiani e religiosi di Siria, anche suor Yola è indignata per il modo in cui la guerra viene raccontata in Europa.
“Oggi, nel quartiere Jaramana, si svolgono i funerali di dodici civili ammazzati dai missili sparati dai ribelli di Ghouta. Due settimane fa un colpo di mortaio è esploso nel giardino della nostra casa. Qualche giorno fa un altro razzo ha colpito un edificio sull’altro lato della strada e tutte le nostre finestre sono esplose. Da settimane, ormai, quando usciamo di casa non sappiamo se faremo ritorno. In questo periodo, inoltre, i terroristi hanno cominciato a colpire proprio quando nelle scuole finiscono le lezioni, per creare ancora più panico. Solo nel nostro asilo, l’anno scorso abbiamo perso quattro bambini, uccisi da un mortaio insieme con il loro papà, e nel 2012 una bambina, ammazzata da un missile per strada insieme con la mamma, che era una nostra catechista. Per non contare i bambini feriti o traumatizzati Eppure nessuno ne parla, nessuno dice niente. Chi si occupa dei nostri morti?”.
Adesso tutta l’attenzione è concentrata su Ghouta e le organizzazioni umanitarie parlano di molti morti tra i civili…    “Bisogna raccontare tutta la verità. Ghouta è un’area di 1800 chilometri quadrati, occupata dai terroristi fin dall’inizio della guerra. In questi sette anni, i razzi da loro lanciati hanno provocato più di mille morti tra i civili nella sola Damasco. Per quanto tempo ancora si poteva sopportare tutto questo? Inoltre, tutti sanno che i militanti dell’Isis e di Al Nusra che si sono concentrati a Ghouta hanno portato con sé le famiglie, che ora usano come scudi umani. Sia per fermare gli attacchi dell’esercito sia per destare la reazione compassionevole del mondo. Nessuno vuole che muoiano dei civili, da nessuna parte. Ma il meccanismo è chiaro”.
La Casa della Custodia di Terra Santa presso il Memoriale di San Paolo è stata testimone fedele, in questi anni, del martirio della Siria. Fondata come casa di accoglienza per i pellegrini, con l’arrivo della guerra si è messa a disposizione di chi più soffriva.
“All’inizio”, spiega suor Yola, “abbiamo accolto 30 famiglie di rifugiati da Homs, dove c’era un quartiere con 75 mila cristiani. Passata quella fase, ci siamo messi a disposizione dei malati, soprattutto quelli di tumore, che dalle più diverse zone della Siria, a causa della guerra, potevano seguire le terapie solo a Damasco. Infine, abbiamo dato alloggio alle famiglie, e purtroppo sono state tante, che avevano deciso di emigrare e dovevano fermarsi qui nella capitale per ottenere i visti. Alcune di quelle famiglie, purtroppo, sono state inghiottite dal Mediterraneo”. 
Negli ultimi anni, comunque, la Casa ha cercato di provvedere ai bisogni dei più deboli e indifesi, i bambini. “Abbiamo un asilo con 150 bambini”, racconta suor Yola, “in maggioranza di famiglie povere o rifugiate a Damasco da zone occupate dai terroristi o investite dai combattimenti. Poi abbiamo un centro catechistico che segue 400 bambini e ragazzi, da quelli delle scuole elementari agli universitari. L’anno scorso, poi, abbiamo avviato un’attività di sostegno psicologico ai bambini traumatizzati dalla guerra che quest’anno, su sollecitazione degli stessi genitori, abbiamo allargato e approfondito. Lavoriamo con bambini fino ai 13 anni e con l’aiuto di dodici volontari, studenti universitari che abbiamo preparato con appositi corsi tenuti da specialisti. Infine, due mesi fa, abbiamo varato anche dei corsi di educazione musicale, anche per dare ai giovanissimi un’alternativa rispetto alle interminabili giornate passate in casa perché è troppo pericoloso giocare fuori. Si sono iscritti in cinquanta ma siamo sicuri che il numero crescerà”.
Adesso, però, le attività della Casa, come quelle di tutte le altre Chiese cristiane rappresentate a Damasco, sono bloccate. Piovono missili e, come dice suor Yola, “non potevamo chiedere ai genitori di rischiare la vita dei figli per portarli qua”. È la Siria, da troppi anni in guerra.
http://www.occhidellaguerra.it/vi-prego-raccontate-la-verita-terroristi-stanno-occupando-la-ghouta/

Viaggio nell'inferno di Ghouta : ecco chi sono i ribelli anti Assad.
Nel 2015 gli abitanti catturati sfilavano in gabbia 

