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venerdì 18 luglio 2025

La Siria è spacciata

I raid aerei con cui Tel Aviv ha imposto alle truppe di Damasco il ritiro dalla città drusa di Sweida e bombardato il ministero della Difesa fanno da cupo presagio al futuro della Siria (Scaglione)


 Avvenire  17 luglio 2025 - di Fulvio Scaglione

I raid aerei con cui l’aviazione di Israele prima ha imposto alle truppe siriane il ritiro dalla città a maggioranza drusa di Sweida e poi ha bombardato il ministero siriano della Difesa nel cuore della capitale Damasco, dimostrando di poter colpire liberamente in qualunque punto del Paese, non parlano tanto di Israele ma fanno da cupo presagio al futuro della Siria. Per almeno due ragioni.

La prima ha a che fare con la sua storia contemporanea. Nei lunghi e drammatici anni della guerra civile, si era diffusa l’illusione che la rimozione del dittatore Bashar al-Assad avrebbe portato, quasi di per sé, a una specie di riconciliazione nazionale in nome della riconquistata libertà. Assad è scappato a Mosca ma è successo il contrario: sparatorie tra milizie curde e sunnite, bombe islamiste nelle chiese cristiane, stragi di alawiti da parte dei sunniti, una vera guerra tra i reparti sunniti fedeli al presidente al-Jolani/al-Sharaa e i gruppi di autodifesa della comunità drusa, a loro volta aiutati dagli alawiti. Tutte le vecchie faglie etnico-religiose si sono spalancate e rischiano di inghiottire il Paese, eccitate anche da un progetto di nuova Costituzione che, a credere alle voci che arrivano da Damasco, mostra più di un tratto islamista. Che corrisponde alla natura e all’origine dei nuovi governanti, ex dirigenti o capi militari del gruppo qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ma ovviamente inquieta le numerose, corpose e influenti minoranze siriane.

E poi c’è la situazione internazionale. Nel 2011 Recep Tayyip Erdogan diceva di voler cacciare Assad per andare a pregare nella moschea degli Omayyadi di Aleppo. Nel dicembre scorso, lanciando all’offensiva gli uomini di HTS che aveva a lungo finanziato e armato, il presidente ha mostrato di non aver rinunciato al vecchio sogno. Anche lui, però, ha sbagliato molti conti. Fino a quel punto, infatti, aveva più o meno retto un equilibrio perverso ma utile per cui la Russia teneva a bada Assad, permetteva a Israele di attaccare le basi iraniane in Siria, trattava con la Turchia e faceva, più o meno, da elemento d’equilibrio. Non è un caso se a parlare con i capi delle comunità druse ora ribelli fossero, negli anni scorsi, più i militari russi che i funzionari assadiani.

Erdogan ha creduto che al-Jolani e i suoi potessero prendere in fretta il controllo del Paese, sottovalutando le difficoltà interne di cui sopra. In più, ha male interpretato le mosse di Israele, che del ribaltone siriano ha approfittato per allargare il cerchio delle proprie operazioni e rendere ancora più ambiziosa la propria strategia. Ora Erdogan è paralizzato: non vuole e non può fare la guerra a Israele ma non sa come difendere il “suo” al-Jolani, di bomba in bomba sempre più avviato al ruolo di sindaco di Damasco più che di presidente della Siria. Con il Nord controllato dal padre-padrone Turchia, il Golan a Sud dominato da Israele attraverso i drusi, l’Est ricco di petrolio sotto la tutela degli americani e dei loro protetti curdi.

Ed è proprio questo che giustifica i pronostici pessimistici sul futuro del Paese. Oggi tutti i Paesi occidentali corrono a stringere la mano ad al-Jolani e si affrettano a eliminare le sanzioni con cui è stato affamato per anni il popolo siriano, senza però muovere un dito per difendere la stabilità e l’integrità territoriale della Siria. È un paradosso solo in apparenza. Alle potenze regionali va benissimo poter rosicchiare parte del territorio siriano per soddisfare le loro più o meno credibili esigenze di sicurezza. Alle altre, quelle più lontane, non va male che in Medio Oriente venga realizzata l’ennesima ristrutturazione delle aree di influenza, se non anche dei confini, che in questo caso prevede la cacciata della Russia, la mortificazione delle ambizioni dell’Iran e la riduzione della stessa Siria a un piccolo Paese disarmato e fragile, avviato al ruolo di semplice piattaforma di interessi altrui. Una specie di secondo Libano, insomma, costretto a sperare nella benevolenza dei più forti. Con una certa libertà di azione, però, per Al Jolani o chi per esso. A difendere i Drusi è intervenuto Israele in base a precisi interessi strategici. A difendere gli Alawiti non è arrivato nessuno, e anche i venti cristiani uccisi in chiesa hanno destato un’attenzione insufficiente.

«Il mondo non distolga lo sguardo dalla Siria», ha detto papa Leone XIV pochi giorni fa. Ma la sensazione è che dei siriani e del loro destino importi poco. E che lo sguardo della comunità internazionale sia distolto, ma non per caso.

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FIDES, 14 luglio 2025

Arcivescovo Jacques Mourad: "Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

È tornato da pochi giorni l’Arcivescovo Jacques Mourad, dopo aver partecipato a Roma al Sinodo dei Vescovi della Chiesa siro cattolica. E subito è stato preso dalle tante cose che a Homs lo stavano aspettando. «In questi giorni celebro le prime comunioni dei bambini e delle bambine nelle parrocchie dei villaggi. È una gioia che tocca il cuore. Ringraziamo il Signore per tutti questi segni di speranza che Lui offre a noi, nella nostra povertà».

Calibra ogni parola, Jacques Mourad, quando parla del tempo che sta vivendo la sua Patria e il suo popolo.
Il monaco della comunità di Deir Mar Musa, divenuto Arcivescovo siro cattolico di Homs Hama e Nabek, ha anche lui nel cuore il tumulto per la strage dei cristiani massacrati a Damasco il 22 giugno, mentre erano riuniti con i fratelli e le sorelle per partecipare alla messa domenicale nella chiesa di Sant’Elia.

Le parole del Vescovo Jacques, nato a Aleppo e unitosi alla comunità monastica fondata dal gesuita romano Paolo Dall’Oglio, sono a tratti taglienti, mentre racconta il presente siriano.
Ripete che «Oggi la Siria è finita come Paese». Ma vede anche che, in tale naufragio, la Chiesa in Siria continua il suo cammino e la sua opera, per il bene di tutti. E ciò accade solo «perché questa è la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. E questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».

