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giovedì 31 ottobre 2019

Perché voglio costruire un monastero in Siria

  "La storia di questo articolo inizia da un sapone al profumo d’oliva, con un arabesque raffinato intagliato sulla superficie che una giovane taxista mi fa scivolare tra le mani...."

di Giulia Cananzi
Messaggero di Sant'Antonio

Suor Marta Luisa Fagnani è una monaca trappista, superiora di Nostra Signora Fonte della Pace, un germoglio di monastero nel villaggio rurale di Azer, in provincia di Homs, in Siria, al confine con il Libano del Nord. Accanto due villaggi cristiani, tutt’intorno villaggi musulmani, sciiti e sunniti. Con lei una comunità di cinque sorelle.  Non è facile mettersi in contatto. Iniziamo un «dialogo telematico» che procede a singhiozzo, quando può ritagliarsi un po’ di tempo e quando la tecnologia ci assiste. È la Siria di oggi – a tratti pacificata ma con i carboni ardenti sotto la cenere – che anche a distanza fa intuire le sue difficoltà. Cosa ci fanno un pugno di suore di clausura in territorio musulmano, in tempi di tregua precaria e di opposti estremismi? «Siamo qui dal 2005 – spiega suor Marta – dopo che il nostro Ordine si è sentito interpellato dalla morte dei sette fratelli, rapiti e uccisi a Tibhirine, in Algeria (beatificati l’8 dicembre scorso, ndr). Volevamo raccogliere la loro eredità, testimoniando la Regola di San Benedetto in un contesto in cui i cristiani sono minoranza». Quattordici anni, sufficienti a vivere in prima persona la parabola di dolore della Siria: «Al nostro arrivo era un Paese in piena crescita, con contraddizioni, ma anche ricchezze culturali, umane, spirituali. C’era tolleranza. Ricordo un anno in cui la Pasqua cristiana coincideva con la festa di Ramadan: una donna velata, vedendoci uscire dalla chiesa, ci fece gli auguri, che noi ricambiammo». Una capacità di stare insieme nella diversità che la guerra ha cercato di spezzare in ogni modo: «Ma non ci è mai riuscita del tutto – continua suor Marta – neppure nei momenti peggiori del conflitto. Ricordo il giorno in cui siamo rimaste bloccate sull’autostrada tra Aleppo e Homs. Si sparava dietro e di fronte a noi. Non sapevamo che fare. Un camionista si è avvicinato e ci ha detto di non preoccuparci. “Quando si ripartirà restate in mezzo a noi”. E, prima di andarsene, ci ha messo in grembo delle arance».
Una guerra manipolata
In Occidente non è mai stato facile capire il conflitto siriano, tra informazioni montate ad arte e un arcipelago d’interessi in gioco. «La guerra ti insegna che bene e male non stanno mai da una parte sola e che non puoi mai giudicare dalle apparenze. Per molto tempo ci siamo limitate ad ascoltare le persone. Poi, quando abbiamo capito che da occidentali avevamo più possibilità di essere prese in considerazione, qualche volta abbiamo parlato al posto loro». Dal piccolo villaggio di Azer la visione dei fatti era, invece, chiarissima: «La guerra è stata orchestrata a tavolino e strumentalizzata da poteri regionali e internazionali, per interessi economici e geopolitici. Si è portata via molto: tante vite, da una parte e dall’altra, le infrastrutture, il lavoro, lo studio, la sanità, le ricchezze culturali e storiche, rubate e vendute, attraverso la Turchia, a collezionisti privati e musei occidentali. Si è portata via il desiderio di cambiamento e di giustizia che animava i siriani, costringendoli a una radicalizzazione, estranea alla loro indole. Ma ciò che è peggio, s’è portata via l’innocenza dei bambini e la speranza nel futuro». Un’altra primavera araba sfiorita anzitempo, «perché a nessuno interessano i diritti dei popoli, altrimenti, invece di riempire la Siria di armi, si sarebbe lavorato per far crescere la coscienza, la cultura, la formazione. La stampa occidentale in quel frangente è stata un disastro, ha contribuito a schierare tutto e tutti. Ciò ha fatto perdere alla gente la fiducia nella tradizione di democrazia, giustizia e libertà dell’Occidente». La Chiesa siriana è stata accusata di essere compiacente verso il dittatore. Un’accusa che suor Marta non manda giù. «È vero che i cristiani sono protetti dallo Stato siriano, come del resto tutte le altre confessioni religiose. È vero anche che proteggere le minoranze è una strategia per acquisire consensi. So persino che spesso ci si chiede come possano i cristiani accettare di “vivere tranquilli” a prezzo di tacere su palesi ingiustizie. In proposito ho qualche risposta: la realtà di una situazione si cambia dal di dentro, non con le armi, ma facendo crescere le persone. Ma la domanda dirimente è un’altra: qual era l’alternativa al governo che i cristiani avrebbero dovuto sostenere? Sarebbe stato razionale sottomettersi a uno Stato islamico, in buona parte rifiutato dagli stessi musulmani? E, infine, siamo sicuri noi, Paesi occidentali, di essere liberi da ogni dittatura di pensiero e di azione?».
Dateci un monastero e capovolgeremo il mondo
È lucida, suor Marta, risoluta e senza paura. Per anni, con le consorelle, ha passato le notti in dormiveglia, attenta ai movimenti dei mercenari che entravano dal Libano. Ha vissuto lo sconforto al pensiero che i jihadisti stavano avanzando e che la Siria non ce l’avrebbe fatta. In un angolo della stanza, un bagaglio con l’essenziale: qualche vestito, le carte del monastero e il calice dell’eucarestia di Tibhirine. Da un lato la tensione e la fatica. Dall’altro l’esempio dei fratelli di Algeria. La guerra è stata un passaggio profondo alla radice della propria vocazione. «Alla fine siamo potute rimanere». In tutti questi anni, chicco dopo chicco, come le formiche, le monache di Azer hanno costruito piccoli trulli con le pietre del luogo per accogliere chiunque cercasse pace e hanno creato gli orti. Da allora la preghiera, il lavoro e l’accoglienza scandiscono la giornata secondo la Regola benedettina. La gente accorre sempre più numerosa dalle suore che hanno piantato un monastero di pietra e di spirito nel deserto della guerra, adornandolo con fiori ed erbe, davanti ai quali i giovani sposi cristiani e musulmani vengono a scattarsi le foto di nozze. Hanno aperto i laboratori di artigianato, da cui deriva il sapone ricevuto in dono dalla taxista. Hanno offerto lavoro alle vedove di guerra e condiviso il pane. «Oggi mi sento pienamente siriana» dice suor Marta, apprezzando il gusto di ogni piccolo segno: la mamma musulmana che le chiede una benedizione per la figlia, il panettiere con le forme contate che le offre il pane «perché quelle di Azer sono le nostre suore», il bambino di 4 anni che assiste rapito alla compieta e quasi piange di nostalgia quando finisce il Salve Regina. Lo spirito passa dove meno te ne accorgi, si nutre di piccoli gesti, di semplici parole.
Le suore vorrebbero costruire, ora che la situazione si va normalizzando, un vero monastero: «Mi dicono che siamo folli, in una tale situazione di bisogno materiale. Però se vivi l’esperienza monastica sai che là dove più nascono domande sulla vita e sulla morte, quello è il posto giusto per un monastero. Possiamo percepire in questo luogo, tra la nostra gente, una sete spirituale profonda. C’è bisogno di spazi per accogliere questa sete e ricostrui­re le persone».
Per suor Marta il problema non sono i soldi: «Le risorse non mancano nel mondo. Pensate a quanto denaro è stato speso qui per distruggere. Anche come Chiesa dobbiamo evitare una mentalità pauperistica, perché il vero problema è preoccuparci di crescere e far crescere nella consapevolezza, nella coscienza. I cristiani devono essere gente che pensa e che aiuta a pensare. E in questa scuola di pensiero e di vita, un monastero trova il suo giusto posto. Abbiamo chiesto al Signore un segno: se vorrà troveremo i soldi, altrimenti non costruiremo il monastero. Tuttavia qualcosa si sta già muovendo. Contrariamente a quanto si crede, qui la gente lo vuole. È un segno di speranza».
Chiunque abbia messo piede in Siria in questi anni voleva qualcosa per sé, risorse, potere, vendetta, sotto la copertura di un conflitto di religione. Il piccolo convento di pietre e di spirito è un ribaltamento, il segno che ancora tutto è possibile.
Il sacrificio dei fratelli di Tibhirine, la guerra, il dolore dei siriani hanno lasciato segni profondi nel cammino spirituale e umano di suor Marta e delle sue sorelle: «Ho imparato molto da questo popolo. Ora guardo le cose con più consapevolezza e allo stesso tempo con più speranza. Qui Dio non è una presenza astratta e privata, ma vive nella vita di tutti, cristiani e musulmani, così che nessuno è dissociato, ma in unità con ciò in cui crede. È una grazia».
Si può compiere la propria missione ovunque, seguendo la chiamata di Dio, eppure questi luoghi risuonano d’echi profondi: «Trovo unica la possibilità di camminare su una terra santa, dove ha mosso i primi passi il cristianesimo. Che effetto incredibile calpestare le strade romane dove Pietro e Paolo sono passati. Che emozione indescrivibile vedere i fiumi Tigri ed Eufrate stendersi sulla pianura che ha visto nascere la civiltà. C’è uno spessore di storia, profana e sacra, che ti mette in un orizzonte di un’ampiezza indicibile. E allo stesso tempo c’è la nostra “piccola storia” quotidiana, quella di una comunità di sei suore, che condivide questo tempo di prova e di speranza con la gente che ha attorno e che, per farlo, ha solo una strada: scegliere Cristo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Sempre».
https://messaggerosantantonio.it/content/perche-voglio-costruire-un-monastero-siria?

