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venerdì 19 ottobre 2018

Gioventù in Siria


Tratto dal contributo all’incontro di religiosi formatori italiani, Subiaco 2018.

Questa relazione si basa su alcuni colloqui avuti con religiosi che lavorano con i giovani siriani. 


di Suor Marita Mantovani , OCSO*  

Per un discorso oggi sulla gioventù in Siria (come per ogni altro ambito sociale) si deve sempre tenere conto della grande discriminante: la guerra in atto da ormai più di sette anni. 
In qualsiasi visuale, in qualsiasi questione, automaticamente si parla di un «prima» e un «adesso».


La società
  Prima: con Hafez Assad (il padre dell’attuale presidente), al governo dal ’40 al ’90, la parola d’ordine era: Prima di tutto sei siriano, cittadino di uno Stato di diritto, e poi venivano le appartenenze etniche e religiose. Questo creava una mentalità di convivenza e rispetto. C’era molta povertà, ma dignitosa. Scuole e ospedali erano gratis. Il grande peso economico era costituito dai debiti di guerra. Tutto il meglio partiva per la Russia, ai siriani rimanevano le briciole. Per cui chi poteva farsi una casetta, trovare una discreta collocazione lavorativa, si riteneva fortunato. E si affezionava alle sue cose perché, perdute quelle, non avrebbe avuto altro. Per cui si capisce come i più anziani, ora, non vogliano abbandonare la loro terra, a costo di morirci dentro. E non solo gli anziani, anche giovani adulti esprimono questo sentimento.
 Questo stesso sentimento di attaccamento differenzia radicalmente i siriani dai libanesi, che hanno potuto godere di un tenore di vita più alto di quello dei siriani. Di fatto, fra gli emigrati molti dei siriani, forse anche la maggioranza, desiderano ritornare. I libanesi no. È l’educazione siriana che è diversa da quella libanese.
  Dopo: i debiti di guerra sarebbero stati completamente estinti nel 2017, e quindi la Siria avrebbe potuto veramente decollare. Noi stesse abbiamo visto i cambiamenti radicali nel tenore di vita dal 2005 fino all’inizio della guerra. La Siria, che non aveva debito internazionale, e che quindi non era ricattabile politicamente per mezzo del sistema bancario, e che sarebbe diventata autosufficiente, stava diventando troppo forte, per cui «hanno voluto metterla in ginocchio». E sono arrivate la guerra e le sanzioni internazionali.

La Chiesa
 C’è differenza fra ortodossi e cattolici, specie se sono latini. Per i cattolici, la grande epoca di formazione è stata quella degli anni ’80. Nei riguardi della Chiesa, e non solo nei giovanissimi, la mentalità era di questo tipo.
   Prima: tutto era dovuto alla Chiesa, con due visuali diverse fra loro: 1) «Chiesa sul piedistallo», intoccabile, insindacabile, perché sempre considerata migliore di qualunque cosa, ma lontana da un dialogo effettivo con i fedeli. 2) «Chiesa accessibile»: è possibile invece entrare in dialogo con essa, promuovere un vero incontro tra fedeli e Chiesa. Evidentemente si sente in entrambe le posizioni la realtà forte della Chiesa intesa come gerarchia, come parte clericale posta di fronte alla Chiesa dei fedeli. Nasce la domanda: i fedeli sanno, hanno coscienza di essere loro stessi Chiesa?
  Adesso: tutto si deve chiedere alla Chiesa, perché è nella Chiesa che c’è tutto: la Chiesa ha i mezzi, ha i contatti, ha gli aiuti. Quindi, c’è chi considera male i religiosi, perché li vede come accaparratori di beni, di aiuti; ma c’è anche chi soffre per la Chiesa, chi viene alla Chiesa per darsi nel servizio. La parola «servizio» torna frequentemente nei laici impegnati, in Siria.
 Ciò che si vive ora è l’insicurezza. I genitori non hanno più niente, con l’inflazione anche quelli che erano agiati si ritrovano a non avere più molto. Con l’enorme distruzione di immobili molti si ritrovano a non avere più casa o hanno perduto i guadagni degli affitti, con i quali vivevano. Tutti devono lavorare per vivere, e il lavoro o non c’è, o è molto poco.
 Le Chiese sono occupate negli aiuti umanitari, ovviamente necessari, ma questo va a detrimento dell’assistenza spirituale ai fedeli. Ora, per fortuna, molti religiosi si rendono conto che occorre trovare un equilibrio fra aiuti materiali e servizio spirituale, ma ormai l’immagine della Chiesa assistenziale si è radicata, e la gente va dove trova più aiuto umanitario, al punto di partecipare alla messa per avere diritto all’assistenza. E così è cominciata, in alcune parti, la discriminazione fra cristiani e musulmani, cosa che prima non esisteva.

