Benchè molto lungo, pubblichiamo quasi interamente il ricchissimo testo di padre Ivo Dujardin, prezioso documento per comprendere il cammino spirituale in cui maturò la loro offerta, il rapporto con l'Islam ed il messaggio di questi 'uomini di Dio'.
"Ognuno dei martiri algerini", riferisce il postulatore della causa di beatificazione padre Georgeon, "è stato un testimone genuino dell'amore di Cristo, del dialogo e dell'apertura agli altri, dell'amicizia e della lealtà verso il popolo algerino. Con immensa fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo. Non hanno dato la vita per un'idea, per una causa, ma per Cristo".
Nel giardino di Tibhirine : il dialogo della vita.
Dopo alcune settimane di attesa angosciosa e di timore
misto a speranza, arrivò la terribile notizia che i sette trappisti
francesi del monastero algerino di Tibhirine, sequestrati nella notte
dal 26 al 27 marzo 1996, erano stati crudelmente uccisi il 21 maggio.
Qualche giorno dopo, lo sconvolgente testamento di fra Christian, il
priore, era consegnato alla stampa dalla famiglia e diffuso in tutto
il mondo. Non lasciò nessuno nell’indifferenza, neppure i
musulmani.
In questo tentativo di lettura della vita e della morte
dei monaci di Tibhirine, lascerò largamente la parola agli stessi
fratelli, citandoli e anche approfittando degli autori che hanno
riflettuto su Tibhirine e che possono aiutarci ad entrare nel mistero
della loro Pasqua e del suo significato per la Chiesa e per il mondo
di oggi.
Si tratta quindi di un florilegio, come è espresso dal
titolo. Il film “Uomini di Dio” ha avuto un grande successo, ma
da solo non spiega tutto. È necessario, da una parte, aver letto e
meditato almeno alcuni testi per capire meglio il film e, d’altra
parte, per completare il suo contenuto e il suo messaggio.
Una prima parte situa i sette fratelli di Tibhirine nel
gruppo dei 19 religiosi che hanno dato la vita in Algeria dal 1994 al
1996. Una seconda parte vuole tratteggiare il tipo di dialogo
interreligioso, come è stato praticato e vissuto a Tibhirine. La
terza parte accenna alle condizioni basilari per tale dialogo: si
tratta di due condizioni fondamentali anche per tutti quelli che
nella loro vita vogliono lasciarsi ispirare da Tibhirine.
I fratelli di Tibhirine nel gruppo dei diciannove
testimoni dell’Algeria e con una loro vocazione particolare
Nel gruppo dei 19 religiosi che hanno dato la vita in
Algeria fra il 1994 e il 1996, tutti erano francesi, tranne due suore
spagnole e un Padre Bianco belga.
Nell’ordine cronologico della loro morte c’erano: un
fratello Marista, una Piccola Sorella dell’Assunzione, due suore
spagnole Agostiniane Missionarie, quattro Missionari d’Africa
(Padri Bianchi) fra cui un belga, due suore di Nostra Signora degli
Apostoli, una Piccola Sorella del Sacro Cuore, sette monaci Trappisti
e da ultimo un domenicano, Monsignor Pierre Claverie, vescovo di
Orano.
In tutto il gruppo i monaci trappisti occupano un posto
speciale. Non certo perché il loro amore o il anche il dono della
loro vita siano stati straordinari nel senso che siano stati i più
grandi di tutti: non si tratta di questo! Ma perché le situazioni
concrete, le circostanze in cui questo dono si è compiuto sono state
molto particolari. Bisogna senz’altro evitare di mettere troppo in
risalto queste “sette vite per Dio e per l’Algeria”.
Sì, sarebbe un vero peccato monopolizzare questa grazia a favore dei
sette. Il cammino degli altri dodici non si differenzia per nulla da
quello dei fratelli di Tibhirine. Tutti hanno fatto lo stesso
discernimento personale: tutti – ognuno nella fedeltà alla propria
vocazione – hanno dato la loro vita per Dio e per l’Algeria.
Tutti hanno scelto non di restare, ma piuttosto di non
partire. Preferisco formulare così la loro scelta. La distinzione
può essere sottile, ma non è senza importanza. Hanno scelto
l’amore, così come era stato definito da fra Christophe in alcuni
versi: tutti hanno amato fino al segno supremo.
Ama fino a quando il fuoco si
estingue
fino all’estremo
occorre benedire
offrire l’azione di grazie
e vincere mediante la lode.
Fino all’estremo
bisogna servire
fare la verità
e vincere mediante l’amicizia
Per guadagnare il cuore
dell’uomo bisogna AMARE
Questo non toglie che il cammino di questa comunità
monastica - senza compiti pastorali individuali, in un luogo
abbastanza deserto, lontano da ogni città, circondato soltanto da
alcuni contadini - sia stato speciale.
Era un gruppo di monaci fra altri due gruppi in
conflitto, con i quali essi hanno avuto contatti diretti e regolari:
da una parte l’esercito algerino nella pianura e dall’altra il
GIA nella montagna.
Se gli altri religiosi hanno ricevuto un avvertimento
globale, che era stato formulato per tutti gli stranieri alla fine
del 1993, i monaci hanno ricevuto proprio a casa loro una
visita-avvertimento durante la notte di Natale del 1993
Tutti erano ben coscienti del rischio che correvano per
le loro vite. I monaci, però, hanno ricevuto un avvertimento
consegnato direttamente alla porta del monastero con una parola
d’ordine: “Signor Christian”.
