di Daniele
Rocchi
S.I.R. 24 giugno 2019
S.I.R. 24 giugno 2019
Tra
i quartieri distrutti di Homs la casa dei Gesuiti, nella parte
vecchia della città, appare come un’oasi di pace. In fondo, dicono
da queste parti, lo è sempre stata. Qui, durante i combattimenti tra
l’esercito siriano regolare e le milizie dell’Esercito libero
siriano e dei jihadisti di al Nusra, in un assedio durato anni, hanno
trovato rifugio e ospitalità centinaia di persone di ogni fede e
etnia, che avevano perso tutto a causa della guerra. È qui, nel
quartiere di Bustan al-Diwan, che incontravano ogni volta padre
Frans van der Lugt, gesuita olandese che ha pagato con la vita il
suo impegno per i più poveri e vulnerabili.
Un uomo di
riconciliazione, un pastore con l’odore delle pecore – come
ricorda spesso Papa Francesco – che non ha mai voluto abbandonare
il suo gregge, fino alla fine. Forti le sue denunce contro la
mancanza di cibo, medicinali e aiuti per la popolazione assediata. Il
7 aprile di cinque anni fa il gesuita fu freddato nel suo convento da
un uomo con una maschera, dopo essersi rifiutato di seguirlo. Oggi
riposa nello stesso piccolo cortile dove incontrava i suoi poveri che
non lo hanno dimenticato. In tanti ogni giorno vengono a pregare
sulla sua tomba.
Recuperare
speranza.
Padre
Michel Daoud, “siro-libanese”, è uno dei quattro gesuiti che
oggi abitano la casa portando avanti la missione pastorale che fu di
padre Frans. “L’assedio
è finito, non si spara più ma le macerie sparse ovunque – spiega
– raccontano di una città che fatica a risollevarsi nonostante la
voglia di rinascere. Cerchiamo
di restituire un po’ di fiducia alle persone e forse questo può
non piacere a qualcuno.
Il
nostro servizio è rivolto a tutti cristiani e musulmani,
indistintamente”. Durante
gli anni della guerra i gesuiti hanno assicurato acqua, cibo, energia
elettrica, medicine, ma soprattutto una presenza umana costante.
“Molta
gente del quartiere e di altri limitrofi – ricorda
padre Michel –
veniva nella nostra casa a recuperare un po’ di fiducia e di
speranza. I più giovani ritrovavano il piacere del gioco restando
nel piccolo cortile. C’era chi ricaricava il cellulare per provare
a chiamare i propri cari fuggiti all’assedio e chi invece riposava
approfittando della quiete del convento. Neanche dopo il martirio di
padre Frans la gente ha smesso di venire. Non ha paura e ha scelto la
nostra casa come loro dimora, nella quale sentirsi al sicuro, questo
per noi è motivo di grande speranza”.
“Continuare
a sperare per ricostruire l’uomo dalle macerie”.
È
riposta in queste parole l’eredità di padre Frans che ora potrebbe
avere un ulteriore riconoscimento. “Abbiamo iniziato, con la
Curia generalizia, a raccogliere tutto il materiale necessario a
istruire un giorno il processo per riconoscere il martirio – rivela
padre Michel – nella speranza di arrivare alla causa di
beatificazione”.
Oggi
come allora.
La presenza dei gesuiti in questo quartiere nel cuore della città
vecchia di Homs, dove ebbero inizio le prime manifestazioni di
protesta contro il presidente Assad, si è rafforzata attraverso un
impegno pastorale che passa per la cultura, la catechesi, l’arte,
la carità, l’ascolto e la preghiera. Può accadere allora che in
un cortile circondato da macerie e da palazzi crivellati dai
proiettili possano ritrovarsi 800 persone a vedere un film, ascoltare
un concerto di musica classica oppure, a piccoli gruppi, condividere
versi e leggere poesie.
“Nonostante
la guerra, voluta dalle grandi potenze per i loro interessi, nei
cuori delle persone c’è un desiderio di bene e di pace. La
ricostruzione della Siria passa anche da qui. A che serve – è
la domanda di padre Michel
– costruire case se poi non abbiamo ricostruito l’uomo che le
deve abitare e far rivivere? Questa è la sfida che ci attende”.
Una sfida resa ancor più difficile dalla fuga all’estero di tante
famiglie, molte delle quali giovani. Pochissime quelle che sono
tornate. “Siamo
ben consapevoli – ammette
il gesuita –
che il destino della Siria non è tanto nelle nostre mani quanto in
quello delle potenze che combattono sul nostro territorio. Ma
restiamo per aiutare la gente a ricostruirsi una vita, a non perdere
la speranza minacciata dalle sanzioni di Usa e Ue che ci costringono
a una vita sempre più dura. Più dura delle macerie che ci
circondano”.
Le
spalle degli anziani.
Homs
resta così stretta nella morsa della guerra. Nessuno, nemmeno
sottovoce, osa parlare di dopoguerra. Qui si è più preoccupati di
vivere il presente soprattutto quando si è anziani soli, privi dei
parenti emigrati all’estero e senza una casa. Gli anziani sono tra
i più poveri di questa città un tempo sacra al Dio Sole.
“È
un quadro desolante”
racconta suor Valentina, una vita passata in Siria al servizio dei
più poveri secondo il carisma delle suore del Sacro Cuore. La
religiosa gestisce con una sua consorella una casa di ricovero per
persone anziane, nella zona vecchia di Homs, voluta dalla
locale
chiesa evangelico-presbiteriana, guidata dal rev. Yousef Jabbour.
“Quello
degli anziani soli è un problema gravissimo e non solo a Homs –
spiega
la religiosa –
la guerra, e adesso anche la povertà, hanno spinto molte famiglie a
partire lasciando qui i loro anziani. Sono pochi, infatti, quelli che
hanno voluto seguire la famiglia. Chi è rimasto è malato, non ha di
che vivere dignitosamente, con la casa ridotta a un cumulo di
macerie”.
Nella
struttura sono ospitati 52 anziani di età compresa tra i 60 e i 90
anni ma altri 37 sono in lista di attesa per entrare. “Non
tutti possono pagare ma la Provvidenza non ci fa mancare nulla”
dice
la religiosa mentre si affaccia ad un balcone. Di sotto alcuni
bambini giocano. Li indica e con un sorriso dice: “sono
il futuro della Siria. Molti sono nati durante la guerra non hanno
conosciuto altro che macerie e violenza. La Siria deve poter
ripartire da loro”.
Ma
intanto bisogna occuparsi dei “nonni” della casa che durante la
battaglia di Homs è stata attaccata e saccheggiata più volte dai
jihadisti. “Sono
stati anni duri, non avevamo acqua e cibo, al buio per intere
giornate, ma siamo rimaste accanto alla popolazione” ricorda
suor Valentina.
“Poi quando i combattimenti sono finiti abbiamo cominciato a
ricostruire. I nostri ospiti vengono assistiti, curati e stimolati
con attività anche manuali. Ci sono dei giovani che vengono a fare
animazione due volte a settimana. Sono diventati i loro nipoti.
Qualcuno chiede dei parenti lontani, i più fortunati ricevono
qualche visita dai familiari che abitano nei villaggi vicini”.
“Tutti
sanno che non rivedranno mai la loro città ricostruita, nemmeno la
loro casa. Ma sanno anche che non sono soli. Staremo con loro fino
all’ultimo per restituire dignità alla loro vita”.
A
Homs la solidarietà e la speranza camminano anche sulle spalle dei
più anziani.