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mercoledì 4 dicembre 2024

“In Siria gli islamisti avanzano”: la testimonianza di padre Firas Lutfi di Hama

fonte:  Agenzia DIRE 4 dicembre 2024 

Hama, la mia città natale, è il cuore della Siria; l’esercito si è posizionato in periferia, pronto a difenderla; noi preghiamo anche per le famiglie e i bambini che frequentano il Centro di cura francescano, aperto a tutti, cristiani e musulmani”. Con l’agenzia Dire parla padre Firas Lutfi, frate minore per molti anni ad Aleppo, ora guardiano e parroco di Damasco.

“TUTTI DEVONO PASSARE PER HAMA”

L’intervista, al telefono dalla capitale, si tiene mentre arrivano notizie su un’ulteriore avanzata dei ribelli di Hayat Tahrir al-Sham (Hts). “Una formazione islamista”, dice padre Lutfi, “che ha ottenuto finanziamento e addestramento da potenze straniere e che ora vuole prendere una città snodo nevralgico a livello nazionale”.
Hama si trova a circa 130 chilometri a sud di Aleppo, occupata dai ribelli venerdì scorso, e a circa 180 a nord di Damasco, base del governo del presidente Bashar Al Assad. “Tutti devono passare da questa città o dalla vicina Homs“, evidenzia padre Lutfi, “che vogliano raggiungere le regioni settentrionali o quelle meridionali, andare verso est o verso la costa”.
Il frate conosce tutte queste strade. Per 14 anni ha vissuto ad Aleppo, “prima, durante e dopo l’occupazione da parte dei jihadisti”, sottolinea, in riferimento al periodo della guerra civile divampata sull’onda delle “primavere arabe”: quello che va dall’ingresso dei ribelli, nel 2012, fino alla riconquista da parte delle forze governative, nel 2016.

PAURA PER IL CENTRO DI CURA FRANCESCANO DI HAMA, “SPAZIO PER TUTTI”

“Ora sono molto preoccupato” confida padre Lutfi. “Aleppo è caduta in meno di 24 ore, senza che ci fosse alcuna resistenza, nemmeno presso i commissariati di polizia o i centri dell’intelligence”.
Non c’è però solo la seconda città della Siria, al centro dei combattimenti sin dall’inizio del conflitto nel 2011. I ribelli avanzano ora verso sud. “Con i confratelli ad Hama abbiamo creato un Centro di cura francescano, che è gestito da una piccola parrocchia siro-cattolica” riferisce padre Lutfi. “E’ uno spazio aperto a tutti, cristiani e non, dove sono accolti i bambini e le famiglie che hanno subito traumi, anche psicologici, come nel caso dei minori costretti a imbracciare armi”.
L’idea ispiratrice era quella di aprirsi “un’oasi di pace” in un tempo che purtroppo è di guerra. “Il Centro ha una supervisione francescana da Aleppo e conta poi sul lavoro quotidiano di esperti e psicologi del posto, originari di Hama” sottolinea padre Lutfi. Che si sofferma sulle tante anime della comunità cristiana: “C’è una parrocchia siro-cattolica e poi due siro-ortodosse e greco-ortodosse, mentre nella vicina città di Homs restano i padri gesuiti”.

AD ALEPPO LA “RESISTENZA” DEI FRANCESCANI

C’è chi è restato anche ad Aleppo, occupata da Hayat Tahrir al-Sham. “I confratelli del Collegio francescano, quello colpito da un bombardamento nel fine-settimana, si chiamano Samhar Isaak e Bassam Zaza” riferisce padre Lutfi: “Ci sentiamo ogni giorno e stanno bene, anche se non hanno dimenticato lo shock del bombardamento, che la distrutto la loro abitazione e pure la panetteria, dove c’era tanta farina da distribuire ai poveri costretti a casa dal coprifuoco”.
Flashback di qualche anno fa. “Pure quando vivevo lì il Collegio fu centrato da un missile” ricorda padre Lutfi: “Perse la vita una donna anziana, René Salem, che aveva 94 anni e che da sei era nostra ospite”.

La violenza è tornata o forse non è mai finita. E in tanti sostengono che in Siria, con il ruolo della Russia in favore del governo o della Turchia a supporto di forze ribelli, si combatta in realtà parte di quella “guerra mondiale a pezzi” tante volte denunciata da papa Francesco. “Il Paese è ostaggio di un gioco politico internazionale” dice padre Lutfi. “Tutti, le potenze della regione ma non solo, vogliono prendere posizione”.
La tesi del francescano è che questa sia anche una guerra “per procura”, combattuta da “soci” di altri. “La Siria ha diviso il mondo e il mondo ha lacerato la Siria, proprio come accade per la Striscia di Gaza o per l’Ucraina” denuncia padre Lutfi. “Le milizie islamiste sono state addestrate e sostenute e oggi hanno a disposizione armi sofisticate”. 

Una deriva conseguenza anche di tanti errori, compresi quelli di Assad. “Nessun governo al mondo è angelico, democratico al cento per cento e immune agli sbagli” dice padre Lutfi. “Quando prese il potere il presidente promise di combattere la corruzione: oggi ci chiediamo se nel nome di questa lotta o magari nel nome della democrazia sia giusto armare milizie e distruggere il patrimonio della Siria, storicamente culla e ponte del dialogo tra Oriente e Occidente?”


di Robi Ronza - 4 dicembre 2024

.... Fino al 2011 la Siria era relativamente un Paese stabile, non povero e con assetto politico accettabile finché gli Stati Uniti di Obama colsero l’occasione dei moti della “primavera araba” per montare un’insurrezione che scoperchiò il vaso di Pandora di movimenti islamisti che il regime di Assad fino ad allora aveva tenuto a bada. Queste forze travolsero rapidamente le esigue élite urbane che avevano animato la “primavera araba” puntando ad abbattere il regime «laico» di Assad e ad installare al suo posto un regime appunto islamista. Fu l’inizio di una guerra più che mai disastrosa costata sin qui, secondo fonti dell’Onu, oltre 570 mila morti, 2 milioni e 800 mila feriti tra cui moli mutilati e invalidi, 6 milioni di rifugiati all’estero e un numero difficilmente calcolabile di milioni di sfollati interni su una popolazione che era di circa 19 milioni di abitanti.