Chi volesse sostenere il Monastero trappista 'Nostra Signora della Pace' in Siria con una donazione, può offrire il suo aiuto tramite la ONLUS del Monastero di Valserena: 

lunedì 28 ottobre 2019

Al Baghdadi non serve più

l'operazione contro lo Stato islamico a Barisha ha lasciato solo terra bruciata
di Fulvio Scaglione
Famiglia Cristiana, 27/10/2109
Il suo vero e completo nome era Ibrahim Awed Ibrahim Ali al-Badri al-Samarra’i, in breve Ibrahim di Samarra. Era nato molte volte. La prima, quella per i genitori e per l’anagrafe, appunto a Samarra il 28 luglio del 1971. Ma era nato di nuovo nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, quando era entrato nei ranghi di Al Qaeda. Un’altra volta era nato nel dicembre del 2004, quando era stato rilasciato da Camp Bucca, un carcere americano per terroristi in Iraq, dopo una detenzione di pochi mesi. Altra nascita nel maggio del 2010, quando diventa il capo del ramo iracheno di Al Qaeda. Ultima e definitiva nascita il 29 giugno del 2014, allorché viene proclamato califfo dello Stato islamico con il nome di Abu Bakr al-Baghdadi. L’uomo dalle molte nascite è morto una volta sola e per sempre. Poche ore fa, nella provincia siriana di Idlib dove sono ormai radunati gli ultimi irriducibili dell’Isis e delle altre formazioni islamiste. E, per dirla con Donald Trump, il Presidente più splatter della storia, è morto “piangendo e urlando come un codardo”.
Più prosaicamente, Al Baghdadi ha cercato di sfuggire alle truppe speciali Usa piombategli addosso su otto elicotteri e, quando si è visto in trappola, si è fatto saltare insieme con tre dei suoi figli. È lo stesso Al Baghdadi che il 30 aprile di quest’anno era comparso in un video “stile Osama”, ambiente anonimo, kalashnikov al fianco, minacce per tutti. La sua seconda apparizione pubblica dopo quella di cinque anni prima, il sermone tenuto alla Grande Moschea di Mosul, l’esordio come califfo dello Stato dell’islam armato che avrebbe dovuto ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Cinque anni di riuscita latitanza, mentre i servizi segreti di mezzo mondo gli davano la caccia e lui era costretto a muoversi in ambienti dove il tradimento è all’ordine del giorno, erano quasi un record. Infatti scrissi allora che, con ogni evidenza, Al Baghdadi a qualcuno serviva ancora. 
Bisogna scrivere oggi, quindi, che Al Baghdadi non serviva più. E che la sua morte manda a tutti noi una serie di messaggi di grande interesse. Il primo è questo: certifica che il pericolo di una rinascita dell’Isis, di cui si è molto favoleggiato sulla stampa occidentale per via della triste sorte dei curdi che ne tengono molti nelle prigioni da loro controllate nel Rojava e nel Nord-Est della Siria, era appunto una favola. È chiaro, potranno esserci azioni disperate e sanguinose da parte di qualche residuo aspirante martire. Ma Al Baghdadi non serve più, in questa fase, perché è proprio dell’Isis che non c’è più bisogno.
Il progetto (saudita, qatariota, turco, americano e chi più ne ha più ne metta) di inserire una zeppa di estremismo sunnita nella Mezzaluna Fertile dominata dagli sciiti, e in particolare tra Siria e Iraq, chiamandolo Califfato, è fallito. Ha quasi annichilito la Siria e ha tenuto centinaia di milioni di persone con il fiato sospeso ma è fallito. L’Isis può tornare a dormire. Rinascerà con altro nome e altri leader quando i suoi signori e padroni, pieni di miliardi, riterranno di averne bisogno, come hanno avuto in passato bisogno dei mujaheddin del popolo, di Al Qaeda, degli estremisti ceceni, di Al Nusra o di uno qualunque dei tanti movimenti che, tra Medio Oriente e Asia, parlano molto del Corano ma sono in realtà al servizio di precisi piani politici. 
Nel Nord della Siria succedono cose che vanno ben oltre l’Isis e quei fanatici senz’arte nè parte che da tempo sono rimasti senza soldi e senza protettori. Per capirlo sarebbe bastato osservare la sequenza degli eventi che si sono scaricati sui curdi. Eccola, in estrema sintesi. Trump annuncia il ritiro delle truppe Usa. Poche ore dopo l’esercito turco già si muove contro le postazioni dei curdi. Trump rinforza con migliaia di uomini le basi americane in Arabia Saudita. L’Iran annuncia una serie di manovre militari al confine con la Turchia ma non se lo fila nessuno. I turchi avanzano in Siria verso Sud. Anche i siriani avanzano, verso Nord. Vladimir Putin e Recep Erdogan si incontrano e si accordano su una gestione comune dell’area. 
Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non capire che alla base di questi eventi c’è un accordo, più o meno tacito, tra Turchia, Usa e Russia, una sorta di grande compromesso per uscire da una situazione che non vedeva (e non avrebbe potuto vedere) né vinti né vincitori. Che cosa c’entra tutto questo con Al Baghdadi? Intanto è un po’ sospetto che il grande latitante sia stato pizzicato proprio in coda a quei fatti. La sua eliminazione, probabilmente, era uno dei capitoli di quel contratto tra potenze. Fa fare “bella figura” a tutti. Soprattutto a Donald Trump che, con il fragore di questa notizia, cancella tutto quel gran parlare di “tradimento dei curdi” che poteva diventare una macchia della sua campagna elettorale. E infatti, a eliminazione di Al Baghdadi avvenuta, Trump ha ringraziato i siriani, i turchi e soprattutto i russi che hanno messo a disposizione alcune basi e i curdi che hanno collaborato al raid. Ulteriore conferma che questi Paesi, in teoria avversari o nemici, si stanno parlando, e tanto. Succede qualcosa di nuovo, in quella parte di Medio Oriente. Prima o poi capiremo anche cosa.

domenica 27 ottobre 2019

Il diritto internazionale e le pretese USA sul petrolio che appartiene alla Siria