I giovani
 Per natura sono accoglienti, aperti, capaci di dare tutto. L’educazione e la ricerca, la sete di risorse intellettuali e spirituali, li portano ad assorbire tutto quanto è loro offerto per una migliore capacità di servizio, alla società e alla Chiesa. Mancano, in generale, di una formazione personale, intesa nel senso della loro personale vocazione di incontro e relazione col Cristo. La società prima, che temeva le forti personalità, e poi le Chiese, concentrate più sul senso di appartenenza al rito, alla piccola comunità locale, che sull’appartenenza universale alla fede cristiana, e quindi sulla responsabilità del credere, hanno trascurato la formazione della persona in quanto tale, la coscienza di sé, delle proprie radici, del proprio futuro.
 Prima: sempre affamati di «altro», quello che veniva dall’Occidente, considerato migliore. Si valutava quello che si era in base a quanto si era ricevuto: se non si era ricevuto niente, non si era niente. Da qui la ricerca continua di nuovi studi, conoscenze, nuovi diplomi. La società favoriva in modo speciale i giovani, permettendo incontri e soggiorni all’estero. Molti hanno potuto studiare in Europa e in America, nel passato. Per quanto riguarda la fede, tutti hanno sempre cercato un’educazione religiosa e delle risorse spirituali per vivere. Tutti si sono sempre basati molto su Dio, ciascuno secondo la sua tradizione religiosa, cristiani e musulmani.
 Adesso: i giovani sono smarriti. Devono lavorare per mantenersi agli studi e spesso anche per mantenere la famiglia. Non hanno più tempo da dedicare a Dio, sono cresciuti in fretta, per le pressioni della vita. Non hanno una prospettiva chiara del futuro, anche solo dal punto di vista del lavoro, della famiglia.
 La violenza della guerra ha modificato la loro coscienza: per vivere occorre entrare nella mentalità del dover sopravvivere, ad ogni costo. Solo chi prevale può vivere. La violenza vista e subita è diventata persino un gusto, uno spettacolo cercato e contemplato con cinismo. La distruzione dell’altro è divenuta cosa normale, lecita. La perdita di valori e principi positivi, la sfiducia rispetto alla convivenza, come ad esempio, il «tradimento» da parte di vicini di casa di altra fede che si consideravano amici, ha generato il vuoto. In una recente inchiesta  in un solo paesino di periferia sono risultati 84 minorenni tossicomani, numero esorbitante per le dimensioni del paese e la realtà sociale della Siria prima.
  Ma evidentemente ci sono ancora molti giovani sani, anche se feriti profondamente dalle perdite della famiglia e della società, giovani che ancora sono disponibili al servizio gratuito, nella Chiesa e nel contesto della città (anche lavorando insieme fra cristiani e musulmani), e a imparare dimensioni nuove nel servizio. C’è molta sete di «senso», di una parola vera, diversa, che apra uno squarcio di speranza vera sulla semplice sopravvivenza.
 Molti giovani, più ancora che le ragazze, sono impegnati nella Chiesa, sia nella vita parrocchiale che nei gruppi formati e sostenuti dalle congregazioni religiose presenti (gesuiti, salesiani, maristi, francescani, ecc.). La sfida, ora, sta nel ricondurre i giovani al rispetto mutuo, a una scala di valori che metta al centro la dignità dell’uomo, di ciascun uomo, e la sua responsabilità di fronte alla fede e alla vita. Così come alla testimonianza cristiana di una speranza vera, reale, che dà senso al restare qui, oggi, in Siria, in un modo positivo e creativo, nonostante le reali difficoltà di fronte al futuro.
 Per tutti, infatti, o almeno per la stragrande maggioranza dei giovani, il pensiero fisso rimane «partire». I ragazzi per evitare il servizio militare, che oltre a essere un’immersione crudamente reale nella violenza e nella morte (compresa la propria), anche nelle condizioni migliori è un impegno senza termine (ci sono giovani, tanti, che ormai sono di leva da sette anni).  Le ragazze sognano la partenza per potersi sposare con il loro ragazzo che ormai sta all’estero e non può più ritornare in Siria, o per poter trovare condizioni di studio, lavoro e matrimonio più solide e piene. In generale, si cerca non solo di sottrarsi alla guerra, ma anche di trovare una vita migliore in un Occidente idealizzato, che di fatto sarà incapace di soddisfare il bisogno di vita più umana e più piena dei ragazzi siriani. 
 Di fatto, quelli che restano, lo fanno o per motivazioni morali realmente forti, resistendo continuamente alle sollecitazioni che vengono da tutti i loro amici che già stanno cercando di crearsi una nuova vita lontano dalla Siria, oppure perché sono così poveri da non avere denaro sufficiente per partire, per trovarsi qualche contatto, ma se avessero chi li aiuta… 