Personalmente mi auguro che Obama e i suoi non si rendessero conto di che cosa stavano provocando quando, invece di aiutare le élite urbane a disagio ad aprire con pazienza spazi di democrazia nel loro Paese, le spinsero a far precipitare la situazione (e un discorso simile si può fare con riguardo alla Libia). In casi del genere ci si dovrebbe sempre domandare se mirando a far cadere un regime non si finisca per aprire la via a qualcosa di peggiore. Nel mondo arabo l’autoritarismo è la regola e la democrazia è l’eccezione. Quindi caduto un regime autoritario di regola ne sorge un altro, e non una democrazia.
In Siria Assad ha poi retto il colpo e il suo regime non è crollato, ma ciononostante non si è voluto porre termine alla guerra, ma solo per così dire congelarla; e adesso si è scongelata. All’occupazione islamista di Aleppo hanno fatto seguito i bombardamenti russi sulla città. Gli aerei provenienti dalla base che Mosca ha nei pressi di Latakia (l’antica Laodicea di cui si parla anche nell’Apocalisse) mirando agli occupanti islamisti hanno ovviamente colpito anche obiettivi civili.

Dal convento di Aleppo dei francescani della Custodia di Terra Santa, in parte distrutto dalle bombe russe, l’altro ieri padre Firas Lufti, parroco della comunità cattolica di rito latino, che molti ricorderanno per averlo incontrato e ascoltato negli anni scorsi in occasione di sue visite in Italia, ha inviato un drammatico appello:
«Per favore, parlate di noi. Raccontate della gente di Aleppo che dopo 14 anni di guerra, dopo il dramma del terremoto, in queste ore è sprofondata ancora nella paura. Per il mondo noi non esistiamo più, la Siria è stata dimenticata. Invece quella del nostro popolo è una ferita che continua a sanguinare. Ecco, siamo sotto il Golgota.
L’animo degli aleppini – che ha resistito a tanti anni di conflitto – è ora scosso da una nuova incertezza. Nel giro di pochissime ore, oltre ventimila miliziani islamisti, molti di loro stranieri, hanno preso possesso di Aleppo senza alcun tentativo di difesa da parte dell’esercito governativo siriano. Hanno occupato l’aeroporto, le stazioni di polizia, tutti i centri nevralgici. Così la gente, in preda al panico, ha iniziato a fuggire. Ben presto però le vie di accesso alla città, l’autostrada e la strada vecchia che usavamo anche durante le ore più difficili della guerra, sono state bloccate. Aleppo è ora una prigione dalla quale non si può più uscire. Né entrare.
Il popolo è confuso, stretto tra due versioni della storia: quella del Governo, che dice di aver lasciato fare per evitare un bagno di sangue tra i civili, e quella dei miliziani jihadisti, che hanno bussato alle case dei civili gridando di essere venuti a liberarli. «Ma da cosa? Ora la paura è quella di sprofondare invece in un altro orrore. Per quanto tempo ancora potremo suonare le campane? Per quanto tempo potremo mostrare il crocifisso o le donne girare senza velo? Questi miliziani saranno più tolleranti di quelli che hanno invaso la città qualche anno fa o hanno solo cambiato strategia? E quale futuro ci sarà per i bambini, per gli anziani, per i più fragili che sono rimasti?».

Anche questa volta la Chiesa è rimasta accanto al popolo attraverso i vescovi, i sacerdoti, i religiosi. Ieri i fedeli cristiani si sono radunati nella parrocchia francescana per la Messa.
Ieri abbiamo celebrato la prima domenica di Avvento, il tempo della speranza. E il pensiero è stato subito all’attesa che domina questa ora buia: quella della pace. Oggi i civili di Aleppo sono davvero chiamati a vivere sulla pelle l’attesa della salvezza. Una salvezza che non può venire dagli uomini o dalla geopolitica. Dio è l’unico che ci viene a salvare, carne della nostra carne, il Dio-con noi. Lui ha promesso che non ci lascerà mai e la speranza nasce solo da questa fede fiduciosa»...-
 «Pregate. La preghiera è l’unica arma che abbiamo, perché pregando anche i cuori più duri possono aprirsi ad atti di carità concreti, a gesti di generosità, trovando vie creative per la pace. Il nostro appello è per tutti i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di coscienza: non dimenticatevi della Siria».

Tutte le grandi potenze coinvolte nella nuova guerra in Siria

 di Gianandrea Gaiani

L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste dell’Esercito Nazionale Siriano (ENS, la formazione delle forze anti-governative), incluse quelle dell’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo note come Fronte al-Nusra e inserite nella rete di al-Qaeda (sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib) va inserita nel più ampio contesto conflittuale che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria e da Israele all’Iran.

I miliziani raccolti intorno al gruppo islamico Hayat Tahrir al-Sham (HTS) con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un'offensiva contro le forze governative conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l'aeroporto militare di Abu Dhuhur, tra Hama e Aleppo, anche se in città sembra siano ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (FDS), impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori caduti nelle mani dei jihadisti.

L’offensiva ha visto coinvolte milizie jihadiste kirghize, uzbeke e di altre nazionalità inclusi i ceceni del gruppo salafita Ajnad al Kavkazgià impegnato nella guerra civile siriana, poi trasferito sul fronte ucraino ed ora rientrati nel nord della Siria. Proprio ai ceceni e forse agli uomini dell’intelligence militare ucraina (GUR) la cui presenza tra i ribelli siriani viene da tempo segnalata da fonti russe, ucraine, turche e curde, si devono alcune modalità tattiche adottate dai ribelli che hanno espanso il più possibile la loro presenza sul territorio utilizzando social e media per tentare di dimostrare la rapida conquista di diverse località.

Per questa operazione sono state di fatto riunite tutte le milizie dell’internazionale del jihad che costituirono la “legione straniera” di al-Qaeda e più tardi dello Stato Islamico, jihadisti che oggi con qualche imbarazzo vengono considerati combattenti legittimi o “ex terroristi” da turchi e occidentali.

Nulla di nuovo a ben guardare: durante la guerra civile che sconvolse la Siria tra il 2012 e il 2020 le milizie dello Stato Islamico ricevettero per un periodo ampio supporto dalla Turchia (dove l’ISIS vendeva il petrolio estratto clandestinamente in Siria e Iraq) mentre molte milizie “moderate” addestrate in territorio turco dai consiglieri militari di Stati Uniti e alcune nazioni europee appena attraversato il confine siriano confluivano nelle milizie qaediste o dell’Isis.

Per Bashar Assad l'offensiva dei ribelli jihadisti filo-turchi nel nord della Siria è un tentativo di "ridisegnare la mappa della regione" mentre il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan (ex capo dell’intelligence di Ankara), ha affermato che le attuali tensioni in Siria non sono dovute all'intervento di Paesi stranieri ma a questioni risalenti alla guerra civile iniziata nel 2011 che non sono ancora state risolte. «Damasco deve trovare un riconciliazione con l'opposizione» e ha sottolineato che la Turchia può aiutare a questo proposito.

