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venerdì 8 aprile 2016

Il ricatto islamista: di Samir Khalil Samir S.I.

da IL FOGLIO del 6 aprile 2016 riprendiamo la riflessione di padre Samir Khalil Samir "L’Europa è stata troppo tollerante con la radicalizzazione che cresceva nelle sue città. E’ banale dire che il fondamentalismo è causato dalla disoccupazione...."



Vorrei partire da un dato di fatto, come premessa. Siamo in presenza di un fenomeno sociologico “normale”: le città sono già occupate. Trovare un posto nel cuore dei grandi agglomerati urbani è difficile per chiunque, se non è già installato lì. Man mano che arrivano, gli immigrati vanno a stabilirsi attorno alla città e la conseguenza più banale è che si formano dei quartieri abitati solo da immigrati: cercano una casa dove hanno un parente, un amico, una persona del proprio luogo. Così si costituiscono, ovunque nel mondo, dei quartieri che sono contraddistinti da una certa prevalenza culturale. Può essere un quartiere di spagnoli, di italiani. Negli ultimi tempi, l’emigrazione massiccia – e la più diffusa – è quella che ha come luogo d’origine i paesi musulmani. Il problema è che questi sono oggi più di 16 milioni nell’Unione europea, secondo l’Istituto centrale tedesco degli archivi sull’islam (Zentralinstitut Islam Archiv Deutschland). Ecco perché esistono molti quartieri massicciamente musulmani. Ecco perché dico che è un fenomeno culturale. Questo è un primo fatto, sociologico.

Poi però, c’è un secondo problema. Dobbiamo capire che l’islam non è una religione nel senso cristiano della parola. Almeno, non è solo questo. Per noi, la religione è un rapporto personale tra me e Dio, con annesso qualche legame religioso spirituale con altre persone. Nel sistema islamico, la religione è tutto. E’ un progetto globale: spirituale, sociale, intellettuale, familistico, economico, politico, militare; include il modo di mangiare, di vestirsi, di stare con gli altri, di vivere. L’islam entra in ogni cosa. Non c’è un campo che sia esterno all’islam. Pensiamo al modo di relazionarsi agli altri: se parlo con un uomo o con una donna, è l’islam a deciderlo. Se frequento uno straniero, prima mi assicuro che lui sia credente e musulmano. L’islam penetra in tutto. Le scelte sociali, politiche, commerciali sono fatte a partire dall’islam. La religione penetra ogni aspetto.

Dunque è normale che, trovandosi tutti assieme, man mano la libertà personale venga a essere limitata, perché ci saranno sempre persone – diciamo “specialisti” (imam o semplicemente persone che pretendono di aver studiato l’islam) – che verranno a dire  “tu ti comporti male, devi agire così”. C’è una propaganda che porta a dire che un determinato quartiere deve essere gestito in modo islamico. Si pensi, poi, che c’è anche un modo “islamico” di vendere e comprare le cose. La conseguenza di questo sistema è che, con l’andare del tempo, si creano delle unità a se stanti, isole dove è più facile indottrinare la gente.
Inoltre, negli ultimi tempi, la tendenza – che esiste da decenni nel mondo islamico, almeno dagli anni Sessanta – è quella di una diffusione di una visione dell’islam sempre più integralista, fondamentalista, collettiva; una visione della vita che si impone lentamente alla maggioranza. E’ il sistema wahhabita o salafita, o dei Fratelli musulmani. Tutti vanno nella stessa linea, e cioè di imporre un modo di essere musulmano. E questo determina che un quartiere, una città o un paese intero divenga sempre più diretto da questo gruppuscolo che ha un progetto chiaro e determinato, nonché spesso finanziato dai ricchi paesi petroliferi. Al centro di questa isola si metterà la moschea. Si dirà: “Ci sono tante chiese e noi non abbiamo neanche un piccolo luogo di preghiera”. Si faranno pressioni sui comuni cittadini, per dire “rispettateci”. Allora, o l’amministrazione pubblica dice “va bene, vi regaliamo quel terreno”, oppure loro lo acquisteranno, aiutati dai paesi petroliferi.
 Costruiranno allora un piccolo centro, che pretenderebbe di essere solo per la preghiera, ma che subito vedrà sorgere librerie con volumi fatti a mero scopo propagandistico. Nascono così i centri islamici. 
Il fatto è che gli europei pensano che una moschea sia come una chiesa. Ma nella chiesa si prega, non si fa politica. Forse, una volta se ne faceva un po’, ma oggi chi va in chiesa lo fa per pregare. Nella moschea no. Il discorso ufficiale durante la preghiera del venerdì è solo in parte religioso. La parte preponderante, invece, è socio-politica. Questo è il sistema stabilito e chi lo pratica fa bene, è un buon musulmano e un buon imam.

La Francia “laicarda”
In Francia, i comuni hanno il diritto di concedere un terreno o una costruzione per 99 anni in cambio di 1 euro simbolico: è ciò che si chiama un bail emphytéotique. Questo sistema risale a una decisione di secoli fa, ma ora è divenuto il metodo più diffuso in Francia per dare ai musulmani un terreno per costruire una moschea. E questo perché il diritto che lo permette risale al diritto romano, benché esso sia molto cambiato nel frattempo. Le comunità si presentano dicendo: noi siamo poveri, non abbiamo luoghi decenti per pregare, mentre i cristiani hanno da secoli delle chiese, e noi non abbiamo niente. Allora dateci questo, visto che la legge vi autorizza a farlo. La conseguenza? I comuni e i governi si lasciano convincere da tali motivazioni e regalano il terreno. Solo dopo, quando ormai è troppo tardi, si scopre che lì si fa  propaganda islamista, jihadista, e si crea così un quartiere islamico, dove la polizia non ha sempre la possibilità di accedere.
La Francia è sempre più non solo laica, ma (come si dice in francese) laicarda. Ha cioè un progetto laico, che è in realtà anti religioso e anti cristiano. Anzi, essenzialmente anti cattolico. Basta vedere l’atteggiamento dell’attuale Primo ministro Manuel Valls, e quello di Vincent Peillon (ex ministro dell’Istruzione) che diceva in televisione “dobbiamo uccidere la chiesa cattolica”. Per lui, “non si potrà mai creare un paese di libertà con la chiesa cattolica” . Ma la chiesa non ha mai usato, nella nostra epoca, mezzi politici e illegali. La chiesa dice la sua, come ogni uomo ha il diritto di fare. Non ha possibilità concrete di fare pressione sulla gente. La prova è che ogni anno ci sono sempre meno persone che si dichiarano cristiane. Ma Valls e Peillon ritengono che il cristianesimo ha un influsso troppo forte. Al contempo, il governo francese ha bisogno di voti e cerca i musulmani, dando loro piccoli o grandi vantaggi in cambio di consenso.
Penso alla preghiera musulmana del venerdì, fatta per strada: è inammissibile, qualunque sia il motivo. Se voglio utilizzare il luogo pubblico (la strada) per un atto religioso, anche io cattolico devo chiedere il permesso. Penso a un caso eccezionale, la processione per la festa del Corpus Domini: non si può fare senza prima ottenere il via libera dlle autorità, non si può decidere di scendere liberamente in strada. Se non c’è il permesso, lo Stato ha il diritto di impedire che si blocchi la strada. Invece, ogni settimana, ogni venerdì, lo si fa. Con il pretesto che – dicono – non hanno moschee o che le moschee sono troppo piccole. Io l’ho visto a Parigi: fanno venire i musulmani dalle periferie nel centro della città per dire “vedete, le moschee sono troppo anguste”. C’è una sorta di ricatto, uno scambio: usano tutto a fini politici. Ed è per questo che l’islam si “arrangia” bene con lo stato.
Anche a Milano, in viale Jenner, lo rivendicavano come diritto. La verità è che siamo incoscienti: se si impedisce di occupare le strade, passa l’idea che si sia anti musulmani. Invece è solo una norma di buon senso. Gli islamisti, i fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi per imporsi. Poniamoci per un attimo su un piano più profondo, andiamo a vedere come un quartiere si trasforma in un quartiere più islamista (non dico islamico). I gruppi radicali hanno come scopo principale di diffondere la loro visione dell’islam, perché per loro è quello l’autentico islam, il più veritiero, e quindi va imposto a tutti i musulmani. Di conseguenza, questi quartieri che un tempo erano misti, diventano quartieri musulmani radicali, dove i non musulmani – oppure i musulmani moderati – se ne vanno. Così il quartiere non è più integrato nella città.