 .......
«Per voi occidentali le uniche vittime sono i civili di Ghouta, ma dimenticate che da quei quartieri partono i missili e i colpi di mortaio diretti contro i quartieri cristiani di Damasco - ricorda nel corso di una telefonata a Il Giornale padre Amer Kassar, parroco della chiesa Madonna di Fatima di Damasco - Solo martedì qui a Bab Touma e al Shaghour, i due quartieri cristiani più importanti di Damasco, abbiamo contato 13 morti e una settantina di feriti. Nell'ultima settimana almeno tre chiese, tra cui il patriarcato greco latino, sono state colpite dalle bombe dei ribelli. Le nostre case distano da Ghouta solo un paio di chilometri in linea d'aria e i ribelli ne approfittano per colpirci senza pietà. Dieci giorni fa Rita una ragazza del mio oratorio è stata uccisa da un colpo di mortaio esploso davanti alla chiesa. Christine, l'amica che era con lei, ha perso una gamba. Ma a voi occidentali non interessa. Per voi quei ribelli sono tutti degli angeli».



Leggi tutto l'articolo di Gian Micalessin qui 

http://www.ilgiornale.it/news/politica/viaggio-nellinferno-ghouta-ecco-chi-sono-i-ribelli-anti-1497525.html?mobile_detect=false

giovedì 9 febbraio 2017

La Russia e i Cristiani siriani

 Se da un lato siamo costernati al leggere in questo comunicato di FIDES il numero di Cristiani che si stima siano rimasti in Aleppo, paragonandolo col fatto che prima della crisi erano più del 10% della popolazione, apprendiamo pure con gratitudine la notizia della visita in Siria di alcuni parlamentari russi, in vista degli aiuti che la Russia garantirà ai Siriani per l'opera di ricostruzione e di ripresa delle attività produttive. 
 Il fatto che Sergei Gavrilov che in patria è capo del comitato della Duma per lo sviluppo della società civile, le questioni sociali e le associazioni religiose, ricevuto dal Patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Yohanna X° abbia sottolineato che la Siria non potrà essere lasciata sola in questo momento così tragico, è sintomatico di come l'amicizia tra i due popoli sia molto più di un'alleanza puramente strategica. Conforta che questi politici non si siano limitati a incontri con le autorità civili siriane ma abbiano visitato anche le comunità religiose, intendendo in questo modo testimoniare la premura verso i Cristiani e il valore della loro presenza nella società siriana.
 Lo paragoniamo alla denuncia fortissima trasmessa proprio ieri sera in TV nella trasmissione Matrix da Gian Micalessin, che vi invitiamo caldamente a visionare e di cui indichiamo il link : 
La persecuzione dei Cristiani in Siria. Così l'Europa è rimasta a guardare. Quando non ha parteggiato per i jihadisti.”
  Come non comprendere alla luce della accorata preoccupazione per la sorte dei cristiani siriani le parole rivolte dall'igumena Febronia (Madre superiora del monastero ortodosso della Madre di Dio, a Saydnaya), con le quali invita il Patriarca di Mosca Kirill a visitare la Siria, assicurandogli al tempo stesso le preghiere di tutta la comunità monastica “per la prosperità della Russia e per la salute del Presidente russo Vladimir Putin”? 
  Quanto alle accennate accuse che Amnesty International ha portato per denunciare 'innumerevoli esecuzioni extragiudiziali che gli apparati siriani avrebbero compiuto all’interno della prigione di Saydnaya', esiste già un'ampia confutazione, sia dei fatti in sè che sulla credibilità delle fonti, a cui rimandiamo per una più approfondita e accreditata smentita:
https://www.youtube.com/watch?v=xkrxD-wS21k&feature=youtu.be  Syriana Analysis addresses the shortcomings of Amnesty report and reveals its poor methodology that does not even meet the lowest mark of scientific or legal veracity.
                   OraproSiria 











Patriarca Ortodosso di Antiochia: 35mila cristiani rimasti ad Aleppo. Le monache di Saydnaya pregano per Putin

Agenzia Fides 9/2/2017 

I cristiani di tutte le confessioni presenti oggi a Aleppo non superano il numero di 35mila. Lo ha riferito il Patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Yohanna X, incontrando la delegazione di parlamentari russi che da lunedì 6 febbraio stanno visitando la Repubblica araba di Siria. 
Secondo quanto riportato dai media russi, il Primate della Chiesa greco-ortodossa di Antiochia, nell'incontro con la delegazione di politici russi - comprendente tra gli altri il capo del comitato della Duma per lo sviluppo della società civile, le questioni sociali e le associazioni religiose, Sergei Gavrilov – ha sottolineato la necessità di non lasciare sola la Siria nell'opera di ricostruzione dopo la guerra, che passa anche attraverso il lungo cammino necessario a risanare le ferite interiori. 

