Tratto dal contributo
all’incontro di religiosi formatori italiani, Subiaco 2018.
Questa relazione si basa su alcuni colloqui avuti con religiosi che lavorano con i giovani siriani.
di Suor Marita Mantovani , OCSO*
Per un discorso oggi sulla gioventù in
Siria (come per ogni altro ambito sociale) si deve sempre tenere
conto della grande discriminante: la guerra in atto da ormai più di
sette anni.
In qualsiasi visuale, in qualsiasi questione,
automaticamente si parla di un «prima» e un «adesso».
La società
Prima: con Hafez Assad (il padre
dell’attuale presidente), al governo dal ’40 al ’90, la parola
d’ordine era: Prima di tutto sei siriano, cittadino di uno Stato di
diritto, e poi venivano le appartenenze etniche e religiose. Questo
creava una mentalità di convivenza e rispetto. C’era molta
povertà, ma dignitosa. Scuole e ospedali erano gratis. Il grande
peso economico era costituito dai debiti di guerra. Tutto il meglio
partiva per la Russia, ai siriani rimanevano le briciole. Per cui chi
poteva farsi una casetta, trovare una discreta collocazione
lavorativa, si riteneva fortunato. E si affezionava alle sue cose
perché, perdute quelle, non avrebbe avuto altro. Per cui si capisce
come i più anziani, ora, non vogliano abbandonare la loro terra, a
costo di morirci dentro. E non solo gli anziani, anche giovani adulti
esprimono questo sentimento.
Questo stesso sentimento di
attaccamento differenzia radicalmente i siriani dai libanesi, che
hanno potuto godere di un tenore di vita più alto di quello dei
siriani. Di fatto, fra gli emigrati molti dei siriani, forse anche la
maggioranza, desiderano ritornare. I libanesi no. È l’educazione
siriana che è diversa da quella libanese.
Dopo: i debiti di guerra sarebbero
stati completamente estinti nel 2017, e quindi la Siria avrebbe
potuto veramente decollare. Noi stesse abbiamo visto i cambiamenti
radicali nel tenore di vita dal 2005 fino all’inizio della guerra.
La Siria, che non aveva debito internazionale, e che quindi non era
ricattabile politicamente per mezzo del sistema bancario, e che
sarebbe diventata autosufficiente, stava diventando troppo forte,
per cui «hanno voluto metterla in ginocchio». E sono arrivate la
guerra e le sanzioni internazionali.
La Chiesa
C’è differenza fra ortodossi e
cattolici, specie se sono latini. Per i cattolici, la grande epoca di formazione è stata
quella degli anni ’80. Nei riguardi della Chiesa, e non solo nei
giovanissimi, la mentalità era di questo tipo.
Prima: tutto era dovuto alla Chiesa,
con due visuali diverse fra loro: 1) «Chiesa sul
piedistallo», intoccabile, insindacabile, perché sempre considerata
migliore di qualunque cosa, ma lontana da un dialogo effettivo con i
fedeli. 2) «Chiesa accessibile»: è possibile invece entrare in
dialogo con essa, promuovere un vero incontro tra fedeli e Chiesa.
Evidentemente si sente in entrambe le posizioni la realtà forte
della Chiesa intesa come gerarchia, come parte clericale posta di
fronte alla Chiesa dei fedeli. Nasce la domanda: i fedeli sanno,
hanno coscienza di essere loro stessi Chiesa?
Adesso: tutto si deve chiedere alla
Chiesa, perché è nella Chiesa che c’è tutto: la Chiesa ha i
mezzi, ha i contatti, ha gli aiuti. Quindi, c’è chi considera male
i religiosi, perché li vede come accaparratori di beni, di aiuti; ma c’è anche chi soffre per la Chiesa, chi viene alla Chiesa per darsi nel
servizio. La parola «servizio» torna frequentemente nei laici
impegnati, in Siria.
Ciò che si vive ora è l’insicurezza. I genitori non hanno più niente, con l’inflazione anche quelli che erano agiati si ritrovano a non avere più molto. Con l’enorme distruzione di immobili molti si ritrovano a non avere più casa o hanno perduto i guadagni degli affitti, con i quali vivevano. Tutti devono lavorare per vivere, e il lavoro o non c’è, o è molto poco.
Ciò che si vive ora è l’insicurezza. I genitori non hanno più niente, con l’inflazione anche quelli che erano agiati si ritrovano a non avere più molto. Con l’enorme distruzione di immobili molti si ritrovano a non avere più casa o hanno perduto i guadagni degli affitti, con i quali vivevano. Tutti devono lavorare per vivere, e il lavoro o non c’è, o è molto poco.
Le Chiese sono occupate negli aiuti
umanitari, ovviamente necessari, ma questo va a detrimento
dell’assistenza spirituale ai fedeli. Ora, per fortuna, molti religiosi si rendono conto che occorre trovare un equilibrio fra
aiuti materiali e servizio spirituale, ma ormai l’immagine della
Chiesa assistenziale si è radicata, e la gente va dove trova più
aiuto umanitario, al punto di partecipare alla messa per avere
diritto all’assistenza. E così è cominciata, in alcune parti, la
discriminazione fra cristiani e musulmani, cosa che prima non
esisteva.
I giovani
Per natura sono accoglienti, aperti,
capaci di dare tutto. L’educazione e la ricerca, la sete di risorse
intellettuali e spirituali, li portano ad assorbire tutto quanto è
loro offerto per una migliore capacità di servizio, alla società e
alla Chiesa. Mancano, in generale, di una formazione personale,
intesa nel senso della loro personale vocazione di incontro e
relazione col Cristo. La società prima, che temeva le forti
personalità, e poi le Chiese, concentrate più sul senso di
appartenenza al rito, alla piccola comunità locale, che
sull’appartenenza universale alla fede cristiana, e quindi sulla
responsabilità del credere, hanno trascurato la formazione della
persona in quanto tale, la coscienza di sé, delle proprie radici,
del proprio futuro.
