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mercoledì 16 ottobre 2024

Verso il 20 ottobre: la canonizzazione dei Martiri di Damasco (2° parte)

Memoria di Sant'Ignazio di Antiochia , patrono della Siria

Il reliquiario dei Martiri di Damasco, un capolavoro di fede e arte



Engelbert Kolland: dal Tirolo alla Terra Santa: la storia di padre Engelbert (“Abuna Malak”)



Michael Kolland nacque a Ramsau il 21 settembre 1827. Narrano le fonti che fu lavorando come boscaiolo, a contatto con la natura, che ebbe l’opportunità crescere umanamente e maturare l’idea di diventare sacerdote. Nell’autunno del 1845 si decise di completare la sua formazione scolastica e riprendere gli studi interrotti,  al termine dei quali chiese e ottenne di essere accolto nel convento dei Frati Minori di Salisburgo per servire il Signore nell’Ordine di San Francesco di Assisi. Con la vestizione religiosa, il 19 agosto 1847, ricevette il nome di “Engelbert” che significa “splendente come un angelo”.

«I testimoni lo descrivono come sano, robusto, il volto ridente, i capelli biondi e gli occhi azzurri – racconta fra Ulise ZarzaVice postulatore e membro, insieme a fra Rodrigo Machado Soares e fra Narciso Klimas, del Comitato di preparazione delle celebrazioni per la canonizzazione dei Martiri  –. In convento si sentiva a casa ed era amato da tutti grazie al suo carattere affabile: ebbe una devozione particolare per la Madre di Dio».

A Bolzano si dedicò allo studio delle lingue straniere, italiano, francese, spagnolo, inglese e soprattutto arabo.  Dopo la professione solenne, il 22 novembre 1850, e l’ordinazione sacerdotale nel 1851, manifestò al Capitolo provinciale la disponibilità per diventare missionario in Terra Santa.

Accolta la sua richiesta, si imbarcò da Trieste alla volta di Giaffa: la traversata durò dal 27 marzo al 13 aprile 1855.

«Si conserva una lettera in cui racconta il suo viaggio  – continua fra Ulise Zarza – segnato da grandi sofferenze, in mare e in terra. La descrizione di quando giunse a Gerusalemme, dopo tante pene, rivela tuttavia la devozione e l’ardore che nutriva per la Terra Santa. Le sue parole sono state: “Scesi da cavallo. Il pensiero che in quella città il Signore, nostro Redentore, avesse versato il suo prezioso sangue anche per la mia salvezza, mi fece piangere ancora più forte. Alle tre del pomeriggio, nella stessa ora in cui morì Gesù Cristo, giravo a piedi per le vie di Gerusalemme. Laddove egli aveva portato la sua pesante croce, volli anch’io camminare a piedi”».

Come ogni missionario in Terra Santa, anche Fra Engelbert prestò servizio per un certo tempo presso il Santo Sepolcro. Nonostante la dura vita nel convento scriveva: “la vicinanza al monte Calvario e agli altri luoghi in cui Nostro Signore ha tanto sofferto rende tutto sopportabile”. Più tardi ricevette l’obbedienza del Custode di Terra Santa di andare a Damasco, nel convento di San Paolo. «Svolse con facilità gli incarichi che gli venivano affidati – sottolinea fra Ulise Zarza –  grazie alla conoscenza dell’arabo, che gli permise rapidamente di conquistare il cuore dei fedeli. Questi lo chiamavano “Padre Angelo” perchè il nome di Engelberto era troppo lungo: e perciò era stato abbreviato in Engel, che divenne poi Angel».

«Sarebbe dovuta essere una collocazione provvisoria – continua fra Ulise Zarza –, fino a quando ci fosse stato a disposizione un confratello spagnolo con una buona conoscenza dell’arabo.  Siccome, però, Fra Carmelo Bolta Bañuls, il parroco di Damasco, era ammalato, il giovane e dinamico Padre Engelbert assunse praticamente tutti gli incarichi pastorali. Fu sua l’iniziativa di costruire un campanile per la chiesa del convento, collocando una campana pesante circa mezzo quintale. Un gesto coraggioso, visto che il convento era situato proprio di fronte a una moschea».

Svolgeva questi incarichi quando subì il martirio.

Nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1860, un commando druso di persecutori entrò nel convento.

All’accostarsi del pericolo Fra Engelbert fuggì dal convento e si nascose in una casa vicina con un maronita chiamato Metri, che invece scampò alla carneficina.

«Fu questo maronita che ci racconta gli ultimi istanti della vita di Padre Angelo – spiega fra Ulise Zarza –. Il Padre, dopo essere stato scoperto, cessò da ogni difesa e rimase tranquillo:  esortato a farsi musulmano per avere salva la vita, rispose: «Non posso, perché sono cristiano e ministro di Gesù Cristo». La sua vita si concluse a colpi di ascia, a 33 anni. E sopraggiunse così il martirio “con quella calma e quella santa libertà che il Signore concede ai difensori della sua causa”».

Il  10 ottobre 1926  Fratel Engelbert fu beatificato insieme agli altri dieci martiri del monastero di San Paolo. Il 10 luglio è giorno di commemorazione nell'arcidiocesi di Salisburgo. Nel 1986 fu elevato a secondo  patrono parrocchiale  della sua parrocchia natale Zell am Ziller.

Preghiera al Beato Engelbert Kolland “Abouna Malak” – “Padre Angelo”
Pieno dello spirito di San Francesco,
sei andato in Terra Santa.
Lì hai proclamato la fede e hai versato il tuo sangue per Cristo.
Aiutami ad avere il mio cuore pieno di amore per Cristo
affinché io possa vivere nella potenza della fede
come testimone del Vangelo nella vita di ogni giorno.
Prega il Signore per noi, affinché nella sua chiesa
si risveglino molte vocazioni, al sacerdozio e alla vita religiosa
per l'istituzione di sante famiglie e
nella ricerca dell’amore cristiano nella vita di ogni giorno.
Accendi nei credenti attraverso la tua intercessione
lo spirito missionario che ti ha ispirato,
lo zelo per l'apostolato e la disponibilità generosa
alla devozione amorosa. Amen
Imprimatur dell'Arcivescovo Ordinario di Salisburgo, dall'8 aprile 2011


Nicanor Ascanio Soria: la vocazione al martirio



Tra gli undici martiri di Damasco che saranno canonizzati il prossimo 20 ottobre a Piazza San Pietro, figura fra Nicanor Ascanio Soria: appartenente alla Diocesi di Madrid, spese la maggior parte della sua vita in Spagna. Il Signore lo chiamò al martirio a solo un anno dal suo arrivo in Terra Santa.

La desamortización

Nicanor nacque nel 1814 in un villaggio vicino Madrid, a Villarejo de Salvanés. Educato in un ambiente di fede molto conservatore, a 16 anni vestì l’abito francescano nel convento di Santa Maria de La Salceda, in Alcarria, nella Provincia religiosa dei Frati Minori Osservanti di Castiglia.