La strage dei cristiani
  Il nuovo potere che domina a Damasco cerca parole rassicuranti. Anche dopo la strage nella chiesa di Sant’Elia, rappresentanti governativi ripetono che i cristiani sono una componente ineliminabile del popolo siriano. «E io voglio dire» scandisce l’Arcivescovo Mourad «che il governo porta direttamente la responsabilità di tutto quello che è successo. Perché ogni governo è responsabile della sicurezza del popolo. E non parlo solo dei cristiani. Anche tanti sunniti, tanti alawiti sono stati uccisi, tanti sono spariti. Se una squadra mandata da qualche organismo internazionale venisse a ispezionare le carceri, adesso ci troverebbe tanta gente che non ha nulla a che fare con i crimini del regime passato. Credo si possa dire che questo governo sta perseguitando il popolo. Tutto il popolo».

L’Arcivescovo siro cattolico di Homs percepisce ostilità anche nelle formule rassicuranti utilizzate dal nuovo regime siriano verso i battezzati: «Ogni volta che sento parlare della “protezione” dei cristiani, sento che siamo messi sotto accusa. E sotto minaccia. Sono formule usate non per manifestare benevolenza, ma per incriminare. Quello che devo dire è che questo governo fa le stesse cose fatte dal regime di Assad contro il popolo. Ambedue i regimi, quello di Assad e quello di adesso, non hanno alcun rispetto per il popolo siriano e la sua storia».
 
Siria finita 

La Siria - riconosce l’Arcivescovo Jacques - ha una grande eredità, e ha il presente del suo popolo giovane. «Ma gli ultimi governi «sembrano voler annichilire, distruggere, questa civilizzazione, la civiltà di questo popolo. È un crimine mondiale, non riguarda solo noi».
 «L’Unesco proclama patrimonio dell'umanità tanti luoghi della Siria. Poi nessuno li protegge. E ora abbiamo bisogno di proteggere il nostro patrimonio vivente, non solo i monumenti».
 
Prima i megafoni, poi il terrore
   Le sigle del terrore cambiano spesso la loro “griffe”. Fonti governative siriane, per l'attentato alla chiesa di Damasco, hanno chiamato in causa non meglio specificati militanti di Daesh, lo "Stato Islamico". Ma a rivendicare la strage dei cristiani è stata una sigla jihadista appena inaugurata, Saraya Ansar al-Sunna, creata forse da fuoriusciti da Tahrir al-Sham. Strategie di mercato, gestione "professionale" della comunicazione e della propaganda.
 
I cristiani ortodossi della chiesa di Sant'Elia a Damasco - questo ripetono più fonti e testimoni sul campo -  sono stati massacrati "per punizione", dopo che alcuni di loro avevano avuto un alterco coi militanti islamisti che andavano di continuo davanti alla chiesa con gli altoparlanti montati sulle automobili per sparare a alto volume nelle orecchie dei battezzati i versetti del Corano e i richiami a convertirsi e a aderire all'Islam. La stessa cosa - conferma l'Arcivescovo Jacques - succede anche a Homs e in tutta la Siria: «Passano con le macchine di sicurezza del governo, e dagli altoparlanti chiedono ai cristiani la conversione. Se poi noi chiediamo ragione di questi comportamenti a quelli della sicurezza, ci rispondono che si tratta di iniziative individuali. Ma intanto continuano a usare le auto della sicurezza…il popolo non crede più a questo governo».

Sponsor d'Occidente
  Intanto chi comanda oggi in Siria continua a cercare accreditamenti da parte di circoli e poteri esterni. Rappresentanti del governo si sono detti pronti a rifare l'armistizio con Israele del 1974.
 «Io» riconosce l’Arcivescovo Mourad «non sono un politico. E vedo che quasi tutto il popolo siriano desidera la pace. Desidera anche arrivare a un accordo di pace con Israele, per tutti i Paesi del Medio Oriente. Dopo tutti questi anni sono tutti veramente stanchi di questa guerra, e di considerare gli ebrei come nemici. Ma se arrivassimo adesso a un accordo con Israele, ciò avverrebbe solo perché adesso la Siria è debole. E un simile accordo, in un momento come questo, sarebbe solo un altro atto di umiliazione del popolo.  Quindi, prima che il Presidente arrivi a siglare tale accordo, bisognerebbe almeno parlare chiaro al popolo, spiegare cosa significa questo accordo, e cosa c'è dentro. Quali sono le condizioni per Israele e per i siriani».
 
L’esercito israeliano - prosegue l’Arcivescovo siro cattolico di Homs «ha occupato tanti territori siriani dopo la fine del regime di Assad. Questo vuol dire che forse dobbiamo dimenticarci per sempre delle alture del Golan. E questo vuol dire che il popolo siriano, soprattutto a Damasco, potrà sempre essere sotto minaccia con lo strumento della sete, perché l'acqua a Damasco arriva dal Golan. E se rimaniamo sotto il potere di Israele per l'acqua, immaginiamoci per le altre cose…».
 
Oggi - aggiunge padre Jacques, entrando dentro i drammi del presente siriano «la Siria è finita come Paese. Continuiamo a ripetere che è il primo Paese del mondo, che Damasco e Aleppo sono le città più antiche del mondo, ma questo nel presente non vuol dire più niente. È finita, gran parte del popolo vive sotto il livello di povertà, siamo massacrati, umiliati, stanchi. Non abbiamo la forza di riprenderci da soli la nostra dignità. Se non c'è un sostegno politico sincero a favore del popolo, e non del governo, siamo finiti.  Nessuno può condannare il popolo siriano perché emigra, e cerca salvezza fuori dalla Siria. Nessuno ha il diritto di giudicare».  In una situazione dove tutta l'economia, e il sistema educativo, e anche quello sanitario sono al collasso.

Da dove ricominciare 
  È possibile trovare delle strade per andare avanti, quando l’orizzonte è così buio e sembra mancare il respiro?
L'Arcivescovo sceglie parole forti e impegnative per tratteggiare oggi la condizione e la missione delle Chiese e dei cristiani siriani.
«Secondo me la Chiesa è l'unico riferimento di speranza per tutto il popolo siriano. Per tutto, non solo per i cristiani. Perché noi facciamo tutto per sostenere il nostro popolo, nel modo che possiamo».
 
«Dopo la caduta di Assad, tanti nelle nostre comunità e parrocchie sono entrati in una crisi di paura. Una disperazione terribile. Anche io ho fatto visite a tutte le parrocchie, in ogni villaggio, per incoraggiare i cristiani, parlare del futuro. Grazie a Dio, ogni volta io mi sento accompagnato dal Signore, nelle parole, nel discorso che faccio per il popolo. E così, in questa situazione, siamo presi a organizzare regolarmente gli incontri per i giovani, per i bambini, per i gruppi impegnati nella Chiesa in diversi modi».
 
