"Cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità." (Papa Francesco)
L'Osservatore Romano, 18 giugno 2021
Il Medio Oriente è una regione critica dal punto di vista delle migrazioni e la sua importanza è significativa perché, al tempo stesso, è meta e luogo di origine di un gran numero di migranti e rifugiati. Questi ultimi sono cresciuti enormemente negli ultimi decenni passando dai quasi quattordici milioni del 1990 ai poco più di quarantatré milioni del 2017, il diciassette per cento del totale globale di rifugiati e migranti.Le drammatiche vicende che hanno riguardato la Palestina, la guerra civile in Libano, in Iraq, e più di recente il conflitto in Siria hanno costretto milioni di persone a lasciare le proprie case ed a cercare rifugio altrove. Più di sei milioni e mezzo di siriani hanno lasciato il proprio Paese dal 2011 ed altri sei milioni e mezzo hanno dovuto spostarsi in un’altra regione della nazione. La grande maggioranza dei rifugiati, circa cinque milioni e mezzo, ha trovato rifugio nei Paesi vicini tra i quali ci sono Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Il novantadue per cento di costoro vive in ambienti rurali oppure urbani mentre appena il cinque per cento vive nei campi profughi. La povertà, però, li colpisce tutti indistintamente dato che più del settanta per cento dei rifugiati siriani vive in povertà, con un accesso limitato ai servizi di base ed all’educazione.
I governi della Giordania e del Libano hanno dovuto gestire un massiccio afflusso di rifugiati siriani proprio quando le risorse interne si sono trovate in una fase calante. Gli esecutivi, in assenza di una soluzione regionale per risolvere la crisi e temendo una lunga permanenza dei rifugiati, hanno reagito con il paradigma della non integrazione e tentando di far tornare i rifugiati al Paese di origine anche limitando l’accesso di costoro ai servizi e minandone i diritti. I confini, in precedenza aperti, sono stati posti sotto stretto controllo oppure chiusi. Queste restrizioni, però, si sono rivelate inefficaci ed hanno facilitato il traffico di esseri umani. I rifugiati siriani in Libano sono arrivati a vendere, a causa della disperazione, parti del proprio corpo nell’ambito del traffico di organi per riuscire a sostentare se stessi e le proprie famiglie.
La triste condizione dei siriani non appare troppo dissimile da quella dei rifugiati palestinesi, che hanno perso quello che avevano a causa del conflitto Arabo—Israeliano del 1948. I rifugiati palestinesi vivono perlopiù a Gaza, in Cisgiordania, in Libano ed in Giordania. Quattrocentocinquantamila palestinesi vivono da generazioni nei dodici campi che si trovano in Libano, dove il sovraffollamento e le infrastrutture disastrate hanno creato condizioni di vita poco sicure.
Negli altri quarantasei campi sparpagliati tra Gaza, Giordania e Cisgiordania vivono invece un milione di palestinesi che, qualora il Paese ospitante si trovi ad affrontare una crisi, vengono deprivati per mesi dei servizi essenziali come l’elettricità. La nazione che ha ricevuto il numero più ampio di rifugiati palestinesi in seguito alla guerra del 1948 è la Giordania. Qui ai rifugiati si sono uniti quei Palestinesi cacciati dalla Cisgiordania dopo il 1967 ed entrambi i gruppi costituiscono il quarantaquattro per cento della popolazione giordana. In Giordania la maggior parte dei rifugiati palestinesi ha la cittadinanza anche se quei pochi che non la posseggono, provenienti da Gaza o dalla Siria, sono trattati come residenti provvisori e non dispongono della maggior parte dei diritti e dei servizi. In Libano, invece, le condizioni dei rifugiati palestinesi sono estremamente precarie e la legislazione ne vieta l’accesso all’impiego ed ai servizi governativi.
In Siria i palestinesi venivano trattati come i cittadini siriani ma il conflitto ne ha compromesso la sicurezza e li ha spinti a cercare rifugio nei Paesi vicini e all’estero. In Palestina, infine, i rifugiati devono fare i conti con i limiti alla libertà di movimento e con un’economia derelitta. I Palestinesi in Libano non sono mai stati riconosciuti come meritevoli di pieni diritti dal governo locale anche per il ruolo giocato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nell’ambito della Guerra Civile Libanese. La pandemia, se possibile, ha reso le cose ancora più difficili anche se molte persone, come la maggior parte dei residenti del campo di Burj Barajneh, che si trova a sud di Beirut, deve affrontare problemi esistenziali ben più gravi della possibilità di essere infettati dal coronavirus. Molti fanno affidamento sulle donazioni di cibo da parte delle organizzazioni ed anche il latte è diventato un alimento di lusso e non possono contare sull’economia del Libano, già in crisi e devastata dall’esplosione al porto di Beirut nell’agosto del 2020.
campo profughi palestinese di Burj al-Barajneh |
La situazione in Iraq è particolarmente preoccupante e coinvolge più di nove milioni di cittadini che sono diventati migranti interni o rifugiati all’estero. Il dramma è stato provocato dalla guerre e dai problemi economici che, sin dai primi anni Ottanta, coinvolgono la nazione mediorientale. L’invasione americana del 2003 ed i successivi combattimenti contro lo Stato Islamico sono stati fattori aggravanti e l’impatto sulle comunità locali è stato significativo. Artisti, ingegneri, avvocati e medici sono stati tra i primi a fuggire e questa migrazione ha provocato il collasso delle istituzioni culturali irachene e della classe media. L’Iraq ha visto il più alto numero di rifugiati ed il più alto tasso di persone disperse degli ultimi anni e questo fenomeno non si è ancora interrotto. I rifugiati iracheni sono sull’orlo del collasso nervoso ed attendono che l’incubo che stanno vivendo possa avere fine. Il grosso dei combattimenti è ormai terminato ma le conseguenze degli scontri sono ancora presenti e dovranno essere affrontate in breve tempo se si vorrà porre fine a questa grave emergenza umanitaria.
In Yemen, dopo sei anni di conflitto catastrofico, milioni di persone non riescono a procurarsi il cibo necessario per sopravvivere ed il Paese è diventato oggetto della più grande crisi umanitaria mondiale. Quattro milioni di persone sono diventate rifugiate, loro malgrado, all’interno della propria nazione ed un milione tra loro vive in campi dove regna la disorganizzazione e dove non vengono soddisfatte nemmeno le necessità di base. Venti milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari, dodici di loro in maniera urgente ed il collasso dell’economia è stato esacerbato dal Covid-19. Otto persone su dieci vivono sotto la soglia di povertà ed un bambino, ogni dieci minuti, muore per una malattia che in altri tempi sarebbe stata curabile.
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