"Il suo percorso di vita conventuale fu interrotto dalla esclaustrazione imposta dalle leggi di 'desamortización' di Mendizábal nel 1835 – racconta fra Ulise Zarza, vice postulatore e membro del Comitato di preparazione delle celebrazioni per la canonizzazione dei Martiri  –, ovvero il complesso fenomeno di azioni legali contro la Chiesa, con conseguenze disastrose per gli ordini religiosi, molti dei quali vennero soppressi.  Ecco perché fra Nicanor fu ordinato sacerdote nel clero diocesano".

La vocazione al martirio

La disponibilità al martirio fu una nota costante della sua spiritualità.

Durante la sua lunga attività di parroco, fu nominato cappellano del monastero delle Monache concezioniste di Aranjuez. Qui Nicanor ebbe l’opportunità di incontrare nel 1858 la Serva di Dio Suor Maria de los Dolores y Patrocinio, favorita da doni mistici e nota per aver realizzato la fondazione di vari monasteri con un certo spirito di riforma.

Raccontano le fonti – spiega fra Ulise – che mentre un giorno celebrava la messa all'altare della Beata Vergine d'Olvido, della cui Sacra Immagine Miracolosa era devotissimo, sentì improvvisamente vivo l’impulso ad andare in Terra Santa per dare lì la sua vita. Per sapere se quella era davvero una vocazione autentica, andò a visitare la venerata madre Patrocinio: la risposta fu che 'la sua ispirazione veniva dal Cielo'".

La "conducta de los mártires"

Quando migliorarono le condizioni politiche del paese, fra Nicanor chiese al Commissario della Obra Pía di Madrid di potersi incorporare al Collegio di Priego - dove venivano accolte le vocazioni missionarie per la Terra Santa. Il 25 gennaio 1859 salpò da Valencia con il vapore Barcino, con 14 religiosi tra cui i tre confratelli Nicolás Maria Alberca, Pedro Soler e Juan Jacob Fernández, anch’essi tra i martiri di Damasco. L'imbarcazione, che fu definita “conducta de los mártires”, ovvero “condotta dei martiri”, raggiunse Giaffa il 19 febbraio.

«Pronto a tutto, anche a morire»

In Terra Santa, Fra Nicanor venne destinato al convento di Damasco per studiare l’arabo.

Pochi giorni prima di sacrificare la propria vita il Custode di Terra Santa gli notificava una nuova obbedienza: lasciare Damasco per servire con la sua opera nella parrocchia di San Salvatore a Gerusalemme. Stava per assumere il suo incarico quando in Siria cominciarono i moti contro i cristiani e scoppiò la persecuzione a Damasco.

"La sua 'disponibilità' al martirio ‒ continua fra Ulise ‒ è nota anche da una lettera indirizzata al Custode di Terra Santa, perché decidesse egli stesso per lui. La sua disposizione d’animo era infatti quella di obbedire prontamente al superiore maggiore, essendo pronto a tutto, anche a morire. La risposta del Padre Custode lo invitava ad attenersi a quanto stabilito dal suo superiore diretto, ma a tenersi pronto a partire da Damasco una volta che le condizioni lo avrebbero permesso".

Fra Nicanor si trattenne dunque a Damasco, dove trovò compimento il suo desiderio di martirio, all’età di 46 anni.  "Le fonti e i testimoni raccontano che la notte del 9 luglio 1860 ‒ racconta fra Ulise ‒  quando i persecutori entrarono nel convento gli chiesero di abbracciare la religione musulmana, e lui rispose con fermezza: 'No! Sono cristiano! Se volete potete uccidermi'. Un aguzzino gli conficcò un pugnale al collo e così diede testimonianza della sua fede cristiana".

Ciò avvenne nel corridoio superiore meridionale del convento, dove Dio gli donò la corona del martirio, insieme al suo superiore e ad altri sei religiosi francescani.


Nicolás María Alberca Torres

Sacerdote del Collegio Missionario di Priego (Cuenca), dei Minori Osservanti (1830-1860)

Nato nel 1830 ad Aguilar de la Frontera, Córdoba (Spagna).

Già religioso tra i Fratelli dell’ospedale Jesús Nazareno di Cordoba, fu accolto tra i Frati Minori nel 1856 e ordinato sacerdote nel 1858.

Chiamato alla vita missionaria, giunse in Terra Santa nel 1859 e fu destinato al convento di Damasco per l’apprendimento della lingua araba.


Pedro Nolasco Soler Méndez

Sacerdote del Collegio Missionario di Priego (Cuenca), dei Minori Osservanti (1827-1860)


Nato nel 1827 a Lorca, Murcia (Spagna).

Dopo alcune esperienze lavorative, nel 1856, a 29 anni, fu accolto tra i Frati Minori e fu ordinato sacerdote nel 1857.

L’anno successivo inoltrò richiesta per la missione della Custodia di Terra Santa, dove giunse il 20 febbraio 1859. Destinato al convento di San Paolo a Damasco, vi trascorse poco più di un anno prima di subire il martirio.



Francisco Pinazo Peñalver

Religioso professo della Provincia di San Francesco di Valencia, dei Minori Osservanti (1802-1860)

Nato nel 1802 nel villaggio di El Chopo di Alpuente, Valencia (Spagna).

Fu ammesso al noviziato dei Frati Minori nel 1831. Come fratello laico svolse l’ufficio di sagrestano fino al 1835, anno della soppressione degli ordini religiosi in Spagna. Per poter riabbracciare la vita comunitaria optò per la Custodia di Terra Santa, dove giunse nell’ottobre 1843.

Per circa 17 anni esercitò le mansioni di cuoco e di sarto in vari conventi. Nel convento di Damasco, al momento del martirio fungeva da sacrestano.



Juan Jacob Fernández

Religioso professo della Provincia di San Giacomo di Compostella, dei Minori Osservanti (1808-1860)

Nato nel 1808 nella località di Moire, Ourense (Spagna).

Nel 1831 entrò come fratello laico tra i Frati Minori.

La soppressione degli ordini religiosi, nel 1835, interruppe per alcuni anni la sua esperienza di vita conventuale. Nel 1858 chiese di essere associato alla Custodia Terra Santa. Nel 1859 prese stanza nel convento di Damasco in qualità di cuoco.


https://www.custodia.org/it/verso-il-20-ottobre-la-canonizzazione-dei-martiri-di-damasco


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martedì 15 ottobre 2024

Verso il 20 ottobre: la canonizzazione dei Martiri di Damasco (1° parte)

I santi martiri di Damasco – otto frati francescani della Custodia di Terra Santa e tre laici maroniti - sono rappresentati come un’unica fraternità riunita intorno all’Eucaristia.  In basso, ripresa fedelmente da antiche fotografie ottocentesche, è riprodotta la città di Damasco, luogo del martirio e comunità su cui i santi martiri esercitano la loro speciale protezione. A destra, accanto a Ruiz, sono rappresentati san Carmelo Bolta e, in ginocchio san Pedro Soler, uno dei frati più giovani della comunità. Il primo era vicario della comunità e mostra la croce di Gerusalemme, simbolo della della Custodia di Terra Santa. A sinistra della composizione si trovano i tre santi fratelli Massabki: san Francesco mostra lo stemma del patriarcato cattolico Maronita, san Mooti tiene un rampo di palma, simbolo del martirio, e san Raffele, il più giovane dei tre, tiene le mani giunte, a ricordo del suo amore alla preghiera. A corona di queste figure, sono rappresentati gli altri cinque santi martiri francescani. A ciascuno di loro si è cercato di attribuire sembianze il più possibile vicine alla loro reale fisionomia, riferendosi ai ritratti autentici pervenuti alla postulazione, o alle immagini di culto realizzate dopo la beatificazione e consolidate nell’immaginario popolare.