Anche in una situazione per molti versi tragica, la vita ordinaria delle comunità ecclesiali prosegue il cammino.
E proprio le comunità ecclesiali provano a promuovere il dialogo per la convivenza tra tutti i gruppi e le componenti, in un contesto lacerato, impregnato di dolore e risentimenti.
 «A Aleppo e anche a Damasco sono veramente bravi. I Vescovi hanno dato spazio anche ai laici per riflettere e prendere l'iniziativa.
A Homs proviamo di fare incontri con tutte le altre comunità. Alawiti, ismailiti, sunniti, cristiani. Le persone che incontriamo sono tutte preoccupate per la politica del governo, anche i musulmani. Siamo uniti, perché siamo tutti sulla stessa barca, come ripeteva Papa Francesco».
 
L’incontro con Papa Leone 
  È stato Papa Leone a chiedere ai Vescovi siro cattolici di venire a Roma per tenere nella città eterna il loro Sinodo ordinario, svoltosi dal 3 al 6 luglio. «È stata un'occasione bellissima poterlo incontrare, conoscerlo e avere la sua benedizione.  Ho seguito con attenzione i discorsi che lui ha fatto parlando delle Chiese orientali e dell’Oriente cristiano. Ho approfittato di questo incontro per ringraziarlo e chiedere di incoraggiare tutta la Chiesa cattolica a prendere l'iniziativa soprattutto per sostenere il popolo siriano nelle sue urgenze primarie».

La speranza traspare nelle opere concrete 
  «Per me» sottolinea Jacques Mourad «è importante che la Chiesa si coinvolga intensamente nella ricostruzione delle scuole e di tutto il tessuto educativo in Siria. E anche che nella costruzione di ospedali decenti per il nostro popolo. Già abbiamo in funzione delle scuole, a Aleppo, a Damasco, ma non bastano. A Homs non c’è niente. Dobbiamo lavorare su questo, perché questo può aiutare anche a arginare l’emigrazione dei cristiani. Tutti i genitori pensano al futuro dei loro figli. E se non possono garantire loro scuole dove studiare e ospedali che funzionino, rimane solo la scelta di andar via. Abbiamo bisogno di tutto. Abbiamo bisogno anche di far rinascere centri pastorali e culturali che possano accompagnare la crescita anche umana e culturale dei nostri giovani. E anche di case per i giovani che vogliono sposarsi. Così si possono incoraggiare tutti i giovani a rimanere nel Paese, a non andar via».

Così il presente e il futuro dell'Arcivescovo Jacques si riempie di cose buone da fare. Mancano le risorse, ma l'orizzonte è chiaro:  «Così possiamo andare avanti, nel cammino della nostra Chiesa in Siria. Perché questa è certo la volontà di Gesù. Gesù vuole che la Sua Chiesa rimanga in Siria. Questa idea di svuotare la Siria dei cristiani, non è certo la volontà di Dio».
«E noi per primi, i discepoli di Cristo, e chi esercita delle responsabilità a nome suo, abbiamo il dovere di proteggere i nostri fedeli e fare tutto il possibile garantire il futuro della Chiesa in Siria». 

mercoledì 2 luglio 2025

Un nuovo tempo di incognite e martirio: testimonianza dell'Arcivescovo Tobji da Aleppo

Agenzia Fides 1/7/2025

di Gianni Valente

Sono passati 9 giorni dalla strage di almeno 25 cristiani ammazzati mentre erano a messa nella chiesa greco-ortodossa di Sant’Elias, a Damasco. E quel massacro segna per sempre con lo stigma del martirio il tempo dei cristiani siriani nella Siria del dopo-Assad.

«Dopo la strage» conferma all’Agenzia Fides Joseph Tobji, l’Arcivescovo maronita di Aleppo «hanno scritto su muro di una chiesa nella circoscrizione di Hama le parole “verrà anche il vostro turno”. Qualcuno vuol far credere che è solo l’inizio. Mi mandano foto di volantini attaccati a case cristiane in cui è scritto “la terra di Siria deve essere purificata”, col disegno di bombe e Kalašnikov. Intimidazioni che ricordano le scritte apparse sulle case dei cristiani di Mosul. Sono queste le cose che girano tra i cristiani. Magari non sono neanche foto reali, qualcuno le genera con l’intelligenza artificiale e le manda in giro nella rete. Ma la paura che scatenano non è un “fake”». 

L’Arcivescovo Tobji descrive una situazione sospesa, carica di incognite per i cristiani siriani. Da una parte, «Quelli che ora comandano ci ripetono sempre che i cristiani non si toccano, che sono una componente essenziale del Paese e della società siriana. A Natale e Pasqua hanno mandato le loro scorte di sicurezza per proteggere le messe nelle chiese e le processioni. I Servizi di sicurezza hanno già preso misure e sistemi protezione. Quando li chiamiamo vengono. Ma la gente non ci crede. Prevalgono paura e sconforto». Perché appare evidente che «non tutte le fazioni e i gruppi armati rispondono a quelli che adesso hanno in mano il governo». 

L’attuale Presidente, Ahmed al-Sharaa, quando si faceva chiamare col “nome di battaglia” Abu Mohammad al-Jolani, ha guidato negli anni della guerra siriana Hayat Tahrir al Sham (HTS), la sigla islamista più rinomata tra quelle coinvolte nell’offensiva culminata con l’abbattimento del regime di Bashar al Assad.

Adesso, nella Siria attuale - riconosce l’Arcivescovo Tobji - anche buona parte dei musulmani siriani non appoggia la possibile instaurazione di un regime islamista. Ma la mentalità islamista emerge nei dettagli. Ha effetti nella vita quotidiana. Con gli ascensori riservati agli uomini e quelli riservati alle donne, negli uffici statali sportelli per le donne altri per gli uomini, e così via.

«Qualche giorno fa un ragazzo e una ragazza passeggiavano per strada la sera, li ferma un uomo e chiede loro come mai stanno insieme. Rispondono che sono fidanzati, e lui comincia a interrogarli, vuole che qualcuno lo confermi, fa chiamare al telefono la madre di uno di loro e comincia a interrogare anche lei, che ha confermato che il ragazzo e la ragazza sono fidanzati... Con episodi così, tanti cominciano a dire: questo non è più il nostro Paese. Tanti giovani sono alla continua ricerca del visto per espatriare, per scappare da una situazione che considerano irrecuperabile».