Dietro questo cammino speciale io presumo e sospetto una
vocazione speciale, supplementare, la vocazione cioè di “rendere
visibile esteriormente”, direi di “spiegare” quello che è
stato il fuoco interiore di tutti gli altri in Algeria, sia che vi
siano morti o che siano rimasti in vita, come per esempio i fratelli
Amedée e Jean-Pierre, scampati al sequestro. I sette hanno scritto
in chiare lettere, attraverso un cammino documentato, quella che è
stata la storia “interiore” degli altri dodici, come se in questa
maniera il Signore avesse voluto garantire per le generazioni future
una “tradizione” scritta da un fuoco interno che abitava questa
presenza cristiana e missionaria in Algeria.
Non si potrebbe dire che Tibhirine, pur restando fedele
in una maniera creativa al carisma monastico cistercense, è divenuto
un simbolo, una “parabola” della presenza missionaria multiforme
sparsa in tutto il mondo, sia in situazioni di pericolo, sia in
situazioni più pacifiche?
Oggi, a fatti avvenuti e dopo un film che ha già
raggiunto milioni di persone di ogni tipo e religione, si può
affermare senza troppi rischi di sbagliarsi: mediante la loro vita e
la loro morte, i fratelli e il cammino che hanno fatto hanno ricevuto
la vocazione di essere una ‘parola’, ‘parola universale, un
messaggio per un mondo in cerca di una pace interculturale e
interreligiosa.
Il film esteriorizza dunque l’impegno missionario in
Algeria e ovunque nel mondo. Il film è una parola per tutto il mondo
nelle sue diversità di culture e di religioni in questo momento
storico importante.
Il
dialogo interreligioso a Tibhirine
Il « Ribât es Salâm »
Sì, c’è stato a Tibhirine un dialogo fra cristiani e
musulmani, ma un dialogo di un genere diverso da quello che si
svolgeva ad alto livello. Avveniva soprattutto negli incontri del
Ribât es Salâm, « il legame della Pace », a cui
partecipavano alcuni monaci. Era un gruppo islamo-cristiano i cui
membri si incontravano due volte all’anno, ma le cui condivisioni
non avvenivano a livello teologico. Veniva condiviso il vissuto dei
sei mesi trascorsi su di un tema comune alle due tradizioni
religiose, scelto nella riunione precedente.
Christian era il cofondatore di questo Ribât-es-Salâm.
Il sequestro dei monaci avvenne proprio durante uno di questi
incontri.
Nel 1989, in una comunicazione data nel corso delle
Giornate di Roma, Christian spiegava così il senso di questo
Ribât :
«Sì, possiamo veramente aspettarci qualcosa di
nuovo ogni volta che facciamo lo sforzo di decifrare i ‘segni’ di
Dio negli ‘orizzonti’ dei mondi e dei cuori, mettendoci
semplicemente in ascolto e anche alla scuola dell’altro, in questo
caso, musulmano. È proprio questo l’obiettivo del nostro Ribât
che, fin dagli inizi dieci anni fa (marzo
1979), si era riconosciuto nell’intuizione di Max Thurian, così
vicina a quella dei nostri amici di Medea: «È importante che la
Chiesa assicuri a fianco dell’Islam una presenza fraterna di uomini
e di donne che condividono il più possibile la vita dei musulmani,
nel silenzio, la preghiera e l’amicizia. Solo così, a poco a poco,
si preparerà ciò che Dio vuole a proposito delle relazioni della
Chiesa e dell’Islam».
Raymond Mengus e il dialogo interreligioso
Il carisma dei fratelli di Tibhirine si è situato al
livello della gente semplice. Lascio la parola al teologo di
Strasburgo Raymond Mengus. Nel suo libro « Le
signe sur la montagne »,
che descrive la continuazione della comunità dell’ Atlas
di Algeria nella piccola comunità che vive oggi in Marocco, lo
esprime in modo molto chiaro:
«Il culmine delle relazioni fra le religioni si
chiama ‘dialogo’. La causa sembra chiara; bisogna mirare ai più
alti gradini del dialogo: è là che devono salire specialisti,
responsabili e fedeli.
Ma in mancanza e in attesa di ciò, si potrà
curare di più le relazioni che si generano attraverso dati
elementari, che si chiamano: rapporti di vicinanza, attenzione alle
persone, aiuto reciproco, conversazione ordinaria, contatti che
avvengono per strada.
Sono realtà umili, alla portata di ogni uomo e donna
di buona volontà. A volte potranno essere abbellite con il bel nome
di ‘dialogo della vita’, considerato come un anticipo, nella
speranza di meritare qualcosa di più nel futuro.
E se questo tipo di dialogo meritasse già ora
pienamente il suo nome? Se fosse una vetta, invece di una
preparazione? La vetta, cioè il luogo dove si vede in maniera più
giusta, dove tutto si decide, nel modo migliore, della portata dei
testi come della loro virtù esistenziale, della credibilità degli
argomenti e della purezza delle intenzioni.
Perché, in fin dei conti, il confronto intellettuale
delle nostre idee religiose potrebbe essere solo dogmatico, nel senso
peggiorativo del termine, se si fermasse a se stesso e si compiacesse
solo di se stesso. Mostrami piuttosto la tua umanità (e io ti
mostrerò il mio Dio).