Dal sito della Custodia di Terra Santa riprendiamo le notizie relative alla prossima canonizzazione dei Santi Martiri di Damasco, a cui affidiamo il presente momento drammatico per tutto il Medio Oriente e in particolare il futuro della amata Siria nell'oscuro disegno di destabilizzazione e ulteriore sofferenza per il popolo siriano  delle potenze del mondo ed infernali ...
Pubblicheremo dal sito della Custodia, che ringraziamo sentitamente, giorno per giorno alcune brevi biografie del Santi che saranno canonizzati, come occasione unica di conoscenza di un tratto di storia poco conosciuta della presenza cristiana a Damasco nel 1800, affinchè siano “un segno di speranza per tutta la Chiesa in Siria".
Il Custode di Terra Santa 
Fra Patton ha messo in evidenza la presenza congiunta, nel gruppo dei martiri, di frati minori e di fedeli laici:
“Sia un esempio di come bisogna collaborare tra i diversi riti all’interno della Chiesa cattolica e tra le diverse Chiese, per far conoscere Gesù Cristo e custodire la presenza cristiana in Siria, piccola ma estremamente significativa e importante”.

OraproSiria


I vostri nomi sono scritti nei cieli

L’Ordine dei Frati Minori e la Custodia di Terra Santa, insieme alla Chiesa maronita, si stanno preparando a un evento molto importante: il prossimo 20 ottobre verranno dichiarati santi gli undici "Martiri di Damasco", otto frati francescani e tre laici maroniti uccisi in odio alla fede a Damasco in Siria, nella notte tra il 9 e 10 luglio 1860.

Il contesto storico

L’evento martiriale si colloca nel contesto di persecuzione contro i cristiani ad opera dei Drusi sciiti, che a partire dalla primavera 1860 si allargò dal Libano alla Siria. Il 9 luglio 1860 la folla fanatica dei persecutori invase il popoloso quartiere cristiano di Damasco, che contava circa 3.800 abitazioni, e si abbandonò ad ogni sorta di violenza, dopo aver chiuso tutte le vie di fuga. Quella stessa notte, un commando di rivoltosi, animato da odio religioso, riuscì a penetrare nel convento francescano di San Paolo attraverso una porta nascosta indicata da un traditore: qui furono barbaramente trucidati otto frati minori – sette di nazionalità spagnola e uno di nazionalità austriaca – e tre cristiani laici maroniti

Da subito, fu evidente a tutti che si trattava di una morte martiriale: alle undici vittime, infatti, prima di infliggere i colpi mortali, gli aggressori chiesero di rinunziare alla fede cristiana e di abbracciare l’Islam, invito che fu decisamente rifiutato. Furono beatificati da Pio XI nel 1926.


Gli eroici testimoni della fede:


Il martirio si colloca nel contesto della persecuzione contro i cristiani ad opera dei Drusi sciiti, che dal Libano si era allargato fino alla Siria e che provocò migliaia di vittime. Nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1860, un commando druso entrò nel convento francescano nel quartiere cristiano di Bab-Touma, e massacrò otto frati - Manuel Ruiz, Carmelo Bolta, Nicanor Ascanio, Nicolás M. Alberca y Torres, Pedro Soler, Engelbert Kolland, Francisco Pinazo Peñalver y Juan Jacobo Fernández - e tre cristiani di rito maronita, i fratelli Massabki. Si trattò con chiarezza di martirio: alle undici vittime, infatti, prima di ucciderle, gli aggressori chiesero di rinunciare alla fede cristiana e abbracciare l’islam, invito che fu decisamente rifiutato.  Tra l’altro, i tre fratelli maroniti erano anche terziari francescani. Nel convento francescano di Bab-Touma, dove è avvenuto il martirio si conservano le reliquie dei beati.

Manuel Ruiz López

Sacerdote professo della Provincia dell’Immacolata Concezione, dei Minori Scalzi o Alcantarini (1804-1860)

Nato nel 1804 a San Martín de las Ollas, Burgos (Spagna), ed entrato nel 1825 tra i Frati Minori, fu ordinato sacerdote nel 1830.

L’anno successivo fu inviato in Terra Santa dove, dopo aver appreso le lingue locali, svolse un fecondo apostolato. Nel 1847 fu costretto a tornare in Europa per motivi di salute, ma ritornò in Terra Santa nel 1858. La notte dell’eccidio, appena i rivoltosi penetrarono nel convento, corse in chiesa per consumare le Specie Eucaristiche, in modo che non fossero profanate. Fu ucciso ai piedi dell’altare.




Fra Carmelo Bolta Bañuls:al servizio in Terra Santa per 29 anni

Sacerdote professo della Provincia di San Francesco di Valencia, dei Minori Osservanti (1803-1860)

 Nato nel 1803 a Real de Gandía, Valencia (Spagna).

Nel 1825 fu accolto tra i Frati Minori e nel 1829 fu ordinato sacerdote. Nel 1831 partì alla volta della Terra Santa dove risiedette nei conventi di Giaffa, Damasco ed Ein Karem, nel Santuario della Visitazione. Nel 1851 fu trasferito a Damasco con l’incarico di parroco e insegnante di lingua araba.

Era uno dei più anziani, tra quelli che trovarono la morte nel convento di San Paolo a Damasco a causa del violento attacco contro i cristiani, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1860.

Fra Carmelo Bolta Bañuls aveva 58 anni: parroco per i latini, insegnava l’arabo ai giovani missionari e si trovava nel convento quando entrarono i persecutori Drusi.

Carmelo Bolta Bañuls era nato in un piccolo villaggio spagnolo, Real de Gandía (Valencia) il 29 maggio 1803. Cresciuto in una famiglia di sana tradizione religiosa, da giovanissimo fu fortemente affascinato dai racconti di suo zio materno, il francescano Padre Isidoro Bañuls, di rientro dalla missione in Terra Santa. 

«Le fonti a nostra disposizione – sottolinea fra Ulise Zarza, Vice postulatore e membro, insieme a fra Rodrigo Machado Soares e fra Narciso Klimas, del Comitato di preparazione delle celebrazioni per la canonizzazione dei Martiri  – raccontano che fu dallo zio che Pascual, come si chiamava prima della sua professione religiosa, ebbe notizia dei santuari di Gerusalemme, di Betlemme, di Nazaret e del modo che avevano i frati di solennizzare il Natale e la Pasqua in questi luoghi». 