 Si può forse aggiungere che l’esperienza che facciamo nei nostri, ancora molto limitati, contatti con i giovani, è che il nostro tipo di umanesimo, cioè il modo benedettino di vivere la fede e anche i rapporti umani (stile di accoglienza, di preghiera, e vita di comunità sono le cose che colpiscono i giovani), attira, suscita domande, interesse.
  Voi siete diverse è una delle cose che ci dicono più spesso. Questa espressione ci interroga molto, perché ci fa capire la sete soggiacente, sete di un modo di vivere la fede che risponda all’esperienza indistintamente globalizzata e globalizzante che i giovani vivono, prima di raggiungere una vera coscienza di se stessi. 
 C’è bisogno di una vera cultura cristiana, intesa come capacità di valutare tutta l’esperienza in base a dei criteri di fede che abbiano solide radici in un’identità matura, come singoli e come Chiesa.

* Suor Marita Mantovani è maestra del noviziato del monastero trappista Nostra Signora Fons pacis, ad Azeir, Siria.

Testo estratto dal n° 15 della Rivista VITA NOSTRA, strumento per custodire e far conoscere la ricchezza della tradizione e della vita benedettino-cistercense. 
 La rivista Vita Nostra viene prodotta in formato cartaceo e in formato digitale  e viene normalmente inviata ai soci di Nuova Citeaux e a chi effettua una donazione a sostegno della rivista o delle attività dell’Associazione medesima, e a chiunque ne faccia richiesta.

domenica 14 giugno 2015

"Madre, offro le mie sofferenze per la Siria e l'Iraq , e per tutti i cristiani perseguitati": il dono della vita di sr M Elisabeth

Pubblichiamo la lettera di Madre Annachiara, superiora della Trappa di Mvanda, Congo, a Md. Marta Luisa, Superiora della Trappa di Azeir, Siria, in occasione della morte improvvisa di una giovane professa di Mvanda che aveva offerto la sua sofferenza per la Siria e i cristiani perseguitati.

Sr Marie-Elisabeth Durin, nata ad Aubergenville (Francia) l’8 agosto 1981, era entrata in Mvanda il 12 giugno 2010, aveva iniziato il noviziato il 19 marzo 2012, e aveva fatto professione temporanea il 19 marzo 2014; ha raggiunto l’abbraccio del Padre il 22 novembre 2014 a Parigi, all’età di 33 anni, dopo una malattia folgorante.

Sr. Marie Elisabeth, Mvanda (1981-2014)

Da 'Vita Nostra' , n°1- 2015
Rivista periodica dell'Associazione "Nuova Citeaux"

Carissima Madre Marta e sorelle tutte,

sì, le ultime parole che Marie-Elisabeth mi ha detto al telefono sono state proprio:
« Madre, j'offre mes douleurs pour la Syrie et l'Iraq et tous les chrétiens persécutés...ça ira…".