I Vescovi cattolici - racconta Joseph Tobji - hanno riflettuto insieme su come affrontare questo tempo. «Condividiamo il pensiero che se il Signore ci tiene qui, nella Siria del 2025, c’è qualcosa che vuole da noi in questa situazione, che non dobbiamo nasconderci o rimanere a guardare: C'è una chiamata del Signore che vuole da noi qualche azione».
Per questo i Vescovi cattolici di Aleppo hanno costituito un Comitato come strumento per incentivare il dialogo con tutte le componenti del Paese. Qualche settimana fa, il Comitato ha organizzato un convegno di tre giorni per confrontarsi sul presente e il futuro della Siria, nel segno della riconciliazione nazionale. «Abbiamo invitato anche alcuni di quelli che hanno scritto la Dichiarazione costituzionale. Abbiamo parlato liberamente, c’era chi criticava l’attuale governo, e chi lo appoggiava. Ma quello è stato solo l’inizio di un processo. Ora stiamo studiando come trovare strade per favorire la pace e la riconciliazione».

Appare evidente che l’attuale gruppo di potere non ha il controllo di tutte le fazioni armate e su tutte le aree. Ampie parti del Paese sono controllate da curdi e drusi. «Manca la polizia per le strade, la situazione è sottosopra e i nuovi arrivati al potere sono ancora inesperti di politica e amministrazione. A volte - racconta l’Arcivescovo maronita di Aleppo «prendono decisioni fuori dalla realtà. Hanno licenziato migliaia e migliaia di impiegati pubblici, etichettandoli in massa come corrotti o dicendo che sono ridondanti. E ora anche le famiglie di quegli ex dipendenti degli apparati non sanno come andare avanti. Il pane continua a costare dieci volte più di prima, e la nostra gente senza pane non va avanti. Tutti si lamentano ancora della scarsità di corrente elettrica, di acqua, e però questo dura già da molti anni. Le cose peggiori sono i prezzi cari di medicinali, interventi chirurgici, affitti».

L’Arcivescovo Tobji ha incontrato 4 volte il Presidente al Sharaa. «Lui quando parla con noi mostra di avere visioni avanzate. Ma non so se riuscirà a fare qualcosa di quello che dice di voler fare. Lo spero».

Intanto le sanzioni disposte contro la Siria al tempo di Assad sono state tolte, ma per il Paese - rimarca Tobji - «non abbiamo sentito ancora alcun effetto positivo. Si parla dell’arrivo di businessmen che verranno a fare investimenti. Se l’economia cominciasse a migliorare, cambierebbe tutto. Ma finora non si vedono segnali rassicuranti».

Lo scenario singolare di un assetto di potere guidato da gruppi di matrice jihadista, che trova sponde e accreditamento politico nei Paesi dell’Occidente nord-atlantico. «La Siria - nota l’Arcivescovo Tobiji - ha fatto una conversione a U. Prima il regime era appoggiato da Russia e Iran, adesso il gruppo di al Sharaa è appoggiato da USA e Europa. Ma credo che in questi scenari e in questi spostamenti di fronte non esistono amici eterni, amicizie eterne. A muovere le cose sono gli interessi».

 http://www.fides.org/it/news/76526-ASIA_SIRIA_Un_nuovo_tempo_di_incognite_e_martirio_L_Arcivescovo_Tobji_racconta_il_presente_dei_cristiani_siriani


UN APPROFONDIMENTO SU UNA SCONVOLGENTE INCHIESTA DI REUTERS : https://www.vietatoparlare.it/sconvolgente-inchiesta-di-reuters-siria-la-strage-degli-alawiti-e-il-silenzio-delloccidente/

giovedì 12 giugno 2025

Homs , spari contro la chiesa della Santa Cintura


 Agenzia Fides 12/6/2025

Proiettili contro la croce innalzata sulla facciata della cattedrale siro- ortodossa della città siriana di Homs. L’atto sacrilego e intimidatorio viene riferito con “cuore pieno di dolore” dall’arcidiocesi siro- ortodossa si Homs, Hama e Tartus, guidata dal 2021 dall’Arcivescovo Timotheos Matta Al-Khoury.

I proiettili contro la Cattedrale di Santa Maria della Cintura Sacra (Umm Al-Zannar), nel quartiere di Bustan Al-Diwan – riferisce l’arcidiocesi in un comunicato – sono stati sparati all'alba di domenica scorsa, alimentando i timori e il senso di insicurezza condivisi da molti nelle comunità cristiane di Siria nell’attuale congiuntura storica attraversata dal Paese.

“Consideriamo questo attacco brutale” si legge nel comunicato “come un attacco diretto contro la pace civile e la convivenza, e affermiamo che simili atti non hanno nulla a che vedere con la morale della brava gente della città di Homs e di tutti i siriani onesti, ma piuttosto puntano a seminare discordia e destabilizzare”.

I responsabili della Arcidiocesi siro-ortodossa chiedono agli attuali detentori del potere in Siria di individuare e perseguire penalmente i responsabili dell’atto di violenza e garantire la sicurezza dei luoghi sacri delle diverse comunità di fede. Chiedono anche ai figli e alle figlie della Chiesa di non lasciarsi travolgere dalla paura, mostrando che simili atti violenti “non ci scoraggeranno dall'aderire al messaggio di amore e di pace invocato da nostro Signore Gesù Cristo, e aumenteranno solo la nostra determinazione a consolidare lo spirito di fratellanza tra tutti i figli della Patria e l'amore per la terra di Siria, per quanto gravi siano le avversità da affrontare”.

La storica Cattedrale di Santa Maria della Cintura Sacra (Um Al Zennar), meta di pellegrinaggi mariani, è la sede dell'Arcivescovo siro ortodosso du Homs, Hama e Tartus. L’attuale struttura risale al XIX secolo, ma diverse fonti attestano che sul sito su cui sorge la chiesa esistevano luoghi di culto cristiani fin dai primi secoli del cristianesimo. Secondo l’esarca greco melchita Joseph Nasrallah (1911-1993), l'esistenza di una chiesa dedicata a Maria a Homs è attestata già nel 478 d. C. 

http://www.fides.org/it/news/76465-ASIA_SIRIA_Homs_spari_contro_la_croce_della_cattedrale_siro_ortodossa

lunedì 3 febbraio 2025

Il nuovo tempo siriano è pieno di enigmi e fantasmi

     «E’ iniziato un nuovo tempo per la Siria. Ed è di nuovo un tempo difficile».


di Gianni Valente

L’Arcivescovo Jacques Mourad parla con calma, come sempre. Il monaco della comunità di Deir Mar Musa, figlio spirituale di padre Paolo Dall’Oglio, nel 2015 visse mesi sotto sequestro dei jihadisti dello Stato Islamico. Forse quell’esperienza che ha reso ancora più trasparente il suo sguardo cristiano sulle cose. E oggi come Arcivescovo siro cattolico di Homs, le cose che vede e che sente sui nuovi patimenti della Siria non collimano con la rappresentazione mediatica prevalente, soprattutto in Occidente. Quella che racconta di un “regime change”, un cambio di regime riuscito e in via di assestamento, con nuovi leader di matrice islamista in cerca di accreditamento internazionale, dopo lo schianto del blocco di potere coagulatosi per oltre 50 anni intorno al clan degli Assad.