Accoglienza e falsa tolleranza
Spesso si critica lo stato accogliente. A mio giudizio, dobbiamo accogliere lo straniero che si trova in estrema difficoltà (come spesso accade di questi tempi). Ma dobbiamo anche aiutarlo a integrarsi realmente. Lo stato deve spiegare agli immigrati che ci sono delle condizioni necessarie da rispettare, prima fra tutte la necessità d’imparare la lingua nazionale. Si dovrebbe spiegare che non si può rimanere qui, in Europa, se non ci si comporta non solo conformemente alle nostre leggi, ma anche in secondo le norme e le usanze delle nostre società.  Ma cosa significa “integrare”? Significa far sì che l’altro sia uno di noi. Perché se l’altro non si integra, per esempio con la lingua, avrà difficoltà a trovare anche determinate occupazioni. C’è troppa falsa tolleranza e disorganizzazione, mancanza di riflessione su ciò che significa “accogliere”. E’ un compito molto delicato e impegnativo. Ma si deve aggiungere che, se i flussi migratori rappresentano un peso per lo stato e per le comunità, si deve riconoscere anche che l’Europa, con la sua demografia estremamente bassa, ha bisogno anche di loro, persone dal valore umano indispensabile a questo continente.
E’ banale ricondurre l’ondata integralista nelle banlieue a problemi socio-economici. Riflettiamo sulla disoccupazione: sono disoccupati perché non hanno imparato un mestiere in modo corretto, in modo da essere ricercati e non rigettati. L’ho notato in Francia: i ragazzi di questi quartieri, anziché studiare, facevano chiasso per le strade, andando in giro per gruppi alla sera, anzichè studiare. La gente, anche musulmana, aveva paura. Invece le ragazze erano a casa, facendo i compiti, lavorando. Personalmente l’ho constatato nella banlieue di Parigi, dove andavo ogni sabato sera a riflettere con una ventina di giovani musulmani: che tutte le ragazze avevano un lavoro. I ragazzi invece molto di meno, con anche poche possibilità di avere un buon lavoro. Perché non erano stati seri a scuola. Perché il ragazzo è libero, mentre la ragazza è controllata, e questo è un principio islamico. C’è la volontà di marginalizzarsi.
Bisogna confrontarsi con un fatto chiaro: l’europeo (generalmente di tradizione, se non di fede, cristiana) è diverso dal musulmano nella sua mentalità. La causa di ciò non è lo Stato: la causa sono io, giovane musulmano che rifiuta l’integrazione in nome della fede. Ecco perché le famiglie dovrebbero aiutare in questo senso, favorendo l’integrazione; dire “voi siete responsabili di voi stessi, ma per questo dovete integrarvi a tutti i livelli”, non andando a intaccare la fede musulmana, ben radicata nel profondo del cuore e nei comportamenti.

Molenbeek spiega le bombe di Bruxelles
Quanto avvenuto a Bruxelles non è una sorpresa. Nel quartiere di Molenbeek, ma non solo in questo, io ho visto scene con uomini che dicevano alla polizia: “Che venite a fare qui? Questo non è campo vostro”. E la polizia, trovandosi in tali situazioni, preferivano andarsene. Uomini che, pure non intenzionati a fare uso della forza, avevano un aspetto intimidatorio. Non si deve accettare nessuna eccezione, mai:  sia italiano da mille anni o da un anno. Ci sono delle norme, e devono essere rispettate. I tedeschi hanno un’espressione molto bella e sempre applicata: Ordnung muss sein!, cioè “l’ordine deve esistere, tutto deve essere fatto secondo l’ordine previsto!”. Per questo sono più avanzati in questo campo. In Germania non ho mai visto, in trent’anni, un gruppo di musulmani come ho visto a Birmingham o a Parigi, che vanno in giro a fare pressione sulla popolazione musulmana. In Germania hanno infatti imparato che ognuno può ottenere diritti solo se rispetta le norme comuni del paese dove vive e che ha scelto per se stesso.

Samir Khalil Samir S.I. è un islamologo gesuita, docente al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Già Pro rettore dell’istituto, è stato anche consigliere di Benedetto XVI riguardo i rapporti con l’islam.

domenica 24 gennaio 2016

“Il dialogo tra cristiani e musulmani si può fare solo nella verità” Padre Pizzaballa, Custode di Terra Santa

“Dire da dove nasce il fondamentalismo”. 
L’esempio dei cristiani “che resistono”
25 gennaio: conversione di S Paolo


Il Foglio, 21 gennaio 2016

Roma. “Il medio oriente come l’abbiamo conosciuto nel Novecento non esiste più, è saltato. Questa guerra, che definirà i nuovi assetti, non ha distrutto solo le infrastrutture e gli stati, ma anche la fiducia tra le diverse comunità, specie tra i cristiani e la maggioranza musulmana. Niente sarà più come prima”. 
A dirlo è stato padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, intervenendo all’incontro “Cristiani in medio oriente e migrazioni forzate. Dentro il cambiamento epocale”, promosso dalla Fondazione Avsi e Oasis, che si è tenuto nel tardo pomeriggio di martedì all’Università La Sapienza di Roma. Al tavolo dei conferenzieri sedevano anche Michele Valensise, segretario generale del ministero degli Esteri e Adnane Mokrani, docente all’Università Gregoriana e al Pontificio istituto di studi arabi e islamistica. 
“Non si parla mai degli sfollati, di gente che ha perso la casa, il lavoro e non ha più soldi per ricominciare. Più di due terzi dei siriani non abita più dove si trovava prima del conflitto. La situazione è drammatica – ha osservato Pizzaballa – al punto che non diciamo nemmeno più quando i religiosi vengono rapiti. Lo facciamo solo se dopo una settimana non sono ancora tornati”.