Ammesso al noviziato del Real Convento di San Francesco di Valencia dei Minori Osservanti, divenne frate minore e fu ordinato sacerdote nel 1829: una volta ottenuto dai Superiori il permesso di recarsi nelle missioni di Terra Santa, si imbarcò, insieme a Padre Manuel Ruiz, il 20 luglio 1831 alla volta di Giaffa, dove giunse il 3 agosto 1831.

«Sappiamo che era un uomo colto, cordiale e affabile nei modi, ma di salute cagionevole – continua fra Ulise –. È per questo che dovette dimettersi dopo pochi mesi dall’incarico di Superiore dell’ospizio di Giaffa perché il clima nuoceva alla sua salute». Durante la sua permanenza in Terra Santa Padre Carmelo, che padroneggiava le lingue orientali, si dedicò per lo più all’insegnamento ai confratelli religiosi che si preparavano al sacerdozio a Gerusalemme.

Fu guardiano a Damasco per tre anni (1843-1845) e successivamente, dal 1845 al 1851 fu parroco ad Ain-Karem, al Santuario della Visitazione. Nel mese di settembre 1851 fece ritorno a Damasco come parroco ed insegnante di lingua araba ai giovani sacerdoti: nel suo incarico, alla fine degli anni Cinquanta, fu affiancato da Padre Engelbert Kolland, anch’egli martire. 

«Nel caso di Padre Carmelo abbiamo un testimone de visu del suo martirio – spiega Fra Ulise –. Si tratta di Naame Massabki, figlio di Mooti, uno dei tre martiri maroniti. Naame all’epoca dei fatti era un ragazzo, e si era nascosto in un angolo della chiesa al momento dell’irruzione dei drusi all’interno del convento».

«È lui che ci parla degli ultimi istanti della vita del religioso: percosso fortemente dai suoi aguzzini, essi lo minacciarono di morte se non avesse abbracciato l’Islam. Le ultime parole di Carmelo furono: “Giammai, perché Gesù Cristo dice: Non temete quelli che uccidono il corpo, ma quello che può uccidere corpo ed anima e mandarli all’inferno”. Ecco, questa è una cosa che accomuna Padre Carmelo e Fra Manuel Ruiz a tutti gli altri martiri: perché nella loro storia c'è un momento puntuale in cui accolgono quella grazia: la grazia del martirio». 

 Oggi Carmelo Bolta è titolare dalla omonima Cofradía di Real di Gandía, che annualmente ne celebra la festa pubblica. A lui sono dedicate la piazza della chiesa parrocchiale di Real di Gandía e anche alcune istituzioni civili: la sua casa natale, le scuole pubbliche primarie e la Cooperativa Agricola Valenciana.

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domenica 13 ottobre 2024

Secondo il 'piano decisivo' di Smotrich, la terra d'Israele sarà veramente dal mare al fiume

 

Ha destato scalpore in questi giorni la dichiarazione del ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich che in una intervista afferma “è scritto che il futuro di Gerusalemme è espandersi fino a Damasco” e di volere uno 'stato ebraico che si estenda alla Palestina, alla Siria, all'Iraq, al Libano, alla Giordania, all'Egitto e all'Arabia Saudita'. Per documentare che tali affermazioni sono veritieri intenti e non pour-parler usciti in una intervista, alleghiamo qui sotto una prima parte della meritevole traduzione fatta dalla Rivista Terrasanta del cosiddetto «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza, reso pubblico nel 2017 dall'attuale ministro Bezalel Smotrich, esponente dell'estrema destra religiosa sionista. Non c'è spazio alcuno per uno Stato di Palestina, dicono chiaro e tondo Smotrich e i suoi. Per la traduzione completa del testo, rimandiamo alla rivista Terrasanta stessa che si è assunta l'incarico di tradurre e pubblicare il testo completo del 'Piano'.

Da parte della nostra amica Maria Antonietta Carta, profonda conoscitrice della realtà del Medio Oriente che ha vissuto per oltre tre decenni in Siria, questa è la considerazione suscitata dalla lettura del testo:

L’apogeo dell’ipocrisia anglosionista o soltanto la soluzione finale perfetta per il popolo palestinese? Oppure l’arroganza e la prepotenza di un ‘’Piccolo Israele’’ dall’appetito pantagruelico, giunto al suo cupo crepuscolo senza poter diventare ‘’il Grande Israele’’?

Il piano Una speranza del ministro Bezalel Smotrich, condito con il perverso uso politico della religione ebraica, può di primo acchito suscitare una risata ironica, considerazioni sull’impiego distorto del pensiero di figure degne come Einstein o del mito di Sisifo, sulle interpretazioni menzognere della storia o su quale alta meta può raggiungere la stupidità umana. In realtà, riflettendoci anche soltanto un po’, il ‘’piano’’ di questo figuro balordo risulta pericoloso nella sua esagerazione, proprio perché a una lettura ingenua, magari pilotata da giornalisti e analisti occidentali diciamo, eufemisticamente, confusi, potrebbe apparire soltanto la visione di un fanatico sconsiderato e non quel disegno sionista che si persegue da oltre un secolo. Purtroppo, per anni abbiamo assistito o ancora assistiamo alle guerre devastatrici e spietate, e all’assedio economico, contro le popolazioni dei Paesi arabi resistenti alle mire espansionistiche di Israele e condotte dai suoi patrocinatori, interessati a disgregare e razziare quell’immensa regione omogenea dal punto di vista geografico e culturale, importantissima via terrestre di comunicazione e dei commerci tra Oriente e Occidente, ricchissima di fonti energetiche e di altre preziose materie prime. Tutti i drammatici eventi che hanno interessato o interessano Afghanistan, Gaza, Iran, Libano, Siria, Libia etc. ne sono testimonianza. 

Maria Antonietta Carta

 

DA TERRASANTA 5/2024 - DOCUMENTI 

Il piano Una speranza, di Bezalel Smotrich

Nel settembre 2017, quando presentò questo suo «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza [anche traducibile con: Un’unica speranza], l’avvocato Bezalel Smotrich era già parlamentare e ricopriva la carica di vicepresidente della Knesset. Allora come oggi militava nell’area del sionismo religioso (all’estrema destra dell’agone politico israeliano). Nel sesto governo Netanyahu, insediatosi a fine 2022, è ministro delle Finanze (con un piede anche nel ministero della Difesa), oltre che leader di una delle forze della coalizione di maggioranza: il Partito religioso nazionale – Sionismo religioso, che nel 2023 ha raccolto il testimone di una precedente formazione politica.
Traduciamo il piano Smotrich a titolo di documentazione per i nostri lettori. Come si vedrà, all’epoca della sua stesura l’uomo politico non dedicava molta attenzione alla Striscia di Gaza. Dopo gli eccidi del 7 ottobre 2023 e il loro tragico seguito non pochi nel suo campo politico sono per un ritorno stabile degli ebrei israeliani in quel territorio. Lui si tiene sul vago, ma carezza l’idea di un’emigrazione massiccia dei gazesi.