Il giorno 7 febbraio, la delegazione di parlamentari russi aveva visitato il Monastero ortodosso della Madre di Dio, a Saydnaya. L'Igumena Febronia, ricevendo la delegazione, ha rivolto attraverso di essa un invito al Patriarca di Mosca Kirill a visitare la Siria, e ha fatto sapere che le monache della comunità pregano “per la prosperità della Russia e per la salute del Presidente russo Vladimir Putin”. 


Nei giorni scorsi, Amnesty International ha diffuso un rapporto per denunciare innumerevoli esecuzioni extragiudiziali che gli apparati siriani avrebbero compiuto all’interno della prigione di Saydnaya durante gli anni della guerra civile.


http://www.fides.org/it/news/61700-ASIA_SIRIA_Patriarca_ortodosso_di_Antiochia_35mila_i_cristiani_rimasti_a_Aleppo_Le_monache_di_Saydnaya_pregano_per_Putin#.WJyjQW_hCM8

giovedì 14 gennaio 2016

Padre Jacques Mourad ripercorre la sua esperienza: "Lui mi guardò rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…"

“La mia miracolosa  fuga dall’Isis”


Gian Micalessin

Gli Occhi della Guerra, 14 gennaio 2016

Padre Jacques Murad spezza il pane, recita il Padre Nostro in arabo, poi fissa la famiglia, gli amici riuniti intorno alla tavola imbandita. “Non speravo di sopravvivere, figuratevi rivedere Roma e i miei amici siriani. Me l’avessero detto mesi fa non ci avrei creduto”.  Padre Jacques Murad una volta era un prete. Oggi è l’incarnazione di un miracolo. Un’incarnazione ancora incredula di fronte alla propria sorte, alla propria sopravvivenza.
«Pochi sono riusciti a farsi liberare dallo Stato Islamico. Ancora meno a sfuggirgli vivi. Solo il Signore m’ha concesso entrambe le cose». Padre Jacques guarda Samaan, l’amico siriano, il confratello con moglie e figli ritrovato nella capitale italiana. Si conoscono da oltre 15 anni, da quando Samaan frequentava Mar Musa, il monastero messo in piedi da padre Jacques e padre Paolo Dall’Oglio. Così in questo pranzo a Roma  Padre Jacques dà fondo ai ricordi e alle riflessioni della prigionia. Le più travagliate riguardano Padre Dall’Oglio, l’amico comune di Jacques e Samaan, l’amico scomparso nel nulla il 29 luglio 2013, quando raggiunse Raqqa appena occupata per incontrare i capi dello Stato Islamico.   «Ci ho pensato da quando mi hanno chiuso in quel bagno di Raqqa dove sono rimasto per 83 giorni. Non una galera con altri prigionieri, ma un semplice bagno, dove incontravo solo i miei carcerieri. La mia impressione è che nessuno, oltre a loro, dovesse sapere di me. Per questo mi sono convinto che Dall’Oglio possa essere ancora vivo. Che per qualche imperscrutabile ragione, chiara solo a chi dirige quel mostro chiamato Daesh, Paolo sia un asso nella manica da tirare fuori al momento opportuno».
Prende fiato, si spiega meglio. «Dentro Daesh nulla succede per caso. Al Baghdadi, o chi per lui, decide anche il più banale dettaglio. E nessuno piglia iniziative senza sue disposizioni. Padre Dall’Oglio non può esser stato ucciso senza un suo ordine. E soprattutto senza un motivo. L’avessero ammazzato ne avrebbero spiegato la ragione. Lo fanno sempre. Io in Siria non sono un personaggio chiave, ma ogni fase del mio rapimento dalla preparazione al rilascio, è stata approvata ai massimi livelli. E per ragioni ben precise. Quando mi hanno preso il 21 maggio sapevano già a cosa gli servivo. Mi sorvegliavano da settimane, erano pronti a conquistare il villaggio. Dovevano solo eliminare chi come me parlava con i musulmani, chi mediava e impediva allo Stato Islamico di conquistarsi il consenso. Gli amici musulmani me l’avevano detto: Daesh è già dentro, vattene finché sei in tempo. Ma io non potevo abbandonare. Quando mi hanno rapito non è stata una sorpresa. La vera sorpresa a Raqqa è stato l’incontro con lo sceicco saudita che m’interrogava. Era gentile, beneducato. Spiegava con un sorriso le cose più terribili. Mi ordinò di convertirmi. Io dissi: Mai. Lui mi guardo rammaricato. Sa… dovremo ucciderla…. Lo so bene, ma non mi convertirò mai. Lui sorrise. In fondo – disse – la capisco». 
Da quel momento padre Jacques è confuso. «Pensavo a quando mi avrebbero decapitato, ma capivo anche di non essere un semplice prigioniero. Ero una pedina in un gioco più grande di me e di chi m’interrogava. Ero uno strumento per l’occasione più opportuna». L’occasione arriva ad agosto, subito dopo la caduta di Qaryatayn e di 250 cristiani, nelle mani di Daesh. Padre Jacques non sa quel che succede, ma intuisce che per lui qualcosa sta cambiando. Ricorda la visita di un iracheno incappucciato che parla a nome di Al Baghdadi.
«Il Califfo ha considerato il suo caso e quello dei 250 cristiani catturati nel suo villaggio e ha deciso in base a quattro possibilità. Può farvi tutti schiavi, uccidere gli uomini e tenere schiave le donne, oppure farvi scegliere tra conversione e decapitazione. Ma la quarta possibilità, quella scelta dal Califfo, è di farvi dono della vita. In cambio dovrete pagare la jizya, la tassa che consente ai cristiani di vivere nelle terre del Califfato».   Così dopo tre mesi di prigionia a Raqqa, padre Jacques si ritrova scortato dai miliziani jihadisti in viaggio verso Qaryatayn
«Appena arrivati mi hanno portato dai miei fedeli. Ero felice, ma al tempo stesso ho capito perché mi avevano lasciato in vita. Mi avevano preso, tenuto vivo e riportato al villaggio per piegare non solo il Qaryatayn, ma tutti i cristiani di Siria alle loro regole». La consapevolezza di essere uno strumento nelle mani dei propri carcerieri diventa ancor più dolorosa quando Padre Jacques tenta inutilmente di fermare il ratto di alcune ragazze cristiane, strappate alle famiglie per venir date in sposa ai militanti di Daesh.
«In quel momento tutto mi diventa chiaro. Capisco che restando lì diventerei la giustificazione vivente delle loro nefandezze. Per questo comincio a pianificare la mia fuga e quella dei miei confratelli. La mia fortuna sono i miei vecchi amici musulmani e quelli beduini. Un musulmano viene a prendermi in moto e mi porta fuori travestito dal villaggio. Poi nei giorni successivi i beduini nascondono sui loro carri e sui camion più di duecento cristiani». Sono loro, i musulmani e i beduini, a portarli fuori dal villaggio, a farli passare sotto gli occhi dei miliziani e dei check point.  «Oggi in quel villaggio non ci sono più cristiani.  Sono tutti salvi.  Il vero miracolo del Signore non è stata la mia salvezza, ma quella di tutti i miei confratelli»