Prima: sempre affamati di «altro»,
quello che veniva dall’Occidente, considerato migliore. Si valutava
quello che si era in base a quanto si era ricevuto: se non si era
ricevuto niente, non si era niente. Da qui la ricerca continua di
nuovi studi, conoscenze, nuovi diplomi. La società favoriva in modo
speciale i giovani, permettendo incontri e soggiorni all’estero.
Molti hanno potuto studiare in Europa e in America, nel passato. Per
quanto riguarda la fede, tutti hanno sempre cercato un’educazione
religiosa e delle risorse spirituali per vivere. Tutti si sono sempre
basati molto su Dio, ciascuno secondo la sua tradizione religiosa,
cristiani e musulmani.
Adesso: i giovani sono smarriti. Devono
lavorare per mantenersi agli studi e spesso anche per mantenere la
famiglia. Non hanno più tempo da dedicare a Dio, sono cresciuti in
fretta, per le pressioni della vita. Non hanno una prospettiva chiara
del futuro, anche solo dal punto di vista del lavoro, della famiglia.
La violenza della guerra ha modificato
la loro coscienza: per vivere occorre entrare nella mentalità del
dover sopravvivere, ad ogni costo. Solo chi prevale può vivere. La violenza vista e subita
è diventata persino un gusto, uno spettacolo cercato e contemplato
con cinismo. La distruzione dell’altro è divenuta cosa normale,
lecita. La perdita di valori e principi positivi, la sfiducia
rispetto alla convivenza, come ad esempio, il «tradimento» da parte
di vicini di casa di altra fede che si consideravano amici, ha
generato il vuoto. In una recente inchiesta in un solo paesino di periferia sono risultati 84 minorenni
tossicomani, numero esorbitante per le dimensioni del paese e la
realtà sociale della Siria prima.
Ma evidentemente ci sono ancora molti
giovani sani, anche se feriti profondamente dalle perdite della
famiglia e della società, giovani che ancora sono disponibili al
servizio gratuito, nella Chiesa e nel contesto della città (anche
lavorando insieme fra cristiani e musulmani), e a imparare dimensioni
nuove nel servizio. C’è molta sete di «senso», di una parola
vera, diversa, che apra uno squarcio di speranza vera sulla semplice
sopravvivenza.
Molti giovani, più ancora che le
ragazze, sono impegnati nella Chiesa, sia nella vita parrocchiale che
nei gruppi formati e sostenuti dalle congregazioni religiose presenti
(gesuiti, salesiani, maristi, francescani, ecc.). La sfida, ora,
sta nel ricondurre i giovani al rispetto mutuo, a una scala di valori
che metta al centro la dignità dell’uomo, di ciascun uomo, e la
sua responsabilità di fronte alla fede e alla vita. Così come alla
testimonianza cristiana di una speranza vera, reale, che dà senso al
restare qui, oggi, in Siria, in un modo positivo e creativo,
nonostante le reali difficoltà di fronte al futuro.
Per tutti, infatti, o almeno per la
stragrande maggioranza dei giovani, il pensiero fisso rimane
«partire». I ragazzi per evitare il servizio militare, che oltre a
essere un’immersione crudamente reale nella violenza e nella morte
(compresa la propria), anche nelle condizioni migliori è un impegno
senza termine (ci sono giovani, tanti, che ormai sono di leva da
sette anni). Le ragazze sognano la partenza per potersi sposare con
il loro ragazzo che ormai sta all’estero e non può più ritornare
in Siria, o per poter trovare condizioni di studio, lavoro e
matrimonio più solide e piene. In generale, si cerca non solo di
sottrarsi alla guerra, ma anche di trovare una vita migliore in un
Occidente idealizzato, che di fatto sarà incapace di soddisfare il
bisogno di vita più umana e più piena dei ragazzi siriani.
Di
fatto, quelli che restano, lo fanno o per motivazioni morali
realmente forti, resistendo continuamente alle sollecitazioni che
vengono da tutti i loro amici che già stanno cercando di crearsi una
nuova vita lontano dalla Siria, oppure perché sono così poveri da
non avere denaro sufficiente per partire, per trovarsi qualche
contatto, ma se avessero chi li aiuta…
Si può forse aggiungere che
l’esperienza che facciamo nei nostri, ancora molto limitati,
contatti con i giovani, è che il nostro tipo di umanesimo, cioè il
modo benedettino di vivere la fede e anche i rapporti umani (stile di
accoglienza, di preghiera, e vita di comunità sono le cose che
colpiscono i giovani), attira, suscita domande, interesse.
Voi siete diverse è una delle
cose che ci dicono più spesso. Questa espressione ci interroga
molto, perché ci fa capire la sete soggiacente, sete di un modo di
vivere la fede che risponda all’esperienza indistintamente
globalizzata e globalizzante che i giovani vivono, prima di
raggiungere una vera coscienza di se stessi.
C’è bisogno di una
vera cultura cristiana, intesa come capacità di valutare tutta
l’esperienza in base a dei criteri di fede che abbiano solide
radici in un’identità matura, come singoli e come Chiesa.
* Suor Marita Mantovani è maestra del
noviziato del monastero trappista Nostra Signora Fons pacis, ad
Azeir, Siria.
Testo estratto dal n° 15 della Rivista VITA NOSTRA, strumento per custodire e far conoscere la ricchezza della tradizione e della vita benedettino-cistercense.
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