SputnikNews, 26 ottobre 2019

Al ministero della Difesa russo hanno commentato le dichiarazioni del numero uno del Pentagono sul mantenimento di un contingente militare americano in Siria orientale con l'obiettivo presunto di "impedire l'accesso dell'Isis ai giacimenti petroliferi".
L'intervento del portavoce ufficiale del ministero della Difesa russo, il generale Igor Konashenkov:
La dichiarazione del segretario della Difesa americano Mark Esper sulla necessità di mantenere una presenza militare americana in Siria orientale "per proteggere i giacimenti petroliferi" dai "terroristi dell'Isis*" non dovrebbe stupire.
Assolutamente tutti i giacimenti di idrocarburi e di altre risorse minerarie situate sul territorio siriano non appartengono ai terroristi dell'Isis, ancor meno ai "difensori degli americani contro i terroristi dell'Isis", ma esclusivamente allo Stato siriano.
Né nel diritto internazionale, né nella stessa legislazione americana, da nessuna parte, non può essere legittimo il compito per le truppe americane di proteggere e difendere i giacimenti di idrocarburi siriani dalla stessa Siria e dalla sua popolazione.
La situazione nella Repubblica Araba di Siria
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
La situazione nella Repubblica Araba di Siria
Pertanto, quello che Washington sta facendo ora, si tratta di un sequestro e del controllo militarizzato dei giacimenti petroliferi nella Siria orientale, è semplicemente un'azione di brigantaggio internazionale di Stato.
La vera ragione di questa illegale attività americana in Siria è lontana dai proclamati ideali di Washington di libertà e dai suoi slogan contro il terrorismo.
Impianto estrattivo petrolifero Daman, la provincia Deir-ez-Zor, il 23 agosto del 2019
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
Impianto estrattivo petrolifero Daman, la provincia Deir-ez-Zor, il 23 agosto del 2019
Secondo le immagini presentate dell'intelligence spaziale del ministero della Difesa russo, il petrolio siriano prima e dopo la sconfitta dei terroristi dell'Isis, a Zaevfrati, sotto la scorta sicura dell'esercito americano, è stato attivamente estratto e inviato in massa tramite autocisterne per la raffinazione fuori dalla Siria.
Le posizioni delle autocisterne, la provincia di al-Hasaka, il 5 settembre del 2019
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
Le posizioni delle autocisterne, la provincia di al-Hasaka, il 5 settembre del 2019
Contemporaneamente Washington aveva annunciato ufficialmente sanzioni per la fornitura di prodotti petroliferi alla Siria, che si applicano non solo contro le società americane, ma anche contro soggetti ed aziende straniere.
Le posizioni delle autocisterne, la provincia Deir-ez-Zor,  l'8 settembre del 2019
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA
Le posizioni delle autocisterne, la provincia Deir-ez-Zor, l'8 settembre del 2019
Sotto la protezione dei militari americani e degli uomini delle compagnie militari private, le autocisterne provenienti dai giacimenti petroliferi della Siria orientale si occupavano del contrabbando di petrolio in altri Stati. In caso di attacco contro un convoglio simile, le forze speciali e l'aviazione militare statunitense venivano immediatamente attivate in sua difesa.
Le posizioni delle autocisterne, la provincia Deir-ez-Zor,  l'8 settembre del 2019
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
Le posizioni delle autocisterne, la provincia Deir-ez-Zor, l'8 settembre del 2019
A proposito, la stessa produzione di petrolio viene realizzata utilizzando attrezzature fornite dalle principali società occidentali aggirando tutte le sanzioni americane.
Il contratto di esportazione di petrolio viene attuato dalla società controllata dagli americani Sadcab, creata sotto la cosiddetta "Amministrazione Autonoma orientale della Siria." Le entrate derivanti dal contrabbando di petrolio siriano attraverso le società di intermediazione finiscono sui conti delle compagnie militari private e dei servizi segreti statunitensi.
Dato che il costo di un barile di petrolio siriano di contrabbando è di 38 $, le entrate mensili di questa "impresa privata" delle forze speciali statunitensi superano i 30 milioni di dollari.
Per un flusso finanziario così continuo, fuori controllo e senza la tassazione americana, la leadership del Pentagono e di Langley sarà pronta a proteggere e difendere i giacimenti petroliferi in Siria dalle mitiche "cellule nascoste dell'Isis" per sempre.
(*Il gruppo terroristico dello Stato Islamico è vietato in Russia e molti altri paesi)

venerdì 25 ottobre 2019

Monsignor Giuseppe Nazzaro, nel ricordo dell'amico padre Carlo Cecchitelli


Come ogni anno nell'anniversario della morte (26 ottobre 2015), ci è caro rinnovare il ricordo dell'indimenticabile Padre Nazzaro, a cui OraproSiria è particolarmente legata da affetto filiale.

Il suo compagno Padre Carlo Cecchitelli ripercorre per noi con la freschezza di una lunga amicizia la vita e il servizio di Padre Giuseppe, in questa spontanea bella intervista di Benedetta Panchetti.




Padre Cecchitelli, potrebbe darci un ricordo suo personale di Monsignor Nazzaro nell’arco della vostra vita, da frati e durante tutti gli impegni della custodia a Gerusalemme? 
 Sì, io ho conosciuto padre Nazzaro già dagli anni 1952, diciamo che il primo incontro con lui è stato al Collegio Serafico Internazionale di Quarto Miglio a Roma, allora io ero lì già come postulante e lui invece è venuto come seminarista piccolo, lo ricordo come un ragazzo un po’ mingherlino, da ragazzo non era come fu poi Padre Custode più robusto! Un ragazzo di campagna che veniva da San Potito Ultra, un paesino dell’avellinese, un biondino con gli occhi azzurri, un ragazzo semplice, ordinato, intelligente, estroverso, nonostante che noi fossimo tanti come i giovani ragazzi che eravamo, lui era sempre di buona compagnia, di buona amicizia, era ordinato, negli studi e anche nel guardaroba. Insomma era un ragazzo molto educato e simpatico. Noi abbiamo subito fatto amicizia, io sono di un anno più grande di lui, perché io sono nato nel 36 e lui è nato nel 37, quindi appena di un anno. Però fin da allora ci ha uniti una bella amicizia, ci volevamo bene e poi ci aiutavamo l’uno l’altro, spesso stavamo insieme durante il periodo della ricreazione, si parlava del più e del meno. Poi io sono andato al noviziato a Betlemme e lui ha fatto il noviziato un anno dopo di me sempre a Betlemme, sicché durante il noviziato io ero studente di filosofia, lui era novizio, però eravamo nello stesso convento.

 Quindi vi frequentavate?
 Stesso convento, la preghiera insieme, i pasti insieme, qualche volta la ricreazione insieme e quindi quell’amicizia è continuata con lui. Io ero studente di filosofia, lui novizio, ricordo che era molto osservante dei regolamenti, degli atti comuni, puntuale, era un po’ tipo tedesco!

 Era un campano tedesco!
 Eh sì, un tipo tedesco! E quindi avevamo questi momenti in comune, poi lui ha finito il noviziato ed è entrato in filosofia, perché allora erano 4 anni di filosofia, dopo ci siamo ritrovati insieme nella stessa comunità dello studentato filosofico, io ero un anno avanti però a filosofia siamo stati almeno 3 anni insieme. E durante la filosofia lui seguiva le lezioni, era intelligente, studioso, aveva molta propensione per le lingue. A noi già dal noviziato insegnavano l’arabo, quindi lui lo ha appreso bene. Aveva studiato i primi elementi già a Roma, poi durante il noviziato avevamo pure delle lezioni di un professore di Betlemme, lui aveva facilità di apprendimento, quindi l’arabo l’ha imparato da subito. E poi, sempre durante lo studentato di filosofia, ha imparato anche il francese perché avevamo un professore proprio di lingua francese, quindi ha imparato anche bene il francese. Poi io per la teologia mi sono trasferito al seminario di teologia a Gerusalemme e lui mi ha seguito un anno dopo. Sempre così, un anno dopo! In teologia pure mostrava un carattere serio, convinto della vita religiosa, non era uno che si lamentava, seguiva l’andamento comune della comunità, quindi studiava, aveva bei voti.

 Sempre diligente!
 Sì, intelligente e diligente. Aveva bei voti, si comportava bene. Poi io l’ultimo anno di teologia l’ho fatto a Roma alla Pontificia Università Antoniana per motivi di salute e lui ha fatto tutti e quattro gli anni di teologia a Gerusalemme, a San Salvatore. Io sono stato ordinato sacerdote a Roma e lui è stato ordinato a Gerusalemme nel giugno. Dopo il sacerdozio per forza siamo stati un po’ divisi, nel senso che io sono stato mandato a studiare a Napoli, lettere e filosofia, lui fu mandato a Roma, catechesi, pastorale, queste cose, per reggere una parrocchia. Io rimasi 4 anni lì, lui mi pare 2-3 anni a Roma, e poi io tornai a Gerusalemme come professore, invece a lui assegnarono subito la parrocchia, perchè sapeva bene l’arabo, sapeva bene il francese, sapeva bene l’italiano, quindi lo mandarono in Egitto, perché a quel tempo la custodia di Terrasanta aveva molti conventi in Egitto. Diversi anni dopo, il Ministro Generale ha voluto che le due entità che erano in Egitto fossero una unità perché diceva “frati minori quelli, frati minori questi, non ha senso che ci siano due unità, facciamo una sola provincia religiosa”. E quindi la Custodia ha ceduto tutto a quella che era la vice provincia di frati egiziani, tutto, conventi, proprietà, tutto ciò che era della Custodia.
Questo è avvenuto quando io ero Custode di Terrasanta e padre Nazzaro era il segretario della Custodia e naturalmente anche mio segretario! Ci siamo ritrovati! Ma dal periodo in cui ha finito i suoi studi universitari superiori, fino a che è diventato segretario custodiale, lui praticamente è vissuto in Egitto, nei vari conventi che avevamo: a Santa Caterina ad Alessandria, san Giuseppe al Cairo, Bulacco al Cairo. E faceva bene, faceva bene. Io che non ero in Egitto ma professore a Betlemme e poi segretario custodiale a Gerusalemme e poi a Roma, sentivo ben parlare di lui. Era guardiano, aveva un certa autorità, era uno dei frati che avevano anche il senso del comando, anche di amministratore. Sapeva fare, non era inesperto, sapeva condurre, rimase là finchè non è stato mandato qui a Roma. Avevamo il Collegio Serafico Internazionale e lui è stato nominato vice rettore di quel collegio, era severo. I ragazzi filavano dritti! Mi pare che rimase 3 anni e mentre lui era vicerettore a Roma io ero segretario custodiale a Gerusalemme. E poi io sono andato a Roma come rettore e lui è tornato in Egitto, come guardiano. E però ci sentivamo, ci telefonavamo.