Evidentemente le tue rappresentazioni di Dio mi
interessano, ma quello che importa ancora di più è ciò che esse
producono e costruiscono in te.
Per andare ancora oltre: non saremo giudicati sulle
nostre idee e meno ancora sulle nostre appartenenze. La prima e
l’ultima parola dipendono da ben altro. Noi saremo giudicati
sull’amore. E dall’amore ".
In un altro brano l’autore cita anche questa
riflessione, tratta dalla corrispondenza di Louis Massignon
(1883-1962):
"Quello che sarebbe necessario fare, è andare
da solo come ha fatto Foucauld, ma non nel deserto, ma in un
villaggio dove si potrà pian piano, con le relazioni di aiuto
reciproco quotidiano, agire sulle donne e sui bambini.
È nella
vita quotidiana e semplice che si può raggiungere in maniera
profonda una società: non è nelle chiacchiere intellettuali degli
uomini, dove tutti, una volta fuori, riprendono le loro posizioni di
ripiego. Non credo, però, che nessun Ordine religioso
tolleri che uno dei suoi
membri si dia a questo tipo di azione, e dove
trovare una vocazione per questo tipo di vita se non in Ordini
religiosi? Ciò che
serve in sostanza è dare l’esempio di una vita semplice,
accettando il momento presente e le reazioni degli eventi inattesi in
un certo spirito. Tutto
il resto è letteratura per congressi di missiologia" .
Charles de Foucauld e fra
Christian meditano il mistero della Visitazione di Maria a Elisabetta
Partendo dalla condivisione della vita, il Beato Charles
de Foucauld, il fratello universale, ha riconosciuto nel mistero
della Visitazione di Maria ad Elisabetta nel Vangelo di Luca (Lc
1,39-56) il simbolo della sua vocazione nel Maghreb. Ha dedicato a
questo mistero tutte le sue fraternità, quando ancora non ne
esisteva neppure una! In una meditazione su questo passaggio, lascia
la parola a Gesù:
“Appena incarnato, ho chiesto a mia M(adre)
di portarmi nella casa dove nascerà Giovanni, per santificarla prima
della nascita [...]
... A tutte coloro che mi possiedono e vivono
nascoste, che mi possiedono ma non hanno ricevuto la missione di
predicare, dico loro di santificare le anime, portandomi tra loro in
silenzio; alle anime di silenzio, di vita nascosta, che vivono
lontano dal mondo in solitudine, dico: “Tutte, tutte, lavorate per
la santificazione del mondo, lavorate come mia Madre, senza parole,
in silenzio; Andate a stabilire i vostri pii ritiri in mezzo a quelli
che mi ignorano; portatemi in mezzo a loro stabilendo un altare, un
tabernacolo, e portate loro il Vangelo, non con la predicazione della
bocca, ma con la predicazione dell'esempio; santificate il mondo,
portatemi al mondo, anime pie, anime nascoste, e silenziose, come
Maria mi ha portato a Giovanni ...
Partendo da questa
ispirazione, il Beato Charles de Foucauld, il fratello universale, ha
già dedicato tutte le sue future fraternità alla Vergine Maria nel
mistero della sua Visitazione... e non ne esisteva ancora nessuna!
Fra parentesi, fra Christian ha cominciato a scrivere il suo
testamento il 1° dicembre, anniversario della morte dell’eremita
di Tamanrasset.
Non meraviglierà nessuno che la figura dell’eremita
di Tamanrasset sia stata fonte di ispirazione per la comunità di
Tibhirine. Questo era particolarmente vero per il priore. Prima di
prendere la decisione di impegnarsi in modo definitivo nella comunità
di Tibhirine, egli aveva fatto un viaggio di 1500 km a sud e, a 80 km
da Tamanrasset, era salito sull’Assekrem, per fare durante più di
un mese un cammino di discernimento, prima di prendere la decisione
definitiva. Il fatto di iniziare a scrivere il suo testamento il 1°
dicembre 1993, anniversario della morte di Charles de Foucauld, non è
stato certo un caso. Anche per fra Christian "il mistero della
Visitazione è una festa quasi patronale della comunità, fin dalle
sue origini". E' tornato più volte su questo argomento.
Anche lui, in questa pagina del Vangelo, si identifica
con Maria che porta Gesù nella casa di Elisabetta. Ma lo esprime con
il suo accento personale. Per Charles de Foucauld, Maria "porta"
Gesù da Elisabetta, mentre Christian si identifica con Maria, come
colei che "riceve" da Elisabetta una parola inaspettata. Il
priore di Tibhirine vuole essere aperto alla parola che “l’altro”,
il musulmano, può dire a lui e alla Chiesa.
Christian immagina di essere nella situazione di Maria
durante la sua visita a Elisabetta. Egli sa che Maria porta un
mistero vivente, una buona notizia vivente, ma non sa come fare per
annunciare questo mistero, che è anche il mistero di Dio.
“Noi siamo quindi invitati
a essere costantemente in uno stato di Visitazione, come Maria con
Elisabetta, per magnificare il Signore per quello che ha fatto
"nell’altra"...
e in me”. (Quando Christian usa "l'altra"
in questi passaggi, si tratta del musulmano).