Nel racconto mediatico prevalente, ad esempio, non compare la violenza diffusa e la paura che hanno ripreso a tingere le giornate di buona parte del popolo siriano. Una violenza - ammette Jacques Mourad – che «sembra una trappola in cui cadono tutti quelli che qui conquistano il potere».

Nelle ultime settimane - spiega all’Agenzia Fides l’Arcivescovo siro cattolico di Homs – ci sono persone che spariscono, le prigioni si riempiono, «e lì dentro non si sa più chi è ancora vivo o chi è morto». Ci sono torture inflitte in pubblico a quelli accusati di connivenza col regime che è crollato. E anche «diversi casi di giovani cristiani minacciati e seviziati sulla strada, davanti a tutti, per incutere terrore e costringerli a abiurare la fede e diventare musulmani». Crimini che avvengono lontano da Damasco, dove sono concentrati i giornalisti.

Le cose non vanno bene, e padre Mourad ha l’impressione che «nessuno può fare nulla» per uscire da questo nuovo tempo di paura e vendetta. «Io - racconta - accolgo le persone. Provo a incoraggiare, consolare, chiedo di aver pazienza, cerco soluzioni. Nel periodo di Natale - aggiunge l’Arcivescovo Jacques - ho fatto un giro nelle nostre 12 parrocchie, anche quelle nei villaggi. Per incoraggiare, a custodire insieme la speranza. Ci sono stati incontri belli con diversi gruppi. Ma quando le violenze aumentano, le nostre parole e i nostri inviti alla pazienza non riescono a convincerli».

Il Cardinale Claudio Gugerotti, Prefetto del Dicastero per le Chiese orientali, ha da poco visitato la Siria come inviato del Papa, per testimoniare la vicinanza del Successore di Pietro alle comunità cristiane. Che vivono questo momento della martoriata vicenda siriana con un carico aggiuntivo di preoccupazioni, rispetto a quelle sofferte dagli altri siriani.

«Il regime di prima - spiega padre Mourad - si presentava come quello che difendeva i cristiani. Dicevano: se andiamo via noi, ritornano i fanatici. Adesso, molti sacerdoti sono pessimisti sul futuro, La mia risposta è sempre la stessa: in ogni caso, la situazione rimane imparagonabile a quella di prima, quando ci sono stati crimini inimmaginabili, ma da quando sono accadute le nuove violenze, c’è chi dice: “hai visto, è vero quello che diceva Bashar al Assad”. Il risultato è che adesso, ancora più di prima, tanti cristiani non vedono altra strada che emigrare. Andare via dalla Siria. E per noi è difficile dire che dobbiamo vivere nella speranza. Ci proviamo, ma le persone non credono ai nostri discorsi. Quello che vivono e che vedono è troppo diverso».

Nelle chiese, dal crollo del regime di Assad, per molti versi tutto sembra continuare come prima: messe, processioni, preghiere e opere di carità. I nuovi detentori del potere non hanno imposto regole coercitive che colpiscano in qualche modo la vita ecclesiale nella sua ordinarietà. Il capo riconosciuto Ahmad Sharaa, noto anche come Abu Muhammad Jolani, leader da gruppo armato jihadista Hayat tahrir al Sham e auto-proclamatosi il 29 gennaio Presidente “ad interim” della Siria, incontrando padre Ibrahim Faltas e i Francescani alla fine del 2024 aveva avuto parole di stima di Papa Francesco, aggiungendo che i cristiani espatriati durante e dopo la guerra civile dovranno tornare in Siria. Le violenze subite da giovani cristiani sono avvenute con attacchi a singole persone. Però – riferisce Jacques Mourad - quando sono iniziate le requisizioni delle armi, a essere disarmati sono stati i soldati cristiani e quelli alawiti. Nessuno ha tolto le armi ai sunniti. «E la realtà» aggiunge «è che non c’è un governo. Ci sono gruppi armati, diversi tra loro. Alcuni sono fanatici, altri no. E ognuno ha il suo potere e impone la sua regola, nei territori che controlla. E di armi ne hanno tante, ora che hanno preso anche quelle del vecchio regime». Anche lui, come altri Vescovi, ha incontrato rappresentanti delle nuove forze che dominano il campo. Discorsi rassicuranti, ma poi le cose non cambiano.

Jacques Mourad dice che non sa come le cose possono andare avanti. Intanto, lui continua a camminare.
  «Noi – dice - continuiamo la nostra vita come parrocchie e come diocesi, giorno per giorno». Dallo scorso aprile, l’Arcivescovo era diventato responsabile del catechismo per tutta la Siria. Anche allora la situazione era grave: niente lavoro, società e comunità cristiane ancora stravolte dalle conseguenze della guerra.
«Ho pensato che la cosa da fare, la cosa più importante, era ripartire dai bambini. Si può ripartire solo dai bambini e dai ragazzi, dopo che la guerra ha come cancellato tutto. E, insieme a loro, ripartire dalle cose essenziali, primordiali».

Sono stati ricostituiti i comitati regionali per lavorare insieme sulla formazione dei catechisti, perché «tanti di quelli con esperienza erano andati via. Ora ci sono i giovani, che hanno entusiasmo, ma devono ancora fare un cammino spirituale e di formazione catechistica e biblica». Si sono unite le forze: le diocesi, i Gesuiti, la Bible Society, «per iniziare a cammino insieme. Ringraziamo il Signore, perché tanti giovani mostrano tanto desiderio, tanto coraggio e generosità». E lo stesso vale per le liturgie, e per la ripresa dei pellegrinaggi, verso Mar Musa e tutti gli altri monasteri, «per far rifiorire la memoria, in questa situazione di povertà e sofferenza, che rimane gravissima. E vedere se qualcosa rinasce, come un nuovo germoglio». 

http://www.fides.org/it/news/75981-ASIA_SIRIA_L_Arcivescovo_Mourad_il_nuovo_tempo_siriano_e_pieno_di_enigmi_e_fantasmi

martedì 3 dicembre 2024

Jacques Mourad, Arcivescovo di Homs: Vogliono far finire la grande storia dei cristiani di Aleppo


Agenzia Fides 3/12/2024

“Siamo veramente stanchi. Siamo veramente sfiniti, e siamo anche finiti, in tutti i sensi”. Le parole di padre Jacques, come sempre, vibrano della sua fede e della sua storia.
Jacques Mourad, monaco della Comunità di Deir Mar Musa, dal 3 marzo 2023 è Arcivescovo siro cattolico di Homs, la città dove continuano a arrivare i profughi in fuga da Aleppo, tornata in mano ai gruppi armati dei “ribelli” jihadisti. Lui ad Aleppo c’è nato, li ha alcuni tra i ricordi e i compagni di destino più cari. Lui, figlio spirituale di padre Paolo Dall’Oglio (il gesuita romano, fondatore della Comunità di Deir Mar Musa, scomparso il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, a quel tempo capitale siriana di Daesh) nel maggio 2015 era stato sequestrato da un commando di jihadisti e aveva vissuto lunghi mesi di prigionia, dapprima in isolamento e poi insieme a più di 150 cristiani di Quaryatayn, presi anche loro in ostaggio nei territori allora conquistati da Daesh. 