Sul piano militare l’esercito siriano è stato costretto a ripiegare poiché indebolito dal ritiro delle milizie libanesi di Hezbollah che fornirono un ampio supporto alle forze di Damasco, ma erano state richiamate in Libano in vista del conflitto con Israele.

L’offensiva jihadista in Siria è stata scatenata, non certo casualmente, subito dopo il cessate il fuoco (più o meno stabile) tra Hezbollah e Israele. Del resto negli ultimi mesi le forze aeree israeliane si erano accanite sulle postazioni e i depositi di armi e munizioni di Hezbollah e dell’esercito siriano intorno alla città di Aleppo. Area distante dal confine israeliano a conferma che lo Stato ebraico ha volutamente indebolito le forze siriane e i suoi alleati in quella regione per favorire l’attacco jihadista.

Anche quella tra qaedisti e israeliani non è certo un’alleanza inedita dal momento che negli anni scorsi molti ribelli salafiti rimasti feriti negli scontri con le truppe siriane nel sud della Siria sono stati curati negli ospedali militari israeliani nelle alture del Golan, territorio siriano che Israele occupa dal 1967. Più sorprendente invece è l’intesa tra Israele e la Turchia, nazione che ha certamente chiuso un occhio sull’afflusso di armi e munizioni che hanno consentito ai miliziani jihadisti di scatenare l’offensiva, inclusi droni FPV e altri equipaggiamenti provenienti con ogni probabilità dagli arsenali ucraini.

Del resto Israele punta sulla caduta del regime di Bashar Assad per interrompere la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna sciita” che unisce Iran, Iraq, Siria e Libano consentendo l’alimentazione di Hezbollah. Allo stesso modo Recep Teyyp Erdogan sembra aver rinunciato a negoziare con Bashar Assad il rientro in Siria di almeno due milioni di profughi siriani da anni ospitati in Turchia, Vladimir Putin si era offerto di mediare la riappacificazione tra i due capi di governo ma la l’attacco jihadista certo non facilita colloqui.

Erdogan potrebbe quindi puntare sia a rimpatriare i profughi nelle aree sotto controllo dei miliziani sia a utilizzare questi territori per ampliare le operazioni militari contro le forze curde, schierate nel nord e nell’est della Siria che fanno parte del Fronte Democratico Siriano sostenuto dagli Stati Uniti i quali però sembrano avere interesse nel sostenere lo sviluppo dell’offensiva jihadista per colpire Assad e gli interessi russi.

Negli ultimi tempi l’amministrazione Biden ha ammorbidito le sue posizioni nei confronti della Turchia aprendo a forniture di armi fino a ieri negate, come i moderni aerei F-16 Viper o forse addirittura gli F-35, accettando quindi che Ankara schieri missili da difesa aerea russi S-400. Un ammorbidimento che Erdogan potrebbe aver compensato sostenendo senza troppo clamore l’offensiva jihadista in Siria o lasciando transitare armi dirette ad alimentarla.

Circa il ruolo degli Stati Uniti l’offensiva jihadista sembra rientrare tra i “colpi di coda” dell’Amministrazione Biden, intenzionata a lasciare in eredità il maggior numero possibile di crisi da gestire. Non è un caso che dopo la vittoria elettorale di Donald Trump sia stato dato il via libera agli ucraini per colpire il territorio russo con i missili balistici ATACMS, siano esplose rivolte anti-governative in Georgia e sia stata scatenata l’offensiva jihadista in Siria.

Peraltro in Siria gli Stati Uniti mantengono una presenza militare di occupazione, illegale per il diritto internazionale. Delle 4 aree che controllano quella meridionale di al-Tanf è a ridosso del confine giordano e permette di proteggere diversi gruppi di ribelli anti-Assad ma le altre tre nella Siria Orientale sono dislocate in prossimità di pozzi petroliferi. Truppe americane che hanno da anni il solo compito di impedire al governo siriano di sfruttare le risorse energetiche per la ricostruzione post-bellica.    

Vale la pena ricordare che nel suo primo mandato Trump si era espresso a favore del ritiro dei militari dalla Siria ma le pressioni del Pentagono bloccarono quell’iniziativa. Nei mesi scorsi però il governo iracheno ha stabilito che le truppe statunitensi e alleate schierate in Iraq dai tempi della guerra allo Stato Islamico dovranno ritirarsi entro settembre 2025. Senza le basi in Iraq non sarà più possibile mantenere quelle in Siria a meno che non vi sia un cambio di regime a Damasco.

Del resto la posizione assunta da Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania appare chiara pur celandosi dietro qualche ambiguità. «L'attuale escalation non fa che sottolineare l'urgente necessità di una soluzione politica del conflitto a guida siriana, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite», si legge in una dichiarazione congiunta rilasciata dal Dipartimento di Stato statunitense, che fa riferimento alla risoluzione Onu del 2015 che approva un processo di pace in Siria e cioè la fine del regime di Bashar Assad. 

Una posizione che sembra mutuata direttamente da quella di Washington, dove il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha detto che «i principali sostenitori del governo siriano - Iran, Russia ed Hezbollah - erano tutti distratti e indeboliti da conflitti ed eventi altrove».

L’Amministrazione Biden non sembra quindi aver perso l’occasione per contribuire alla destabilizzazione anche in questa regione colpendo così gli interessi di Russia e Iran, che però non restano a guardare.

Nella guerra che finora sembra aver provocato meno di 500 vittime le forze aeree russe basate a Latakya sono intervenute fin dalle prime ore dell’offensiva e del resto da settimane i velivoli Sukhoi russi colpivano le milizie jihadiste nella regione di Idlib, forse sospettando imminenti minacce.

Se l’obiettivo di Washington e Kiev era di indurre Mosca a ritirare truppe dall’Ucraina per inviarle in Siria, almeno per ora non sembra essere stato raggiunto. I russi stanno intensificando i raid aerei e forse invieranno altre unità di forze speciali ma la nuova guerra in Siria, al pari dell’attacco ucraino alla regione di Kursk, non sembrano costringere Mosca a ridurre la pressione offensiva sui fronti ucraini.

Il grosso dei rinforzi destinati ad affiancare le truppe siriane sta affluendo dall’Iraq dove le milizie scite di mobilitazione popolare (MUP) sostenute dall'Iran ma integrate nelle forze armate di Baghdad (e già protagoniste della guerra contro l’ISIS) stanno trasferendo molti combattenti oltre il confine, nell’ambito del trattato tra Damasco e Baghdad che impegna entrambi al mutuo soccorsi contro la minaccia terroristica.

