di Daniele
Rocchi
S.I.R. 29 giugno 2019
S.I.R. 29 giugno 2019
Donne
anziane in strada che vendono pezzi di pane per sopravvivere, bambini
e ragazzi che giocano tra cumuli di macerie non ancora rimosse. Auto
e motorini che si muovono a suon di clacson fra la gente ferma
davanti a improvvisate bancarelle e piccoli negozi dove si vende di
tutto. La periferia orientale di Aleppo si presenta così dopo cinque
anni di guerra (2012- 2017). In questa area si erano arroccati i
jihadisti filo Al Qaeda di Al Nusra per contendere la città,
capitale economica della Siria, all’esercito regolare del
presidente Assad e ai suoi alleati russi e iraniani. Oggi la linea di
fronte si è spostata di circa 20 chilometri, in piena campagna, dove
si muovono ancora alcune milizie armate ribelli. “Fino a meno di
sei mesi fa qui in queste strade non c’era vita. Le conseguenze
ancora si vedono, manca acqua e anche l’energia elettrica. Si va
avanti con i generatori” dice un negoziante. Ma ora qualcosa sembra
muoversi, le famiglie provano a tornare. La gente pare più
tranquilla, salvo ripiombare nel terrore, soprattutto di notte,
quando razzi e bombe tornano a far sentire il loro frastuono.
L’incontro
con Binan e Elia è qui, in mezzo a queste strade polverose che
portano ancora i segni della guerra.
Binan
Kayyali,
psicologa e psicoterapeuta, Elia
Kajmini,
regista e autore teatrale, musulmana lei e cristiano lui, sono i due
coordinatori del progetto “Un
nome e un futuro”, voluto dal vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lutfi e dal Muftì di Aleppo, Mahmoud Akam.
L’obiettivo? “Aiutare
innanzitutto i bambini nati da donne vittime di stupri e abusi spesso
perpetrati dai ribelli jihadisti, molti dei quali stranieri, durante
l’assedio di Aleppo”.
L’Unicef
stima che in tutta la Siria ci siano circa 29 mila bambini figli di
foreign fighters, molti sotto i 12 anni. “Si
tratta di bambini e ragazzi guardati con diffidenza, tacciati di
essere figli dell’Isis o figli del peccato, e per questo
abbandonati dalle proprie famiglie. Così anche le loro madri.
Discriminati ed emarginati hanno bisogno di tutto, acqua, medicine,
istruzione, supporto psicologico e soprattutto di un nome e di un
futuro”.
Già, un nome e un futuro, come recita lo slogan del progetto.
“Avere
un nome significa esistere se non lo hai non esisti, sei invisibile,
esposto a violenze e abusi quotidiani. Se non esisti non hai un
futuro” spiega
Binan mentre indica una vecchia palazzina cadente crivellata di
colpi. Su un balconcino campeggia un piccolo striscione con la
scritta “Care center” sormontata da un logo con la sigla “Fcc”
(Fcc, Franciscan care center). Due rampe di scale, invase da liquami,
umidità ovunque, una porta che apre su un piccolo appartamento
completamente rinnovato, imbiancato, luci al neon che amplificano gli
spazi angusti. Un bianco che stride con l’esterno. E tanti sorrisi,
quello degli operatori che qui prestano la loro opera, dei bambini
che vengono assistiti e delle loro madri che li attendono fuori le
aule. In una stanza un nutrito gruppo di donne, giovani e meno
giovani, segue corsi di prima alfabetizzazione e di lingua inglese.
“Moltissime
donne di Aleppo Est sono analfabete – spiega
Elia –
con questo progetto insegniamo loro a leggere e scrivere. Alla fine
del corso riceveranno un attestato di frequenza”.
Sono
due i Care center dei francescani che
fanno capo al progetto “Un nome e un futuro”. I numeri sono di
tutto rispetto: circa 500 persone seguite, 200 disabili e 300 ragazze
madri. Un lavoro continuo, sette giorni su sette, per oltre otto ore
al giorno, condotto da 15 operatori specializzati. Numeri che
crescono man mano che nei due centri affluiscono “tanti
orfani ‘invisibili’ trovati a vagabondare per i palazzi distrutti
di Aleppo. I cosiddetti figli dell’Isis –
dicono Binan e Elia
– non sono nemmeno iscritti all’anagrafe. Praticamente ‘non
esistono’. In gran parte si tratta di bambini e ragazzi molto
aggressivi, poco propensi a relazionarsi con gli altri. Per questo
motivo puntiamo alla socializzazione e all’inserimento scolastico
grazie alla collaborazione con il ministero dell’Istruzione
siriano.