Anche per questo padre Jacques sa cosa dice, quando ripete che “non possiamo sopportare tutta questa sofferenza delle genti che arrivano qui distrutte, dopo 25 ore di strada. Assetati, affamati, infreddoliti, senza più niente”. Il racconto che condivide con l'Agenzia Fides è come sempre una testimonianza di fede. Una fede che domanda “perché tutto questo, perché dobbiamo sopportare questa sofferenza”, E intanto si muove con sollecitudine operosa, verso le vite che fuggono da Aleppo di nuovo straziata.

“La situazione a Homs” racconta padre Jacques “è pericolosa. Tanti profughi di Aleppo, anche cristiani, sono arrivati da noi nei primi giorni dopo l’assalto dei gruppi armati, passando per la strada vecchia. Non eravamo pronti per tutto questo, abbiamo fatto subito un incontro tra i Vescovi e abbiamo organizzato due punti di accoglienza con l’aiuto dei Gesuiti e anche contando sulla disponibilità di sostegno espressa da Œuvre d’Orient e da Aiuto alla Chiesa che Soffre. Per aiutare i profughi serve cibo, materassi, coperte e diesel”.

La carità operosa si coniuga con un giudizio lucido e incalzante su quello che sta succedendo. “E’ una sofferenza immensa, i siriani sono sconvolti per quello che è stato fatto. Chi e come ha deciso di fare questa azione dei gruppi armati, quando tutti conosciamo quello che abbiamo visto per anni, quello che accade quando un gruppo armato entra in un paese, e subito la reazione del governo e dei russi è quella di bombardare le città e i villaggi occupati… Perché fanno questo strazio di Aleppo? Perché vogliono distruggere questa città storica, simbolica, importante per tutto il mondo? Perché il popolo siriano deve pagare ancora, dopo 14 anni di sofferenza, di miseria, di morte? Perché siamo così abbandonati in questo mondo, in questa ingiustizia insopportabile?”

L’Arcivescovo di Homs dei siri cattolici non ha remore a chiamare in causa “la responsabilità delle potenze straniere, America, Russia, Europa… Hanno tutti responsabilità diretta di quello che è successo a Aleppo”. Un “crimine” prosegue padre Jacques “che è un pericolo per tutta l’area, per Hama, per la regione di Jazira”, e dove la “responsabilità diretta non ricade solo sul regime o sui gruppi armati ribelli, ma sulla Comunità internazionale”, e sui “giochi politici che tutti stanno facendo in quest’area”.

Padre Jacques, che nella sua diocesi stava lavorando a rilanciare i corsi di catechismo dei bambini e dei ragazzi come punto reale di ripartenza per le comunità cristiane dopo gli anni di dolore della guerra, ha ben presente i sentimenti che ora cominciano a attraversare i cuori di tanti fratelli e sorelle nella fede:

“Dopo l’azione di questi gruppi armati” dice all’Agenzia Fides “i cristiani di Aleppo saranno convinti che non si può rimanere a Aleppo. Che per loro è finita. Che non hanno più una ragione per rimanere. Questa cosa che si sta facendo a Aleppo è per far finire la storia ricca, grande e unica dei cristiani di Aleppo”.

http://www.fides.org/it/news/75751-ASIA_SIRIA_Jacques_Mourad_Arcivescovo_di_Homs_Vogliono_far_finire_la_grande_storia_dei_cristiani_di_Aleppo

sabato 9 novembre 2024

I Vescovi maroniti: Porre termine alle aggressioni israeliane che violano la sovranità nazionale

 
Fides, 7 novembre 2014

I Vescovi maroniti si sono riuniti a Bkerké, cittadina del Libano sulla baia di Jounieh, per il loro incontro mensile presieduto dal Patriarca Béchara Raï. Diversi i temi affrontati. Tra questi, le conseguenze umanitarie della guerra in corso in Libano e il “grazie” al Papa e alla Santa Sede per la recente canonizzazione dei “martiri di Damasco” 

Sulla questione del conflitto che da oltre un anno sta lacerando l’area del Medio Oriente, i Vescovi maroniti – si legge in comunicato stampa – hanno espresso “profonda preoccupazione per le vittime e la distruzione causate dagli attacchi israeliani in molte zone del Libano”.
Ribadito poi l’appello alla comunità internazionale affinché “stabilisca un cessate il fuoco immediato e applichi la risoluzione ONU 1701, per consentire il ritorno degli sfollati alle loro case e porre fine alle aggressioni israeliane che violano la sovranità nazionale del Libano”. L’ultimo episodio in tal senso, hanno ricordato i Vescovi maroniti, è stato “il rapimento compiuto a Batroun” di Imad Amhaz da parte un commando navale israeliano pochi giorni fa.

Allo stesso tempo, i Vescovi hanno accolto con favore “la solidarietà dei vari leader religiosi libanesi che si sono uniti per denunciare l'aggressione israeliana e chiedere una rapida risoluzione per proteggere gli sfollati”.

La loro gratitudine è stata poi estesa al presidente francese Macron, che ha deciso di convocare una conferenza internazionale a sostegno del Libano. E, mentre i Vescovi maroniti continuano a sperare in un aumento degli aiuti finanziari che possa permettere il rafforzare delle truppe libanesi, gli stessi hanno voluto sottolineare “l’impegno dei libanesi ad accogliere con dignità gli sfollati e a rafforzare le strutture di accoglienza in collaborazione con le autorità locali e le organizzazioni di sicurezza”.

Dai Vescovi maroniti anche un appello rivolto a chi opera settore educativo: il loro auspicio è che “il Ministero dell'Istruzione istituisca un comitato centrale speciale in rappresentanza delle scuole private e ufficiali, per mettere in atto un meccanismo che possa salvare l'anno scolastico in tutti gli Istituti”.