Ecco il testo del Piano: 

«La follia», recita una famosa citazione, spesso attribuita ad Albert Einstein, «è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Nella realtà politica odierna, sembra che la follia sia all’ordine del giorno. La sinistra israeliana ripete continuamente soluzioni «semplici e sicure» per porre fine al conflitto arabo-israeliano; e sempre più spesso assistiamo al fallimento di queste soluzioni e alla loro inutilità. Non fare nulla garantisce semplicemente l’eterna continuazione di questi tentativi, pieni di false speranze e illusioni. I tempi sono maturi per dire «basta», per rompere il paradigma e per trovare una via d’uscita adeguata a questo ciclo apparentemente senza fine.

La base della mia proposta è un cambiamento di centottanta gradi rispetto al modus operandi a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni. Ripensare richiede coraggio, ma pare che non abbiamo scelta. La maggior parte, se non tutti i piani politici avanzati negli ultimi anni, sia da sinistra che da destra, forniscono “soluzioni” che perpetuano il conflitto, condannandoci tutti a continuare la sua miserabile gestione per i prossimi cent’anni. Il piano decisivo qui proposto, invece, prevede una soluzione reale, e soprattutto possibile e pratica, per porre fine al conflitto e portare una vera pace.

Ciò che distingue questo piano dagli altri è che «prende il toro per le corna», affrontando la radice del conflitto e il fallimento, passato e presente (e futuro), delle “soluzioni politiche”. Non fa differenza dove i pianificatori traccino i confini proposti, anche se provengono dalla cosiddetta destra (Sharon e Olmert avevano le loro mappe; forse anche Bibi ne ha una). La pace non sorgerà finché manterremo la nostra posizione di partenza secondo cui questa terra è destinata a contenere due collettività con aspirazioni nazionali contrastanti. Se così fosse, i nostri nipoti e i nostri pronipoti saranno inevitabilmente destinati a vivere di spada.

Nelle pagine che seguono, delineerò il mio “piano decisivo”, che ho chiamato Una speranza. Si tratta di una soluzione globale, ottimista senza essere ingenua, di quelle che non ignorano le difficoltà ma che sono accompagnate da una vera fede. Fede nel Dio d’Israele, nella giustezza della nostra causa e nella nostra esclusiva appartenenza alla Terra d’Israele; fede nella nostra forza di resistere agli argomenti che potrebbero minare la nostra convinzione; fede nella nostra capacità di mettere in campo l’eroismo necessario per vincere questa lotta epocale.

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All’inizio è necessario fare un po’ di attenzione.

Sono un credente. Credo nel Santo, Benedetto Egli sia, nel Suo amore per il Popolo ebraico e nella Sua Provvidenza su di esso. Credo nella Torah che ha predetto l’esilio e promesso la redenzione. Credo nelle parole dei profeti che hanno assistito alla distruzione e, non di meno, nella nuova costruzione che ha preso forma sotto i nostri occhi. Credo che lo Stato di Israele sia l’inizio della nostra redenzione, il compimento delle profezie della Torah e delle visioni dei Profeti.

Credo nel legame vivo tra il Popolo d’Israele e la Terra d’Israele; nel destino e nella missione del Popolo ebraico per il mondo intero e nella importanza vitale della Terra d’Israele nel rendere certa la realizzazione di questa causa. Credo che non sia un caso che la Terra d’Israele stia fiorendo sulla scia del ritorno degli ebrei, dopo tante generazioni di totale abbandono.

Credo che l’anelito di generazioni per questa terra e la fiducia nel nostro ritorno finale siano le forze trainanti più profonde del percorso del Ritorno a Sion che ha portato alla creazione dello Stato di Israele.

Tuttavia, il documento che vi viene presentato non contiene nulla che sia basato sulla fede. Non si tratta di un manifesto religioso, ma di un documento realistico, geopolitico e strategico. Si basa su un’analisi della realtà e delle sue cause profonde, e si fonda su presupposti fattuali, storici, democratici, di sicurezza e politici. Elementi che ci conducono a una soluzione che, a mio giudizio, ha le più realistiche possibilità di successo, sicuramente maggiori delle altre soluzioni proposte quotidianamente.

Questo documento è un documento pragmatico, ma si colloca agevolmente entro la mia visione del mondo basata sulla fede. Coloro che lo desiderano possono considerarlo nient’altro che una soluzione pratica e politica; gli altri sono invitati a vederlo come un incontro tra fede e realismo, visione e realtà.

Il contesto (Background) ....

sabato 12 ottobre 2024

A dieci anni dal rapimento, il vescovo Hanna Jallouf è pastore vicino al suo gregge

In quanto vescovo dei cattolici di rito latino in Siria, il francescano Hanna Jallouf conosce molto bene la situazione nel governatorato di Idlib, l'ultima roccaforte dei ribelli, dove ha svolto il ruolo di pastore per 22 anni fino alla sua nomina a vescovo nel settembre 2023. In una conversazione con una delegazione di ACS, racconta le sfide per i cristiani rimasti lì.
 

Di Sina Hartert /acninternational.org

Dei circa 10.000 cristiani che vivevano nel governatorato di Idlib prima della guerra, oggi ce ne sono solo circa 650, principalmente anziani nelle aree rurali", ha detto il vescovo Hanna Jallouf a una delegazione in visita di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACN) a Damasco. "Dopo che gli estremisti hanno preso il controllo della zona nei primi anni di guerra, la maggior parte dei cristiani è fuggita a causa delle difficili condizioni di vita". 

Per secoli, il governatorato di Idlib, al confine con la Turchia, è stato popolato prevalentemente da cristiani, ma durante la guerra è diventato la roccaforte dei ribelli antigovernativi, e lo è rimasto fino a oggi. Durante la guerra, iniziata nel 2011, padre Jallouf è rimasto con la sua gente. Il 5 ottobre 2014, il francescano, che all'epoca era parroco della città siriana di Knayeh, è ​​stato rapito dai combattenti del Fronte al-Nusra, insieme a circa 20 membri della parrocchia, e tenuto prigioniero per cinque giorni. 

Dieci anni dopo, è Vicario Apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino in tutta la Siria. "Papa Francesco probabilmente mi ha nominato vescovo perché conosco molto bene la situazione qui", dice il vescovo Jallouf, che è il primo siriano a essere nominato a questo incarico. "Come sacerdote in una parrocchia ero in contatto con i gruppi ribelli e ho sempre avuto a che fare con loro, per tutta la durata della guerra. E continuo a farlo". 

Il rispetto dei ribelli in un paese in cui il nord-ovest è ancora controllato dalle milizie islamiste è molto significativo. La vita cristiana lì è molto limitata. Secondo il vescovo, ai cristiani è proibito svolgere pratiche religiose fuori dalla chiesa o esporre simboli religiosi come statue e croci. 

Con l'escalation della guerra, tutti gli insegnanti cristiani sono stati rimossi dai loro incarichi, il che ha portato molte famiglie cristiane a ritirare i loro figli da scuola. "Ora insegnano ai loro figli a casa, per evitare l'apparenza di un raduno scolastico cristiano", ha detto il vescovo ad ACN. Il vescovo ha inoltre spiegato che per i loro esami finali i bambini devono viaggiare in altri governatorati come Aleppo e Hama, a un costo esorbitante di circa 3.000 dollari a persona per trasporto e alloggio. 