Tra gli altri, ecco un testo [Ritiro alle Piccole
Sorelle di Gesù, registrato nel novembre 1990] :
“E noi siamo arrivati un po' come Maria...
Prima di tutto per rendere servizio..., perché è stata la sua prima
ambizione, ma anche per portare questa buona notizia
(ricevuta dall'angelo al momento dell'Annunciazione) ...
E come comportarci per dirla?... E sappiamo che quelli che siamo
venuti "ad incontrare" sono un po' come Elisabetta, sono
portatori di un “messaggio” che viene da Dio ... E la
nostra Chiesa non ci dice, non sa qual è il legame esatto tra il
Vangelo che portiamo e questo “ messaggio”che fa vivere l’altro.
Insomma, la mia Chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e
l’Islam. E io vado verso i musulmani senza sapere qual è il
legame...
Questo è ciò che Christian vuol dire quando descrive
la sua presenza come "una presenza di Visitazione", una
presenza come quella di Maria durante la visita a sua cugina
Elisabetta.
Fra Christian conversa con
degli amici musulmani
Fra Christian ci ha lasciato dei begli esempi di questa
“presenza di Visitazione”, che ha potuto vivere nei contatti con
qualche amico musulmano.
“Da quando, un giorno, mi ha chiesto
inaspettatamente di insegnargli a pregare, M. ha preso l'abitudine di
venire a parlare con me. Abbiamo
così una lunga storia di condivisione spirituale. Spesso è stato
necessario tagliar corto con lui, quando gli ospiti diventavano
troppo numerosi e assorbenti. Un giorno ha trovato la formula per
richiamarmi all’ordine: “È
parecchio che non abbiamo scavato il
nostro pozzo!”. La
usiamo quando sentiamo il bisogno di scambiare in profondità.
Una volta, a titolo di scherzo, gli ho
chiesto: “E in fondo al nostro pozzo che cosa troveremo?
Acqua musulmana o acqua cristiana?”.
Mi ha guardato, un po’ sorridente e un
po’mortificato: “Ti
poni ancora questa domanda? Sai,
in fondo a questo pozzo, ciò che si trova è l'acqua di Dio” .
L’ambiente di vita della
comunità: presenza e comunione.
Nel 1995 l'Unione dei Superiori Maggiori d'Algeria
(USMDA) invitava tutte le comunità a riflettere insieme sul tema e
sulla domanda: "Come, nella situazione attuale, stiamo
raggiungendo il carisma del nostro Ordine? La prima espressione
con cui i fratelli di Tibhirine cercano di dire e spiegare il loro
carisma è "Presenza".
“Garantire una presenza, non missionaria
apostolica, ma contemplativa e orante in ambiente musulmano, grazie
ad una comunità stabile, unita e fraterna, laboriosa (con gli
associati).
“Una presenza discreta, misteriosa, separata dal
mondo e in comunione con le persone, umilmente attenta ai bisogni
materiali e spirituali di chi ci circonda .
É interessante rileggere ciò che fra Christian aveva
detto durante le giornate di Roma nel settembre del 1989, sei anni prima, in particolare quello che aveva detto nella sua
introduzione, una specie di 'carta d'identità' della comunità. Già
il titolo è molto significativo: i fratelli si consideravano
"oranti in mezzo ad altri oranti". La preghiera era il
livello più profondo della loro convivenza.
«Le poche riflessioni che
tenterò di balbettare qui hanno senso solo a partire da quel luogo
in cui ci sforziamo, giorno dopo giorno, dal 1934, di vivere in
società. Parlerò quindi come testimone, ma il testimone che
parlerà è anzitutto una comunità, anche se, di fatto, mi è stato
concesso dai miei fratelli, nell’ambito di funzioni diverse, di
trovarmi in prima fila nell’incontro e nella condivisione. Nulla
potrebbe spiegarsi al di fuori di una presenza comunitaria costante e
della fedeltà di ciascuno all’umile realtà quotidiana, dalla
porta al giardino, dalla cucina alla lectio
e alla liturgia delle ore.
Il dialogo che è così venuto
a costituirsi ha le sue modalità, caratterizzate essenzialmente dal
fatto che noi non ne assumiamo mai l’iniziativa. Mi piace
qualificarlo come esistenziale. È il frutto di un lungo “vivere
insieme” e di preoccupazioni condivise, a volte molto concrete.
Questo significa che raramente è di ordine strettamente teologico.
Abbiamo piuttosto la tendenza a fuggire le diatribe di questo genere:
le considero limitate.
Dialogo esistenziale quindi,
cioè concernente il materiale e lo spirituale nello stesso tempo, il
quotidiano e l’eterno, a dimostrazione di quanto sia vero che
l’uomo o la donna che ci sollecitano possono essere accolti solo
nella loro realtà concreta e misteriosa di figli di Dio “creati
prima in Cristo” (Ef 2,10). Cesseremmo di essere cristiani – e
anche semplicemente uomini – se dovessimo mutilare l’altro della
dimensione nascosta per incontrarlo solamente “da uomo a uomo”,
cioè in una umanità depurata da qualsiasi riferimento a Dio, da
ogni relazione personale e perciò unica con il Totalmente-Altro,
privata di qualsiasi sbocco su un aldilà sconosciuto .