 Quindi l’amicizia è andata avanti nel Mediterraneo, su e giù!
 Io sono stato 12 anni a Roma, lui nel frattempo era sempre in Egitto e ci sentivamo. Poi capitava spesso anche a Roma perché suo fratello con la mamma erano portinai del Collegio Serafico, e quindi lui quando veniva in Italia per le vacanze veniva al Collegio, perché oltre che amico mio aveva lì anche la mamma e il fratello sposato. In seguito io, dopo 12 anni a Roma, sono stato chiamato di nuovo come segretario custodiale e dopo 3 anni mi hanno nominato Custode di Terrasanta. A quel punto ho cercato un segretario della Custodia perché il posto era vacante essendo stato io il segretario, e siccome avevamo un certo feeling, ho prima chiesto a un paio che hanno rifiutato e allora dissi al Nazzaro che mi telefonava “vieni tu” ed è venuto lui.
Come segretario era serio, si faceva rispettare, la segreteria funzionava, poi c’era questa amicizia, con me Custode eravamo in buoni rapporti, ci aiutavamo a vicenda. Dopo 6 anni in cui sono stato io il Custode e lui segretario, fu eletto lui Custode. Quindi io sono stato Custode dall’86 al 92 e lui è stato nominato Custode dal 92 al 98.
Il suo custodiato è stato buono: era stimato, era benvoluto anche perché era di principi, le leggi, gli statuti dovevano essere osservati, era uno che camminava dritto e quindi mi è stato di aiuto durante il custodiato mio. E veramente devo dire che insieme, come segretario e Custode avevamo spesso colloqui, parlavamo di situazioni, del personale, di attività, di opere, ci scambiavamo il parere e lui dava dei consigli, offriva anche lui la sua opinione. E così abbiamo passato quei 6 anni insieme. Poi una volta che io sono scaduto da Custode e lui è diventato Custode, mi ha destinato qui a Napoli, al Commissariato di Terrasanta, e quindi sono stato 6 anni io Commissario e lui Custode.
Nel triennio il Custode deve fare una visita a tutti i conventi, e lui fece la visita anche qui a Napoli, interrogando tutti i frati che c’erano. Allora eravamo nei quartieri spagnoli, nel vecchio commissariato, e i frati si lamentavano perché quel convento era diventato impossibile, nel senso che quei quartieri brulicano di mafiosi della camorra, un disastro! Specialmente i fratelli avevano difficoltà quando tornavano il sabato dalla colletta e trovavano sempre le porte sbarrate del garage, perché quelli mettevano le macchine ovunque. Avevamo messo anche dei paletti di ferro per limitare, li hanno tagliati di notte i paletti di ferro! Non c’era niente da fare. E allora il Custode disse “è il tempo di cercare un nuovo commissariato. Una nuova sede più confacente, dove non ci sono tutte queste storie”. Così trovammo questa che era una villa abbandonata da tempo e abbiamo comprato questo complesso, un ambiente vicino al museo di Capodimonte, alla reggia, qui è gente del popolo, e siccome confiniamo con la parrocchia, aiutiamo in parrocchia. Siamo stati fortunati perché siamo riusciti a sistemarla come convento.

 Quindi stato un po’ pragmatico come decisione, nell’abbandonare l’altro convento.
 Eh sì perché c’è una differenza enorme. E così poi una volta che lui ha terminato di fare il Custode, è stato destinato di nuovo in Egitto e dopo è stato mandato in Siria. In Siria è stato mandato come parroco e superiore a Damasco. Si intuiva che veniva mandato là in vista magari di diventare vescovo della Siria e difatti, quando finì il vescovo Bertolaso lui fu nominato vescovo della Siria.
La notizia fu ben accolta, lui conosceva bene l’arabo, era un figlio della Custodia, fin da ragazzo conosceva tutti gli ambienti arabi e divenne vescovo. Nel suo incarico, fece sempre le visite alle nostre parrocchie della Siria, dandosi da fare prima di tutto per coprire un po’ tutti i debiti che purtroppo la diocesi aveva. La cosa più importante fu costruire l’episcopio perchè prima i vescovi di Siria abitavano al convento di san Francesco a Aleppo, nel centro della città. E invece mons Nazzaro ha detto “il vescovo deve avere la sua sede, la sua cattedrale”. E così si è dato da fare per cercare i fondi e ha costruito la chiesa e tutto il resto. Ci ha messo le suore di madre Teresa per i poveri, vicino c’era anche il monastero delle Carmelitane. Ha lavorato, si è tanto dato da fare. Mi faceva vedere i progetti, era entusiasta di questa cosa. Ha trovato a Roma buoni appoggi dal prefetto per la Congregazione per le Chiese Orientali, ha avuto i fondi e ha costruito.

 Era un’esigenza impellente di avere un episcopio finalmente funzionante?
 Certamente! Io, quando ho terminato di fare il Custode, in Siria non ci sono più andato o forse ci sono andato qualche volta. Ma lui quando veniva a Roma mi metteva al corrente di tutto quello che faceva. E dopo è venuta la guerra e padre Giuseppe ha lottato molto. Lui certo aveva tutta l’esperienza, sapeva cosa c’era sotto. I giornalisti scrivevano cose che non corrispondevano alla realtà ma lui era al corrente di tutto. Quindi sapeva chi aveva provocato la guerra, perché era venuta la guerra, dal punto di vista politico aveva l’occhio giusto. E difatti in seguito si è rivelato che aveva proprio ragione lui. Però poi a causa della salute quando è arrivato all’età di 75 anni e c’è la norma che i vescovi devono dare le dimissioni, a quel punto lui ha chiesto di poter essere ospitato qui al Commissariato di Napoli e gli è stato concesso. E gli ultimi anni li ha passati qui, poi la malattia si è aggravata ed è poi è morto in ospedale. Però viveva qui. Girava per l’Italia per fare le conferenze, poi tornava qua, era qua la sua sede.

 E qua con voi in quegli anni, lui è venuto in pensione nel 2013 se non mi sbaglio, in quei due anni parlavate della Siria, di quello che succedeva?
 Sempre sempre sempre. Lui era molto acuto nell’interpretare le situazioni, e capiva bene anche perché sapeva tutti gli arretrati. E comunque era sempre interessato alla Siria, anche quando stava qua. Sapeva tutto quello che succedeva.

 Quindi oltre all’impegno che ci metteva nel fare le conferenze, quando era qui la Siria era sempre il suo pensiero?
 Sì nel suo pensiero e nelle sue preghiere e ci soffriva anche, perché lui è stato pastore di quei cristiani. Ci soffriva anche per questo. Lo vedevo, perchè l’amicizia nostra di sempre è continuata ancora, fino agli ultimi anni. Volevo dire che durante il custodiato lui è stato uno dei custodi migliori nel senso che ha tenuto fermo il punto. Lì il Custode aveva a che fare con gli ortodossi, con il Patriarcato latino, con il Nunzio Apostolico, con i consoli e gli ambasciatori delle varie nazioni, insomma è Gerusalemme. Ma lui ha difeso sempre la Custodia, amava la Custodia. La amava e ci teneva che le cose andassero bene sia sotto l’aspetto religioso, disciplinare, liturgico, sia sotto l’aspetto amministrativo perché insomma la Custodia la guarda tutto il mondo, i pellegrini.. si trova a dover amministrare. Ma lui teneva il punto ed era difensore dei diritti della Custodia, non transigeva sullo status quo!