Anche in altre parti della Siria, la presenza cristiana è seriamente minacciata. Molte famiglie cristiane hanno lasciato il paese per cercare una vita migliore in Europa, Canada e Australia. Tredici anni di guerra, un'inflazione estremamente elevata e una povertà estrema hanno lasciato il paese esausto. Le stime suggeriscono che il 90 percento della popolazione siriana vive al di sotto della soglia di povertà. Ad Aleppo e Hassakeh l'emigrazione è così alta che, secondo una fonte locale, entro il 2050 non ci sarà più una comunità cristiana funzionante. 

Il vescovo Jallouf afferma che come sacerdote era un “semplice pastore” e spiega che vuole rimanere vicino alla gente come vescovo. Una delle sue priorità sin dalla sua nomina è stata quella di visitare tutte le parrocchie di rito latino, le congregazioni e le istituzioni cattoliche del paese, per conoscere direttamente le esigenze locali. 

Il vescovo afferma di essere soddisfatto della partnership con ACN. Quest'estate l'ente benefico internazionale ha reso possibile la partecipazione di oltre 1.500 bambini e giovani di rito latino ai campi estivi e, dopo il devastante terremoto del 2023 nella Siria settentrionale, ACN ha contribuito a ricostruire una chiesa e 50 case per famiglie cristiane di rito latino a Idlib. Ha inoltre sostenuto progetti di soccorso di emergenza come "Pasti a domicilio" per gli anziani che non avevano nessuno che si prendesse cura di loro. 

“Sono passati dieci anni dal mio rapimento e speriamo che gli ultimi dieci anni non si ripetano. Perdoniamo, ma non dimentichiamo, è ciò che Cristo ci ha insegnato”, ha detto il vescovo. “In questi giorni prego Dio per la compassione, il perdono e la liberazione dalla guerra e per il ripristino della pace, dell'armonia, della stabilità e della ricchezza in questo paese ferito. Speriamo che, con l'intercessione della Beata Vergine Maria, dei nostri fedeli martiri e di tutti i santi, possa tornare a essere un paese di amore, rispetto, perdono e coesistenza tra le varie comunità e religioni”.

mercoledì 9 ottobre 2024

Seymour Hersh: I miei incontri con Nasrallah

Un soldato di Hezbollah durante la campagna militare in Siria contro i miliziani di Al Nusra saluta la statua di Gesù.  Fu grazie all'impegno degli Hezbollah che molti villaggi cristiani del Qalamoun siriano furono liberati dai takfiri fanatici.
 

da Mondialisation.ca, 2 ottobre 2024 - di Seymour Hersh

Traduzione di Maria Antonietta Carta 

Il leader di Hezbollah assassinato aveva una visione per il suo Paese

Nel 2005, Bush truccò le elezioni irachene per garantire che i sunniti avessero la maggioranza dei voti. Le schede elettorali, non certo vuote, erano state stampate negli Stati Uniti e trasportate con un aereo in Iraq.

Devo ammettere che Hassan Nasrallah mi era piaciuto. Avevo avuto alcune lunghe conversazioni con lui, iniziate nell'inverno del 2003 pochi mesi dopo l’invasione americana dell’Iraq voluta da George W. Bush e Dick Cheney due anni prima, dopo l’11 settembre, anche se l’Iraq era governato dal laico Saddam Hussein, che non aveva alcun legame con al-Qaeda.

Lavoravo per il New Yorker e mi interessava la guerra al terrorismo. Ciò mi aveva condotto a Berlino, quella primavera, per una colazione sull’ 11 settembre con August Hanning, capo dei servizi segreti tedeschi. Non furono necessari i preliminari: Hanning e io sapevamo che avremo parlato solo di questioni sostanziali.

A un certo punto, interrogai Hanning sulla strana relazione, di cui ero venuto a conoscenza, tra l’ex primo ministro Ehud Barak, che durante la sua brillante carriera militare era stato comandante del Sayeret Matkal, l’unità di commando più segreta di Israele, e lo sceikh Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, la milizia sciita con sede nel sud del Libano. C’era stato uno scambio di prigionieri tra Israele e Hezbollah, che ha avuto luogo dopo numerose conversazioni tra Nasrallah e Barak, che si era rifiutato di restituire uno dei prigionieri. I colloqui di Nasrallah con Israele attraverso Hanning continarono con Ariel Sharon, che sostituì Barak come primo ministro nel 2001. Si trattava di una notizia sbalorditiva. Sharon aveva guidato l’attacco israeliano al Libano nel 1982, svolgendo un ruolo chiave nel famigerato massacro di due campi profughi palestinesi in quel Paese. Nasrallah e lui formavano un duetto molto strano.

Non presi appunti durante quella colazione, ma fu Nasrallah a interessarmi maggiormente. Avevo amici a Beirut, che conoscevano i dirigenti di Hezbollah, e riuscii a organizzare un incontro. Non ricordo dove si svolse il primo incontro, ma le condizioni della sicurezza non erano molto buone, come scrissi in seguito nel New Yorker dopo la feroce guerra del 2006 senza vincitori tra Israele e Hezbollah. In quel primo incontro c’era stato un semplice controllo di sicurezza: la mia giacca fu perquisita e il mio vecchio registratore aperto ed esaminato velocemente.

Nasrallah era un uomo paffuto e gradevole, nel suo abito religioso. Gli chiesi, attraverso un interprete, se si considerava un terrorista o un combattente per la libertà nelle sue incessanti schermaglie al confine con Israele. Mi disse che il suo esercito aveva attaccato i soldati israeliani lungo il confine e lo avrebbe fatto di nuovo in caso di guerra. Mi sorprese aggiungendo che, se gli Israeliani e i Palestinesi che vivevano sotto l’occupazione israeliana fossero stati in grado di ottenere pieni diritti e concludere un accordo di pace degno di questo nome, egli avrebbe naturalmente onorato quell' accordo. Furono serviti tè e biscotti, e lui aveva insistito che li prendessimo, spingendo il vassoio verso di me. In sintesi, la discussione si limitò all’esposizione del suo punto di vista sulla guerra americana in Iraq. Nasrallah predisse che la rapida vittoria degli Americani sarebbe stata seguita da anni di guerra dura e che l’esercito iracheno smantellato si sarebbe alleato con l’opposizione tribale e politica. Aveva proprio ragione.

Incontrai Nasrallah una seconda volta qualche settimana prima delle elezioni parlamentari in Iraq, il 30 gennaio 2005. Quelle furono le prime elezioni generali dopo che gli USA rovesciarono Saddam e, come ho riferito in seguito, l’amministrazione Bush si adoperava in tutti i modi per truccare le elezioni e garantire che i candidati sunniti favoriti dalla Casa Bianca ottenessero la maggioranza dei voti. Un amico dei servizi segreti statunitensi mi informò che le schede elettorali solo presuntamente vuote, erano state stampate negli Stati Uniti e trasportate con un aereo in Iraq.