Le truppe governative siriane hanno costruito una linea difensiva nel nord della provincia di Hama nel tentativo di bloccare lo slancio offensivo jihadista raccogliendo tutte le forze disponibili. Anche l’Iran potrebbe inviare reparti di pasdaran dopo il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha incontrato domenica a Damasco il presidente Assad annunciando il pieno sostegno di Teheran. Ma di certo la presenza di più truppe iraniane in Siria non sarà gradita a Israele. Anche per questo il conflitto riesploso in Siria rischia di rappresentare l’anello di congiunzione tra la guerra in Ucraina e quella tra Israele e gli alleati dell’Iran.  

Il Cremlino continua a sostenere Assad (anche se ieri si siano diffuse voci di un golpe militare a Damasco) come ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. «Naturalmente continuiamo a sostenere Bashar al Assad», ha detto Peskov: «Continuiamo i nostri contatti ai livelli appropriati e analizziamo la situazione. Sarà valutato quello che è necessario fare per stabilizzare la situazione».

https://lanuovabq.it/it/tutte-le-grandi-potenze-coinvolte-nella-nuova-guerra-in-siria

martedì 3 dicembre 2024

Jacques Mourad, Arcivescovo di Homs: Vogliono far finire la grande storia dei cristiani di Aleppo


Agenzia Fides 3/12/2024

“Siamo veramente stanchi. Siamo veramente sfiniti, e siamo anche finiti, in tutti i sensi”. Le parole di padre Jacques, come sempre, vibrano della sua fede e della sua storia.
Jacques Mourad, monaco della Comunità di Deir Mar Musa, dal 3 marzo 2023 è Arcivescovo siro cattolico di Homs, la città dove continuano a arrivare i profughi in fuga da Aleppo, tornata in mano ai gruppi armati dei “ribelli” jihadisti. Lui ad Aleppo c’è nato, li ha alcuni tra i ricordi e i compagni di destino più cari. Lui, figlio spirituale di padre Paolo Dall’Oglio (il gesuita romano, fondatore della Comunità di Deir Mar Musa, scomparso il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, a quel tempo capitale siriana di Daesh) nel maggio 2015 era stato sequestrato da un commando di jihadisti e aveva vissuto lunghi mesi di prigionia, dapprima in isolamento e poi insieme a più di 150 cristiani di Quaryatayn, presi anche loro in ostaggio nei territori allora conquistati da Daesh. 

Anche per questo padre Jacques sa cosa dice, quando ripete che “non possiamo sopportare tutta questa sofferenza delle genti che arrivano qui distrutte, dopo 25 ore di strada. Assetati, affamati, infreddoliti, senza più niente”. Il racconto che condivide con l'Agenzia Fides è come sempre una testimonianza di fede. Una fede che domanda “perché tutto questo, perché dobbiamo sopportare questa sofferenza”, E intanto si muove con sollecitudine operosa, verso le vite che fuggono da Aleppo di nuovo straziata.

“La situazione a Homs” racconta padre Jacques “è pericolosa. Tanti profughi di Aleppo, anche cristiani, sono arrivati da noi nei primi giorni dopo l’assalto dei gruppi armati, passando per la strada vecchia. Non eravamo pronti per tutto questo, abbiamo fatto subito un incontro tra i Vescovi e abbiamo organizzato due punti di accoglienza con l’aiuto dei Gesuiti e anche contando sulla disponibilità di sostegno espressa da Œuvre d’Orient e da Aiuto alla Chiesa che Soffre. Per aiutare i profughi serve cibo, materassi, coperte e diesel”.

La carità operosa si coniuga con un giudizio lucido e incalzante su quello che sta succedendo. “E’ una sofferenza immensa, i siriani sono sconvolti per quello che è stato fatto. Chi e come ha deciso di fare questa azione dei gruppi armati, quando tutti conosciamo quello che abbiamo visto per anni, quello che accade quando un gruppo armato entra in un paese, e subito la reazione del governo e dei russi è quella di bombardare le città e i villaggi occupati… Perché fanno questo strazio di Aleppo? Perché vogliono distruggere questa città storica, simbolica, importante per tutto il mondo? Perché il popolo siriano deve pagare ancora, dopo 14 anni di sofferenza, di miseria, di morte? Perché siamo così abbandonati in questo mondo, in questa ingiustizia insopportabile?”

L’Arcivescovo di Homs dei siri cattolici non ha remore a chiamare in causa “la responsabilità delle potenze straniere, America, Russia, Europa… Hanno tutti responsabilità diretta di quello che è successo a Aleppo”. Un “crimine” prosegue padre Jacques “che è un pericolo per tutta l’area, per Hama, per la regione di Jazira”, e dove la “responsabilità diretta non ricade solo sul regime o sui gruppi armati ribelli, ma sulla Comunità internazionale”, e sui “giochi politici che tutti stanno facendo in quest’area”.

Padre Jacques, che nella sua diocesi stava lavorando a rilanciare i corsi di catechismo dei bambini e dei ragazzi come punto reale di ripartenza per le comunità cristiane dopo gli anni di dolore della guerra, ha ben presente i sentimenti che ora cominciano a attraversare i cuori di tanti fratelli e sorelle nella fede:

“Dopo l’azione di questi gruppi armati” dice all’Agenzia Fides “i cristiani di Aleppo saranno convinti che non si può rimanere a Aleppo. Che per loro è finita. Che non hanno più una ragione per rimanere. Questa cosa che si sta facendo a Aleppo è per far finire la storia ricca, grande e unica dei cristiani di Aleppo”.

http://www.fides.org/it/news/75751-ASIA_SIRIA_Jacques_Mourad_Arcivescovo_di_Homs_Vogliono_far_finire_la_grande_storia_dei_cristiani_di_Aleppo

sabato 30 novembre 2024

Testimonianza diretta da Aleppo- 30 novembre 2024

 

  di un abitante cristiano e operatore umanitario di Aleppo, che preferisce mantenere l'anonimato

Ecco, noi di Aleppo siamo diventati come Idlib, sotto il regime degli islamisti. Sono ormai dappertutto in città, anche nella cittadella. Nella notte hanno occupato tutti i quartieri di Aleppo, i palazzi governativi, abbandonati poche ore prima dalle istanze governative. Hanno occupato la sede del governatore, del capo della polizia, il tribunale militare, le carceri, e tutti i quartieri. Stamattina sono sulle strade principali. Ai pochi passanti, alle poche auto in giro dicono che non vogliono fare del male a civili, di qualunque religione siano. Si spara ancora e l'aviazione siriana ha iniziato a intervenire con raids sulla città.

