Io sono armeno. Ես հայ եմ
di Alessandro Aramu
Da qualche mese nel mio DNA c’è anche l’Armenia. Il mio patrimonio genetico è fatto di tutti i luoghi che ho visitato, di tutte le persone che ho incontrato, di tutti gli sguardi che ho incrociato. C’è un pezzo di loro in tutte le cose che faccio, in tutto ciò che credo.
Da qualche mese sono anche armeno, figlio adottivo di quel genocidio che ha sterminato cento anni fa milioni di persone. Lo sono in particolar modo da quando ho intervistato gli ultimi sopravvissuti, in una cavalcata di emozioni e pulsioni che mi ha portato in quel paese schiacciato tra la Turchia e l’Azerbaigian.
Sono loro ad avermi chiesto di ricordare quelle persecuzioni, quell’odio, quella ferocia che da un secolo si portano dentro. Un crimine che non dimenticano. Che nessuno deve dimenticare.
Le mani intrecciate sul rosario di Aharon, lo sguardo fiero di Silvard e la forza di Andranik sono la ragione che mi ha spinto a raccontare le loro storie, fatte di strappi, di lacerazioni, di affetti impossibili da ricongiungere. Di luoghi che non potranno più visitare perché qualcuno ha violentato, ma non ucciso, la loro identità di popolo.
Fotografie sparse su un tavolo, ricordi che si perdono nel tempo, quando ancora si era bambini e tutto sembrava avvolto da innocenza e ingenuità.
Ma poi vennero gli uomini cattivi, con le loro armi, a portare via mamma e papà. Fratelli. Sorelle. Nonni e zii. Uomini cattivi che non hanno neppure un volto.
Pensieri, silenzi. Ancora silenzi. E poi, improvvisi, ricordi che acquistano spessore, come quella pelle marchiata dal sole al termine di camminate interminabili. Dove c’era vita all’improvviso crebbe la morte, come una pianta infestante che sbuca fuori subito dopo averla estirpata.
Morte.
Sono armeno. Lo sono ogni giorno che passa, perché da quella gente ho imparato la dignità, la semplicità e l’affetto sincero. Invaso dal calore di una casa che si apre a uno sconosciuto e diventa anche un po’ tua.
Sono armeno perché ho il diritto e il dovere, come uomo e come giornalista, di ricordare quella violenza, che non scalfisce solo i corpi, non li violenta, non li deturpa. No, quella rabbia ha segni profondi che si imprimono nell’anima. E nella memoria collettiva di una nazione.
Ho sentito le loro grida, visto i ventri delle donne incinte squarciati dalle lame, le teste mozzate ed esposte come trofei. Corpi smembrati, ripiegati come cartacce da calpestare. Croci, tante croci. Simbolo di un cristianesimo negato. Luogo di morte per migliaia di persone.
Ecco perché “Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio” non è un libro qualunque. Non è il mio libro. E neanche degli altri autori che hanno costruito insieme a me questo viaggio verso l’orrore, di ieri e di oggi. Perché, qui dentro c’è anche un pizzico della Siria contemporanea, con il suo sangue che scorre proprio nei luoghi dove migliaia di armeni trovarono rifugio o morte.
Siria e Armenia. Legate da un destino comune, abbracciate come le donne costrette a soffocare i propri figli in una stretta mortale. Perché tutto qui si mischia, sangue, sudore, polvere e sofferenza.
Questo è il libro di quei sopravvissuti, dei loro figli, dei loro nipoti. Un libro offerto in dono a chi vuole vivere in un mondo migliore, dove i giusti e i torturatori possono finalmente sedersi intorno a un tavolo nella consapevolezza del riconoscimento dell’orrore e del perdono. Un libro che deve unire, che deve far riflettere, che deve far sentire tutti un po’ figli di quella terra generosa che sa perdonare ma non potrà mai dimenticare.
Da qualche mese sono anche armeno, figlio adottivo di quel genocidio che ha sterminato cento anni fa milioni di persone. Lo sono in particolar modo da quando ho intervistato gli ultimi sopravvissuti, in una cavalcata di emozioni e pulsioni che mi ha portato in quel paese schiacciato tra la Turchia e l’Azerbaigian.
Sono loro ad avermi chiesto di ricordare quelle persecuzioni, quell’odio, quella ferocia che da un secolo si portano dentro. Un crimine che non dimenticano. Che nessuno deve dimenticare.
Le mani intrecciate sul rosario di Aharon, lo sguardo fiero di Silvard e la forza di Andranik sono la ragione che mi ha spinto a raccontare le loro storie, fatte di strappi, di lacerazioni, di affetti impossibili da ricongiungere. Di luoghi che non potranno più visitare perché qualcuno ha violentato, ma non ucciso, la loro identità di popolo.
Fotografie sparse su un tavolo, ricordi che si perdono nel tempo, quando ancora si era bambini e tutto sembrava avvolto da innocenza e ingenuità.
Ma poi vennero gli uomini cattivi, con le loro armi, a portare via mamma e papà. Fratelli. Sorelle. Nonni e zii. Uomini cattivi che non hanno neppure un volto.