Nasrallah era divertito per la stupidità di Washington, che aveva inviato diplomatici e altri funzionari in Iraq che non conoscevano bene il Paese e non parlavano l’arabo. Mi disse che l’America non aveva idea di come tenere le elezioni e sembrava credere che il partito vincente avesse bisogno della maggioranza del 50% o più. Poi mi spiegò che il partito vincitore sarebbe stato sciita e avrebbe ottenuto il 48,1% dei voti. “Gli Americani, mi disse, non sanno come organizzare un’elezione qui”. (La trascrizione del testo di questa intervista insieme alle altre interviste con Nasrallah sono conservate in 95 cartelle dei miei documenti e non possono essere visualizzate su due piedi). Le elezioni furono vinte dallo sciita Ibrahim al-Jaafari con il 48,19% dei voti.

Le elezioni erano state per lo più boicottate dagli arabi sunniti e in una circoscrizione sunnita chiave votò solo il 2% degli iscritti. La comunità sunnita aveva chiaramente capito che le elezioni sarebbero state truccate, a differenza della comunità diplomatica e militare statunitense. Il giorno delle elezioni ci furono almeno 44 morti nei pressi dei seggi elettorali. Avevo scritto un libro in cui sostenevo che Jack Kennedy aveva truccato un'elezione a Chicago, ma non avrei mai pensato di chiedere a Nasrallah come avrebbe vinto al-Jaafari. Egli fu in grado di prevedere il punteggio entro un decimo di punto.

La mia ultima visita a Nasrallah avvenne nel dicembre 2006, mesi dopo che Hezbollah aveva combattuto un Israele sbigottito in una guerra brutale. (Il fallimento di quella battaglia contribuì a preparare Israele per il giorno in cui il suo primo ministro, come ha fatto la scorsa settimana, avrebbe chiamato a un assalto massiccio.)

Nasrallah era in clandestinità dalla fine della guerra del 2006. Presi un taxi per il luogo dell’incontro nel sud di Beirut, dove vivono molti sciiti e dove un collaboratore di Hezbollah mi condusse fino a un parcheggio. Lì, fui perquisito con uno scanner portatile, messo sul retro di una berlina scura con finestre bloccate, condotto verso altri due o tre parcheggi, cambiando auto ogni volta, e infine al parcheggio di un moderno condominio. Fu più interessante che allarmante e non collegai immediatamente l’ipersicurezza alla guerra con Israele. Una volta nel parcheggio giusto, fui scortato fino a un ascensore che mi trasportò direttamente all'ultimo livello di quello che sembrava essere un edificio di 12 piani. Compresi che il successo di Hezbollah nella sua lotta contro Israele lo aveva reso un eroe per gli sciiti e i sunniti. Nasrallah respinse un assistente che voleva sottomettermi a una perquisizione completa del corpo. Mi sorpresi per le misure di sicurezza e gli chiesi: “Cosa sta succedendo, cazzo?”, ma in termini più educati. Mi spiegò che la guerra dell’estate era iniziata quando aveva ordinato il rapimento di due soldati israeliani durante un raid transfrontaliero. Era stato un errore. “Volevamo solo catturarli per uno scambio di prigionieri, mi disse, non abbiamo mai voluto trascinare la regione in guerra”.

Quando riprendemmo la conversazione, intorno a tè e biscotti, Nasrallah, chiaramente irritato, accusò il presidente Bush per il suo obiettivo di “fare una nuova mappa della regione” dividendo il Medio Oriente, dove molte religioni convivono pacificamente da molto tempo, in due Stati separati: uno sunnita e l’altro sciita. “Tra uno o due anni ci saranno aree totalmente sunnite e altre completamente sciite e completamente curde. Anche a Baghdad c’è la preoccupazione che la città sarà divisa in due aree, sunnita e sciita”.

Pochi mesi dopo, in un lungo articolo, ispirato dalla mia intervista a Nasrallah, una testimonianza poco conosciuta del Congresso e colloqui a Washington e in Medio Oriente sulla decisione dell’amministrazione Bush di “riconfigurare le sue priorità in Medio Oriente”, scrivevo: “In Libano l’amministrazione ha collaborato con il governo saudita, amministrato dai sunniti, nelle operazioni segrete per indebolire Hezbollah, l’organizzazione sciita sostenuta dall’Iran. Gli Stati Uniti hanno anche partecipato a operazioni segrete contro l’Iran e il suo alleato, la Siria. Queste attività hanno rafforzato i gruppi estremisti sunniti che aderiscono a una visione militante dell’Islam, sono ostili all’America e simpatizzano con Al Qaeda”.

Il segretario di Stato Condoleezza Rice, uno dei leader della nuova politica estera degli Stati Uniti, parlò alla Commissione Affari Esteri del Senato di “un nuovo allineamento strategico in Medio Oriente, che avrebbe separato i riformatori dagli estremisti”. La maggior parte dei sunniti veniva situata al centro della corrente moderata, mentre l'Iran sciita, Hezbollah, la Siria sunnita e Hamas stavano dall'altra parte. Qualunque cosa si possa pensare dell’analisi della Rice, un cambiamento nella politica ebbe luogo e alla fine portò l’Arabia Saudita e Israele sull’orlo di una nuova alleanza strategica attraverso gli accordi di Abramo. Entrambe le nazioni consideravano minacce esistenziali l’Iran e Hezbollah. I Sauditi, scrissi all’epoca, credevano che una maggiore stabilità in Israele e Palestina avrebbe ridotto l’influenza dell’Iran nella regione.

Questo articolo fu pubblicato oltre diciassette anni fa. È sorprendente come il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia oggi distrutto quella fragile opportunità di riallineamento politico in Medio Oriente, in particolare con un Iran ora guidato da un presidente moderato e lungimirante che potrebbe presto essere nella lista degli obiettivi di Netanyahu.

Non sapremo mai se Nasrallah, nato in Libano, che mi disse più di una volta che era determinato a coinvolgere Hezbollah nella vita politica, economica e sociale del suo Paese, sarebbe riuscito a farlo. La prospettiva attuale, con un Israele nel mezzo di un’offensiva terrestre e aerea, sembra molto cupa e mortale.

Seymour Hersh

https://www.mondialisation.ca/mes-rencontres-avec-nasrallah-seymour-hersh/5692796?doing_wp_cron=1728483821.7733230590820312500000

martedì 8 ottobre 2024

Veglia Di Preghiera 7 Ottobre 2024: riflessione di S.B. il Cardinal Pizzaballa

 

Efesini 2:14-17 

Cari fratelli e sorelle, 

il Signore vi dia pace! 

Siamo qui riuniti al termine di una giornata di preghiera, digiuno e penitenza, al termine di uno degli anni più difficili e dolorosi degli ultimi tempi. 

Quest'anno abbiamo gridato il nostro orrore per i crimini commessi, a partire dagli eventi del 7 ottobre di un anno fa, nel sud di Israele, che hanno lasciato una profonda ferita negli israeliani fino ad oggi. Abbiamo inoltre alzato la voce contro la reazione di aggressione, distruzione, fame, sofferenza e morte. 

