Quasi un
mese fa sono arrivata in queste regioni orientali, per Qara e Damasco
in Siria, con un senso di missione e un sentimento vero che ciò
rispondeva a quello a cui il Signore mi invita, specialmente durante
le mie preghiere.
Sono
arrivata tranquilla, fiduciosa, forse piena di informazioni o
piuttosto molto carente di informazioni. Erano immagini e resoconti
di distruzione e persone in fuga, disperate.
Un Paese
bombardato, minato, con morti atroci e una guerra che potremmo non
comprendere (le guerre possono avere qualche giustificazione?), ma
che è percepita non come una guerra civile ma come un ignobile
palcoscenico di interessi internazionali.
È vero, ho trovato
distruzione, intorno a Qara nei villaggi più piccoli, nei borghi
cristiani e nella periferia della capitale, che hanno sofferto
l'occupazione che ha portato alla fuga forzata di centinaia di
migliaia e a morti brutali.
Tutti
mostrano il bisogno di parlare, di sentirsi ascoltati, ma non piace
che registri o faccia foto. Io stessa non sento questo desiderio e
provo rispetto per la sofferenza che appare sui volti e vi è
impressa in modo dolente e molto presente.
Ho trovato,
tuttavia, come non avrei osato supporre, devo dire, gente ricca di
speranza, in un modo molto forte, determinata a Vivere, perché anche
se non capisco la lingua e le conversazioni mi rendo conto che non
c'è, in generale, alcuna propensione a parlare della guerra.
Tuttavia, dopo un primo contatto, sia i pazienti che gli operatori mi
raccontano di così tante perdite, della sofferenza ... di tempo e
ancora più tempo mobilitati per il servizio militare, e della vita
differita, con sogni perduti.
Sono racconti di Vita e sopportazione
in cui vedo accettazione, ma non rassegnazione.
Con tutte la
difficoltà della lingua, posso però prestare attenzione ad ogni
espressione non verbale, allo sguardo, alle mani, al modo in cui mi
restituiscono lo sguardo e infine un intuire e uno stare che mi
permettono un po' di capire, aiutata dalla conoscenza che alcuni
hanno della lingua francese o inglese.
Impressiona
questa realtà in cui tutte, ma proprio tutte le persone hanno
perdite di parenti e il constatare anche il gran numero di bambini e
di giovani con cancro, forse in relazione a queste circostanze in cui
sono nati e vivono ...
Nella grande
città, la vita sembra "normale", qualunque cosa ciò possa
significare, c'è tutto il traffico e il movimento delle persone con
le borse della spesa. Ma ne abbiamo davvero parlato, del loro bisogno
di "credere" che si torna alla normalità, che possono
andare dal parrucchiere o prendere un gelato nella solita piazza. E
oltre a questo, sono anche stanchi di essere "maltrattati"
nelle notizie, questi che sono rimasti sono i resistenti, che amano
il loro paese o non hanno nemmeno avuto condizioni sicure per
andarsene. Restano anche quelli molto poveri.
Quello che
posso dire del mio tempo qui è che mi sento accolta, faccio e mi
restituiscono lo sforzo nella comunicazione, e incontro una realtà
culturale; per esempio, nel numero di familiari che accompagnano il
loro malato, in ogni momento, che può essere anche 6 o 8 persone; o
ad esempio le famiglie dei pazienti di cui mi sto occupando esagerano
i semplici ringraziamenti che devo accettare sotto pena che si
sentano "offese" con il mio rifiuto.
Descrivere
come le relazioni e le interazioni con i malati e i familiari si
sviluppano, con una cultura così differente, non è possibile,
perché la presenza, il sorriso, lo sguardo e il tocco sono più che
"parole" e dominano. Queste conversazioni/relazioni hanno
superato ogni aspettativa che avessi potuto avere.
Questo
periodo ha risvegliato in me una forte crescita emotiva e spirituale. Anche il silenzio che mantengo in una parte considerevole di ciascuna
delle mie giornate, facilita un'attenzione al vissuto e alle forti
suggestioni che mi porta emotivamente.
Un grande
abbraccio
São
(FINE)
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