Eppure, in tale disastro, “vi sono episodi di grande determinazione. Quanti sono rimasti sono per lo più poveri, non hanno mezzi per muoversi, non sanno dove andare. Ma quasi nessuno tra essi ha rinnegato la propria fede. Si fanno tagliare la testa ma non rinunciano a nulla”. Il francescano porta qualche testimonianza vista con i propri occhi, nel nord della Siria, nei territori “sotto il controllo di gruppi satelliti di al Qaeda. 
Questi, rispetto ai jihadisti dello Stato islamico – i cui miliziani, come testimoniano le foto satellitari diffuse ieri dalla Associated Press, hanno raso al suolo il monastero di Sant’Elia a Mosul, il più antico d’Iraq – sono sì moderati, ma è una ‘moderazione’ che consiste nel divieto per i non musulmani d’avere proprietà, di esibire simboli religiosi. Niente croci né statue. Di vino per celebrare la messa neanche a parlarne. Ma qui i cristiani non hanno ceduto: nessuno ha permesso che i loro simboli fossero toccati e sono arrivati a nascondere il vino per l’eucaristia in casa propria”. 
Il problema, ha aggiunto ancora il custode di Terra Santa, “è che il fondamentalismo di oggi non può nascere dal nulla. C’è sempre un background, ed è su questo che bisogna interrogarsi. Io sono convinto che si debba dialogare, sia perché senza dialogo siamo finiti sia perché il dialogo è incontro con l’altro e parte integrante della mia vita di fede. Ma deve essere fatto nella verità. Non so – ha proseguito – se si possa dialogare tra le fedi. Io penso di no. Però si può dialogare tra credenti e condividere le esperienze di fede. Questo si deve fare. Non posso credere che vi sia un miliardo e mezzo di persone con le quali non posso entrare in relazione. E’ una aberrazione pensare questo. Dobbiamo farlo, ma nel rispetto  reciproco, nella verità. Su questo non si può transigere”.

A margine dell’incontro, padre Pizzaballa – che si è chiesto “cosa sia e dove sia la comunità internazionale”, visto quel che sta accadendo “nell’indifferenza generale” – ha ammesso, conversando con il Foglio, che “le reazioni delle autorità musulmane riguardo le persecuzioni delle minoranze sono state molto timide”. Certamente non tutti, visto che ci sono state lodevoli eccezioni che danno speranza. Ma bisogna riconoscere che se è vero che le narrative sono diverse e ognuno legge gli eventi in maniera diversa, allo stesso tempo è oggettivo che i leader islamici del medio oriente sono stati molto timidi nel denunciare l’abominio che è in corso”. 
Sarà un’impresa ardua ricomporre la frattura che s’è venuta a creare tra musulmani e cristiani nel vicino e medio oriente: “Ci vorranno molto tempo e diverse generazioni per recuperare il tipo di coesistenza precedente la guerra”, ha chiosato.

martedì 5 gennaio 2016

Siria, bombe sui cristiani: "Sono attacchi mirati, ma noi siamo uniti"

Attentati, il lutto e la resistenza. Parla il capo dell'eparchia armeno-cattolica di Qamishli: “Siamo in lutto totale”




di Matteo Matzuzzi 
Il Foglio, | 04 Gennaio 2016 


“Un massacro terroristico senza precedenti”, ha detto il patriarca siro-cattolico Ignace Youssef III Younan, commentando quanto avvenuto il 30 dicembre scorso a Qamishli, nord della Siria, a non troppa distanza dai confini con la Turchia a settentrione e l’Iraq a oriente. Tre diversi attentati, subito rivendicati da gruppi che si sono richiamati alla dottrina dello Stato islamico, hanno lasciato a terra diciotto morti, tra cui tredici cristiani. Una quarantina i feriti, alcuni dei quali senza più gambe o braccia. 
“Quella sera ci si preparava con gioia ed entusiasmo a salutare l’anno nuovo, come da tradizione con le feste e il folclore tipico delle nostre comunità cristiane”, dice al Foglio monsignor Antranig Ayvazian, capo della eparchia cattolico-armena di Qamishli: “Quasi tutti i locali, ristoranti e club giovanili stavano portando a termine i preparativi per il giorno seguente. Alle 20.40, la prima esplosione, al Café Miami, forse per opera d’un attentatore suicida fattosi saltare in aria, ha riferito l’agenzia France Presse. Tre o quattro minuti dopo, la seconda, al ristorante Gabriel. Più tardi, l’attentato al Youth Restaurant, nella parte occidentale della città. Le bombe erano state nascoste all’interno di alcune valigie, posizionate qua e là tra i tavoli, in mezzo ai clienti che si preparavano a tornare a casa”. Il risultato? “Una macelleria. I morti sono tutti giovani e giovanissimi, novelli sposi o persone sposate da pochi anni, padri di bambini piccoli. Quasi tutti cristiani”. 
Da quattro giorni la città è in lutto, aggiunge il presule: “Un lutto totale”, precisa, al punto che nelle chiese e nei luoghi di ritrovo si sente spesso citare il passo biblico del profeta Geremia in cui “Rachele piange i suoi figli e, proprio perché essi non ci sono più, non può essere consolata”. Un lutto che ha unito tutti i cristiani di Qamishli, indipendentemente dal fatto che siano essi cattolici od ortodossi: “Le cerimonie di requiem sono state ecumeniche. Si è pregato nella cattedrale siro-ortodossa, dove i capi delle varie comunicate hanno portato parole di conforto. Quindi è stato letto il messaggio del presidente Bashar el Assad. Infine, tutte le vittime sono state sepolte nel cimitero cattolico. Insieme e in fila, l’una di seguito all’altra. Ora, per non dimenticare quel che è stato, si sta pensando di erigere un monumento dedicato a loro, i Martiri di Natale”.

“Suoneremo le campane finché vivremo”
 E’ la prima volta che i cristiani della città all’estremo lembo settentrionale della Siria vengono presi di mira in modo così diretto. I miliziani fedeli al califfo ci avevano già provato lo scorso giugno, ma la resistenza (con il supporto delle Forze armate governative) avevano evitato a Qamishli il destino di tante altre città del paese, rese spettrali dalla guerra civile e dall’avanzata jihadista. Qamishli che, nel frattempo, aveva accolto milleottocento cristiani e più di quattrocento famiglie musulmane scappate da Hassaké, ottanta chilometri più a sud. 
Il luogo colpito a fine anno è simbolico, sottolinea mons. Ayvazian: “La nostra città, a differenza di altre, è un bastione cristiano di certo polietnico, ma altrettanto unito. E’ un mosaico di antiche chiese orientali, vecchie di storia quanto lo è il cristianesimo. Dal 2011 a oggi, Qamishli era rimasta ai margini della violenza che imperversa altrove, tant’è che migliaia di profughi venivano qui, avviando anche alcune piccole aziende per cominciare una nuova vita. L’armonia era il tratto caratterizzante: arabi, curdi, armeni, siriaci, caldei e assiri. Nessun problema, ci sono perfino quartieri popolari ‘misti’”, aggiunge il capo della locale eparchia cattolico-armena. La zona centrale, però, “è sempre stata a maggioranza cristiana e a difenderla c’erano gruppi di giovani miliziani anch’essi cristiani”. 
Il patriarca siro-cattolico, Younan III, vede nel duplice attentato “un messaggio cupo che i terroristi hanno voluto indirizzare ai cristiani di questa città, seminando morte e lacrime”.

Joint par téléphone Mgr Hindo a témoigné de sa colère :« C’est insupportable, l’année 2015 a commencé par le massacre des assyriens dans les 35 villages du Khabour et les 300 personnes kidnappés.Puis en juin, DAESH nous a attaqués et 40 jours ont été nécessaires pour les éloigner.Enfin l’année se termine par ce massacre. C’est insupportable ».
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Ancor più esplicito è stato monsignor Pascal Gollnisch, direttore generale dell’Oeuvre  d’Orient, l’istituzione creata in Francia a metà Ottocento per sostenere le chiese orientali: “Quasi venti cristiani sono stati assassinati in modo mirato”, ha scritto in un comunicato stampa diffuso ieri, chiarendo come sia “più che mai necessario adottare misure per fermare le violenze in Siria e Iraq”. 
Lo stesso Younan, del resto, solo qualche settimana fa aveva implorato  l’occidente, a cominciare dall’Amministrazione americana guidata da Barack Obama, di “fare di più per difendere i cristiani perseguitati nel vicino e medio oriente”. 

Il patriarca greco-ortodosso di Antiochia e di tutto l’oriente, Youhanna X Yazigi, ha fatto leggere nelle chiese che ricadono sotto la sua giurisdizione – a cominciare dalla cattedrale ortodossa di Damasco, la “Mariamita” – un messaggio in cui assicura che “non risparmieremo alcuno sforzo per difendere la nostra terra. Le nostre campane continueranno a suonare finché ci sarà sangue nelle nostre vene”.

giovedì 26 novembre 2015

Senza patrie, senza difesa. Perché i cristiani sono carne da macello in un conflitto in cui non valgono nulla

La situazione dei Cattolici oggi in Siria

26 novembre: nostra Signora di Soufanieh 

Il FOGLIO , novembre 2015
di Maurizio Crippa

I cristiani sono il fianco debole delle nostre società. Quando c’è caos, tutti attaccano loro”. Sua Beatitudine Mar Béchara Boutros Raï, patriarca di Antiochia dei maroniti del Libano, è un uomo pragmatico, la stoffa del buon politico. Bisogna partire da un aneddoto che ha raccontato qualche settimana fa, di passaggio a Milano, durante un rapido briefing organizzato dalla rivista Oasis. Un giorno andò da lui un personaggio importante, ha raccontato, un religioso sciita dell’Iraq: “Mi chiese cosa potevano fare per proteggere i cristiani. Io gli risposi che non accettavo la parola ‘proteggere’, perché i cristiani sono cittadini iracheni come tutti gli altri. Poi ribaltai la domanda: ‘Cosa fate voi per proteggere i cristiani? Perché li ammazzate mentre pregano e fate esplodere le chiese?’. E lui mi rispose, indicandomi il fianco: ‘I cristiani sono il fianco debole delle nostre società. Quando c’è caos, tutti attaccano loro’”.

La persecuzione sempre più cruenta dei cristiani nel medio oriente e in Africa ha la sua origine recente nell’islamismo fondamentalista, e una radice più profonda nell’islam in sé, che non riconosce altra religione oltre sé e non ha mai avuto una Nostra Aetate, una “dichiarazione” sulle relazioni con le altre religioni. E’ un dato che la chiesa cattolica, pur mantenendo con puntiglio e pazienza e i suoi distinguo teologici e storici, conosce e riconosce. Almeno da Ratisbona, almeno da quando anche Papa Francesco ha iniziato a dire che oggi i cristiani sono  perseguitati “più che nei primi secoli”. Béchara Boutros Raï, come dicesse un’ovvietà, spiegava che “nell’inconscio dei musulmani il giudaismo è stato completato e soppiantato dal cristianesimo e questo è stato completato e soppiantato dall’islam. Perciò il cristiano non è accettato come cristiano, è semplicemente un uomo che deve diventare musulmano e ancora non l’ha fatto”. E’ un concetto insito nell’islam. Anche quando, magari per secoli, resta dormiente e permette lunghe convivenze: come in Libano, in Siria. Ma Boutros Raï è un pragmatico, non dimentica il contesto storico e politico: i cristiani mediorientali, da sempre ma oggi ancora di più, sono perseguitati anche perché non contano nulla. Non hanno patria. Con realismo, ricordava che quando “Giovanni Paolo II convocò il Sinodo speciale dei vescovi per il Libano, prima di annunciarlo mandò una delegazione nel paese per parlare con i capi religiosi musulmani e informarli, ed evitare che questo venisse interpretato come un gesto di ostilità nei loro confronti”. La preparazione del Sinodo fu fatta “insieme ai musulmani”. Una condizione difficile, ma la condizione per cui “viviamo insieme da 1.400 anni” e che è l’essenza della cultura del medio oriente. Però oggi, dopo un’escalation di quasi un secolo, i cristiani sono divenuti pura carne da cannone per tutti i contendenti. E contano poco, come già in passato, per il cinismo delle nazioni occidentali, quelle “cristiane”. Il motivo è demografico, minoranza delle minoranze. Poi c’è un motivo politico-territoriale: i cristiani non hanno uno stato, né “terra in cambio di pace” da offrire. Non c’è nulla di loro di cui si debba tenere conto, in un conflitto che ha scatenato imperi regionali, o tra opposte visioni del mondo. Nemici di nessuno, sono tragicamente un comodo nemico per tutti. Avevano una certa vischiosa, costosa, influenza nell’Iraq di Saddam e Tareq Aziz, nella Siria di Assad, nella Libia di Gheddafi. Per i copti in Egitto, dopo lo spavento di Morsi e il tallone di Mubarak, forse ora si aprirà qualche spiraglio di agibilità politica quasi inesistente in passato. Per il resto, oggi i cristiani non hanno influenza, né potere.

Se si indagano con un po’ d’attenzione le motivazioni per cui due anni fa Francesco si espose così tanto contro l’intervento militare in Siria, ce n’è una nascosta, ma evidente, che supera il “pacifismo”: il timore che la guerra avrebbe provocato la caduta definitiva delle chiese di Siria, le più antiche della cristianità. Il vuoto storico che ne sarebbe derivato sarebbe stato incolmabile. L’arcivescovo metropolita di Aleppo, Jean-Clément Jeanbart, ha dichiarato giorni fa ad Asianews: “Aleppo è la più antica città del mondo e Damasco la più antica capitale del mondo. Per secoli vi hanno pacificamente convissuto non solo gli appartenenti alle tre religioni monoteiste, ma fino a quindici culture, etnie e popoli diversi”. Ma ora, nella guerra – o senza la protezione-alleanza di Assad – la nobile storia di Aleppo non ha valore di scambio, né corso legale nei futuri assetti. Da qui anche la linea diplomatica di lunghissima durata della Santa Sede – bisogna risalire al tempo del Protettorato britannico e oltre – tesa a garantire condizioni minime di sopravvivenza nel solco di uno status quo imperfetto, ma di millenario equilibrio. Oggi resta poco più che “l’ecumensismo del sangue” di Bergoglio. E resta la definizione di una dottrina di difesa della libertà religiosa e dei diritti umani ancorata a una visione onusiana della gestione dei conflitti. La scorsa primavera, l’osservatore della Santa Sede all’Onu, a Ginevra, monsignor Silvano Tomasi, aveva ricordato che l’intervento armato difensivo è “una dottrina sviluppata sia nell’ambito delle Nazioni Unite che nell’insegnamento sociale della chiesa cattolica”. Ma tutto questo non basta a conferire uno status politico ai cristiani in quelle terre, né basta a chiarire il motivo della loro “indifendibile” condizione storica.

In un’intervista al Foglio dello scorso aprile, la storica Bat Ye’or osservava che la vulnerabilità dei cristiani deriva dall’aver scelto, per “disperato tentativo”, di sostenere nei decenni scorsi il potere islamico “che li avrebbe poi distrutti”. E notava che “Inghilterra e Francia” – si parla di tempi remoti – “hanno diviso l’identità cristiana persuadendo i cristiani che erano arabi e che dovevano militare con i musulmani per formare una nuova ideologia: il nazionalismo arabo”. Si può obiettare sul fatto che i cristiani del medio oriente siano, in effetti, in grande parte arabi. Ma il problema posto da Bat Ye’or è quanto pesi – come risvolto geopolitico e moderno, per così dire – la “dhimmitudine”, la condizione giuridicamente servile e separata vissuta dai cristiani nel mondo islamico per secoli. Ma la condizione di senza patria e rango politico non è, nella storia, un’esclusiva dei cristiani mediorientali. Con tutte le cautele storiche del caso, si può affermare che è quanto capitato per secoli agli ebrei all’interno degli stati e imperi cristiani d’Europa.

La storica invitava anche a tenere in considerazione che le potenze occidentali “Francia, Inghilterra e America” già dopo la Prima guerra mondiale rifiutarono di assumere come priorità la protezione dei cristiani, tracciando in questo modo il solco di una irrilevanza ancora maggiore di quella che la Santa Sede paventava già al tempo della fine dell’amministrazione turca. Persino con sfumature antisioniste, se il cardinal Pietro Gasparri, segretario di stato di Benedetto XV, temeva che il mandato britannico sulla Terra Santa avrebbe favorito l’infiltrazione protestante e del sionismo in Palestina. Se questa è la storia, l’attualità rileva che per l’arcivescovo di Aleppo Jeanbart, forse è un politico meno sottile di Béchara Boutros Raï, il problema dei cristiani del suo paese  è che “in Siria si sono concentrati molti, tanti interessi sia delle potenze economiche occidentali che orientali… Vi sono poi gli interessi di Israele, della Turchia, che vagheggia un ritorno all’impero ottomano, seppur in chiave moderna, degli Emirati arabi. Una situazione complessa in cui i cristiani rappresentano una sorta di spina nel fianco”. Ritorna la metafora del fianco debole, la condizione di un meccanismo di tipo politico che precede e va oltre i termini della persecuzione di carattere religioso.  
Oggi la carne di scambio dei cristiani non è utile in Siria né in Iraq, né all’Iran né alla Turchia. Non solo infedeli, ma carne da macello.

http://www.ilfoglio.it/esteri/2015/11/23/senza-patrie-senza-difesa-perch-i-cristiani-sono-carne-da-macello-in-un-conflitto-in-cui-non-valgono-nulla___1-v-135282-rubriche_c379.htm





Un drone sopra quel che resta di Maloula: novembre 2015

sabato 21 novembre 2015

La risposta al terrore è la santità e la fede: fra Ibrahim e padre Mourad, due esempi

La bomba durante la messa, le ostie macchiate di sangue, la fede che resiste. 

IL FOGLIO, 21 novembre 2015
di Matteo Matzuzzi




 Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo. E' stato un miracolo, c' è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell' edificio, fatto di semplici tegole d' argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. 
Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d'Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas - partita da una base di lancio per missili - ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. 

Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: "I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane". Basta guardare la chiesa per capire subito che l' obiettivo non era stato scelto a caso: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto". Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: "La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l'esplosione è avvenuta proprio nell' ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45". Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: "Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L' avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l'edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva". La gente gridava, "io ho fatto alcuni passi verso l' altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani", ma subito "sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. 
Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c' erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti". 
La memoria, poi, va ineluttabilmente sull' immagine che più d' ogni parola fotografa la portata della tragedia: "In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza". Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, "pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco". La gente, in quei momenti, era terrorizzata, non sapeva che fare: "Ho invitato i fedeli rimasti a uscire fuori nel giardino e lì ho continuato la distribuzione della santa comunione. Abbiamo recitato un Pater, Ave, Gloria come ringraziamento al Signore e a sua madre Maria, concludendo con la benedizione solenne". 
E' questo che sorprende nelle parole del parroco di Aleppo, la cui serenità - nonostante l'orrore della guerra vissuta giorno dopo giorno appena fuori la porta del monastero - è percepibile anche al telefono, nonostante la linea spesso disturbata. Una bombola di gas lanciata sulla chiesa, danni ingenti, uomini e donne sconvolti, eppure con il tempo di ringraziare Dio. E' la prospettiva a essere diversa rispetto a quella propria dell' uomo occidentale, che guarda con distacco quanto avviene da anni nel vicino oriente, avviluppato in lotte intestine che, come la tela di Penelope, paiono non avere mai fine. 
Padre Ibrahim lo sa e spiega cosa porti a lodare Dio tra la polvere e i frammenti di vetro sparsi qua e là: "Il male pianificato contro di noi era enorme. Se solo il grande lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso in un colpo solo una decina di persone raccolte lì sotto al momento della comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, ha ridimensionato questo male, indirizzandolo sulle sole pietre, mentre noi tutti siamo stati salvati. Egli si è glorificato in mezzo al male dandoci, per l' ennesima volta, un segno del suo amore provvidente. Così, invece dei lamenti e delle grida di spavento e di terrore, le nostre bocche hanno innalzato a Lui un inno di ringraziamento ricolmo d'amore e di gratitudine". 

Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell' ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: "Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell' indomani mattina", dice padre Ibrahim.
 E infatti, il giorno dopo alle 7.30 "ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. 
La giornata è proseguita con l' arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l' evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva". Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato.
 "Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt' altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa". 
Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall' attualità e il senso più profondo della fede cristiana: "Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura". 
La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, "il giorno della bomba". Ricorda che poco prima dell'attacco "avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno". 
E' calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. "Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì - dice senza tradire incertezze nella voce - assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l' intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?". 
La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l'ha assicurato Cristo, e tanto basta. E' questa speranza a fortificare l'animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. "Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell'odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione", dice padre Ibrahim. 

Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: "Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all' altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato 'battezzato' ed è diventato simbolo dell' amore che perdona e dà vita". 
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l' unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, "poiché i miliziani dello Stato islamico l' avevano interdetta all' esercito regolare". Al mercato non si trovava più nulla: "Non c' era gasolio, carburante, gas", dice il nostro interlocutore. "Non c' erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po' di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza - ma con un grande sense of humour, diceva 'siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe'. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e - ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte - come si potrebbe pagarlo? Non c' era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato". La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti". 
L'impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: "Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione". Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini "perché si sentono minacciati dall' avanzata da sud dell' esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi". Manca acqua ed elettricità, non c' è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. 
Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d'occidente che "hanno bisogno di svegliarsi". Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l' immagine del "gigante addormentato" per rappresentare i credenti europei: "Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall' acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E' un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede". Che fare, dunque? "L' occidente dovrebbe tornare all' essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve". 
In concreto, si tratta di "vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all' essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo". 
E', sostiene padre Ibrahim, "purificata". "E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito".

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/siria-ibrahim-alsabagh-parroco-ad.html


Padre Mourad: Nelle mani dello Stato islamico ho avuto compassione dei miei rapitori

AsiaNews, 20 novembre 2015


 “Questa grazia mi è stata accordata per essere di conforto a un gran numero di persone”. A raccontarlo ad AsiaNews è p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica. Di passaggio a Beirut, lo abbiamo incontrato nei saloni della chiesa di Nostra Signora dell’Annunciazione, a Beirut. Priore del monastero di Mar Elian e dei fedeli del villaggio di Qaryatayn, non lontano da Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), il 21 maggio 2015. Egli è rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare, il 10 ottobre, in quello che noi siamo soliti chiamare “il mondo libero”.

Perseguitato, minacciato, sottoposto a pressioni continue perché si convertisse all’islam, egli è stato minacciato a più riprese di venire decapitato, frustato in una occasione e, il giorno successivo, fatto oggetto di una finta esecuzione. Confinato in una stanza da bagno rischiarata solo da un lucernario piazzato in alto, con un seminarista ad assisterlo, ridotto a un regime forzato di riso e acqua, distribuiti due volte al giorno, senza elettricità né orologio, tagliato fuori in tutto dal mondo esterno, egli è riuscito a rimanere comunque vigile e non ha mai vista una sola volta scalfita la sua fede. Al contrario.
La grazia, o meglio il miracolo di cui parla p. Mourad è di essere rimasto vivo, di non aver rinnegato la sua fede, di aver ritrovato la libertà. “La prima settimana è stata la più difficile” racconta. “Dopo avermi tenuto per qualche giorno all’interno di una macchina, la domenica di Pentecoste mi hanno portato a Raqqa. Ho vissuto questi primi giorni di prigionia diviso fra la paura, la collera e la vergogna”.
La grande svolta nella sua prigionia è coincisa, secondo p. Jacques, con l’ingresso nella sua cella, l’ottavo giorno, di un uomo vestito di nero, con il viso mascherato, come quelli che compaiono nei video delle esecuzioni resi celebri da Daesh. La mia ora è arrivata, si è detto, in preda al terrore. Ma, al contrario, dopo avergli chiesto quale fosse il suo nome e quello del suo compagno di prigionia, l’uomo si è rivolto a lui con un “assalam aleïkoun” di pace ed è entrato nella sua cella. In seguito, egli ha intavolato una lunga discussione, come se lo sconosciuto cercasse davvero di conoscere meglio i due uomini di fronte a lui.
“Prendilo come un ritiro spirituale” gli ha risposto lo sconosciuto, quando p. Jacques lo ha interrogato sulle ragioni della sua prigionia. “Da quel momento - racconta il sacerdote - le mie preghiere, le mie giornate, hanno acquisito un senso. Come posso spiegarvi... Ho avvertito che attraverso di lui, era il Signore stesso che mi rivolgeva queste parole. Quel momento è stato davvero di grande conforto”.
“Grazie alla preghiera, io ho potuto ritrovare la mia pace” riferisce il sacerdote siriano. “Era maggio, il mese di Maria. Ci siamo messi a recitare il Rosario, che non ero solito pregare molto in passato. Tutto il mio rapporto con la Vergine Maria è stato rinnovato. La preghiera di santa Teresa d’Avila ‘Niente ti turbi, niente ti spaventi…’ anch’essa ha contribuito a sostenermi; e per lei, una notte, ho composto una melodia che ho poi iniziato a canticchiare. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi tra le mani del Signore, con la consapevolezza che non mi era dato di scegliere. Perché tutto portava a pensare che l’esito finale sarebbe stata la conversione all’islam, oppure la decapitazione".
Quasi ogni giorno, continua, "entravano nella mia cella e mi interrogavano sulla mia fede. Ho vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma non ho mai abiurato. Dio mi ha donato due cose: il silenzio e la cortesia. Sapevo che certe risposte potevano essere colte come provocazione, che qualunque parola può diventare la fonte della tua condanna. Così, mi hanno interrogato sulla presenza di vino al convento. Quell’uomo mi ha interrotto all’improvviso, quando ho iniziato a rispondere. Egli ha giudicato le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Grazie alla preghiera, ai salmi, sono entrato in un mondo di pace, che non mi ha più lasciato. Mi sono ricordato anche delle parole di Cristo nel Vangelo di san Matteo: ‘Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano’. Ero felice di poter vivere nel concreto questa parola. Non è cosa da poco, poter vivere il Vangelo, in particolare questi versi così difficili, che fino a quel momento erano solo teoria. Ho iniziato a provare compassione per i miei sequestratori”.
“In quell’occasione, mi sono tornate in mente anche le canzoni poetiche di Feyrouz - confessa p. Jacques - e in particolare una di quelle che parla del crepuscolo, che ero solito cantare quando su Raqqa calavano le lunghe notti di giugno, che ci lasciavano avvolti nell’oscurità. Anche queste parole e la loro musica diventavano fonte di preghiera. Esse parlavano della sofferenza ‘iscritta nel crepuscolo’”.

Poi, un giorno, p. Jacques viene frustato…
“Era il 23mo giorno della mia prigionia” ricorda. “Sono entrati all’improvviso. Era una sorta di messa in scena. La flagellazione è durata circa una trentina di minuti. La frusta era composta da un pezzo di tubo da giardino e delle corde. Ho avvertito il male fisico ma, nel profondo, mi sentivo in pace. Percepivo una grande consolazione nel sapere che potevo condividere in qualche modo le sofferenze di Cristo. Al contempo, mi sentivo per questo assai confuso, poiché pensavo di non essere degno di quella grazia. Perdonavo il mio aguzzino, nel momento stesso in cui egli mi colpiva. Ogni tanto, confortavo con un sorriso il diacono Boutros, mio compagno di cattività, che a stento riusciva a trattenersi nel vedermi oggetto di frustate. Dopo di che, mi sono ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la sua forza. Ne ero sempre più sorpreso, perché mi sentivo debole, sia a livello spirituale che fisico. Vedete, io soffro di mal di schiena sin dall’infanzia e le condizioni di prigionia erano tali da far aumentare, in un primo momento, il male. Al monastero avevo a disposizione un materasso speciale, e una sedia ergonomica. In cella, dormivo per terra e non c’era modo di camminare in questi servizi igienici”.
“La grande paura - prosegue p. Jacques - l’ho conosciuta poco dopo, quando un uomo armato di pugnale è entrato nella nostra cella; ho sentito sul collo la lama del coltello e ho pensato che fosse iniziato il conto alla rovescia per la mia esecuzione. Nello spavento, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio. In realtà, si trattava solo di una messa in scena”.
Il 4 agosto scorso, il gruppo jihadista ha assunto il controllo di Palmira e, da lì, di Qaryatayn. Il giorno successivo, all’alba, hanno preso in ostaggio la popolazione, almeno 250 persone, portandole a Palmira.
L’11 agosto, p. Jacques e il suo compagno hanno intrapreso lo stesso percorso. Ecco come: “Uno capo saudita è entrato nella nostra cella. ‘Sei tu padre Jacques?' ha chiesto. 'Ecco, allora vieni con me! I cristiani di Qaryatayn ci hanno fatto una testa quadra parlandoci di te!' Ho subito pensato che mi stavano prelevando per essere giustiziato. A bordo di un van, abbiamo compiuto un tragitto di quattro ore. Superata Palmira, abbiamo imboccato una strada di montagna che conduce a un edificio chiuso da una grande porta di ferro. Appena aperta, quello che vedo è tutta la popolazione di Qaryatayn lì radunata, meravigliata nel vedermi davanti a sé. Quello è stato un momento di sofferenza indicibile per me. Per loro, un momento straordinario di gioia".
Venti giorni più tardi, il primo settembre, "ci hanno portato a Qaryatayn, liberi, ma col divieto di lasciare il villaggio. In quel momento si è venuta a creare una sorta di contratto religioso collettivo: noi eravamo ormai sotto la loro protezione (‘ahl zemmé’), dietro pagamento di una tassa speciale, la jizya, che riguardava i non musulmani. Potevamo anche praticare i nostri riti, a condizione che questo non fosse elemento di scandalo per i musulmani. Qualche giorno più tardi, alla morte di uno dei nostri parrocchiani, deceduto per un cancro, siamo andati al cimitero, nei pressi del convento di Mar Elian. Ed è in quel momento che ho visto che era stato raso al suolo. Curiosamente, non ho avuto alcun tipo di reazione. Dentro di me, mi è sembrato di cogliere che Mar Elian abbia voluto sacrificare il suo convento e la sua tomba per la nostra salvezza”.

“Oggi - conclude p. Jacques, che ha sfidato il divieto di lasciare Qaryatayn e ha trovato il modo di fuggire, pur mantenendo uno stretto riserbo sulle modalità di fuga - continuo a provare per i miei rapitori lo stesso sentimento che provavo quando ero nelle loro mani: la compassione. Questo sentimento deriva dalla contemplazione dello sguardo di Dio nei loro confronti, a dispetto della loro violenza, come egli la prova verso tutti gli uomini: uno sguardo di pura misericordia, senza il minimo sentimento di vendetta”.

“Oggi - prosegue il sacerdote, un tempo monaco al monastero di Mar Moussa, fondato da p. Paolo Dall’Oglio - sappiamo che la preghiera è la via della salvezza. Bisogna continuare a pregare per i vescovi e i sacerdoti che sono tuttora scomparsi e di cui non si sa niente. Pregare per il mio fratello Paolo Dall’Oglio (scomparso a Raqqa nel luglio 2013). Dobbiamo infine pregare per una soluzione politica in Siria. Oggi ricordiamo il centenario del massacro e l’esodo del 1915. Senza una soluzione politica, l’emigrazione completerà il lavoro che i massacra del 1915 hanno iniziato”.

http://www.asianews.it/notizie-it/P.-Mourad:-Nelle-mani-dello-Stato-islamico-ho-avuto-compassione-dei-miei-rapitori-35941.html

mercoledì 12 agosto 2015

Dal fronte del martirio

  “Più volte ho voluto dare voce alle atroci, disumane e inspiegabili persecuzioni di chi in tante parti del mondo — e soprattutto tra i cristiani — è vittima del fanatismo e dell’intolleranza, spesso sotto gli occhi e nel silenzio di tutti. Sono i martiri di oggi, umiliati e discriminati per la loro fedeltà al Vangelo. Il mio ricordo, che si fa appello solidale, vuol essere il segno di una Chiesa che non dimentica e non abbandona i suoi figli esiliati a motivo della loro fede: sappiano che una preghiera quotidiana si innalza per loro, insieme alla riconoscenza per la testimonianza che ci offrono.
A sua volta possa l’opinione pubblica mondiale essere sempre più attenta, sensibile e partecipe davanti alle persecuzioni condotte nei confronti dei cristiani e, più in generale, delle minoranze religiose. Rinnovo l’auspicio che la Comunità Internazionale non assista muta e inerte di fronte a tale inaccettabile crimine, che costituisce una preoccupante deriva dei diritti umani più essenziali e impedisce la ricchezza della convivenza tra i popoli, le culture e le fedi.”
Lettera del Papa Francesco per i martiri cristiani del Medio oriente , 06 agosto 2015


12 agosto 15: questa mattina sono caduti più di 30 missili sui quartieri residenziali di Damasco, Innumerevoli feriti

rilasciati ieri alcuni assiri che erano stati presi
in ostaggio  dai villaggi del fiume Khabour


L’agonia dei cristiani trucidati, l’Europa inebetita. 

Parla il capo della chiesa armeno-cattolica di Qamishli


di Matteo Matuzzi
Il Foglio, 8 luglio 2015

"Qui ora siamo al sicuro, grazie all’esercito siriano. Hassaké, attaccata nella notte tra il 24 e il 25 giugno dai miliziani dello Stato islamico, è ora quasi totalmente liberata. Solo le periferie sono ancora in mano loro, ma il peggio è passato”. Monsignor Antraning Ayvazian è il capo della eparchia cattolico-armena di Qamishli, e in una conversazione con il Foglio descrive la situazione sul terreno in quell’estremo lembo di Siria orientale non ancora toccato dall’orda nera delle truppe al soldo del califfo Abu Bakr al Baghdadi. Basta spostarsi d’una ottantina di chilometri più a sud, ad Hassaké, e il quadro cambia drasticamente. “Lì il novanta per cento dei cristiani se n’è andato, milleottocento sono arrivati qui, insieme a quattrocentocinquata famiglie musulmane”. 
Qamishli, più di centomila abitanti, è uno degli ultimi avamposti fedeli a Damasco prima del confine con la Turchia e non è troppo lontana da quello con l’Iraq, a est. Ed è proprio al dirimpettaio turco che mons. Ayvazian addebita gran parte delle colpe per il disastro in cui è precipitata la Siria: “Ci separano 998 chilometri di confine. Quasi mille chilometri da cui entra di tutto, a cominciare dai jihadisti. Li vediamo ogni giorno, passano a gruppi di trecento, anche cinquecento. E’ Ankara, insieme alla Georgia, a giocare un ruolo fondamentale nel caos che vediamo oggi. Un doppio gioco che l’occidente farebbe bene a troncare, prima che sia davvero troppo tardi. Un mio parrocchiano – racconta il sacerdote – è stato arrestato dalla polizia turca e gettato in carcere, in una cella di un metro per un metro. Vicino a lui, c’erano uomini con lunghe barbe pronti ad arruolarsi con lo Stato islamico. Per loro c’era ogni ben di dio, ogni richiesta veniva soddisfatta. Qualche agente li incitava a darsi da fare in Siria. Noi queste cose le sappiamo, perché le constatiamo con i nostri occhi e le nostre orecchie”.


Il capo dell’eparchia di Qamishli ricorda di aver anche incontrato un gruppo di miliziani nella città di Margada. Avevano occupato un ospedale, nella cui cappella sono conservate reliquie armene: “Mi hanno convocato e io sono partito, da solo, con la mia automobile. Erano tutti stranieri, tranne un siriano. Il loro capo era un qatariota, si chiamava Faisal. Erano forniti di mezzi ipertecnologici e sofisticati, cose che qua non si vedono spesso. Mi disse che avrebbero fatto saltare in aria tutto se lui e i suoi uomini non avessero ottenuto i resti dei loro martiri. Mi confessò con la massima tranquillità di non essere per nulla interessato a discettare di politica o dei destini del paese. Era in Siria solo per una banale questione di soldi, che gli sarebbero stati versati a patto di soddisfare due semplici condizioni: radere al suolo ogni costruzione in piedi e abbattere tutto ciò che si muove”. Per “tutto”, il miliziano “intedeva bambini, donne, vecchi e malati. Tutti”. Al termine del breve colloquio, “gli ho dato la mano. Lui è rimasto fermo. Me ne sono andato”.

La Siria, prima della guerra, era una oasi di tolleranza, dove l’uguaglianza tra cristiani, ebrei e musulmani era un fatto assodato, una certezza, ragiona Ayvazian. “Qui, nella terra di San Paolo, c’è sempre stata libertà di culto, i cristiani non dovevano pagare nemmeno un soldo in tasse per aprire un nuovo luogo di culto. Mai nessun divieto, siamo sempre stati liberi. Io servivo messa, da bambino, insieme ai miei amici ebrei e musulmani”, ricorda il nostro interlocutore. Non c’è mai stata la percezione di essere di culto diverso, per noi era un fatto normale”. Poi è arrivata la primavera araba, facciamo notare. “Poi sono arrivati i sauditi”, corregge lui: “E’ arrivato il cosiddetto ‘caos creativo’, e ancora mi chiedo come possa essere creativo il caos, il disordine più completo”. Fa la conta dei preti e laici rapiti in questi anni, uomini di cui non si sa più nulla: “Vivi o morti, chi lo sa. Solo silenzio”. 

Nessuno sembra interessarsi alla sorte dei cristiani, che lentamente stanno scomparendo da quella regione che vede chiese distrutte e croci divelte, case segnate con la “n” di nazareno e colonne interminabili di famiglie costrette all’esodo. Gli attacchi sono sempre più frequenti e non di tutti si ha notizia, come riferiscono i francescani attivi nel vicino oriente. Il 27 febbraio scorso, ad esempio, presso la chiesa di Azizieh, ad Aleppo, durante la messa serale una bomba di gas ha provocato la morte di due fedeli e il ferimento di tanti altri che si trovavano all’esterno dell’edificio di culto. La notte del venerdì santo ortodosso, tra il 10 e 11 aprile, diversi missili sono stati lanciati in zone abitate da cristiani armeni.

Dove sono le manifestazioni di piazza? Perché nessuno scende in strada, da voi, per protestare contro quel che accade qui?”, domanda mons. Ayvazian. “Quello dell’occidente è un silenzio complice. Non mi capacito di come sia possibile assistere inerti dinanzi al tramonto della civiltà cartesiana, quella fondata sulla logica. Dove è l’Europa? Mi auguro che presto l’occidente possa risvegliarsi, prima che sia troppo tardi. Prima che la distruzione arrivi anche a casa vostra”.
Le parole del sacerdote “armeno fino al midollo, ma orgogliosamente membro della nazione siriana” sono routine tra le gerarchie delle chiese cristiane d’oriente, costrette a far la conta quotidiana di quanti fedeli da accudire spiritualmente e materialmente siano rimasti. In qualche caso, come succede a Baghdad, il patriarca caldeo, mar Louis Raphael Sako, sfinito dal conflitto e dall’avanzata dei fondamentalisti, arriva a parlare della possibilità di unificare le chiese per far fronte al nemico comune. Altrove, poco oltre la piana di Ninive, in direzione del Kurdistan, vescovi con croce pettorale indosso passano in rassegna truppe volontarie e danno loro la benedizione. Youhanna Boutros Moshe, della chiesa siro-cattolica di Mosul, l’ha fatto lo scorso febbraio: “Andate avanti e ricordatevi che questa terra era vostra ancora prima della venuta di Cristo”, era il suo messaggio per i duemila ragazzi messi insieme da un deputato curdo, Jacob Yaco.

Vi è nella mentalità dell’uomo occidentale di oggi l’idea che, dopotutto, Siria e Iraq siano due realtà lontane che poco o nulla possano incidere sulle sue abitudini quotidiane.”Ve ne accorgerete presto, tra trenta o quarant’anni, quando a casa vostra ci sarà chi avrà la pretesa di definirsi vero credente e voi non saprete come comportarvi, non potrete fare nulla”, è il monito profetico del capo dell’eparchia di Qamishli, che prevede scenari foschi per chi volge la testa dall’altra parte. Monsignor Ayvazian ce l’ha con quello che definisce il “rilassamento” dell’Europa, l’inebetimento di un continente “che si richiama ai valori cristiani e poi accetta tutto questo”. “C’è da scandalizzarsi”, dice. Mentre l’antica perla Aleppo continua a vivere il suo assedio e le rovine di Palmira divengono il teatro per esecuzioni di massa tra lo sventolio dei vessilli neri del Califfato, i cristiani se ne vanno: “Già ora più della metà degli appartenenti alla comunità cristiana di questo paese ha attraversato il confine”, osserva il il capo dell’eparchia di Qamishli, che denuncia l’esistenza di un racket cui non è estranea la polizia turca: “Per un visto qui si pagano dai cinquemila ai settemila euro, e si è fuori. Intere famiglie si sono economicamente dissanguate pur di scappare in fretta”.

La conversazione, inevitabilmente, cade sulle prospettive dell’immediato futuro: fino a quando si potrà andare avanti così? La risposta che giunge da Qamishli è netta: “Questo paese non cadrà in mano straniera, noi non siamo la Tunisia. Qui è nato il concetto di civilizzazione, non è immaginabile arrendersi a chi di questa realtà non sa nulla”. L’appoggio delle comunità cristiane locali al rais Bashar el Assad è convinto. Il presidente asserragliato a Damasco è considerato dai siriani non musulmani come l’unico argine contro il dilagare del fondamentalismo islamico. Due anni fa, la grande veglia di preghiera in San Pietro organizzata dal Papa aveva contribuito a fermare i cacciabombardieri francesi e americani che già rullavano sulle piste, pronti a decollare verso la Siria. Oggi, sono ancora le chiese del luogo – attraverso le loro più alte gerarchie – a contrastare ogni ipotesi di abbandonare al suo destino il capo dello stato. “Se cade Assad, scorreranno fiumi di sangue tra i cristiani”, avverte mons. Ayvazian. “Hassaké, qui vicino, è salva solo grazie a lui e al suo esercito. La sua caduta propizierà la disintegrazione del paese, che si dividerebbe in una dozzina di microstati in guerra tra loro. Io – aggiunge – non sono arabo. Sono armeno. Ma allo stesso tempo faccio parte della nazione siriana, e l’unico legame è oggi rappresentato da Assad”.

Osserviamo che sul terreno, soprattutto nei primi tempi della crisi, era presente un’opposizione organizzata, che teneva periodici incontri all’estero e che godeva di un seguito tra le cancellerie internazionali. Un’alternativa moderata al regime al collasso. “Chi sono questi ribelli moderati?”, sbotta il nostro interlocutore: “Dove sono? Forse si saranno riuniti in Turchia, ma qui sul territorio, nelle nostre strade, non si sono visti. Qualcuno dovrebbe spiegare, poi, come si fa a essere moderati tenendo in pugno le armi più all’avanguardia messe a disposizione da qualche emirato del Golfo persico. E’ questa quella che voi chiamate moderazione?”. L’occidente che discetta su vie d’uscita democratiche al conflitto in corso, chiosa il prelato, dovrebbe spiegare “il senso di destituire Assad per mettere al suo posto qualche sceicco importato dalla penisola arabica, gente che magari non è neppure capace di leggere”. Per i cristiani, in quel caso, sarebbe la fine: “La prospettiva è quella già vista in Iraq ai tempi della Guerra del Golfo, lo svuotamento sistematico dei fedeli a Cristo da quel paese. Arrivarono in Siria quasi un milione e mezzo di profughi cristiani. Siriaci, caldei, armeni”
L’appello è ad agire, a fermare i tagliagole prima che l’infezione si propaghi all’Europa fino a oggi risparmiata dal contagio fondamentalista; prima che il cancro si diffonda anche al di fuori di quella regione dove “ormai vale soltanto la legge della foresta: ognuno mangia l’altro e nessuno ne parla. Le leggi umane, qui, non valgono più”.