Marie Elisabeth è partita per la Francia il 13 Novembre (festa dei santi benedettini) per poter rivedere i genitori dopo quattro anni. Accusava un dolore alla gamba, forse al nervo sciatico. Volevo che fosse visitata a Kinshasa, ma poiché il papà (agnostico) l'attendeva con impazienza, ha preferito dirgli di prenderle un appuntamento il venerdì pomeriggio giorno del suo arrivo. Cosa che il papà ha fatto. Il medico di base ha trovato che aveva un’infezione ai polmoni, il polso bassissimo e l'ha immediatamente fatta ricoverare in ospedale, dove l'hanno messa in coma artificiale (pare sia una prassi di routine). 
Grazia Maria e Paola mi hanno spiegato che il coma artificiale rende fragili i vasi. Paola ha parlato col medico della rianimazione, sabato 15, e lui aveva detto che le condizioni erano gravissime (e da noi è partita in buone condizioni di salute, tranne per il nervo sciatico! Che choc terribile!) ed era intrasportabile. Avevamo suggerito di portarla in elicottero ad Anversa, al centro di malattie tropicali, specialisti di tutti i virus congolesi, ma non era trasportabile. Nella notte i medici l'hanno comunque trasferita nel migliore ospedale di Parigi, clinica universitaria per emorragia celebrale. 
Un filo tenuissimo di vita e lunedì sera già il cervello era piatto. Io avevo preparato tutto per partire, ma ho avuto un crollo e non ero capace di muovermi: la testa funzionava, ma il corpo era KO! Così, Patrizia che si trovava in Svizzera, a Grandchamp, per una sessione, ha preso immediatamente il TGV per Parigi e quattro ore dopo era al capezzale di Marie-Elisabeth. I medici, anche se lei respirava ancora, e sembrava viva, assicuravano che era già al di là della vita terrena! La mamma, pastore calvinista, ha chiesto di tenerla in vita per poter donare gli organi. Elisabeth aveva espresso questa volontà prima di venire in Monastero. E cosi da martedi a sabato l'hanno tenuta in vita, ma lei era già dal 18 senza attività celebrale. Il 22 alle 11,45 i medici hanno desistito e detto a Patrizia e a papà e mamma che dovevano staccare la spina: il corpo era tutto gonfio e diventava nero.
Patrizia l'ha vestita con un camice da prete, perché l'abito monastico non entrava, il velo nero e lo scapolare, con lei c'era solo un’infermiera. L'indomani, domenica, la Messa in rito cattolico-maronita, è stata celebrata da un suo intimo amico maronita, la consacrazione era in aramaico: Elisabeth conosceva a memoria i quattro Vangeli e leggeva aramaico, ebraico e greco, per arrivare più intimamente alle parole di Gesù e degli Apostoli.
Il lunedì, la Comunità di Westmalle ha inviato il carro funebre e la cassa di legno scuro, per il trasporto alla nostra Casa Madre. Patrizia sempre con lei e l'autista (un italiano che lavora in Belgio) in quattro ore sono arrivati in Belgio. Intanto io mi sono un po' ripresa e sono arrivata a Westmalle il mercoledi mattina. 
Sabato abbiamo celebrato i funerali in quattro lingue: canti in Kikongo (sette fratelli di Kasanza sono per gli studi in Belgio), Kyriale in latino (lei l'amava molto!), parte dialogata in fiammingo, lingua della comunità e parole di commemorazione in Francese. Una cerimonia sobria, dolce, intima, intensa, erano presenti tanti missionari amici di Mvanda, il papà e la mamma di sr. Elisabeth, sconvolti e solo alla fine di tutto più pacificati, la Comunità dei fratelli di Westmalle e le sorelle di Nazareth tutti in cocolla bianca e, tenerezza di Dio, sepoltura nel cimitero all'esterno della Chiesa con un raggio di sole e una temperatura quasi possibile, mentre il freddo dei giorni prima era terribile!
Prima di mettere la terra, benedizione dei presenti alla bara, fiori da Mvanda e biglietti indirizzati a M. Elisabeth dalle sorelle e dagli operai e amici di Mvanda, sparsi sulla bara in un grande silenzio carico di commozione e di speranza.
Poi tutti in foresteria a condividere quanto la Comunità aveva preparato con tanta delicatezza. Solo papà e mamma non si sono sentiti di rimanere e sono partiti per ritornare in Francia con l'abbraccio di noi tutti e la promessa di continuare l'amicizia che ormai ci lega per sempre nella comunione dei santi. Ecco, ho scritto di getto e senza riflettere, mi perdonerete.

Marie-Elisabeth certamente è nella gioia e veglierà su tutti noi, soprattutto per voi in Siria e il suo amato Libano. 
Vi voglio bene e grazie per la prossimità che sentiamo cosi forte.

Md Annachiara

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Una Pasqua inattesa

Le esequie di sr Marie Elisabeth (Mvanda)


Dall’Omelia di Padre Benoit de Tiberiade. Kikwit

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