La parola chiave dei monaci di Tibhirine è proprio
"presenza". Una presenza che era accoglienza, nella
fede di essere accolti anch’essi dai propri vicini. Presenza che
era anche attiva e prendeva delle iniziative: "oranti in
mezzo ad altri oranti", che rendono disponibile un locale nel
monastero per una moschea. Presenza in un'associazione in cui fra
Christophe condivide con alcuni musulmani il lavoro e i prodotti
dell’orto. Presenza nel dispensario, dove fra Luc a volte ha 150
consultazioni al giorno: i malati dei dintorni o di un po' più
lontano, i feriti dell'esercito così come del GIA, il gruppo
terrorista. Presenza di fra Paul, l'idraulico, che lascia
immediatamente il suo lavoro quando un vicino chiede di dargli una
mano. "Presenza" degli altri fratelli in moltissimi altri
modi.
Abbiamo caratterizzato questo "vivere
‘l’incontro con l'altro’ nella vita di tutti i
giorni "come" il cammino privilegiato del dialogo
islamo-cristiano". Ecco, in una sola frase, il dialogo
interreligioso a Tibhirine: "il dialogo della vita",
inter-culturalità e inter-religiosità in pratica.
Per raggiungere il macrocosmo si prepara il terreno
mediante tanti contatti a livello teologico e politico. Come comunità
pilota, i fratelli di Tibhirine lo praticavano nel microcosmo della
loro umile comunità, nascosta in Algeria. Dopo aver condiviso sei
mesi di vita nella comunità dell'Atlante in Marocco, un giornalista
belga annota: "Il dialogo della vita, ecco il nome più adatto
per il dialogo interreligioso come è stato vissuto a Tibhirine ".
Un testo inedito di fra Christian
C'è anche un testo inedito di fra Christian, molto
eloquente e commovente. Solo una settimana dopo la ‘visita’ di
Natale del 1993, e la vigilia del giorno in cui porterà a termine la
stesura del suo testamento, Christian scriveva una nota a fra
Christophe, con un titolo incompleto, ma inequivocabile: “ Per
fra Christophe, nel caso che...” Chiaramente, in quel
momento - come del resto nel suo testamento in cui si rivolgeva anche
alla "mia comunità"- Christian, come superiore della
comunità, credeva di essere l'unico a correre il rischio di un
attentato.
In questa nota egli dà dapprima alcuni numeri di
telefono per le persone da avvisare, poi scrive un pensiero riguardo
ad una possibile evacuazione e infine una precisazione del luogo dove
vuole essere sepolto con l'aggiunta: "Mia madre
dovrebbe provarne dolcezza". La nota continua con "A
tutti e a ciascuno chiedo misericordia e l’elemosina di un ricordo
nell'Eucaristia". Prima di finire scrive: "Possa Dio
continuare il lavoro iniziato qui. Lo ringrazio per avermi
permesso, credo, di acconsentire al DONO, per TUTTI ".
Esattamente al centro di questa nota, proprio nel suo
centro, c’è una frase straordinaria, che dice tanto circa la
comunione dei fratelli con i vicini: "Pensa con amore al
futuro di Mohamed, della sua famiglia, del nostro Ali e degli
associati. In caso di morte brutale, vorrei rimanere fra loro,
sepolto nella parte coperta del cortile ".
Una conferma : il
Sinodo per il Medio Oriente (Roma, 10-24 ottobre 2010)
Mons. Vincent Landel,
arcivescovo di Rabat e presidente della Conferenza Regionale
dell’Africa del Nord lo ha recentemente sottolineato in
un’intervista, in occasione del Sinodo: “ Se vogliamo vivere
nella terra dell’Islam, è necessario essere in comunione. Se non
siamo in comunione (…) i musulmani ci vedono come appartenenti a
sette”.
D’altronde il tema del Sinodo è stato: “La
Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”
(10-24 octobre 2010) . La
Propositio 42 è chiara : i cristiani del Medio Oriente
sono chiamati a proseguire il fruttuoso dialogo della vita con i
musulmani.
La dichiarazione “Nostra
Aetate” del Concilio Vaticano II, come le lettere pastorali dei
Patriarchi Cattolici d’Oriente, pongono anche il fondamento dei
rapporti della Chiesa Cattolica con i musulmani. Il Papa Benedetto
XVI ha dichiarato: «Il dialogo interreligioso e interculturale tra
cristiani e musulmani non può ridursi a una scelta stagionale. Esso
è in effetti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il
nostro avvenire».
Nel Medio Oriente i cristiani
condividono con i musulmani la stessa vita e lo stesso destino.
Edificano insieme la società. È importante promuovere la nozione di
cittadinanza, la dignità della persona umana, l’uguaglianza dei
diritti e dei doveri e la libertà religiosa comprensiva della
libertà di culto e della libertà di coscienza.
I cristiani del Medio Oriente
sono chiamati a continuare il fecondo dialogo di vita con i
musulmani. Essi cureranno di avere a loro proposito uno sguardo di
stima e di amore, mettendo da parte ogni pregiudizio negativo.
Insieme sono invitati a scoprire i rispettivi valori religiosi.
Offriranno
così al mondo l’immagine di un incontro positivo e di una
collaborazione fruttuosa tra i credenti di queste religioni,
opponendosi insieme a ogni genere di fondamentalismo e di violenza in
nome della religione .
