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mercoledì 17 marzo 2021

Cronaca dei 10 anni di guerra contro la Siria. Di Nabil Antaki.

Le sanzioni impinguano le mafie nazionali e sovranazionali, riunendole intorno al banchetto abominevole dell'olocausto siriano.

    Maria Antonietta Carta 


Lettera da Aleppo n. 41 (15 marzo 2021)


Dieci anni fa, il 15 marzo 2011, ebbero inizio gli eventi in Siria. Molte proteste sfociarono rapidamente in un conflitto armato.

I ribelli raccontarono di voler stabilire uno Stato di diritto, uno Stato democratico che avrebbe rispettato i diritti umani e combattuto la corruzione, ma ben presto tutti si resero conto che questi ribelli non erano per niente moderati. Si trattava di  islamisti estremisti (Daesh, al-Nusra e altri) che intendevano abbattere l'unico Stato laico della regione per realizzare ‘’uno Stato islamista con più democrazia e diritti umani’’ (sic!). Erano armati e finanziati dai Paesi più arretrati del mondo, dove non esistono  democrazia o diritti umani, e supportati dai Paesi occidentali intenzionati ad abbattere l'unico governo della regione che osava dire no alla loro egemonia. Dopo essersi sbarazzati dei governanti iracheni e libici, pensavano che sarebbe stato facile: "Questione di poche settimane e voilà". 

A partire dalla ‘’primavera araba’’, tanto lodata dai media occidentali, i Siriani hanno vissuto in un lungo e tremendo inverno (10 anni) che ha distrutto il Paese, le sue infrastrutture, un patrimonio archeologico straordinario, scuole, fabbriche, ospedali; che ha ucciso più di 400.000 persone, causato 5 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi, 8 milioni di persone sradicate - gli sfollati interni che hanno dovuto abbandonare le loro case – e ha spinto un milione di esseri umani sulle rotte migratorie verso l'Europa e altri Paesi occidentali. 

Da 10 anni viviamo in guerra. Sì, 10 lunghi anni. Un tempo superiore alla durata complessiva dei due conflitti mondiali del secolo scorso. Sofferenze, lutti, povertà, miseria sono diventati il nostro destino. Una vita quotidiana che è un incubo. 

L'infanzia dei nostri figli è stata rubata, i loro sogni adolescenziali sono svaniti ed è distrutto il futuro dei nostri giovani. Vivevamo molto bene, prima dell'inizio degli eventi. Il nostro Paese era sicuro, stabile, secolare e prospero. Certo, eravamo ben lontani dalla perfezione, ma nessuna ingiustizia, nessuna violazione dei diritti umani, nessuna riforma mancata può giustificare la distruzione della nostra patria e il sacrificio di generazioni di nostri connazionali.

Sebbene da un anno non ci siano stati quasi combattimenti in Siria, nella nostra vita non esistono altro che prove e patimenti. Attraversiamo una tremenda crisi economica generata da 10 anni di guerra, dalla crisi finanziaria in Libano e dalle sanzioni che Stati Uniti e Paesi europei ci hanno inflitto. Il dollaro si cambia attualmente a 4.000 LireSiriane, mentre valeva 50 LS 10 anni fa e 1000 LS l’anno scorso. L'inflazione è dilagante, l'aumento del costo della vita sbalorditivo, Il 70% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà. Senza cibo, prodotti per l’igiene e assistenza sanitaria. Per sopravvivere non restano che le ONG.

Confrontando i prezzi dei 10 prodotti più indispensabili, dallo scorso ottobre al 1 ° marzo, ci rendiamo conto che  sono aumentati del 70% in 5 mesi, mentre il reddito non è aumentato. Tutti diventano più poveri e sono sempre a corto di soldi.

Anche se i miei connazionali meritano il titolo di campioni del mondo di resistenza, hanno raggiunto il limite di sopportazione e aspirano soltanto a vivere normalmente e con dignità, come tutti i popoli della Terra.

La pandemia Covid19 ha peggiorato una situazione già gravissima. Tra dicembre e gennaio, abbiamo subito una seconda ondata della malattia. Anche noi Maristi Blu abbiamo pagato un prezzo altissimo con moltissimi i casi tra i nostri volontari o i loro genitori e anche decessi. Abbiamo sofferto molto per la morte del fratello marista Georges Hakim, uno dei nostri pilastri, dopo 15 giorni di ventilazione assistita in terapia intensiva; Margo, la nostra  decana, ha trascorso dieci giorni in ospedale con l’ossigenoterapia. Anche mia moglie Leyla a dicembre e io il mese scorso abbiamo contratto la malattia. Grazie a Dio ora siamo completamente guariti.

In questo contesto di crisi e miseria noi Maristi Blu continuiamo a vivere la compassione e ad agire in solidarietà con i più svantaggiati e gli sfollati. 