 Il governo siriano dice che manderà rinforzi, ma avrebbero dovuto bloccarli prima della loro entrata ad Aleppo; in aperta campagna sarebbe stato facile, con l’aviazione e l’artiglieria, ma in città, con la popolazione, non si può fare. 

Secondo me anche se arriveranno i rinforzi, non li sloggeranno da Aleppo. Non so che cosa accadrà. 

A Idlib al tempo avevano chiesto ai cristiani di evacuare la città in 24 ore… Molte persone stanno fuggendo da Aleppo, non via autostrada che è bloccata, ma per strade secondarie, ci vogliono 11-12 ore per arrivare a Homs vista la quantità di traffico. E’ la stessa che abbiamo utilizzato per anni al tempo della guerra.

Abbiamo interrotto le nostre attività sociali. Non vogliamo andare via - per il momento. Ma non sappiamo cosa accadrà.

giovedì 28 novembre 2024

La Siria sotto attacco: un nuovo capitolo nella guerra delle pianificazioni

 

interpretazioni degli eventi odierni in Aleppo riportate da Vanessa Beeley su Telegram  Autore: Mazen A. Nakkach ricercatore 

Nella grande guerra contro l'Asse della Resistenza, nulla accade per caso. Gli affiliati di Al-Qaeda, guidati da Hayat Tahrir al-Sham, hanno lanciato una significativa offensiva contro le posizioni dell'esercito siriano nei pressi di Aleppo.

La tempistica è calcolata e coincide con una pausa sul fronte libanese meridionale.

Gli obiettivi sono chiari: indebolire la Siria, disperdere l'Asse della Resistenza e imporre nuove dinamiche sul campo di battaglia.

Ma la Siria non è un giocatore passivo in questo gioco. L'Asse della Resistenza comprende queste mosse e ne vede le implicazioni a lungo termine.

In questo post ci chiediamo:

Chi sta orchestrando questa escalation?

Perché Aleppo è l'obiettivo scelto?

Come si inserisce questo nel contesto più ampio della guerra regionale?

Non si tratta di una semplice scaramuccia: è un nuovo capitolo nell'attuale battaglia di progetti.

1 Cosa sta succedendo?

Hayat Tahrir al-Sham, una fazione di al-Qaeda ribattezzata, ha lanciato un attacco su larga scala contro le posizioni dell'esercito siriano nei pressi di Aleppo. Il gruppo ha rapidamente conquistato diverse aree chiave utilizzando tattiche coordinate, supportate da armamenti avanzati. L'esercito siriano ha reagito rapidamente, puntando a riprendere il controllo pur dovendo affrontare dinamiche complesse sul campo di battaglia.

2 Chi c'è dietro questa escalation?

Nessun attacco di questa portata avviene senza un sostegno esterno e un calcolo geopolitico:

Turchia: usa gruppi armati come intermediari per promuovere le proprie ambizioni territoriali nella Siria settentrionale. Cerca di stabilire una zona cuscinetto permanente e di sfruttare i gruppi militanti per ottenere vantaggi politici. Mantiene Hayat Tahrir al-Sham come strumento di contrattazione per i negoziati futuri.

Stati Uniti: pur dichiarando ufficialmente di combattere il terrorismo, gli USA hanno a lungo fatto affidamento sul caos in Siria per indebolire Russia e Iran. Mantiene il controllo sulle risorse della Siria orientale per impedire la ripresa nazionale. Permette che queste offensive servano come pressione indiretta su Damasco.

Israele: sfrutta l'instabilità per indebolire l'asse Siria-Iran-Hezbollah. Utilizza tali distrazioni come copertura per lanciare attacchi aerei su posizioni strategiche. Fa sì che la Siria resti coinvolta in molteplici crisi, distogliendo l'attenzione dal Libano e dalla Palestina.

3 Perché Aleppo?

Aleppo non è una città qualunque: è il simbolo della resilienza della Siria e della sua ripresa da battaglie devastanti. Attaccare Aleppo consente di raggiungere diversi obiettivi strategici: Minaccia la sicurezza di uno dei principali centri urbani della Siria. Costringe l'esercito siriano a estendere eccessivamente le sue difese. Interrompe la fragile ripresa economica che Aleppo rappresenta.

L'importanza della città la rende un obiettivo primario per coloro che mirano a destabilizzare la Siria nel profondo.

4 Perché adesso?

Il tempismo è tutto. Questa escalation coincide con sviluppi regionali critici: Tregua in Libano: dopo i recenti scontri tra Hezbollah e Israele, il fronte siriano diventa un punto di pressione utile per dividere la Resistenza.

Posizione regionale: Turchia e Israele vedono un'opportunità per sfruttare le vulnerabilità della Siria.

Messaggio globale: Questo attacco invia un segnale a Damasco e ai suoi alleati: "La guerra non è finita e i vostri nemici vi stanno ancora guardando".

5 Obiettivi strategici dietro l'attacco

L'obiettivo non è solo militare ma profondamente politico: indebolire la posizione della Siria nell'equilibrio di potere regionale.

Obiettivi regionali: Rafforzare il controllo della Turchia nel nord.

Minare il ruolo della Siria come pilastro fondamentale dell'Asse della Resistenza.

Interrompere il coordinamento tra Siria, Iran e Russia.

Obiettivi globali: Mantenere la Siria in uno stato di conflitto perpetuo, prosciugando le risorse iraniane e russe.

Impedire alla Siria di ricostruirsi come uno Stato sovrano e unito.

6 Cosa succederà dopo? Prevedere la situazione

1 Sviluppi militari: Si prevede che l'esercito siriano riacquisterà il terreno perduto, ma è probabile che attacchi sporadici continueranno a mantenere la pressione.

2 Asse di risposta della resistenza: L'escalation porterà a un maggiore coordinamento tra Damasco, Teheran e Hezbollah, che probabilmente porterà a contromisure più decisive.

3 Ricadute geopolitiche: La Siria userà questo attacco come ulteriore prova del coinvolgimento esterno nell'alimentazione del terrorismo, ottenendo potenzialmente un maggiore sostegno interno e internazionale.