 Sapeva difendere la Custodia su tutto i piani, anche quello più politico, delicato?
 Sì sì, per questo non era duro, era sempre diplomatico ma fermo. La Custodia era la Custodia, e lui era figlio della Custodia, perciò ci teneva. Durante il custodiato ha fatto molte opere, era presente, visitava spesso i frati, quello che prometteva lo faceva. Mi sembrava che fosse benvoluto. Ha mantenuta alta la bandiera.

. che è una bandiera impegnativa!
 Eh come no! Io son stato 6 anni pure Custode, quelli più difficili anche politicamente. Il suo custodiato è ricordato ancora, anche se sono passati 20 anni ma è ricordato. Ha fatto tante cose. C’è da dire che è stato uno dei Custodi che è passato alla storia. È giusto dargli la riconoscenza per quello che ha fatto. Durante il suo custodiato e il suo episcopato lui è stato molto attivo, molto dinamico e molto creativo. Ha accettato con entusiasmo anche l’episcopato e si è dato da fare. Non è stato un vescovo curiale che se ne sta lì in Curia. No, girava, faceva, guardava, spronava. Era attivo, questi sono stati i periodi più belli di padre Nazzaro. Prima che diventasse segretario custodiale aveva occupato posti di responsabilità e di una certa gravità in Egitto soprattutto. Lui già da fratino, lì al Collegio Serafico, poi in teologia, filosofia, poi i primi anni di sacerdozio, gli studi in Egitto, ha vissuto una vita attiva, anche come guardiano ci teneva alla disciplina, alla preghiera, alle funzioni liturgiche. Sotto questo aspetto è stato un buon guardiano. Quando è diventato Custode conosceva i frati, conosceva tante cose. 

 Quindi conosceva davvero i paesi principali del Medio-Oriente.
 Sì sì, e poi anche situazioni politiche, perché quando siamo arrivati noi negli anni 50 tutta la Cisgiordania apparteneva alla Giordania, Gerusalemme vecchia apparteneva alla Giordania. Noi stavamo nella vecchia città di Gerusalemme e abbiamo visto tutte le evoluzioni, le guerre, tutto. E io ho visto 5 guerre! Ma siamo sempre andati avanti. Anche in Egitto ha fatto bene, ha fatto belle esperienze in Egitto, gli è servito. Ma è servito anche a me, perché io andavo in Egitto come Custode per le visite canoniche, ma lui conosceva tutti i frati, tutte le situazioni, tutti i conventi, tutti i problemi. E quindi è stato utile sotto questo aspetto. E poi ha conosciuto la Siria: prima ancora di diventare vescovo, parroco a Damasco. E poi come vescovo, naturalmente ha vissuto tutte le vicende della Siria, ha cercato di fare del suo meglio. È stato bravo.

Padre Carlo, la ringraziamo di cuore!

lunedì 21 ottobre 2019

"Le guerre di Siria": resistenza, istruzioni per l'uso

"Mentono ... e sanno che mentono ... e sanno che noi sappiamo che mentono ... Eppure continuano a mentire sempre più forte"  

è la frase, scritta da Naguib Mahfouz, che Michel Raimbaud  mette in evidenza nel suo libro "Les guerres de Syrie".





Introduzione alla lettura, di Majed Nehmé
Mondialisation, 03 ottobre 2019
trad. Gb.P. per OraproSiria