Una
doppia condizione per una vita con “l’altro”
Accettare
la violenza che abita in me
Ci sono delle condizioni per vivere questo “dialogo
della vita” con ‘l'altro’. Quali? I fratelli di Tibhirine ce ne
hanno dato almeno due.
Una prima condizione per vivere nella verità questo
dialogo di vita con "l’altro" è quella di aver accettato
le ombre nel proprio cuore. Chi vuole lavorare alla non-violenza nel
mondo, deve avere accettato la scoperta e l'accettazione della
violenza nel proprio cuore. É davvero una 'conditio sine qua
non'.
Il diario di fra Christophe ne è una testimonianza di
una sincerità sconvolgente.
- Ieri, domenica del buon
Pastore, all’Ufficio di Terza, mi sono bloccato, incapace di
assumere il mio ruolo di cantore. Il canto mi aveva completamente
abbandonato. Mi sono ritirato dalla parte dei “fedeli” e sono
rimasto là come una bestia, ma: Tu là, in mezzo a noi, così
fragile... così bello, difficile da vivere in verità .
- Vedo da parte mia che i
luoghi dove la mia violenza si esprime a pregiudizio dell’uno o
dell’altro e della comunità sono anche quelli in cui la violenza
si può convertire a poco a poco: nella liturgia, nel Canto e nella
Parola oranti, nel lavoro svolto faticando, dato, nella vita fraterna
in carità .
- Ieri una “difficoltà di
relazione” mi ha nuovamente messo in ginocchio e stravolto. Io
incasso male. La violenza mi uccide e devo trovare da qualche parte
un appoggio per non lasciarmi travolgere da questo flusso di morte. A
che serve compiere atti di esistente se la mia esistenza disturba,
prevarica sull’altro e si afferma a suo danno? .
Anche nei testi di fra Christian colpisce questa
coscienza personale delle proprie ombre e dei peccati personali,
della propria violenza. Ecco, in ordine cronologico, alcuni testi;
già nel 1978, in occasione di una condivisione fra sacerdoti sulla
preghiera, egli affermava:
… Una Casa di preghiera è anche…la caverna di un
brigante. […] Questo brigante che mi abita vede benissimo che c’è
un mercanteggiamento e una rapina nella mia vita consacrata. Conosce
anche la tentazione di farsi degli amici a prezzo ridotto, con i beni
dell’eternità in qualche maniera. La mia “casa” in qualche
occasione è il palazzo di un incorreggibile fariseo (è evidente che
ci sono farisei di ogni parte, di “sinistra” come di “destra)”.
Anche nel suo testamento non manca una « confessione
personale » di quest’aspetto. Infatti leggiamo:
«In ogni caso (la mia
vita) non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per
sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e
anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.
Venuto il momento, vorrei avere
quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il
perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo
stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
(Algeri, 1 dicembre 1993 – Tibhirine, 1 gennaio 1994) .
E nell’omelia del Giovedì Santo del 1995, nell’ultima
settimana della sua vita :
“Dio ha tanto amato gli uomini da dare loro il suo
Unico Figlio: e il Verbo si è fatto FRATELLO, fratello di Abele e di
Caino, fratello di Isacco e insieme di Ismaele, fratello di Giuseppe
e degli altri undici che l’hanno venduto, fratello della pianura e
fratello della montagna, fratello di Pietro, di Giuda, e di uno e
dell’altro in me” .
Nella sua ultima conferenza, in occasione di un ritiro
di quaresima (8 marzo 1996), soltanto qualche settimana prima del
sequestro, troviamo questa chiarissima parola a proposito dell’amore
per i nemici, tratta dal Sermone di Gesù sulla montagna:
“Ma io vi dico : amate i vostri nemici e
pregate per quelli che vi perseguitano”. […]. Preghiamo
abbastanza, veramente per tutti, senza frontiere, per gli uni e per
gli altri? San Paolo ci avverte molto chiaramente nella lettera ai
Romani: “Nei giorni di prova state saldi, pregate con
perseveranza”. Noi possiamo resistere in queste situazioni soltanto
se preghiamo. E soprattutto se preghiamo confessando quello che c’è
in noi di violenza, di partito preso, di rifiuto” .
E il priore di Tibhirine continua condividendo con molta
semplicità come ha vissuto personalmente la visita del Natale
1993 :
"Dopo la visita di Natale, mi sono occorsi quindici
giorni, tre settimane per tornare indietro dalla mia propria morte.
La morte – non preoccupatevi - la si accetta prestissimo, ma poi
per rimettersi in piedi ci vuole molto tempo. Dopo mi sono detto:
‘Quella gente, quel tipo con cui ho avuto quel dialogo così teso…,
che preghiera posso fare per lui? Non posso chiedere a Dio: ‘
Ammazzalo’. Ma posso chiedere: ‘Disarmalo’. Poi mi sono
chiesto: ‘Ho il diritto di chiedere: ‘Disarmalo’, se non
comincio col chiedere: ‘Disarmami e disarmaci in comunità? Ora
questa è la mia preghiera quotidiana, ve lo confido in tutta
semplicità” .
Vivere con « l’altro »
in comunità
Per i fratelli di Tibhirine la qualità delle relazioni
fra loro è stata proprio la seconda condizione per un dialogo
di vita autentico con l’altro, cioè con i musulmani.