venerdì 22 maggio 2015

Il rapimento di padre Jacques Mourad e l'orrore di Palmyra


Rapito padre Jacques Murad, della stessa comunità di padre Paolo Dall'Oglio

Agenzia Fides  22/5/2015

Homs 
 Il sacerdote Jacques Murad, Priore del Monastero di Mar Elian, è stato rapito da alcuni sequestratori che lo hanno prelevato dal Monastero sotto la minaccia delle armi. Secondo alcune fonti locali, contattate dall’Agenzia Fides, il sequestro sarebbe avvenuto lunedì 18 maggio, mentre altre fonti sostengono che il sacerdote è stato rapito nella giornata di giovedì 21 maggio. La notizia è stata confermata oggi dall’arcidiocesi siro cattolica di Homs, che ha chiesto a tutti i fedeli di invocare il Signore nella preghiera affinchè padre Jacques sia liberato e possa tornare alla sua vita di preghiera, al servizio dei fratelli e di tutti i siriani. Secondo alcune fonti locali, insieme a padre Jacques sarebbe stato prelevato dai rapitori anche il diacono Boutros Hanna. Ma tale indiscrezione non è stata al momento confermata dall’arcidiocesi siro-cattolica di Homs.
Secondo le prime ricostruzioni, il rapimento è stato realizzato da uomini armati giunti in moto al Monastero di Mar Elian. I sequestratori hanno costretto padre Jacques a mettersi alla guida della propria auto e, sotto la minaccia delle armi, gli hanno imposto di dirigersi verso una destinazione sconosciuta. 
Fonti locali consultate da Fides ipotizzano che dietro il rapimento ci siano gruppi salafiti presenti nella zona, che si sono sentiti rafforzati dai recenti successi dei jihadisti di al-Nusra e dello Stato Islamico in territorio siriano.
Padre Jacques Murad è Priore del Monastero di Mar Elian e parroco della comunità di Qaryatayn, 60 chilometri a sud est di Homs. L'insediamento monastico, collocato alla periferia di Quaryatayn, rappresenta una filiazione del Monastero di Deir Mar Musa al Habashi, rifondato dal gesuita italiano p. Paolo Dall'Oglio, rapito anche lui il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, capoluogo siriano da anni sotto il controllo dei jihadisti dello Stato Islamico. 
Negli anni del conflitto, la città di Qaryatayn era stata più volte conquistata da miliziani anti-Assad e bombardata dall'esercito siriano. Proprio padre Jacques, insieme a un avvocato sunnita, avevano assunto la funzione di mediatori per garantire che il centro urbano di 35mila abitanti fosse risparmiato per lunghi periodi dagli scontri armati. 
Nel Monastero sono stati ospitati centinaia di rifugiati, compresi più di cento bambini sotto i dieci anni. Padre Jacques e i suoi amici hanno provveduto a trovare il necessario per la loro sopravvivenza anche ricorrendo all'aiuto di donatori musulmani. 
Bastano questi pochi cenni a far intuire quale oasi di carità rappresenti il Monastero di Mar Elian per tutto il popolo siriano, massacrato da una guerra assurda, alimentata dall'esterno. 