7 Il messaggio alla Resistenza

Ogni battaglia in Siria è parte di una guerra più ampia per indebolire l'Asse della Resistenza. Ma la storia ha dimostrato una cosa: questa guerra è combattuta tanto con resilienza e forza di volontà quanto con le armi. Le trattative con te sono un segno della tua forza. Le escalation nei tuoi confronti rivelano la loro paura. Questa lotta non riguarda solo i confini o le città: riguarda la difesa della dignità, della sovranità e dell'eredità di coloro che si sono sacrificati per la libertà.

Ciò che sta accadendo ad Aleppo è una mossa calcolata nella più ampia guerra contro la Resistenza. Ma come sempre, questi attacchi alla fine rafforzeranno la determinazione della Siria e dei suoi alleati, dimostrando ancora una volta che la Resistenza prospera sotto pressione. La battaglia continua e la dignità prevale.

giovedì 21 novembre 2024

Il martirio: segno di viaggio nella fede – Simposio sui Martiri di Damasco

Nel 1219, San Francesco arrivò ad 'Acri con le Crociate che partivano dal continente europeo verso il Medio Oriente, ma arrivò in spirito d’amore, tolleranza e pace, Si incontrò con il Sultano che governava a quel tempo, cioè il Sultano Al-Kamil, il quale diede a San Francesco il permesso di visitare la Terra Santa e le sue chiese esistenti a quel tempo, e arrivò qui, a Gerusalemme, poi partì da Gerusalemme per Betlemme, e tornò a casa sua ad Assisi. Ma lasciò dietro di sé un piccolo gruppo di frati francescani, i Frati Minori, per stabilire il primo nucleo della presenza francescana in Terra Santa, quel nucleo crebbe, e il loro numero in Terra Santa si aumentò, e da qui, da Gerusalemme partirono verso altre città e anche verso altri paesi, così arrivarono anche in Siria, precisamente a Damasco. Andiamo insieme da qui, da Gerusalemme a Damasco.

Sabato 16 novembre, l’auditorium dell’Immacolata, presso il convento di San Salvatore a Gerusalemme, ha ospitato il simposio dedicato ai martiri di Damasco, canonizzati a Roma il 20 ottobre 2024. 

L’incontro, dal titolo “Il martirio. Segno di viaggio nella fede”, ha offerto l’opportunità di riflettere sul profondo significato del martirio cristiano, alla luce della testimonianza donata dai martiri francescani di Damasco.

I relatori hanno affrontato il tema del martirio da diverse prospettive. Fra Alessandro Coniglio, professore presso lo Studium Bilicum Franciscanum, ha esplorato le radici bibliche del martirio. Fra Ulisse Zarza, vicepostulatore delle cause dei santi della Custodia di Terra Santa, ha approfondito la dimensione ecclesiale del martirio, mentre Fra Narciso Klimas, direttore dell’archivio della Custodia, ha ricostruito il contesto storico che ha portato al martirio dei frati e dei laici maroniti a Damasco nel 1860. Il Custode di Terra Santa, fra Francesco Patton, nel suo contributo ha offerto una riflessione sul significato del martirio nella vita francescana, sottolineando come il dono totale di sé sia un tratto distintivo del seguace di San Francesco. Il Custode ha affermato: “Secondo San Francesco il martirio è l’orizzonte della vita cristiana. Francesco non dice che bisogna confessare di essere religiosi ma confessare di essere cristiani. Il martirio è il dono della vita per testimoniare il proprio amore nei confronti di Gesù, pertanto è l’orizzonte della nostra vita”.

I martiri di Damasco sono stati un grande esempio di fede e di amore per la vocazione francescana. Da qui nasce l’importanza di celebrare e ricordare la loro storia. 

Fr. Marwan Di’Des, membro del comitato organizzatore del simposio, ha sottolineato l’importanza di ricordare i martiri di Damasco oggi: “I martiri di Damasco sono stati martirizzati in una situazione di grande rivolta e caos durante la quale tutto il quartiere cristiano venne saccheggiato. I martiri francescani avevano la possibilità di fuggire, ma rifiutarono, preferendo rimanere accanto alla gente. Questo è stato il servizio dei francescani in Terra Santa. La nostra missione è legata a questi Luoghi e sull’esempio dei martiri di Damasco noi oggi restiamo qui.”. Il simposio nasce pertanto con l’obiettivo di far conoscere la tematica del martirio da una prospettiva cristiana. Conclude fra Marwan: “Il martirio cristiano è  l’immagine di Gesù Cristo che è il martire per eccellenza. Così anche noi cristiani dobbiamo essere fedeli a Dio ed alla nostra fede anche a costo di offrire il nostro  sangue. Non per amore della violenza, ma per amore di Gesù Cristo.

di Lucia Borgato, Custodia Terrae Sanctae

giovedì 14 novembre 2024

Da Guantanamo Bay alla prigione di Gweran (Siria nord-orientale). Decifrazione di un affare oscuro


Un articolo del 2023 e ... ancora oggi novembre 2024 la straziante agonia del popolo siriano continua

René Naba, 20 maggio 2023, Décryptage

Traduzione di Maria Antonietta Carta 

  • Gli Stati Uniti hanno trasferito nel nord-est della Siria lo schema di Guantanamo Bay , affidando il subappalto dei prigionieri dell’ISIS ai Curdi; centri di detenzione senza alcun controllo, nonostante i gravi abusi che vi si stanno consumando e la corruzione delle guardie curde.

  • L’estradizione dei prigionieri dell’ISIS in Turchia durante l’assedio di Baghouz nel marzo 2019 fu il risultato di una transazione finanziaria con le autorità curde nella zona autonoma della Siria nord-orientale.

  • 270 membri dell’ISIS sono riusciti non solo a fuggire dalla prigione, ma anche a raggiungere “aree sicure”, spesso armati di “ordini di missione” con il sigillo dell’autogoverno curdo.

  • La rete di comunicazione istituita all’interno della prigione di Gweran per collegare i prigionieri dell’ISIS al mondo esterno, comprese le comunicazioni cellulari, fu istituita con la tacita connivenza delle forze curde.

  • Le autorità curde de facto della zona autonoma hanno usato il caso della prigione sia per dissuadere Ankara dall’impegnarsi in un’operazione militare contro l’area curda, sia contro gli Stati Uniti per dissuadere Washington dal ritiro dalla Siria nord-orientale.

Il 20 gennaio 2022, lo Stato Islamico (ISIS) lanciava l’assalto alla più grande prigione di jihadisti nel nord della Siria, rilasciando centinaia di suoi veterani sotto il naso e in barba alle forze curde sostenute dai loro alleati americani.

Hassakeh, una città controllata dai Curdi nel nord-est della Siria, durante quattro giorni fu teatro di combattimenti molto violenti tra le Forze democratiche siriane e i combattenti dell’ISIS in seguito all’assalto islamista contro la gigantesca prigione di Gweran, il più grande campo di detenzione di ex jihadisti e delle loro famiglie. 185 persone furono uccise da entrambe le parti. A sostegno delle forze curde, la coalizione guidata dagli Stati Uniti aveva schierato elicotteri da combattimento che bombardarono ammutinati e sacche di resistenza. La minaccia fu “contenuta”, ma centinaia di prigionieri riuscirono a fuggire. Secondo la versione americana, cellule dormienti introdotte tra le guardie carcerarie avevano lanciato l’assalto, insieme ad autobombe, armando i prigionieri dall’interno e innescando quattro giorni di feroci combattimenti.

1- MIT turco dietro la rivolta dei prigionieri dell’ISIS

Lo spettacolare assalto dell’ISIS a una prigione di Hassakeh, in mano ai delegati curdi degli Americani, fu un’eccelente operazione di ‘’fumo mediatico’’ con un duplice scopo:

- Permettere alla Turchia di conquistare nuove porzioni di territorio siriano.

- Giustificare il mantenimento della presenza militare statunitense in quella zona petrolifera della Siria, senza alcuna base legale o giuridica, sostenendo la permeabilità del settore. 

Almeno questa è l'impressione che emerge dalla dichiarazione del signor Noury Mahmoud, portavoce delle YPG (Kurd People's Protection Units) non appena finita l'insurrezione dei prigionieri dell'ISIS. Il signor Noury Mahmoud accusò la Turchia di fomentare questa insurrezione al fine di occupare Hassakeh e altre città della zona per mezzo dei prigionieri dell’ISIS liberati durante l’assalto alla prigione. Egli disse che Il MIT, servizio segreto turco, ‘’avrebbe stanziato la somma di 15 milioni di dollari per il completamento di questa operazione”, aggiungendo che con la riattivazione dell’ISIS la Turchia intendeva rilanciare la minaccia terroristica presso l’opinione occidentale, ancora sensibile sull’argomento, e quindi giustificare il proseguimento dell’occupazione militare statunitense nonostante l’illegalità della sua presenza nel nord-est della Siria.

Sullo sfondo di una prova di forza tra gli Stati Uniti e la Russia e di una guerra psicologica tra i vari protagonisti del conflitto, la drammatica situazione della popolazione è rimasta nascosta, nonostante essa fosse anche peggiore di quella in cui vivevano i prigionieri di Guantanamo. I media si sono limitati a trasmettere le dichiarazioni delle varie organizzazioni siriane; le Nazioni Unite hanno deplorato la tragedia di decine di migliaia di sfollati a causa delle ostilità e l’UNICEF ha espresso la sua preoccupazione per il destino di 700 bambini nei piani superiori della prigione.

2- Un dramma che colpisce 60.000 persone... banalizzato.

Tuttavia, quella tragedia riguardava 60.000 persone (uomini, donne, bambini), stipati in condizioni disumane nei campi di 20 prigioni; ostaggi di un conflitto trattati da alcuni come appestati o usati da altri come pedine in un gioco di negoziati. Con il tempo, quella situazione anomala si è «normalizzata». In altre parole, è diventata banale.

I militari hanno occupato il posto della politica e degli organi rappresentativi. Mutatis mutandis, l'assuefazione a quel dato di fatto ha provocato una assuefazione simile per la situazione di decine di migliaia di detenuti nelle carceri siriane; vale a dire la normalizzazione o addirittura la banalizzazione del loro status di detenuti; una banalizzazione correlata alla situazione di diverse migliaia di persone incarcerate nelle 11 prigioni costruite dai servizi di sicurezza di Jabhat al-Nusra. La presenza di un numero così elevato di prigionieri implicava che una soluzione politica poteva essere raggiunta solo attraverso negoziati tra combattenti corrotti e con le mani macchiate di sangue.

Gli organismi istituiti dai Curdi per amministrare la regione autonoma ad est dell’Eufrate sono passati sotto il diretto controllo dei leader militari, compresi i giacimenti petroliferi e le aree agricole. Di conseguenza, la maggioranza della popolazione araba ad est dell’Eufrate si è trovata, de facto, sotto l’autorità dell’esercito curdo; senza alcun contatto con un’amministrazione civile. Personale militare che non concede alcun riconoscimento della loro specificità, criminalizzandoli e accusandoli di appartenere all’ISIS se esprimono un qualsiasi reclamo.

3 - Gli Stati Uniti e l'attuazione del sistema di rendering nel nord-est della Siria.

Gli Stati Uniti hanno replicato il sistema di rendering nella Siria nord-orientale, affidando ai loro delegati curdi il subappalto dei prigionieri ingombranti. Il termine ‘’rendition’’ si riferisce infatti all’azione di trasferimento di un prigioniero da un Paese all’altro, al di fuori del quadro giudiziario; in particolare al di fuori delle normali procedure di estradizione. Questo termine è stato pubblicizzato come parte della “guerra al terrore”, in particolare sulle operazioni della CIA nel contrabbando di prigionieri, a volte precedute da un rapimento. Questi trasferimenti sono regolarmente associati a una sorta di “esternalizzazione” della tortura, con gli Stati Uniti che torturano i prigionieri nei Paesi alleati mentre la vietano sul loro territorio. Le persone interessate sono talvolta detenute in prigioni segrete della CIA al di fuori del territorio degli Stati Uniti (noti anche come “siti neri”).

Nel mondo arabo, l'Egitto sotto la presidenza di Hosni Mubarak, il Marocco durante il regno di Hassan II e la Giordania durante il regno del re Hussein praticarono il sistema di ‘’rendering’’ per conto degli Stati Uniti alla fine del XX secolo.

Nel ventunesimo secolo, gli Stati Uniti hanno replicato questo modello con i loro alleati curdi nel nord della Siria.

Per molteplici motivi, relativi sia alla situazione in Medio Oriente sia per ragioni di politica interna americana, gli Stati Uniti intendono rimanere in Siria, benché la loro presenza non abbia alcuna base giuridica, applicando la strategia “zero morti”. 

A- Una transazione commerciale alla base di un obiettivo militare: il petrolio siriano è una fonte di finanziamento per i carcerieri curdi nel nord-est della Siria.

A tal fine, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso al ‘’rendering’’ nel nord della Siria affidando il trattamento dei prigionieri ingombranti ai Curdi e imponendo le “Forze democratiche della Siria” per questo compito, ma di fatto l’apparato di sicurezza e le YPG (Durd People’s Protection Units) sono sotto il controllo americano. In cambio, come ricompensa per questa prestazione, gli Stati Uniti assicurano ai Curdi i proventi delle risorse energetiche siriane (petrolio e gas) per finanziarsi e ridurre di conseguenza le spese americane in questo settore. Una transazione commerciale per un obiettivo militare. Di conseguenza, i Curdi si assumono la responsabilità degli eventi che si svolgono nell’area del loro dispiegamento, dei campi di raggruppamento della popolazione e delle prigioni. Allo stesso tempo, l'FBI è pronta, in caso di necessità, a dare una mano ai subappaltatori curdi degli Americani. 

B- Vetted Syrian Opposition (Opposizione siriana autorizzata) o Processo di rispettabilità degli alleati USA in Siria, i gruppi terroristici e i delegati curdi.

Mai privi di immaginazione quando si tratta di realizzare i loro progetti, gli Stati Uniti hanno creato una sorta di etichetta AOC (designazione di origine controllata), per conferire rispettabilità ai gruppi terroristici islamisti che intendeva utilizzzare. Ad esempio, Jabhat al-Nusra, il franchising siriano di al-Qaïda, ha beneficiato dell’etichetta “VSO” – Vetted Syrian Opposition – per beneficiare del diritto di partecipare alla coalizione dell'opposizione off-shore petro monarchica. Per sopraggiunta, gli Stati Uniti si sono impegnati a conferire una «rispettabilità» ai loro subappaltatori curdi attraverso l'apertura nella capitale della zona curda di missioni di rappresentanza dei Paesi membri della «Coalizione internazionale contro l’ISIS», favorendo inoltre visite sul campo di una decina di consoli con il pretesto di informarsi sulla sorte dei loro cittadini detenuti nelle carceri curde, o ancora la ricezione da parte delle autorità curde di personalità occidentali.

4- Il passaggio ai fatti: Il bersaglio, una prigione di 3.600 prigionieri dell’ISIS e 700 minori.

Il passaggio all'azione è avvenuto sullo sfondo di quello spettacolare dispiegamento di menzogne offerto all'opinione internazionale per abusarne. Due volontari dell’ISIS, Abu Abdel Rahman e Abu Farouk della Brigata Muhajirin (un gruppo armato jihadista composto da diaspore musulmane e molto attivo dal 2013 al 2015 durante la ‘’guerra civile siriana’’) furono impegnati in un’operazione suicida con due autobombe, colpendo le mura della prigione di Gweran, un ex istituto industriale di Hassakeh trasformato in centro di detenzione che ospitò 3.600 membri dell’ISIS e 700 minori.

Quell’assalto ha riportato sotto i riflettori la Siria, con la consueta processione di esperti sul fenomeno del terrorismo e le loro speculazioni sui danni collaterali, tra cui i rifiuti umani e guerra al terrore. Se gli Stati Uniti non si fossero subito impegnati in un'operazione commando per eliminare Abdallah Quraysh, il successore del capo dell'ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, la Siria sarebbe stata nuovamente cancellata dall'attualità e la tragica sorte delle prigioni e dei campi di contenimento per le famiglie dei detenuti sarebbe stata occultata allo stesso modo.

5- Il precedente della prigione irachena di Abu Ghraib.

Il 'Baghdad Central Detention Center', meglio conosciuto come Abu Ghraib Prison, era una prigione della città di Abu Ghraib, 32 km a ovest di Baghdad. Fu usata dagli Statunitensi come centro di tortura per i detenuti iracheni. Lo scandalo Abu Ghraib, scoppiato nel 2004 in seguito alla trasmissione di foto delle torture inflitte dall’esercito USA ai prigionieri iracheni causò il trasferimento della prigione alle autorità irachene nel 2006.

sabato 9 novembre 2024

I Vescovi maroniti: Porre termine alle aggressioni israeliane che violano la sovranità nazionale

 
Fides, 7 novembre 2014

I Vescovi maroniti si sono riuniti a Bkerké, cittadina del Libano sulla baia di Jounieh, per il loro incontro mensile presieduto dal Patriarca Béchara Raï. Diversi i temi affrontati. Tra questi, le conseguenze umanitarie della guerra in corso in Libano e il “grazie” al Papa e alla Santa Sede per la recente canonizzazione dei “martiri di Damasco” 

Sulla questione del conflitto che da oltre un anno sta lacerando l’area del Medio Oriente, i Vescovi maroniti – si legge in comunicato stampa – hanno espresso “profonda preoccupazione per le vittime e la distruzione causate dagli attacchi israeliani in molte zone del Libano”.
Ribadito poi l’appello alla comunità internazionale affinché “stabilisca un cessate il fuoco immediato e applichi la risoluzione ONU 1701, per consentire il ritorno degli sfollati alle loro case e porre fine alle aggressioni israeliane che violano la sovranità nazionale del Libano”. L’ultimo episodio in tal senso, hanno ricordato i Vescovi maroniti, è stato “il rapimento compiuto a Batroun” di Imad Amhaz da parte un commando navale israeliano pochi giorni fa.

Allo stesso tempo, i Vescovi hanno accolto con favore “la solidarietà dei vari leader religiosi libanesi che si sono uniti per denunciare l'aggressione israeliana e chiedere una rapida risoluzione per proteggere gli sfollati”.

La loro gratitudine è stata poi estesa al presidente francese Macron, che ha deciso di convocare una conferenza internazionale a sostegno del Libano. E, mentre i Vescovi maroniti continuano a sperare in un aumento degli aiuti finanziari che possa permettere il rafforzare delle truppe libanesi, gli stessi hanno voluto sottolineare “l’impegno dei libanesi ad accogliere con dignità gli sfollati e a rafforzare le strutture di accoglienza in collaborazione con le autorità locali e le organizzazioni di sicurezza”.

Dai Vescovi maroniti anche un appello rivolto a chi opera settore educativo: il loro auspicio è che “il Ministero dell'Istruzione istituisca un comitato centrale speciale in rappresentanza delle scuole private e ufficiali, per mettere in atto un meccanismo che possa salvare l'anno scolastico in tutti gli Istituti”.

Infine, hanno voluto esprimere la loro gratitudine a Papa Francesco per la canonizzazione dei "martiri di Damasco”, avvenuta in piazza San Pietro il 20 ottobre.

http://www.fides.org/it/news/75626-MEDIO_ORIENTE_LIBANO_I_Vescovi_maroniti_Porre_termine_alle_aggressioni_israeliane_che_violano_la_sovranita_nazionale