Dal 2012 al 2018, sei lunghi e bui anni di guerra, abbiamo mensilmente distribuito cesti alimentari a oltre 1000 famiglie per aiutarle a sopravvivere. Decidemmo di interrompere questo progetto all'inizio del 2019 perché eravamo convinti che fosse giunto il momento per le famiglie di non dipendere più dagli aiuti delle ONG e cominciare a vivere con il frutto del loro lavoro. Purtroppo, la situazione economica attuale è talmente catastrofica che non sono più in grado di sbarcare il lunario e ci hanno implorato di aiutarle nuovamente con i pacchi di cibo.

Secondo gli ultimi dati del Programma alimentare mondiale, "circa il 60% della popolazione siriana non ha accesso a cibo sano e nutriente in quantità sufficiente. Quattro milioni e mezzo di persone sono entrate in questa categoria nel 2020”. Lo scorso novembre, abbiamo quindi ripreso la distribuzione mensile dei pacchi alimentari a circa 1000 famiglie. Ogni cesto del valore di $ 15 può sfamare 4 persone per dieci giorni ed è equivalente all'80% della retribuzione mensile media di un lavoratore. 

Quando decidemmo di interrompere la distribuzione dei cesti alimentari alla fine del 2018, convinti che fosse giunto il tempo per i nostri assistiti di guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte, già da diversi anni  avevamo avviato un programma di "micro-progetti ”, il MIT, per insegnare ai giovani del nostro centro di formazione come creare la propria impresa e per finanziare i migliori. È così che, negli ultimi 5 anni, abbiamo finanziato 188 microprogetti e creato un progetto di apprendistato per giovani che, con l’aiuto di professionisti, imparano un mestiere: falegname, meccanico, elettricista, idraulico, parrucchiere, ecc. L'obiettivo di questi due programmi,  micro-progetti e formazione professionale, è la creazione di posti di lavoro per aiutare i giovani a guadagnarsi da vivere del proprio lavoro, a rinunciare all'emigrazione e a non "mendicare" dalle ONG. 

Il nostro progetto "Pane condiviso" continua a offrire a 190 persone molto anziane che vivono da sole un pasto caldo giornaliero, cucinato nella nostra sede da 10 signore e distribuito ogni giorno tra le 13:00 e le 14:00 da una ventina di nostri volontari. Visitandole ci siamo resi conto che alcune avevano anche bisogno di aiuto per la pulizia, il bagno, il cambio del pannolone o l’assunzione dei farmaci.

"Pane Condiviso" ora ha un figlio: il progetto "Assistenza agli anziani".


I volontari del progetto Colibrì continuano a prendersi cura degli sfollati nel campo Al Shahba, che si trova a 40 km da Aleppo. Le nostre due visite settimanali al campo permettono di organizzare attività educative per bambini e adolescenti, curare i malati e distribuire cibo, prodotti igienici e tutto ciò che è necessario per rendere la vita di queste famiglie sfollate un po’ meno penosa. La gioia dei bambini quando arriviamo al campo è pari solo alla gratitudine dei loro genitori nei nostri confronti.

I progetti educativi per bambini dai 3 ai 6 anni "Voglio imparare" e "Imparare a crescere" hanno ripreso le proprie attività a pieno ritmo dopo parecchie interruzioni dovute alla pandemia; interruzioni utilizzate dagli istruttori per rivedere i programmi e aggiornarsi.

Continuano l’attività anche:

- SEEDS, con 25 volontari, che offre un supporto psicologico a bambini, adolescenti e adulti con tre programmi differenti.

- Heartmade, che riciclando vecchi vestiti o scarti di tessuto crea meravigliosi abiti femminili che sono modelli unici.

- Taglio e cucito, per ragazze e madri.

-  Hope, per l’insegnamento dell'inglese.

- Sviluppo della donna, offre uno spazio di convivialità e formazione per le donne.

- Goccia di latte, fornisce una razione mensile di latte a bambini e neonati.  Continuiamo anche ad accogliere gli sfollati e a curare a nostre spese i malati indigenti.

Dall'inizio del conflitto, noi Maristi Blu abbiamo cercato di fare del nostro meglio per alleviare le sofferenze, permettere alle famiglie di vivere dignitosamente, trovargli lavoro, per lo sviluppo umano, per seminare speranza, lavorare per la riconciliazione e preparare la Pace.

 

I Siriani sono stanchi di aspettare la fine del tunnel e poter vivere normalmente. Dieci anni. Quando è troppo è troppo! Chiediamo, a breve termine, la revoca delle sanzioni imposte dagli USA e dall'Unione Europea e, a medio termine, l'instaurazione della pace che dovrebbe essere raggiunta attraverso il dialogo tra Siriani.