Vive inquiétude après l’enlèvement d’un prêtre syrien près de HOMS

.....   « Alors que je lui proposais de quitter un moment Qaryatyan avec le rapprochement du DAECH il m’a répondu « comme prêtre et pasteur je ne quitterai jamais le lieu tant qu’il y a des gens, sauf si on ne chasse » nous confie-t-il .....


Se una colonna vale più di un uomo

In queste ore l'Isis compie massacri spaventosi nelle stesse aree, ma a quegli orrori ci stiamo abituando ....  Piangiamo per le pietre, ma non muoviamo un dito per gli umani. E forse per questo rischiamo di venir sconfitti.

Il Giornale, Ven, 22/05/2015
di Gian Micalessin 

Ormai c'indigniamo per una statua ridotta in briciole, ma rimaniamo impassibili di fronte ad una, dieci, cento teste umane mozzate. Un giorno storici e antropologi lo chiameranno, forse, il paradosso di Palmira.


Ma per il momento non è una sindrome antica o esotica. È solo una tragedia orribile e crudele. Pronta a compiersi. Sotto i nostri occhi. Sempre più avvezzi all'orrore. Sempre più indifferenti. Succede ora. Adesso. Mentre leggete questo pezzo centinaia di uomini in divisa e in abiti civili sono costretti ad inginocchiarsi davanti ai boia dello Stato Islamico. Quando avrete finito di leggere il loro urlo sarà solo un gorgoglio di sangue e fiato spento.
Succede a Palmira. Succede a poco più di duecento chilometri a est di Damasco. Lì sono entrati mercoledì notte i tagliagole del Califfato. Lì il Califfato ha creato la sua nuova roccaforte pronta a congiungersi in linea retta con Ramadi in Iraq e con Raqqa più a nord. Una roccaforte da cui avanzare verso Homs per stringere in una morsa implacabile Damasco e quel che resta della Siria di Bashar Assad. Mentre i militari governativi fuggivano, mentre i responsabili di musei e siti archeologici caricavano sui camion le ultime statue loro già rapivano e massacravano.
Samaan, l'amico cristiano compagno di tanti viaggi nella disgraziata Siria in guerra, me lo racconta al telefono. «Sono andati casa per casa. Quelli dell'Isis si sono fatti guidare dai jihadisti di Palmira. Si sono fatti indicare tutti quelli che collaboravano con il governo, con l'esercito o con le milizie. Un mio amico, uno che conoscevo da tanti anni, l'hanno decapitato subito assieme a una decina di altri civili e a tanti soldati. Gli altri attendono la sentenza della Corte islamica. Ma lo sappiamo tutti, per loro non ci sarà pietà. Tra poche ore anche le loro teste rotoleranno nella sabbia».
Palmira Samaan la conosce bene. Ci ha lavorato per anni come guida turistica. Ci ha portato migliaia di turisti italiani. A Palmira ha ancora tanti, troppi amici. «Non so neanche per chi preoccuparmi. A uno hanno già tagliato la testa, lo so per certo. Un altro è prigioniero e probabilmente verrà mandato a morte. Ma gli altri dove sono? Che fine hanno fatto? Non riesco a sentirli, i telefoni hanno smesso di funzionare. Non so più nulla di loro».
È la tragedia di Palmira. Quella vera. Quella di centinaia di migliaia di esseri umani inermi di fronte alla barbarie e alla crudeltà che avanza. Uomini e donne destinati alla morte o alla schiavitù. Certo l'antica «porta del deserto», la millenaria tappa della via della seta è anche un patrimonio dell'Unesco. È anche una distesa di reperti d'inestimabile valore. Non a caso per lei si è mobilitata la direttrice generale dell'Unesco, Irina Bokova, assieme a decine di intellettuali e artisti occidentali.
Eppure la tragedia vera, quella per cui nessuno qui in Occidente sembra più voler piangere, è quella dei suoi civili, dei militari colpevoli soltanto di averla difesa. Il loro destino è segnato. Nelle prossime ore le loro teste verranno passate a fil di coltello dai tagliagole con le bandiere nere mentre un lugubre e roco «Allah Akbar» consacrerà l'ennesima barbarie. È già successo a Mosul con yazidi e cristiani. Sta succedendo, sempre in queste ore, a Ramadi dove le vittime sono migliaia di civili e militari sciiti. Continuerà a succedere nelle prossime settimane e nei prossimi mesi ovunque arriverà la legge del Califfato.
Eppure questo nuovo mattatoio ci appare ormai un dettaglio, un appendice rispetto al destino di opere d'arte e siti archeologici destinati, come già successo a Ninive, Hatra e Nimrud a subire la furia distruttrice e iconoclasta dei fanatici di Allah. Solo questo ormai c'impressiona. Piangiamo per le pietre, ma non muoviamo un dito per gli umani. E forse per questo rischiamo di venir sconfitti.