Pensieri, silenzi. Ancora silenzi. E poi, improvvisi, ricordi che acquistano spessore, come quella pelle marchiata dal sole al termine di camminate interminabili. Dove c’era vita all’improvviso crebbe la morte, come una pianta infestante che sbuca fuori subito dopo averla estirpata.
Morte.
Sono armeno. Lo sono ogni giorno che passa, perché da quella gente ho imparato la dignità, la semplicità e l’affetto sincero. Invaso dal calore di una casa che si apre a uno sconosciuto e diventa anche un po’ tua.
Sono armeno perché ho il diritto e il dovere, come uomo e come giornalista, di ricordare quella violenza, che non scalfisce solo i corpi, non li violenta, non li deturpa. No, quella rabbia ha segni profondi che si imprimono nell’anima. E nella memoria collettiva di una nazione.
Ho sentito le loro grida, visto i ventri delle donne incinte squarciati dalle lame, le teste mozzate ed esposte come trofei. Corpi smembrati, ripiegati come cartacce da calpestare. Croci, tante croci. Simbolo di un cristianesimo negato. Luogo di morte per migliaia di persone.
Ecco perché “Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio” non è un libro qualunque. Non è il mio libro. E neanche degli altri autori che hanno costruito insieme a me questo viaggio verso l’orrore, di ieri e di oggi. Perché, qui dentro c’è anche un pizzico della Siria contemporanea, con il suo sangue che scorre proprio nei luoghi dove migliaia di armeni trovarono rifugio o morte.
Siria e Armenia. Legate da un destino comune, abbracciate come le donne costrette a soffocare i propri figli in una stretta mortale. Perché tutto qui si mischia, sangue, sudore, polvere e sofferenza.
Questo è il libro di quei sopravvissuti, dei loro figli, dei loro nipoti. Un libro offerto in dono a chi vuole vivere in un mondo migliore, dove i giusti e i torturatori possono finalmente sedersi intorno a un tavolo nella consapevolezza del riconoscimento dell’orrore e del perdono. Un libro che deve unire, che deve far riflettere, che deve far sentire tutti un po’ figli di quella terra generosa che sa perdonare ma non potrà mai dimenticare.
Ecco perché sono armeno. Orgoglioso di esserlo diventato.
http://assadakahsardegna.com/in-evidenza/io-sono-armeno-%D5%A5%D5%BD-%D5%B0%D5%A1%D5%B5-%D5%A5%D5%B4
SALUTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Messa per i fedeli di rito armeno
del 12 aprile 2015
Cari fratelli e sorelle armeni,
cari fratelli e sorelle!
cari fratelli e sorelle!
In diverse occasioni ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale ‘a pezzi’, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi –, oppure costretti ad abbandonare la loro terra.
Anche oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: “A me che importa?”; «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9; Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014).
La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001); essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia.
Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che “la guerra è una follia, una inutile strage” (cfr Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014).
Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!
Vi saluto con affetto e vi ringrazio per la vostra testimonianza.
Con la ferma certezza che il male non proviene mai da Dio, infinitamente Buono, e radicati nella fede, professiamo che la crudeltà non può mai essere attribuita all’opera di Dio e, per di più, non deve assolutamente trovare nel suo Santo Nome alcuna giustificazione.
Viviamo insieme questa Celebrazione fissando il nostro sguardo su Gesù Cristo Risorto, Vincitore della morte e del male.
Il discorso di Sua Santità Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di Tutti gli Armeni:
http://www.news.va/it/news/il-discorso-di-sua-santita-karekin-ii-patriarca-su
Il Patriarca maronita: evitano di nominare il Genocidio armeno solo per paura delle conseguenze legali
Erevan (Agenzia Fides) - “Dopo cento anni, la comunità internazionale sta cercando una definizione per il Genocidio armeno e ha paura di chiamarlo Genocidio perché ne teme le conseguenze legali”. Così il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, Bechara Boutros Rai, ha spiegato la riluttanza di nazioni e organismi internazionali a pronunciare la parola genocidio per indicare i massacri pianificati di armeni avvenuti in Anatolia nel 1915. Le dichiarazioni del Patriarca Rai sono state rilasciate a Erevan, dove il Primate della Chiesa maronita si trova per prendere parte alle commemorazioni ufficiali del centenario del Genocidio armeno.
Senza citare espressamente la Turchia – che esercita pressioni diplomatiche a tutti i livelli e in tutte le direzioni per evitare che la definizione di Genocidio armeno sia utilizzata dai leader politici e religiosi, dalle istituzioni politiche delle singole nazioni e dagli organismi internazionali – il Patriarca maronita ha ribadito l'urgenza di riconoscere il Genocidio armeno “non per rivalersi, ma per evitare il ripetersi di altri Genocidi”. Se la comunità internazionale non riconosce il Genocidio armeno, ha avvertito il Cardinale Rai, “saranno commessi altri Genocidi” Mentre “nessun Genocidio, attacco o massacro può essere giustificato per ragioni economiche, come sta succedendo adesso”.
Alle celebrazioni ufficiali in corso a Erevan prendono parte, oltre al Patriarca Rai, anche il Patriarca copto ortodosso Tawadros II e il Patriarca siro ortodosso Ignatius Aphrem II. La delegazione della Santa Sede è guidata dal Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani.