Analisi Difesa, 20 giugno 2016
Una “vera e propria rivolta”, come l’ha definita Ugo Caltagirone dell’Ansa. Oppure una “protesta senza precedenti”, come scrive il New York Times.
Ben 51 diplomatici americani hanno criticato duramente la strategia del presidente americano in Siria chiedendo con un documento reso noto il 17 giugno a Barack Obama di autorizzare raid aerei contro il regime di Bashar Assad “per fermare le continue violazioni del cessate il fuoco da parte delle forze di Damasco”. La proposta propone un “uso giudizioso” di missili da crociera e raid aerei contro obiettivi del regime per spingere Assad a cercare una soluzione negoziata.
Il senso di malcontento e di frustrazione tra le feluche covava da tempo e alla fine il caso è esploso mettendo la Casa Bianca e il segretario di Stato John Kerry (nella foto sotto) in grande imbarazzo anche se lo stesso Kerry non solo non ha preso le distanze dai “ribelli” ma ha espresso pubblicamente apprezzamento per il testo firmato dai 51 diplomatici.
Del resto da tempo a Washington c’è un vero e proprio braccio di ferro sulla Siria.
Da una parte il Dipartimento di Stato che chiede un maggior interventismo per porre fine a una guerra civile che ha già fatto oltre 400 mila morti (secondo le stime statunitensi, per altri meno di 300 mila) e che crea grande instabilità nella regione.
Dall’altra il Pentagono e i vertici militari Usa che predicano cautela, viste le implicazioni dovute all’appoggio che la Russia continua a dare al regime siriano.
Finora Obama si è sempre schierato con i secondi, rifiutando ogni ipotesi di maggior coinvolgimento degli Usa nel conflitto.
Del resto il messaggio che è stato ribadito lo stesso giorno dal Cremlino è chiaro: “Rovesciare Bashar al-Assad in Siria potrebbe far sprofondare la regione nel caos più totale.
E difficilmente potrà essere d’aiuto per una lotta efficace contro il terrorismo”, sottolinea Dimitri Peskov, portavoce del presidente Vladimir Putin.
Il rischio di una escalation della guerra fredda tra Stati Uniti e Russia è dunque altissimo ma non sembra venga tenuto in grande considerazione dai diplomatici “ribelli”, tra cui l’ex vice ambasciatore americano a Damasco, che hanno firmato un memo interno inviato al cosiddetto ‘dissent channel’ del Dipartimento di Stato, una canale creato ai tempi della guerra del Vietnam attraverso il quale funzionari e diplomatici possono esprimere il loro dissenso sulle politiche dell’amministrazione senza il rischio di essere puniti disciplinarmente.
Nel documento si sottolinea come la politica americana in Siria sia stata sopraffatta da una violenza senza fine e si fa appello alla necessità di raid aerei mirati per convincere Assad a negoziare seriamente con le opposizioni.
Perché proseguendo sulla strada attuale “lo status quo in Siria continuerà a porre crescenti e disastrose sfide dal punto di vista umanitario, diplomatico e da quello del terrorismo”.
Sorprende che proprio dei diplomatici non si rendano conto che attaccare le forze lealiste siriane significa entrare in guerra con Mosca, una guerra in prospettiva ben più grave, ampia e sanguinosa di quella siriana.
In secondo luogo, ma non per importanza, far cadere Bashar Assad significa oggi consegnare la Siria non certo a forze laiche e liberal democratiche ma alla sharia del Califfato e della coalizione islamica dell’Esercito della conquista che riunisce al-Qaeda (fronte al-Nusra), Fratelli Musulmani e Salafiti.
Difficile comunque che per il momento la Casa Bianca cambi direzione ed è molto probabile che per un eventuale cambio di strategia si debba aspettare il prossimo Commander in Chief.
http://www.analisidifesa.it/2016/06/bombe-su-assad-la-pazza-idea-dei-diplomatici-usa/
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