Infine, hanno voluto esprimere la loro gratitudine a Papa Francesco per la canonizzazione dei "martiri di Damasco”, avvenuta in piazza San Pietro il 20 ottobre.

http://www.fides.org/it/news/75626-MEDIO_ORIENTE_LIBANO_I_Vescovi_maroniti_Porre_termine_alle_aggressioni_israeliane_che_violano_la_sovranita_nazionale

giovedì 17 ottobre 2024

"Israele vuole spargere la paura tra i libanesi per minarne l’unità"

Sono 24 le vittime del raid israeliano del 14 ottobre scorso su una palazzina nel villaggio di Aitou, vicino a Zgharta, nel nord del Libano, un’area a maggioranza cristiana fino all’altro giorno risparmiata dalla furia dei combattimenti tra Israele ed Hezbollah

 SIR 17 ottobre

Le vittime sono salite a 24: l’ultima è una bambina ritrovata dentro un’auto. Era talmente piccola che all’inizio si pensava fosse una bambola e invece, ad una verifica, ci si è accorti che era un’altra vittima innocente”. Padre William Makari aggiorna al Sir il tragico bilancio dei morti del raid israeliano del 14 ottobre scorso su una palazzina nel villaggio di Aitou, vicino a Zgharta, nel nord del Libano, un’area a maggioranza cristiana fino all’altro giorno risparmiata dalla furia dei combattimenti tra Israele ed Hezbollah. 

Il nostro è un villaggio a larga maggioranza cristiana, che è stato tra i primi ad accogliere i rifugiati provenienti da sud, dal confine con Israele, dove si combatte con più violenza – racconta il sacerdote maronita, sposato e con due figli, che fa parte del Vicariato di Ehden-Zgharta .Tutti qui hanno aperto le porte delle proprie abitazioni, hanno dato in affitto le case, sono state messe a disposizione anche le scuole per dare rifugio a quante più persone possibile. La Chiesa locale ha fatto la sua parte mettendo a disposizione locali e ambienti necessari a immagazzinare aiuti e a preparare la consegna”.  

Padre Makari prova a ricostruire l’attacco israeliano del 14 ottobre: “la persona che aveva affittato la palazzina di tre piani, distrutta nel raid, poco prima era stato a visitare i rifugiati alloggiati, in larga parte tutti donne e bambini rimasti poi uccisi dalle bombe. Nei paraggi c’era anche una persona legata ad Hezbollah, non armata, che stava consegnando degli aiuti in denaro alle persone che erano all’interno. Quando questa persona è entrata nel palazzo è avvenuto l’attacco”. Secondo notizie raccolte dall’Agenzia Fides da fonti locali, l’edificio colpito era probabilmente già noto agli israeliani perché era stato affittato fin dal 2006, al tempo della precedente guerra tra Israele ed Hezbollah, alla televisione Al-Manar, legata al movimento sciita filo iraniano. Una conferma in tal senso arriva anche dal sacerdote maronita: “quella del 14 ottobre non è stata la prima volta che Israele attaccava il villaggio di Aitou. Era già accaduto nel 2006 ma quella volta l’obiettivo era una sede di comunicazione dove c’era una radio e altri media e non un palazzo abitato da rifugiati. Oggi bombardano le case e i palazzi”.

Paura per il futuro del Libano. Poi una riflessione che rivela anche una paura per il futuro: “seguendo i notiziari abbiamo modo di ascoltare quanto dicono tanti politici e ministri di Israele e le loro intenzioni di conquistare il territorio libanese per costruire altre colonie. Sentiamo dire che attaccano il Libano per la presenza di attivisti e leader di Hezbollah e che vogliono fare esplodere una guerra civile nel nostro Paese.
Israele crede che il terreno sia già pronto per le divisioni politiche interne al Libano. Il premier israeliano Bibi Netanyahu dice che vuole liberare il popolo libanese dai terroristi. Ma con un atto terroristico non si elimina il terrorismo”. 

La risposta a Israele. “La nostra risposta, come popolo, come Chiesa, a questi tentativi di sovvertire il Libano è la solidarietà e l’unità – ribadisce padre Makari – Le porte delle chiese sono aperte a tutti, non solo ai cristiani. 
Ci sono cristiani anche nel sud del Paese. La nostra è una popolazione abituata a convivere, nel rispetto delle convinzioni politiche e religiose di ciascuno. Siamo tutti libanesi e ci teniamo alla nostra sovranità”. Un modo chiaro per dire che il Libano non può essere solo cristiano o solo musulmano, perché non sarebbe il Libano. 

L’appello e il monito. Da qui l’appello alla comunità internazionale e un monito al mondo della politica libanese: “Chiediamo aiuto per tutto il Libano, e non solo per i cristiani. Siamo critici verso chiunque tenti di insidiare l’unità del Libano per interessi di parte” sottolinea il sacerdote, facendo sue posizioni analoghe espresse più volte in passato dal patriarca maronita, card. Boutros Bechara Rai. Nell’ultima loro assemblea, presieduta dallo stesso patriarca, i vescovi maroniti hanno insistito sull’urgente necessità che il Parlamento libanese “faccia il proprio dovere affinché, dopo una lunga attesa e tanta sofferenza, venga eletto un nuovo Presidente della Repubblica che completi il quadro delle istituzioni costituzionali”. Presidente la cui priorità sarà quella di mantenere unito il popolo libanese. 

https://www.agensir.it/mondo/2024/10/17/libano-testimonianza-dal-villaggio-cristiano-di-aitou-colpito-da-israele-p-makari-maronita-vogliono-far-esplodere-una-nuova-guerra-civile/ 

Le stesse considerazioni sono espresse da Mons. Alwan. Il vicario patriarcale maronita sull’attacco israeliano a un villaggio cristiano del nord libanese: “Un vero e proprio crimine di guerra” 
di Giuseppe Rusconi- Rossoporpora.org

Mons. Alwan, che cosa ha provato quando ha saputo della strage di Aitou?

Aitou è il mio villaggio natale e si trova in una zona del nord del Libano abitata solo da cristiani maroniti. Il palazzo abbattuto è vicino a casa mia. Quando è giunta la notizia mi sono spaventato, perché non immaginavo chi potesse essere ricercato da Israele in questo piccolo villaggio di montagna. Poi ho saputo che il villaggio ospitava persone musulmane sciite sfollate dal sud del Libano. Ho capito allora che tra loro ci doveva essere qualcuno nel mirino dell’esercito israeliano. L’intero palazzo è crollato sui suoi abitanti: bambini, donne, anziani… 24 i morti, 5 i feriti. Non erano tutti ricercati, solo uno o due di loro: gli altri abitanti sono stati sacrificati. E’ un comportamento ingiusto, illegale, vietato anche in guerra, perché non si può uccidere civili inermi. E’ un vero e proprio crimine di guerra. 

Perché Israele continua a colpire de facto tanti civili per distruggere Hezbollah?