Non è un caso che il primo capitolo del libro 'Le guerre di Siria' di Michel Raimbaud, ex ambasciatore, ex presidente dell'OFPRA, professore di scienze politiche e scrittore, si intitoli - riprendendo la famosa frase di Catone il vecchio "Carthago delenda est" (Cartagine deve essere distrutta) - "Delenda est Syria": una vecchia ossessione ".  Un vecchio accanimento senza dubbio perchè Catone, che era solito pronunciare questa formula ogni volta che iniziava o terminava un discorso davanti al Senato romano, qualunque fosse l'argomento, aveva anche partecipato alla guerra contro la Siria, al tempo guidata dal re Antioco III° il Grande! Quest'ultimo ebbe l'audacia di ricevere il fuggitivo Annibale nella sua corte e di aiutarlo ad armarsi contro Roma, allora unica potenza egemonica emergente.
Perché tanta implacabilità?
Vedendo in questa colonia fenicia una certa emanazione dell'antica Siria, Michel Raimbaud ricorda che dopo oltre due millenni la Siria di oggi sembra essere la Cartagine di questa Roma dei tempi moderni che è l'America, la vecchia ossessione è ancora lì (pagina 26). Riattivata dall'indipendenza, nel dopoguerra, è ancora più rilevante dopo gli anni '90 che hanno visto l'ascesa degli Hezbollah in Libano con il sostegno attivo della Siria. Questo supporto ha permesso a questo movimento di costringere l'occupante israeliano a ritirarsi, nel 2000, dai territori libanesi che deteneva dal 1978. Un importante punto di svolta geopolitico e una prima negli annali del conflitto arabo-israeliano. Dalla guerra del giugno 1967, Israele non era mai stato costretto a lasciare un territorio arabo occupato senza contropartita, o più esattamente senza capitolazione, come nel caso dei fallaci accordi di pace del 1979 risultanti dai negoziati di Camp David con l'Egitto di Sadat o dal trattato di pace del Wadi Araba del 1994 con la Giordania, o infine gli accordi di Oslo tra Israele e l'Olp nel 1993.  Questo mercato degli inganni ha solo portato a una maggiore occupazione e annessione di territori palestinesi senza che il fantomatico Stato palestinese promesso - in cambio del riconoscimento dello Stato di Israele - vedesse la luce del giorno! La Siria, da parte sua, ha rifiutato categoricamente questi colloqui e contrattazioni sotto la guida degli Stati Uniti, optando per negoziati multilaterali con all'ordine del giorno: pace, pace dovunque, contro la restituzione di tutti i territori arabi occupati in Palestina, Siria e Libano. Ossia, il diritto internazionale contro strategia del fatto compiuto. Il rifiuto dell'establishment sionista di ritirarsi da tutti i territori arabi occupati ha solo rafforzato la determinazione della resistenza libanese, sostenuta dall'Iran ma soprattutto dalla Siria, di liberare il sud libanese occupato. Ciò che fu fatto nel 2000.  Una sconfitta israeliana da una parte e una vittoria del nascente asse di resistenza dall'altra. Questo ritiro senza gloria dell'esercito israeliano fu sentito come un'umiliazione dai generali israeliani. Nel 2006, l'esercito israeliano, apertamente sostenuto dagli Stati Uniti, dai paesi occidentali e dai loro ausiliari arabi (Arabia Saudita, Egitto, Giordania) voleva cancellare questa umiliazione puntando alla distruzione di Hezbollah, primo passo per indebolire la Siria che non aveva lesinato sui mezzi per aiutare la resistenza irachena contro l'occupazione americana della Mesopotamia nel 2003. Fu a sue spese. A parte la distruzione delle infrastrutture civili libanesi, Israele ha dovuto ritirarsi vergognosamente, rassegnandosi ad accettare uno status quo con Hezbollah e non attraversare più il confine terrestre del Libano, anche se una piccola parte del paese dei Cedri, le fattorie di Chaba'a, restò occupato. La parte dei vinti non si limitò al solo Israele, ma si estese all'Arabia Saudita, alla Giordania e all'Egitto che avevano scommesso sulla sconfitta di Hezbollah, preludio alla caduta della Siria, poi dell'Iran, nei dossier dei neoconservatori americani.
Dopo il fallimento del vertice chiamato 'ultima chanche' che aveva riunito a Ginevra il presidente Hafez al-Assad, già gravemente ammalato, e il presidente americano Bill Clinton nel marzo 2000, gli Stati Uniti avevano disperato di riportare la Siria all'ovile. Il presidente siriano non aveva ceduto sull'integrità del territorio siriano. Senza il ritiro israeliano da tutto il territorio siriano occupato e una soluzione del conflitto palestinese in conformità con il diritto internazionale, nessuna pace. La Siria non voleva cadere nella trappola di un accordo quadro, come nel caso di Oslo, in cui ogni clausola doveva essere oggetto di infinite discussioni e colloqui bizantini. Anche se gli Stati Uniti avevano promesso alla Siria la bellezza di $ 40 miliardi in cambio della firma di un accordo quadro.
D'ora in poi, la Siria viene nuovamente designata come nemica da sconfiggere.
"Da un quarto di secolo", scrive Michel Raimbaud, "questo amabile paese figura in primo piano nella lista dell'Asse del Male (nelle parole dell'ineffabile Debeliou, imperatore dei bigotti e capo progettista di massacri seriali). Uno Stato canaglia, uno Stato paria, uno Stato "preoccupante" (a scelta), viene accostato all'Iran, all'Iraq di Saddam, alla Libia di Gheddafi, a Cuba, alla Corea del Nord, all'ex Unione Sovietica e la Russia di oggi, la Cina di sempre. "
Per i neoconservatori è necessario "dissanguare lentamente la Siria"
L'autore cita un articolo premonitore, pubblicato nel febbraio 2000, un mese prima del vertice Clinton-Assad, firmato dal neoconservatore David Wurmser. Quest'ultimo chiede inequivocabilmente di non dare tregua alla Siria, di intrappolarla in un conflitto in cui "sanguinerà lentamente fino alla morte"! Tutto un programma ...
'Le guerre di Siria' dà al lettore un'analisi storica e geopolitica senza precedenti per la sua chiarezza, la sua profondità geostrategica e il suo spirito di sintesi e dialettica, spiegando senza mezzi termini le vere ragioni dell'accanimento occidentale in generale e degli Stati Uniti in particolare contro questo paese chiave. È in linea con il suo precedente libro geopolitico, “Tempesta sul Grande Medio Oriente”, pubblicato nel 2015, ristampato nel 2017, tradotto in arabo con la prefazione di Richard Labévière. Attraverso la guerra contro la Siria, iniziata nel febbraio-marzo 2011, sulla scia delle mal soprannominate primavere arabe, made in USA, come dimostra il nostro amico Ahmed Bensaada nella sua magistrale indagine "Arabesque$" sul ruolo degli Stati Uniti nelle rivolte arabe (la prima edizione risale al 2011, una seconda edizione ampliata è stata pubblicata a Bruxelles e Algeri nel 2016), Michel Raimbaud rivela una moltitudine di guerre, almeno quindici: una guerra dell'Impero contro gli Stati recalcitranti; una guerra al servizio di Israele; una guerra per il controllo delle vie energetiche; una guerra contro la Russia, la tradizionale alleata (di Damasco ndt), che ha ritrovato, grazie alla resilienza di Damasco, la sua grandezza e il suo ruolo di protagonista nella scena internazionale; una guerra contro l'Iran, l'altro Stato paria, e contro la resistenza libanese, che, grazie in particolare alla Siria, ha somministrato una umiliante sconfitta all'occupante israeliano; una guerra mediatica senza precedenti nella storia e, ultimo ma non meno importante, una guerra contro l'internazionale jihadista sostenuta dalla Turchia, dalle monarchie del Golfo e dall'Occidente, senza tuttavia nascondere la guerra civile stessa.
 Autopsia di un "complotto confessato".
Con prefazione dello scrittore Philippe de Saint Robert, un gollista che fu al centro dell'elaborazione della politica araba della Francia sotto de Gaulle e Pompidou, oggi svanita, il libro è composto da 15 capitoli, densi, ricchi, didattici, e spiega le radici di queste guerre, addita i loro attori, analizza i loro metodi operativi e analizza, alla fine, le vere ragioni della sconfitta di questa vasta impresa criminale. Si va dalla "vecchia ossessione" di distruzione della Siria che ha guidato i passi dei suoi numerosi nemici, allo svolgersi della guerra stessa, alla creazione di un'opposizione esterna, al progetto che i neoconservatori stanno alimentando per l'asservimento della Siria, alla guerra dei media, alla strumentalizzazione del terrorismo per abbattere un potere secolare, alla genesi dell'asse di resistenza e, infine, alla guerra per la pace, la riconciliazione e la ricostruzione.
In tutti i capitoli, l'autore che aborrisce le principali tesi dei media mainstream che si sono distinti nell'arte di mascherare la realtà e di prendere i desideri dei loro sponsor per la realtà, chiama le cose con il loro nome. È uno dei rari geopolitologi che non si sono lasciati intimidire dai media, dagli esperti, dai politologi da operetta che, in una unanimità che non sopporta alcuna contraddizione, avevano profetizzato troppo rapidamente per lo Stato siriano un crollo certo e imminente. Ebbene, sono stati miseramente smentiti. La Siria, dopo nove anni di guerra che è durata più a lungo delle due grandi guerre mondiali messe insieme, è certamente ancora sanguinante, martirizzata, distrutta, assediata, ma ancora in piedi. Senza aspettare la liberazione delle ultime parti ancora occupate del suo territorio dagli Stati Uniti e dai loro ausiliari europei, la Turchia e i suoi burattini, daechisti e qaidisti, sta già iniziando a lavorare.  Ad Aleppo, Homs, Palmyra e ovunque siano stati spazzati via i parassiti terroristi, sono iniziati i cantieri di ricostruzione, senza attendere la revoca delle sanzioni occidentali, che sono criminali oltre che essere controproducenti. Il popolo siriano, che ha stupito il mondo per la sua capacità di resilienza, senza dubbio lo sorprenderà maggiormente per la sua capacità di ricostruirsi e ricostruire il suo paese contando prima di tutto su se stesso ma anche sui suoi alleati (Russia, Cina, Iran ...). Vale la pena ricordare che la Siria, sin dalla sua indipendenza, si è costruita e sviluppata senza l'aiuto dell'Occidente, perfino malgrado esso... La diga dell'Eufrate, i principali progetti di ristrutturazione sono stati completati contando innanzitutto sulle capacità e sul dinamismo del popolo siriano stesso con il sostegno dei suoi veri amici dei paesi orientali e dei non allineati.
Questo libro, afferma Michel Raimbaud "fornirà alcune idee, forse rispondendo alle domande di coloro che vorrebbero capire. È anche dedicato agli 'spiriti forti' a cui “non la si fa”, agli scettici che dopo tutto questo tempo 'non si pronunciano' tra "il massacratore" e "l'opposizione pacifica" che ha preso le armi in Siria, alle "anime belle" normalmente incredule quando si evoca di fronte a loro l'attivismo delle nostre "grandi democrazie". "Speriamo", scrive ancora, "che sarà in grado di aumentare la cultura dei fruitori del dibattito televisivo, di alimentare le informazioni degli intervistati del micro-marciapiede. Sarà utile ai manichini tentati dal riciclaggio, agli intellettuali bloccati nel loro schema "rivoluzionario", ai produttori di notizie rinchiuse nella loro menzogna, a coloro che avranno la memoria che vacilla e fingono di non ricordare molto bene. "
Il merito di questo libro non si limita all'informazione e all'analisi, alle confutazioni, che mettono le cose in chiaro sulla realtà della guerra contro la Siria. L'immensa qualità di questo libro risiede nel coraggio del suo autore, che attraverso i suoi scritti precedenti e in particolare il suo libro di riferimento sulle questioni geopolitiche di questo conflitto (Tempesta sul Grande Medio Oriente), è stato in grado di opporsi alla follia politico-mediatica e alla cecità collettiva riguardo alla Siria. Dallo scoppio della guerra mondiale contro la Siria nel febbraio-marzo 2011, poche persone stavano scommettendo un copeco sulla possibilità che lo Stato siriano emergesse vittorioso. Noi facevamo parte della redazione di Africa-Asia, questa minoranza che aveva scelto con lucidità, argomentazioni a sostegno, di smentire tutte le "Cassandre". Michel Raimbaud era uno di questi. Proprio come il nostro amico Richard Labévière, uno dei pochi geopolitici francesi ad aver analizzato a fondo i dettagli della "guerra globale" contro la Siria, in particolare dal punto di vista della lotta contro il terrorismo, e che ha pagato un pesante tributo per il suo impegno per la verità, che aveva messo in guardia in una famosa cronaca pubblicata nel numero di febbraio 2015 di Afrique-Asie con il titolo premonitore: "Terrorismo e diplomazia: diritti contro il muro suonando il clacson". Fondatore e capo-redattore del quotidiano online Proche et MoyenOrient, è anche uno specialista in relazioni internazionali e in particolare della Siria a cui ha dedicato molti libri, tra cui Le Grand Retournement. Baghdad-Beirut, dove descrive il travisamento della diplomazia francese e il suo cieco allineamento con i neoconservatori americani e annuncia, premonitore (il libro è stato pubblicato nel 2006), la futura guerra globale contro la Siria.
Come non menzionare anche i rari harakiri di chi aveva osato opporsi al linciaggio isterico sulla Siria, come nel caso di Frederic Pichon, autore di "Siria, perché l'Occidente aveva torto", o Bruno Guigue, che aveva dedicato innumerevoli analisi per stigmatizzare le menzogne e la truffa intellettuale di coloro che si erano costituiti come "siriologhi" (leggi in www.afrique-asie.fr la sua analisi "Disinformazione: le migliori perle dei ciarlatani della Rivoluzione siriana, settembre 2016).
"Le guerre di Siria" appare nel momento in cui l'esito vittorioso, ma così doloroso, del conflitto non è più in dubbio. Le edizioni Glyphe, che hanno avuto il coraggio di pubblicarlo, testimoniano la propria nobiltà di editori, che non esitano a rischiare a costo di offendere i detentori del pensiero unico. Rischiano al servizio della verità e della libertà di espressione; in breve: al servizio della democrazia.
Un libro indispensabile, magistrale. Da leggere e far leggere assolutamente. * Le guerre di Siria , di Michel Raimbaud, prefazione di Philippe de Saint Robert, edizioni Glyphe, Parigi 2019.

mercoledì 16 ottobre 2019

La guerra in Siria è finita?