sabato 3 gennaio 2015

Samaan Daoud: le Festività in Siria tra paura e speranza


I cristiani in Siria si sentono abbandonati e rischiano la vita ogni giorno, tuttavia le loro poche chiese ancora attive sono piene di fedeli durante le messe

Lo ha raccontato a ZENIT Samaan Daoud, già guida turistica per italiani prima dello scoppio della guerra. Samaan è uno dei cattolici siriani che, coraggiosamente, ha scelto di rimanere nel suo paese.  

Zenit, 22 dicembre 2014

Ci può raccontare della sua attività di guida turistica in Siria?
Iniziai a fare la guida turistica con gruppi italiani nel 1994 ma purtroppo dal 12 maggio 2011 ho perso improvvisamente questo lavoro. Continuo a fare la guida ma non più turistica: nel 2012, dopo nove mesi di stop, ho cominciato a guidare i giornalisti nei campi di battaglia e nelle zone di conflitto. Ero a Maalula, quando nel settembre 2013 fu presa dai fondamentalisti Qaedisti del Fronte di Al-Nusra. Attualmente traduco anche libri dei Salesiani del Medio Oriente dall'italiano all'arabo: in totale ne ho tradotti sei.

Come è tradizione per i siriani trascorrere il Natale? Ci sono usanze particolari?
Il Natale è una festa nazionale a cui tutto il popolo partecipa: soltanto i cristiani fanno il presepe, tuttavia la maggior parte dei siriani allestisce l’albero del Natale in casa propria. Vi sono ancora cristiani che fanno il digiuno natalizio, che dura quaranta giorni e che rappresenta un’antica tradizione cristiana medio-orientale. In questo mese ci sono tanti concerti che si tengono sia nelle chiese che in grandi teatri. Le strade vengono abbellite con addobbi natalizi ma purtroppo nei ultimi tre anni, molti di questi addobbi non si vedono più, perché tante famiglie hanno perso dei loro cari e il paese è mezzo distrutto (in questi tre anni in Siria sono state distrutte 3 milioni di case).
Alla vigilia tutti i cristiani vanno in chiesa per la messa, poi nella tarda serata fanno la cena. Il giorno di Natale tutte le famiglie si incontrano dal capo famiglia ed ogni zona della Siria ha il suo piatto particolare; ad esempio, il piatto natalizio più noto a Damasco si chiama kibbeh (grano macinato fino con carne di montone): questa pasta viene riempita di carne fritta, pistacchi, cipolle e poi messa nello yogurt cotto. Nella tradizione damascena si serve un piatto bianco, sempre a base di yogurt.

Che tipo di Natale trascorreranno i cristiani in Siria? Hanno paura?
I cristiani in Siria hanno paura e vivono in uno stato di grande preoccupazione, siamo nel mirino del fanatismo e del radicalismo islamico. Siamo un obiettivo facile da colpire e abbiamo avuto molti martiri cristiani in questa assurda guerra. Quasi il 50% dei cristiani sono fuggiti dal paese, la maggior parte della comunità cristiana, che si trova ad Aleppo, è in grandissimo pericolo perche sia l’Isis che il fronte di Al-Nusra li minacciano in continuazione. I cristiani fuggono da Aleppo: ero lì un mese fa ed ho visto tanta sofferenza e tanta paura. Lo stesso discorso vale per i cristiani del Nord-Est della Siria, nella zona di Al-Qamishli, dove l’Isis circonda la zona e ha ucciso e rapito tanti cristiani, impossessandosi anche dei loro terreni.