Stiamo assistendo a un livello di violenza senza precedenti nelle parole e nelle azioni. L’odio, il dolore e la rabbia sembrano essersi impadroniti dei nostri cuori, non lasciando spazio ad altri sentimenti se non al rifiuto dell'altro e della sua sofferenza. 

Nel corso di quest'anno, abbiamo espresso in ogni forma possibile la nostra solidarietà e il nostro sostegno alla comunità di Gaza e a tutti i suoi abitanti.  

Abbiamo cercato di essere una voce che condanna con forza e chiarezza tutta questa violenza che non farà altro che provocare un circolo vizioso di vendetta che genererà altra violenza. 

Abbiamo ribadito la nostra convinzione che la violenza, l’aggressione e le guerre non creeranno mai pace e sicurezza. Abbiamo ripetuto incessantemente che ciò di cui abbiamo bisogno è invece il coraggio di pronunciare parole che aprano orizzonti e non il contrario, di costruire il futuro invece di negarlo. Abbiamo bisogno del coraggio di scendere a compromessi, di rinunciare a qualcosa, se necessario, per un bene più grande, che è la pace. Non dobbiamo mai confondere la pace con la vittoria! 

Abbiamo sottolineato la necessità di costruire un futuro comune per questa terra, basato sulla giustizia e sulla dignità di tutti i suoi abitanti, a partire dal popolo palestinese, che non può più attendere il suo diritto all’indipendenza, troppo a lungo rimandato. 

Abbiamo affermato la necessità di fare e dire la verità nelle nostre relazioni, di avere il coraggio di pronunciare parole di giustizia e di aprire prospettive di pace. 

Ciò che è accaduto e sta accadendo a Gaza ci lascia attoniti e al di là di ogni comprensione. 

Da un lato la diplomazia, la politica, le istituzioni multilaterali e la comunità internazionale hanno mostrato tutta la loro debolezza, dall'altro ci siamo sentiti sostenuti: 

Il Santo Padre ha ripetutamente invitato tutte le parti coinvolte a fermare questa deriva, ma ha anche espresso solidarietà umana alla nostra comunità di Gaza in modi concreti e ha anche dato loro un sostegno concreto.   Proprio oggi ha inviato una lettera a tutti i cattolici di questa regione, esprimendo la sua vicinanza a tutti coloro che in vari modi soffrono le conseguenze di questa guerra, in modo particolare ai nostri fratelli e sorelle di Gaza, e incoraggiandoci a diventare “testimoni della forza di una pace non armata”, ad essere “germogli di speranza”, e “a testimoniare l’amore mentre si parla d’odio, l’incontro mentre dilaga lo scontro, l’unità mentre tutto volge alla contrapposizione”. Grazie, Santo Padre! 

Abbiamo ricevuto tante forme di solidarietà anche da parte dell'intera comunità cristiana nei confronti della nostra Chiesa. La solidarietà umana e cristiana ha trovato forme di espressione di vicinanza che sono state una consolazione importante per noi. Non siamo mai stati lasciati soli con preghiere, espressioni di solidarietà e anche aiuti concreti. 

Tuttavia, in un contesto così drammatico, ammettiamolo: quest'anno ha messo a dura prova la nostra fede. Non è facile vivere nella fede in questi tempi duri. 

Le parole ‘speranza’, ‘pace’, ‘convivenza’ ci sembrano teoriche e lontane dalla realtà. Forse anche la preghiera ci è sembrata a volte un obbligo morale da assolvere, ma non il luogo da cui attingere forza nella sofferenza, uno sguardo diverso sul mondo, non uno spazio di incontro privilegiato con Dio, per trovare conforto e consolazione. Credo che questi siano pensieri umani inevitabili. 

Ma è proprio qui che la nostra fede cristiana deve trovare un’espressione visibile. 

Siamo chiamati a pensare oltre i calcoli di breve respiro, non possiamo fermarci solo alle riflessioni umane, che ci intrappolano nel nostro dolore, senza aprire prospettive. Siamo chiamati a leggere queste sfide alla luce della Parola di Dio, una Parola che accompagna e allarga il nostro cuore. 

E dobbiamo continuare a farlo. 

Non è forse questa la nostra principale missione come Chiesa? Non solo saper dire una parola di verità sul tempo presente, ma anche vedere e mostrare un mondo che va oltre il presente e le sue dinamiche; fornire un linguaggio che possa creare un mondo nuovo che non è ancora visibile, ma che si sta manifestando all'orizzonte? Proporre uno stile di vita in questo conflitto che renda già possibile tra noi ciò che speriamo nel futuro? 

La speranza cristiana non è l'attesa di un mondo che verrà, ma la realizzazione, nella pazienza e nella misericordia, di ciò che crediamo nella fede e su cui basiamo il nostro cammino umano - nelle nostre relazioni, nelle nostre comunità, nella nostra vita personale. 

“Così egli... (venne) a creare in sé, dei due, un uomo nuovo, facendo la pace” (Ef 2,15). 

Questo nostro tempo è in attesa di vedere l’uomo nuovo che in Cristo ognuno di noi è diventato.  In questo tempo pieno di odio, l'uomo nuovo in Cristo è un esempio vivente di compassione, umiltà, mitezza, magnanimità e perdono (cfr. Col 3,12-13). 

Se non siamo così, se non crediamo nella potenza della risurrezione di Cristo con cui siamo salvati, come ci distingueremo da tutti gli altri? Quale può essere il nostro contributo di credenti in Cristo se non siamo capaci di credere che il male non ha l’ultima parola in questo mondo e che la pace è possibile?   Se le nostre azioni nel mondo non sono visibilmente caratterizzate dalla certezza che nulla potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo? (cfr. Rm 8,39). 

In questo tempo in cui la violenza sembra essere l’unico linguaggio, continueremo a parlare e a credere nel perdono e nella riconciliazione. In questo tempo pieno di dolore, vogliamo e continueremo a usare parole di consolazione e a dare conforto concreto e incessante laddove il dolore cresce. 

Anche se dobbiamo ricominciare ogni giorno, anche se possiamo essere visti come irrilevanti e inutili, continueremo a essere fedeli all'amore che ci ha conquistati e a essere persone nuove in Cristo, qui a Gerusalemme, in Terra Santa e ovunque ci troviamo. 

Per questo siamo qui oggi. Per questo digiuniamo e preghiamo. Per purificare i nostri cuori, per rinnovare in noi il desiderio di prosperità e di pace con la forza della preghiera e dell'incontro con Cristo, e per credere che queste non sono solo parole, ma vita vissuta. Anche qui, in Terra Santa. 

La Beata Vergine del Rosario interceda per noi e ci aiuti a rendere il nostro cuore docile all'ascolto della Parola di Dio e ad aprirci per essere sempre e ovunque persone nuove in Cristo e coraggiosi testimoni di pace. Perché “ogni dono perfetto viene dall'alto, dal Padre della luce” (Gc 1, 17). Amen. 

+Pierbattista

https://www.lpj.org/it/news/prayer-vigil-october-7-2024-brief-reflection-by-hb-cardinal