A destra, Lilly Martin, ripresa nel Battarni Park di Latakia con Zena, che si prodiga per soccorrere i rifugiati interni presenti in città e altre persone bisognose. Tutti i sabati, il Parco, oltre a ospitare un bel mercato di prodotti biologici delle contadine che vivono nelle campagne e nei villaggi circostanti, diventa un luogo straordinario dove gli indigenti incontrano soccorso, sostegno, calore umano e anche un po’ di spensieratezza. 
 (foto di M.A. Carta)


Da Latakia, il punto di vista di Lilly Martin


Trad. Maria Antonietta Carta 

L'esercito arabo siriano (SAA), che è l'unico Esercito Nazionale in Siria, e i loro alleati, le forze di sicurezza russe, oggi hanno attraversato l’ex terra "curda", per arrivare al confine turco. Mosca ha dichiarato di ritenere che con questa mossa la Turchia dovrà fermare i suoi attacchi in Siria.

Ciò è stato reso possibile da un'alleanza tra Damasco e i Curdi, che sono tutti cittadini siriani. Diversi anni fa, essi stabilirono a Qamishli il quartier generale del proprio "Stato" - "Stato" che è in realtà l’estremo angolo nord-orientale della Siria – con un tipo di governo comunista, in cui nessuna religione è coinvolta nella politica, le donne hanno uguali diritti ecc. Gli Stati Uniti li sostenevano perché hanno combattuto per sconfiggere l'ISIS. Questo "Stato" curdo non ha mai seguito l'Islam radicale, come invece l’Isis, Erdogan e l’"Esercito siriano libero".

Il Presidente Obama appoggiò in funzione anti-Assad i jihadisti radicali islamici in Siria, fallendo nell’intento. Quando Trump ha ereditato la guerra siriana, ha chiuso i finanziamenti e alla fine ha licenziato anche i Curdi che sono stati traditori e separatisti, ma non certo fanatici religiosi.
Se la Turchia dovesse ritirarsi, il presidente Assad e il popolo siriano potranno riunificare il territorio siriano, con la sola eccezione della città di Idlib.
L'area di Idlib è nelle mani dei terroristi di al-Qaeda e altri seguaci dell'Islam radicale, tra cui i Fratelli Musulmani di cui il Presidente Erdogan è un membro di spicco.
La domanda del giorno è: continuerà la Turchia ad attaccare il nord-est della Siria anche dopo che lo "Stato" curdo si è arreso al governo siriano? Ricordate che commandos russi affiancano a terra le forze armate siriane. La Turchia vuole davvero rischiare di colpire i Russi?
Non possiamo dimenticare che i Turchi hanno già tentato di colpire le truppe statunitensi, ed è per questo che Trump ha ordinato un ritiro totale dal NE.

https://mideastdiscourse.com/2019/10/15/is-the-war-in-syria-over/


Per approfondire, suggeriamo di leggere l'interessante ricerca di Thierry Meyssan , suddivisa sul sito Voltairenet in 3 parti : 
TUTTO QUEL CHE VI NASCONDONO SULL’OPERAZIONE TURCA “FONTE DI PACE” 

JPEG - 14.8 Kb
Decreto di kurdizzazione forzata del nord della Siria.
Il documento, divulgato dalle vittime assiro-cristiane,
dimostra la pulizia etnica compiuta dalle FDS, inquadrate dagli USA.
JPEG - 26.2 Kb"....Innanzitutto è opportuno ricollocare gli avvenimenti attuali nel contesto della “Guerra contro la Siria”, di cui non sono che una battaglia, nonché in quello del “Rimodellamento del Medio Oriente Allargato”, di cui il conflitto siriano è solo una tappa....."


https://www.voltairenet.org/article207907.html
https://www.voltairenet.org/article207945.html

sabato 12 ottobre 2019

Il 17 ottobre S.Ignazio di Antiochia, patrono della Siria, invito alla preghiera per la pace

Di fronte ai tragici fatti che segnano la sorte della Siria, e dei nostri fratelli nella fede, nel giorno della Memoria di Sant'Ignazio di Antiochia, Patrono della Siria, invitiamo tutti i credenti a un gesto di preghiera che rinnovi il grido al Signore perché in quella terra, come in tantissimi altri posti nel mondo, ritorni la pace e la possibile convivenza tra gli uomini di ogni fede. 
E perchè sia salvaguardata la presenza cristiana in queste terre benedette, certi che essa sia una sorgente di pace e benessere per tutto il Paese.
  Ora pro Siria


Preghiera e intercessione per la pace in Siria.
Dio di Compassione,
Ascolta il pianto del popolo siriano.
Conforta coloro che subiscono violenza.
Consola coloro che piangono i morti.
Converti il cuore di coloro che hanno imbracciato le armi.
E proteggi coloro che si impegnano per la pace.
Dio della speranza,
ispira i governanti a scegliere la pace piuttosto che la violenza e a cercare la riconciliazione con i nemici.
Infiamma la Chiesa Universale di compassione per il popolo siriano.
E dacci speranza per un futuro costruito sulla giustizia per tutti.
Lo chiediamo attraverso Gesù Cristo, principe della pace e luce del mondo.
Amen.

A Prayer for Peace in Syria
Almighty eternal God, source of all compassion, the promise of your mercy and saving help fills our hearts with hope. Hear the cries of the people of Syria; bring healing to those suffering from the violence, and comfort to those mourning the dead. Convert the hearts of those who have taken up arms, and strengthen the resolve of those committed to peace. O God of hope and Father of mercy, your Holy Spirit inspires us to look beyond ourselves and our own needs. Inspire leaders to choose peace over violence and to seek reconciliation with enemies. Inspire the Church around the world with compassion for the people of Syria, and fill us with hope for a future of peace built on justice for all.
We ask this through Jesus Christ, Prince of Peace and Light of the World, who lives and reigns for ever and ever. Amen.

Une prière pour la paix en Syrie

Dieu éternel et tout puissant, source de toute compassion, la promesse de ta miséricorde et de ton salut rempli nos cœurs d’espoir. Entend les pleurs des Syriens ; apporte apaisement et guérison à ceux qui souffrent de la violence, console ceux qui sont en deuil. Converti le cœur de ceux qui ont pris les armes et affermi ceux qui s’engagent pour la paix. O Dieu d’espoir et Père de pitié, que ton Esprit Saint nous inspire à regarder au-delà de nous-même et de nos propres besoins. Guide les dirigeants pour qu’ils choisissent la paix et non la violence et qu’ils œuvrent à la réconciliation entre ennemis. Suscite dans l’Eglise à travers le monde la compassion pour le peuple syrien et rempli nous d’espérance pour bâtir un futur basé sur la justice et la paix. Nous Te le demandons par Jésus Christ, Prince de Paix et Lumière du monde, qui vit et règne pour les siècles des siècles. Amen.


Papa Francesco al termine dell’Angelus del 13 ottobre 2019:
Il mio pensiero va ancora una volta al Medio Oriente. In particolare, all’amata e martoriata Siria da dove giungono nuovamente notizie drammatiche sulla sorte delle popolazioni del nord-est del Paese, costrette ad abbandonare le proprie case a causa delle azioni militari: tra queste popolazioni vi sono anche molte famiglie cristiane. A tutti gli attori coinvolti e anche alla Comunità Internazionale, per favore rinnovo l’appello ad impegnarsi con sincerità, con onestà e trasparenza sulla strada del dialogo per cercare soluzioni efficaci.