Nell’ambiente di vita, che è il nostro, è necessario ‘coltivare’
come cristiani le relazioni fra noi.
Si è notato a più riprese che il gruppo di Tibhirine
era costituito da persone molto differenti fra loro. Bruno Chenu ha
caratterizzato molto bene questa comunità, facendone una buona
fotografia :
“Ma chi sono dunque questi monaci che hanno vissuto
l’amore fino all’estremo ? Non certo dei superuomini,
esperti in azioni straordinarie ascetiche e mistiche. Sono solo un
piccolo gruppo di persone, che rappresentano molto bene la diversità
della nostra comune specie umana: degli intellettuali e dei manuali,
dei comunicativi e dei silenziosi, degli impulsivi e dei calmi. Uniti
soltanto dalla ricerca di Dio in una relazione fraterna con il popolo
algerino” .
La comunità è stata dunque veramente un terreno di
allenamento per l’inter-culturalità. Prima del martirio del 21
maggio 1996 i fratelli hanno vissuto fra di loro il martirio della
vita comunitaria. Mio fratello, mia sorella è sempre “un altro”,
qualcuno che è “differente”.
L’incontro amichevole con la gente dei dintorni è
avvenuto a poco a poco, un passo dopo l’altro, parallelamente
all’avvicinamento dei fratelli fra di loro e nel progredire in
questa « scuola di carità », sopportandosi mutuamente a
vicenda con la più grande pazienza, come dice S. Benedetto. È
occorso anche del tempo per scoprire e comprendere fra Christian
nelle sue visioni profetiche. A fianco del Ribât-es-Salâm con i
musulmani, c’era questo Ribât, legame di pace dei fratelli fra di
loro, un programma al quale S. Paolo invita ogni cristiano:
“Applicatevi a conservare l’unità dello spirito nel vincolo
della pace” (Ef. 4,3).
Nell’omelia per il Giovedì santo, Christian fa questa applicazione alla vita comunitaria:
« Dare la propria vita per amore di Dio, in
anticipo, senza condizioni, è quello che noi abbiamo fatto… o
almeno quello che noi abbiamo creduto di fare. Allora (
all’inizio della vocazione) noi non abbiamo chiesto né perché,
né come. Ci rimettevamo a Dio per quanto riguardava l’uso di
questo dono, della sua destinazione giorno dopo giorno, fino
all’ultimo. Tutti noi abbiamo vissuto abbastanza per sapere,
purtroppo, che è impossibile per noi di fare tutto per amore, quindi
di pretendere che la nostra vita sia una testimonianza d’amore, un
“martirio” dell’amore. “Il genio è amare, scrive Jean
d’Ormesson, e il cristianesimo è geniale”. È esatto, ma io
invece non lo sono! Noi sappiamo per esperienza che i piccoli gesti
sono spesso molto costosi, soprattutto quando bisogna ripeterli ogni
giorno. Lavare i piedi ai nostri fratelli il Giovedì Santo passi, ma
se occorresse farlo ogni giorno? E a tutti quelli che arrivano?[…]
è questo il martirio che fa il monaco attraverso tante piccole cose.
Abbiamo dato a Dio il nostro cuore “all’ingrosso” e ci costa
molto quando Lui ce lo prende al minuto.
Mettere un grembiule come Gesù può essere così
grave e solenne come dare la vita… e viceversa, dare la vita può
essere così semplice come mettere un grembiule […]
Sappiamo per esperienza che è più facile dare a
questo piuttosto che a quello, amare questo fratello, questa sorella,
piuttosto che quell’altro, quell’altra, anche in comunità.
Tuttavia la coscienza professionale del medico, il
giuramento che ha prestato, lo portano a curare tutti i malati,
« anche il diavolo », aggiungerebbe fra Luc. E il nostro giuramento professionale, di noi
religiosi (già compreso nel nostro battesimo!) non ci obbliga forse
ad amare tutti, “anche il diavolo”, se Dio ce lo chiedesse?” .
Non possiamo saltare un passo, verso la fine di questa
stessa omelia, in cui fra Christian evoca l’esempio di un musulmano
che ha tanto segnato la sua vita e la sua vocazione personali.
“Risalendo nel tempo, io non posso dimenticare
Mohammed, che un giorno ha protetto la mia vita esponendo la sua… e
che è morto assassinato dai suoi fratelli perché si rifiutava di
consegnare i suoi amici. Egli non voleva scegliere fra gli uni e gli
altri. Ubi Caritas… Deus ibi est !” .
Qualche mese dopo fra Christian
continua la sua riflessione a proposito del martirio cruento in una
conferenza ai suoi fratelli, il 7 novembre 1995:
“Nessuno ha il diritto
sfidare la morte, neanche quella del “martirio”. Non sarebbe
permesso, senza commettere uno sbaglio, mettere il prossimo nella
tentazione di uccidere, sfidandolo direttamente sul terreno dove si
trova, dove il suo abbagliamento lo rinchiude. Ma questo non vuol
dire che debba abbandonare questo terreno. D’altronde, nella
maggior parte dei casi, questo non è possibile. A meno di non
correre il rischio di essere infedele a ciò che credi, a ciò che
hai promesso, all’urgenza della carità. Pensiamo a quelli che
continuano a curare ammalati contagiosi. Che cosa dire di un Padre
Damiano che se ne va a rinchiudersi con i lebbrosi? ”.