I responsabili militari in Israele avevano dichiarato all’inizio che le loro operazioni militari erano limitate e miravano solo a combattere i miliziani di Hezbollah e a distruggere i loro depositi di armi. Però de facto accade che ogni volta che colpiscono un miliziano uccidono decine e centinaia di civili inermi nello stesso palazzo, spesso tra gli sfollati. Questi attacchi cosiddetti limitati in effetti si sono trasformati in una vera e propria guerra in territorio libanese. 

Come vede il futuro prossimo del Libano? Continuerà ad esistere come Stato indipendente?

Il Libano è una Repubblica indipendente, membro fondatore dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Deve rimanere tale anche se è un piccolo Paese indifeso. Questo deve essere il compito delle grandi potenze e dell’ONU. E’ la nostra speranza e noi lottiamo per concretizzarla. Oggi insistiamo sul cessate il fuoco, sull’elezione di un presidente della Repubblica (NdR: vacante dall’ottobre del 2022) e sull’applicazione della risoluzione n. 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I punti citati sono contenuti nel comunicato ufficiale dell’incontro di oggi, mercoledì 16 ottobre, tra capi religiosi diversi convenuti nel nostro Patriarcato maronita di Bkerké su invito del patriarca cardinale Béchara Boutros Raï.


Appello dei Capi religiosi: Dio doni ai libanesi la speranza di resistere alla catastrofe

FIDES, 16 ottobre 2024

La Patria libanese è ferita, “e la ferita sta infettando ognuno di noi”. Ha iniziato così il suo discorso il Patriarca maronita Béchara Boutros Raï, aprendo il Summit straordinario di capi religiosi convocato presso la Sede patriarcale di Bkerké per farsi carico insieme della “responsabilità spirituale, morale e nazionale”, davanti al perpetuarsi delle offensive militari messe in atto dalle forze armate israeliane in territorio libanese. 

Davanti al nuovo tempo di tribolazione attraversato dal Paese dei Cedri, le tessere del composito mosaico confessionale libanese hanno messo da parte diffidenze e controversie, ricompattandosi. Al molto partecipato summit di Bkerké (vedi foto) c’erano i rappresentanti di tutte le comunità di credenti presenti in Libano. Tra gli altri, hanno partecipato al Vertice spirituale il Patriarca greco ortodosso di Antiochia Yohanna X Yazigi, lo sheikh druso Akl Sami Abi el-Mona, il Mufti della Repubblica, il sunnita Abdul Latif Daryan, il vicepresidente del Consiglio superiore islamico sciita Ali el-Khatib, il Presidente del Consiglio Islamico Alawita Ali Qaddour, il Presidente del Sinodo Supremo della comunità evangelica in Libano e Siria, Joseph Kassab. L’incontro ha registrato anche la presenza dell’Arcivescovo Paolo Borgia, Nunzio apostolico in Libano.
I partecipanti al summit – riferisce il comunicato finale dell’incontro – hanno discusso a lungo “della barbara e brutale aggressione che Israele ha compiuto e sta compiendo contro il Libano, ignorando i trattati e le leggi internazionali, in particolare la Carta dei Diritti Umani, le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e le loro risoluzioni, persistendo nell'uso della violenza, della distruzione, dell'uccisione, del genocidio e della demolizione di strutture, istituzioni e case sopra i loro abitanti, tutto questo dopo aver completamente distrutto Gaza, uccidendo bambini, donne e disabili, e distruggendo ospedali, moschee e chiese”. 

Capi e rappresentanti cristiani e musulmani hanno espresso insieme il loro cordoglio per “i martiri della Patria che hanno sacrificato la loro vita in difesa del Libano, e per le vittime innocenti tra i civili, le donne, i bambini, i disabili e gli anziani”, chiedendo “a Dio Onnipotente di guarire i feriti e di concedere loro una rapida guarigione”.
La “barbara aggressione israeliana contro il Libano” sottolinea il comunicato finale del summit “colpisce tutto il Libano e mina la dignità e l'orgoglio di tutti i libanesi, e che i libanesi”, che “grazie alla loro unità” sono in grado di “resistere e respingere il nemico”: le soluzioni per il Libano insistono i capi delle comunità di credenti libanesi “non possono e non devono essere altro che soluzioni nazionali inclusive fondate sull'adesione alla Costituzione libanese, all'Accordo di Taif, all'autorità unica dello Stato libanese, alla sua libera decisione e al suo ruolo responsabile nella protezione del Paese, alla sovranità nazionale”. 

La seconda parte del comunicato raccoglie in 9 punti richieste, esortazioni e auspici condivisi dai Capi religiosi libanesi, che per prima cosa invitano il “Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a riunirsi immediatamente e senza indugio per prendere la decisione di imporre il cessate il fuoco e fermare questo massacro umanitario perpetrato contro il Libano”.
I cittadini libanesi vengono invitati a mettere da parte scontri e controversie, perché questo “non è tempo di sterili discussioni” ma è il momento di accettare sacrifici e unirsi “per salvare il Libano”. Viene rinnovato l’appello a uscire dalla paralisi politico istituzionale favorendo “l'elezione immediata da parte della Camera dei Rappresentanti di un Presidente della Repubblica che goda della fiducia di tutti i libanesi”, nello “spirito del Patto nazionale”. Si richiama l’urgenza di rafforzare le capacità di difesa dell’esercito libanese.

Si rende grazie al popolo per la generosa accoglienza offerta agli sfollati, mentre si ringraziano “i Paesi arabi fratelli e i Paesi amici per le loro gentili iniziative nei confronti del Libano e per il loro sostegno politico e gli aiuti materiali, medici e alimentari”.

Si rende grazie anche ai contingenti militari delle Nazioni Unite (Unifil) che operano nel Libano meridionale “per gli sforzi e i sacrifici che stanno compiendo per salvaguardare i confini meridionali del Libano e la popolazione di quella regione”, apprezzando “il loro impegno a rimanere nelle loro posizioni nonostante le ingiustificate vessazioni e gli avvertimenti israeliani volti a cancellare tutti i testimoni dei brutali massacri che stanno commettendo contro la nostra Patria”. Infine, si ribadisce che “la questione centrale attorno alla quale ruotano la maggior parte delle questioni nella regione araba è la giusta causa palestinese”. 

Nella conclusione del loro messaggio condiviso, i Capi religiosi libanesi (cristiani, musulmani, drusi) chiedono insieme “a Dio, il Dio della pace, di benedirci con una pace giusta, duratura e globale e di renderci costruttori di pace”. Pregano l’Onnipotente “di proteggere il Libano e i libanesi da ogni male e di concedere al nostro popolo la capacità e la speranza di resistere a questa catastrofe”.