In questa immane tragedia della guerra, si levano voci di speranza, come quella di papa Francesco che più di un anno fa, convocò una giornata di preghiera per fermare l'intervento militare internazionale che effettivamente non avvenne. Che speranze destano nei cristiani siriani la Chiesa Cattolica e il Papa?
I cristiani in Siria oltre a sentire la paura, soffrono della sindrome da abbandono. È difficile rimanere in Siria. Se non viene garantita pace, la sicurezza e la possibilità di lavorare, è impossibile chiedere ai cristiani di rimanere. Non bastano  parole ci vogliono degli atti più forti contro questo fanatismo che distrugge e minaccia la nostra esistenza… 
In Occidente taluni ci criticano perché siamo a favore del regime di Damasco, ma non hanno capito che l’opposizione al regime è più sanguinaria e disumana del regime stesso. 
Il miracolo è che, nonostante le enormi difficoltà gli sfollati e i rifugiati cristiani mantengono una forte fede in Gesù l’Emmanuele e le chiese sono piene di fedeli.

http://www.zenit.org/it/articles/il-natale-in-siria-tra-paura-e-speranza


"Il Natale sottoterra di noi cristiani. Il presepe unica gioia"

Padre, madre e due figli. A Damasco vivono con l'incubo delle bombe: "Quando esci di casa rischi la vita, il dono del Signore è un po' di sicurezza in più"

Il Giornale, 22/12/2014 , di Gian Micalessin -

«Stavamo facendo il presepe. Michael all'improvviso si è bloccato. Ci ha pensato un attimo... poi l'ha detto. “Papà perché non ci mettiamo le foto di chi non c'è più?”. Io e Riima siamo quasi scoppiati a piangere. Michael ha solo dodici anni, ma come tutti i bimbi è riuscito a ricordarci in quattro parole l'inferno a cui siamo sopravvissuti. L'inferno in cui ancora viviamo. In un attimo ci sono passati davanti questi quattro anni, con il loro carico di guerra, morte e tristezza. In un attimo abbiamo rivissuto lutti, paure e orrori».

L'amico Samaan è il solito fantasma squadrettato evocato da Skype. Riima, sua moglie, gli è accanto. Dietro nell'ombra digitale ed evanescente del piccolo appartamento giocano Philippe e Michael. Fuori, tredici gradini più su, ci sono piazza Khouri, il quartiere cristiano di Khassan, la Damasco in guerra. Quante volte abbiamo parcheggiato in fretta. Quante volte io e Samaan siamo corsi a testa bassa giù per quella scala mentre mortai e missili ribelli colpivano il quartiere cristiano di Damasco. Riima era sempre lì, oltre la porta socchiusa, oltre quei tredici gradini. A guardarci con quel misto di rimprovero e preoccupazione. A urlarci «veloci, veloci che vi fanno secchi». E nel piccolo soggiorno tra divano e televisione c'erano, come ora, gli occhioni di Philippe e Michael. Filippo ha 16 anni un piede in gesso. «No, mica per le bombe ... giocando a calcio dai salesiani», mi urla in fretta prima di tornare al presepe. «Vedi siamo ancora qui. Ancora vivi, ma ancora prigionieri di questa guerra, di questa casa. Pronti per un altro Natale in gabbia», sussurra Riima. Lei quell'appartamento nel seminterrato non l'ama proprio. Samaan l'ha affittato in fretta e furia quando le schegge spazzavano il balcone della loro grande casa di Jaramana, un quartiere diventato d'improvviso prima linea ribelle. «Non è spaziosa come quella, ma è sicura perché sta quasi sottoterra» - le ripete lui. «Ma quest'anno - s'arrabbia Riima - è pure gelida, faremo il Natale in frigorifero». Samaan scuote la testa. Sospira. «È vero abbiamo dovuto rinunciare alla stufa, ma che ci posso fare? Il diesel è scomparso. Se lo tiene tutto il Califfato. Da quando l'Isis ha conquistato gli ultimi pozzi nel nord est la situazione è drammatica. Il gasolio è introvabile. E quello venduto sottobanco ha un prezzo impossibile. Spero solo che non nevichi. Il problema dei prezzi è terribile. Chi come me faceva la guida turistica non lavora da tre anni.