Intervista con il Nunzio apostolico, cardinale Mario Zenari

Ci sarà una Pasqua anche per la Siria


Osservatore Romano, 7 ottobre 2019

Eminenza, può farci un quadro della situazione oggi in Siria da dove continuano ad arrivare, dopo quasi nove anni, notizie di guerra?
In alcune zone della Siria non cadono più bombe però la guerra non è ancora terminata e c’è la regione del nordovest che tiene preoccupati tutti perché si sta ancora combattendo e vi sono intrappolati circa tre milioni di civili, dei quali, secondo le Nazioni Unite, un milione è costituito da bambini. Dalla fine di aprile ad oggi si parla di più di mille civili morti e di circa 600 mila sfollati. Come dicevo, se non cadono più le bombe, c’è una terribile “bomba”, la povertà, che colpisce, secondo le Nazioni Unite, l’83 per cento della popolazione costretta a vivere sotto la soglia della povertà. Sono cifre ancora molto impressionanti. Non dobbiamo dimenticare che in Siria c’è stato il disastro umanitario più grave dopo la fine della Seconda guerra mondiale: 5.900.000 sfollati interni e 5.600.000 rifugiati nei Paesi vicini. Arriviamo a circa 12 milioni su un totale che, prima del conflitto, era di 23 milioni di persone. Quindi metà della popolazione è costretta a vivere fuori dalle proprie case e dalla propria nazione. La gente è anche molto delusa perché pensava che una volta cessate di cadere le bombe, cominciasse a riprendere la vita. Invece, c’è una povertà galoppante e manca il lavoro. Proprio qualche giorno fa mi diceva un prete: «Mi ha impressionato vedere, non i soliti poveri che chiedono l’elemosina, ma gente che viveva un certo benessere e che ti chiede: “Padre, non ho da comperare il cibo”». I bisogni sono enormi e la gente manca di tutto. Si parla di un mare di sofferenza che riguarda soprattutto bambini e donne, che pagano il costo più alto di questo atroce e crudele conflitto, che ormai è al nono anno. Un settore particolarmente colpito è quello della sanità. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, alla fine del 2018, solamente il 46 per cento degli ospedali era funzionante, il che vuol dire il 54 per cento o sono completamente chiusi o sono parzialmente funzionanti. E anche qui i morti — parliamo soprattutto di anziani e bambini — per mancanza di cure sono più numerosi dei morti sotto le bombe o tra i fuochi incrociati. È così anche nel settore educativo, molto colpito: una scuola su tre non è agibile e circa due milioni di bambini in età scolare non possono frequentare la scuola.
Dal punto di vista sanitario, l’iniziativa da lei avviata tre anni fa, “Ospedali aperti’ che prevede cura gratuita ai poveri di qualunque appartenenza etnico–religiosa, che frutti sta dando?
Ho fatto il giro più volte di questi tre ospedali cattolici (due a Damasco e uno ad Aleppo n.d.r) e ho trovato persone molto riconoscenti. In modo particolare i musulmani, perché nella loro mentalità non si aspettano che un cristiano aiuti un musulmano e quindi ci sono bei gesti di riconoscenza. Gli islamici ammettono, al di là dei pregiudizi, che la Chiesa aiuta tutti. Mi sono reso conto quindi che questi ospedali hanno due scopi: curare il fisico e migliorare le relazioni sociali. Perché quello che è rovinato in Siria non sono tanto i palazzi ma il tessuto sociale: le persone non si fidano più le une delle altre. Quindi grazie a questi ospedali si raggiunge un grande risultato.
Sicuramente sulla popolazione pesano le sanzioni internazionali così come pesa l’instabilità politica. Ora si sta lavorando alla formazione di un Comitato costituzionale: potrebbe essere l’inizio di un cambiamento?
Fino a qualche giorno fa, il mio parere era che la soluzione politica fosse a un punto morto. Poi si è raggiunto questo accordo tra governo, opposizione e Nazioni Unite e finalmente, dopo mesi di stallo, è un passo incoraggiante. Naturalmente la strada è tutta in salita e purtroppo bisogna essere realisti, non pessimisti: la situazione sarà ancora molto difficile per milioni di siriani. Infatti, in Medio Oriente c’è, come si sa, un “ciclone”: la rivalità crescente tra alcuni Paesi. Secondo quanto ha detto qualche mese fa l’inviato speciale dell’Onu, Pedersen: nei cieli siriani o sul suolo siriano sono presenti cinque eserciti tra i più agguerriti del mondo, alle volte in conflitto, con la pericolosità che ne deriva. La Siria è nell’occhio di questo ciclone, è il luogo di una guerra per procura. Quindi come si potrà uscire da questa crisi? Il domani è ancora lontano. Ci sono poi le sanzioni internazionali che portano danni considerevoli. Ne menziono una: l’embargo petrolifero. C’è stato un inverno lunghissimo in Siria, pioggia e neve. Non si trovava gasolio, non si trovavano prodotti come il cherosene di cui si serve la povera gente per scaldare, con le stufette, le case. E un certo numero di persone anziane sono morte anche a causa del freddo.
In questo scenario intravede spiragli di speranza?
Questo terribile conflitto è stato definito con tante immagini. Qualcuno ha detto: è un inferno in terra. E se si guardano le atrocità commesse è così. Ricordo il sottosegretario alle questioni umanitarie dell’Onu, Mark Lowcock, che il 28 aprile 2018 a Bruxelles, diceva: «Il gender violence in Siria è stato perpetrato a livello industriale». Quindi chi dice che è un inferno in terra ha delle ragioni. Io sceglierei però un’altra immagine. Mi ha molto colpito il Papa al Colosseo, il Venerdì santo, durante la Via Crucis, quando ha parlato dei “moderni calvari”. Per me la Siria è un calvario. Però voglio sottolineare come lungo il percorso della croce di Cristo c’erano Simone di Cirene e Veronica, che ha asciugato il volto di Cristo. Io metto in evidenza queste nuove “Veroniche”, questi cirenei e questi buoni samaritani: un certo numero di loro, circa 2000, per lo più volontari, hanno perso la vita soccorrendo la malcapitata Siria. C’è da inchinarsi davanti al loro sacrificio. In queste Veroniche, in questi Cirenei, in questi buoni samaritani metto tutte le organizzazioni umanitarie e le Chiese che cercano di asciugare un volto sfigurato. Sono loro che fanno sperare. Prima o poi si uscirà da questo venerdì santo, verrà la Pasqua anche per la Siria. Tornerà a fiorire il deserto siriano con la solidarietà, e la generosità della gente, con questi semi di bontà che sono invisibili però sono lì, in mezzo al terreno pietroso: al momento opportuno con qualche pioggerellina riporteranno il verde. Ma adesso, bisogna stare vicino alla gente, sopportare con loro, coltivare la speranza, aiutare. E la gente lo apprezza molto, sia i cristiani che i musulmani. È un momento difficile per tutti. Se si guarda un lato della medaglia, c’è sconforto, pessimismo. Ma rovesciamo la medaglia: credo che questa sia un’occasione molto opportuna per la Chiesa di manifestarsi per quello che è. Non proselitismo, assolutamente, ma vicinanza e poi il Signore provvederà.
Eminenza, per i cristiani della Siria, un segno di incoraggiamento potrebbe venire dal ritorno in patria di chi è andato via. I vescovi di Aleppo lo hanno chiesto esplicitamente. Quale è oggi la situazione?
La sofferenza più grave delle Chiese non è tanto il danno delle cattedrali, ma è l’emigrazione dei cristiani: più della metà sono emigrati. E non solo è un danno per le Chiese ma per la società, perché i cristiani sono in Siria da 2000 anni e la loro è una presenza non solo di fede ma di costruzione del Paese. Pensiamo a quello che hanno fatto le Chiese, da secoli, nel campo dell’assistenza. Pensiamo alle scuole, e finanche al campo politico. Nel 1946, anno dell’indipendenza, il celebre primo ministro Faris al-Khoury era un cristiano protestante. I cristiani hanno contribuito allo sviluppo del loro Paese con la loro mentalità aperta. Per la società sono come una finestra spalancata sul mondo. Il presidente e altri capi di Stato lo riconoscono: se partono i cristiani si rischia di avere una società monoculturale, monoreligiosa. Come fermare questo esodo? La prima misura è fermare la guerra e poi fare in modo che in queste nazioni i cristiani si sentano cittadini alla pari degli altri: parità di diritti, parità di doveri, il concetto che ribadiscono le Chiese, di cittadinanza. Intanto il ritorno dei cristiani finora non si vede. In genere chi è emigrato in Paesi occidentali magari con la famiglia o con i bambini che vanno a scuola, è difficile che possa rientrare. Questa dispersione farà sì che molti, molti di questi cristiani vadano nella Chiesa maggioritaria, in genere quella latina. E i nipoti non si ricorderanno più, purtroppo, che il loro nonno era un membro di una di queste gloriose Chiese orientali. Questo crea una sofferenza di queste Chiese. Ogni partenza, per loro, è in pratica una perdita.