Stare
in una classe vuol dire avere un nome, studiare rende possibile un
futuro. Ad oggi almeno venti di questi bambini sono stati iscritti
nelle scuole pubbliche”.
Nei
due centri giungono anche numerosi ragazzi che
non hanno potuto frequentare la scuola durante gli anni della guerra.
“Cerchiamo
di far recuperare le lezioni perse con un doposcuola in vista del
loro reinserimento scolastico”
dice Binan. Oggi è giorno di logoterapia e fisioterapia. Su un
materassino Mahmoud, poco più di tre anni, fa fisioterapia. “È
nato con difficoltà motorie sotto l’occupazione di Al Nusra e nel
frastuono dei bombardamenti dell’esercito –
dice Binan –
del padre nessuna notizia. La madre non poteva uscire se non con il
permesso di uno degli uomini della famiglia. La disabilità qui è
uno stigma sociale. Suo figlio, costretto in casa, non ha potuto
ricevere le cure adeguate”.
In una saletta vicina le logoterapiste sono impegnate con due
bambini.
“Non parlano, sono traumatizzati dalla guerra – aggiunge
la psicologa –
uno dei due non riesce nemmeno a guardare la sua insegnante. La
ascolta con il viso rivolto al muro. Sono bambini con un basso grado
di concentrazione. Ogni minimo rumore li impaurisce. Sono gli esiti
dei traumi vissuti sotto le bombe”.
Ma ci sono due cose che, in prospettiva, spaventano la psicologa: “la
propensione al suicidio di giovani e bambini rimasti amputati durante
i bombardamenti e la tendenza dei ragazzi a giocare in strada usando
armi vere che vengono facilmente reperite nei quartieri della città.
Hanno una familiarità con le armi al punto da riconoscerle dallo
sparo che producono. La guerra sta provocando casi clinici e
patologie che non si trovano sui libri scientifici. Non c’è
bambino ad Aleppo che non abbia bisogno di aiuto e sostegno
psicologico”.
Il
lavoro di Binan e di Elia non si esaurisce
nei due centri ma prosegue nel Terra Santa College di Aleppo, guidato
da padre
Firas.
Qui è attivo il centro “Arte e Psicologia” (Art and Psychology)
dove tantissimi bambini e ragazzi vengono per frequentare corsi di
teatro, di musica, di disegno, e praticare attività manuali e
sportive. Lo sforzo di Elia e Binan, insieme a padre Firas, è
arrivare anche alle famiglie di questi ragazzi. Il College è dotato
di tante strutture, campi di calcio, di basket, piscina, palestre,
laboratori, frutto della generosità della Chiesa italiana, di
organismi come Misereor e di Ats, l’ong della Custodia di Terra
Santa, in prima fila nel reperire fondi per alimentare la missione
dei francescani.
Uno
dei prossimi obiettivi, afferma Elia, “sarà
aprire 10 centri in diverse zone povere della città. Assistere i
bambini e le loro famiglie è il modo migliore per recuperare aree e
zone della città altrimenti destinate a morire”.
“Aleppo
oggi è un grande terreno reso arido dalla guerra – dice
Binan
– ma va irrigato e reso fertile piantando dei semi molto
resistenti. Sono i semi della solidarietà, della vicinanza, della
riscoperta dei rapporti interpersonali, del rispetto dei diritti e
della dignità di ogni persona.
Sono
semi che crediamo possano ricostruire la società siriana e per
questo portare alla pace e alla riconciliazione”.
“Riedificare
case si può e si deve, ma vanno prima ricostruite le vite dei loro
abitanti”.
Resta
solo il tempo di un breve saluto interrotto dal piccolo Mahmoud che
ha terminato la sua fisioterapia. Si lamenta perché non vuole salire
in braccio alla madre. Binan sorride. La prima volta che aveva visto
Mahmoud entrare al centro era in braccio alla mamma. Ora vuole
camminare da solo. La madre lo mette a terra e lo prende per mano.
Sono i primi semi che germogliano.
https://www.agensir.it/mondo/2019/06/29/siria-con-binan-ed-elia-tra-i-bambini-invisibili-e-i-figli-dellisis/
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