A Damasco è pieno di cristiani nella mia situazione. Noi cristiani non lavoravamo per lo stato, preferivamo le attività individuali. E quindi la maggior parte di noi sopravvive con i risparmi di prima della guerra. L'altro giorno sono andato dal calzolaio. Una volta mi faceva i tacchi in dieci minuti, tra una chiacchiera e l'altra. Stavolta è scoppiato a ridere. "Butta le scarpe su quella montagna là dietro e se sei fortunato - m'ha detto - te le ridò tra dieci giorni". Mi son girato e ho capito. C'era una vera montagna di scarpe in attesa. Qui nessuno compra più niente. Tiriamo avanti tutti con quel che abbiamo. E più passa il tempo, più peggiora. I vestiti nuovi per i figli erano uno dei simboli del Natale. Quest'anno rinuncio anche a quelli. E Riima mi ha detto di scordarmi pure le castagne. L'odore delle caldarroste fatte saltare nella padella e servite prima del pranzo è il ricordo di tutti i miei Natali fin da quand'ero bimbo. Ora chi le trova più. Le poche che arrivano costano un occhio della testa. Sono un ricordo impossibile». Riima sorride. «Eppure una piccola speranza io quest'anno ce l'ho. Oggi il tuo amico Samaan mi ha portato a fare una passeggiata. Era una settimana che non mettevo il naso fuori. Ma è bastato. Per un attimo, per la prima volta dopo tre lunghi anni ho respirato l'atmosfera di Natale. No, non pensare, non quella di un tempo quando dalle cucine arrivava l'odore del kahak al minad del biscotto di Natale messo a cucinare con latte burro e cannella. Non il clima spensierato di un tempo quando le famiglie correvano da un negozio all'altro tirandosi dietro pacchi e pacchetti. No, scordatelo, tutto quello non c'era. Le famiglie camminavano e basta. Qualcuno neppure parlava. Ma era già qualcosa. Li ho guardati e, d'improvviso, ho capito. Anche Daoud e io, per la prima volta dopo tanti mesi, passeggiavamo tranquilli. Senza chiederci se saremmo tornati a casa vivi. Un mese fa non era così. Uscivi e ti facevi il segno della croce. Poteva succedere in qualsiasi momento. Una granata o un missile ti cadevano accanto, ti facevano a pezzi. Da un anno e mezzo i ribelli di Al Nousra, quelli di Al Qaida erano a due chilometri da qui. Ci tenevano sotto tiro. L'esercito adesso è riuscito a respingerli un po' più in là. E noi ora, grazie a Dio, respiriamo. L'ho letto negli occhi degli altri cristiani del quartiere. Ho capito che quel po' di sicurezza in più era il vero regalo del Signore per Natale. Per questo sono tornata a casa e ho urlato... dài facciamo il presepe».

Samaan sorride. «Dovessimo fare come dice Philippe dovremmo metterci almeno quindici foto, le foto di quelli che se ne sono andati in questi dodici mesi. Uccisi anche dalle malattie. Perché la guerra non ti uccide solo con le bombe e i proiettili. Il tumore s'è appena portato via Dahsan il fratello di Riima. Se non fosse per l'embargo, per la mancanza di medicine, per i cecchini ribelli che battono la zona di Harasta attorno all'ospedale di Berroumi sarebbe ancora qui. Berrouni è l'unico ospedale per i malati di cancro. Eppure tante volte abbiamo dovuto rinunciare alle terapie, girare l'auto, tornare a casa.... altrimenti rischiavi di morire in strada con una pallottola in testa». Riima scosta Saaman, occupa l'obbiettivo. «Abbiamo fatto il presepe, ma non l'albero. Quando sei in lutto qui in Siria non fai l'albero. L'albero è simbolo di gioia, ma se la tua vita è nera, l'albero non la può riaccendere. Qui nel quartiere ci sono tanti presepi, ma pochi alberi. George Kalash il figlio dei vicini, quelli dell'appartamento due piani sopra, è morto a marzo. Il colpo di mortaio è caduto all'entrata del palazzo. L'ha fatto a pezzi. Michael lo conosceva bene. Non è stato facile spiegarglielo. È difficile spiegare la morte a un bimbo di dodici anni. Per questo forse ha detto quella frase. Un Natale tranquillo non basterà a rimarginare tutte le ferite. Non ne possiamo più di stragi, autobombe, corpi mutilati. Non ne possiamo più del terrore che c'infliggono quei fanatici ribelli. Philippe e Michael cresceranno segnati da questi orrori. Noi già lo siamo».

Samaan annuisce. Lui nell'ultimo anno li ha vissuti tutti. «A febbraio un colpo di mortaio ha centrato lo scuola bus armeno qui alla porta orientale. Ho visto l'autista e quei quattro scolari dilaniati. Poi i colpi sono caduti davanti alla scuola di Michael. Quella mattina c'era sangue dappertutto. Ho riaccompagnato a casa Philippe e Michael e sono corso all'ospedale, cercavo la figlia di un mio amico. Al reparto lui non c'era... però sentivo le urla della figlia. Ho riconosciuto la sua voce. Gridava «papà, papà dove sono le mie gambe...». Se ci ripenso mi vengono i brividi. Ogni volta che Philippe e Michael sono in giro da soli risento quella voce. E fino a quando continuerò a sentirla non riassaporerò né la gioia della vita né quella del Natale».

http://www.ilgiornale.it/news/natale-sottoterra-noi-cristiani-presepe-unica-gioia-1077716.html