Negli ultimi mesi, fino a qualche giorno prima del
sequestro, il martirio è rimasto il tema delle sue meditazioni
rivolte il mattino ai fratelli.
« Chi odia suo fratello » (1 Gv. 3,15)
Nella sua ultima conferenza ad Algeri, l’8 marzo
1996, Christian dice parole inequivocabili riguardo a questa sfida,
che riguarda ogni cristiano nella vita di tutti i giorni, compresa la
vita in famiglia.
« Bisognerebbe poterci chiedere : “Ho
estirpato dal mio cuore ogni forma di odio?”. Non possiamo vivere
nel contesto attuale, desiderando la pace e la vita, se non andiamo
fino in fondo a tutto ciò… e nessuno può dire di esserci
arrivato. Chiunque odia suo fratello è un omicida.
Non c’è nulla come la vita comune, la vita in
società, la vita in famiglia che faccia a volte scoprire dove può
annidarsi l’omicidio.
A questo proposito ci viene in aiuto la lingua
francese: infatti si dice che ci sono delle parole che feriscono, che
ci sono delle piccole frasi assassine, dei silenzi minacciosi, degli
sguardi fulminanti, delle occhiate come dei colpi di pistola, dei
gesti fratricidi… e poi si calpesta, si spezza, si taglia, si
elimina…Nelle altre lingue ci devono essere senz’altro delle
espressioni come queste. Ci sono tanti modi di ferire e, a volte,
mortalmente” .
Questo non è soltanto un messaggio per la vita in
comunità o in famiglia. Contiene anche una “parola” per la
società, a livello della vita sociale e politica. Un po’ più
avanti, nella stessa conferenza, Christian presenta come i fratelli,
nella situazione in cui si trovavano, hanno cercato di eliminare
l’odio dal loro cuore:
«Per esorcizzare tutte queste tendenze che ci sono
in noi, tendenze a scegliere il nostro campo, a schierarci gli uni
contro gli altri, a etichettare tutto come buono o cattivo, in
comunità abbiamo avuto l’istinto- un istinto che, dopotutto, mi
appare come salvatore, ma che ci è venuto così, per caso –
l’istinto dunque di chiamare i partigiani, quelli che sono chiamati
terroristi, ‘i fratelli della montagna’, mentre chiamiamo le
forze armate ‘i fratelli della pianura’. È molto comodo per
parlare al telefono. È una maniera di restare in fraternità»
.
In
conclusione : Una chiamata
Tibhirine è un messaggio di fedeltà radicale e d’amore
fino alla morte: non vogliamo certamente dimenticarlo. È una pagina
tragica di cui vogliamo fare memoria il 26 marzo e il 21 maggio.
Speriamo che Tibhirine rimanga ben più di una storia inverosimile e
ammirabile nel Menologio di un Ordine o nell’album d’oro dei
premiati del festival di Cannes, oppure un reliquiario prezioso di un
museo.
Il giornalista René Guitton chiama i fratelli “dei
precursori delle relazioni fra cristiani e musulmani, che devono
servire da faro”…
Nel testo redatto dopo la morte dei monaci di Tibhirine
e del Cardinal Duval e che sarebbe stato il suo ultimo editoriale nel
bollettino della sua diocesi, l’ultimo dei 19 testimoni
dell’Algeria, Mons. Pierre Clavarie, vescovo di Orano, scriveva
così: “La loro morte è un compimento e una chiamata. Se noi,
ancora oggi, meditiamo la loro testimonianza, è perché essa è, in
maniera indissolubile, compimento e chiamata”.
Lasciamo l’ultima parola ad una madre di famiglia
algerina. Ecco quello che scrisse all’arcivescovo Mons. Teissier
pochi giorni dopo che il testamento di Christian comparisse sulle
pagine de ‘La Croix’:
« Dopo la tragedia, dopo il sacrificio vissuto
da voi e per noi, dopo le lacrime e il messaggio di vita, di onore e
di tolleranza offerto dai nostri fratelli monaci a voi e a noi, ho
deciso di leggere il testamento di Christian ad alta voce e con
grande cuore ai miei figli, perché ho sentito che era destinato a
tutti e a tutte noi. Volevo dire loro il messaggio d’amore di Dio e
degli uomini. La solidarietà umana e l’amore dell’altro è un
itinerario che va fino al sacrificio, fino al riposo eterno, fino in
fondo. I miei figli ed io siamo molto colpiti da questa grande
umiltà, da questo gran cuore, da questa pace nell’anima e dal
perdono.
Il testamento di Christian è più di un messaggio, è
un’eredità, è un sole che ci è affidato a prezzo del sacrificio.
Il nostro dovere è di continuare il cammino di pace,
d’amore di Dio e dell’uomo nelle sue differenze. Il nostro dovere
è di innaffiare i semi consegnatici dai nostri monaci, affinché i
fiori spuntino dappertutto più belli, più colorati e profumati
La Chiesa cristiana, con la sua presenza fra noi,
continua a costruire con noi l’Algeria delle libertà delle fedi,
delle differenze, l’universalità e l’umanità. È un bel mazzo
di fiori per noi e una grande fortuna per noi, tutti e tutte» .
Dom Ivo Dujardin
Abate emerito dell’abbazia di Westmalle
Belgio
Il testamento di Dom Christian de Chergé
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