Strangolata da sanzioni europee e americane ingiuste e illegali, l'economia non si riavvia. Affermano che le sanzioni non colpiscono l’assistenza  umanitaria. Però, esse impediscono il commercio e l'importazione di prodotti, bloccano tutte le transazioni finanziarie da parte di tutti i cittadini siriani e tutti i progetti di ricostruzione. I funzionari europei raccontano cinicamente che le sanzioni sono mirate per colpire soltanto chi è al potere e i profittatori di guerra, e non riguardano farmaci, attrezzature sanitarie  o prodotti alimentari. Pura ipocrisia. Se i conti bancari di tutti i Siriani sono congelati e nessun cittadino siriano può eseguire transazioni finanziarie quali trasferimenti di denaro, come possiamo acquistare i prodotti esenti? Se conoscete aziende occidentali che accettano di fornirci prodotti gratuitamente, noi saremo acquirenti!

Invece, molti prodotti sono contrabbandati dalla Turchia o dal Libano e venduti sul mercato nero a prezzi esorbitanti, impoverendo la popolazione e arricchendo i profittatori di guerra; cioè avviene esattamente il contrario di quello che sostiene pretestuosamente chi ha decretato le sanzioni. 

Come se non bastasse, gli USA hanno peggiorato le cose con il ‘’Caesar Act" che mette sotto sanzione qualsiasi azienda al mondo osi fare affari con la Siria. In realtà, si tratta di una  punizione collettiva contro la popolazione civile, che la Convenzione di Ginevra definisce crimine contro l'umanità. Le sanzioni servono soltanto per martirizzare la popolazione e  sono assolutamente irrilevanti  per la fine della guerra o la soluzione politica del conflitto.

Da anni, collaboriamo con vari sostenitori per sollecitare la revoca delle sanzioni. Di recente, con i nostri amici svizzeri, francesi e inglesi abbiamo scritto e firmato una lettera aperta al presidente Biden, in occasione della sua investitura il 20 gennaio, chiedendogli di revocare la sanzioni contro la popolazione siriana. Lettere simili sono state inviate al presidente Macron, alla cancelliera Merkel, al primo ministro Johnson e al Presidente della Svizzera. Queste lettere sono state firmate da 95 personalità eminenti: tre patriarchi, due ex arcivescovi di Canterbury, senatori, membri della Camera dei Lord, deputati, vescovi, sindaci, ex ambasciatori e direttori di ONG, poi fatte circolare nei media. Crediamo che potrebbero aiutare a ridefinire la strategia dei vari attori presenti nel conflitto siriano e ad abbandonare lo strumento di sanzioni inumane e illegali. 

A sostegno delle lettere, abbiamo anche lanciato una petizione online e chiediamo a tutti i nostri amici di firmarla per chiedere la revoca delle sanzioni che infliggono sofferenze alla popolazione civile della Siria. Per firmare occorrono 30 secondi, andando sul sito: http://chng.it/2mbTFzm2Dp

 

Papa Francesco ha appena concluso una storica visita in Iraq che, come la Siria sua vicina, ha pagato un caro prezzo per l'invasione, l'occupazione e la partizione organizzate con falso pretesto da chi impone sanzioni e pretende di dare ad altri lezioni sui diritti umani.

Papa Francesco continua a ripetere che siamo "Tutti Fratelli". Dovrebbe  essere ascoltato da coloro che trattano la Siria e i Siriani come nemici.

 

Dr Nabil Antaki a nome dei Maristi Blu di Aleppo

 

Trad. Maria Antonietta Carta


Vi ricordiamo di acquistare il prezioso libro che raccoglie le testimonianze dei Maristi  "LETTERE DA ALEPPO. TESTIMONIANZE DALLA SIRIA IN GUERRA"

domenica 14 marzo 2021

15 marzo 2011- 15 marzo 2021, la tragedia senza fine

 Questo è l'intervento di Papa Francesco, dopo la preghiera dell’Angelus, alla vigilia del decimo anniversario dell’inizio del sanguinoso conflitto in Siria: 

"Cari fratelli e sorelle,

dieci anni fa iniziava il sanguinoso conflitto in Siria, che ha causato una delle più gravi catastrofi umanitarie del nostro tempo: un numero imprecisato di morti e feriti, milioni di profughi, migliaia di scomparsi, distruzioni, violenze di ogni genere e immani sofferenze per tutta la popolazione, in particolare per i più vulnerabili, come i bambini, le donne e le persone anziane. 
Rinnovo il mio accorato appello alle parti in conflitto, affinché manifestino segni di buona volontà, così che possa aprirsi uno squarcio di speranza per la popolazione stremata. 
Auspico altresì un deciso e rinnovato impegno, costruttivo e solidale, della Comunità Internazionale, in modo che, deposte le armi, si possa ricucire il tessuto sociale e avviare la ricostruzione e la ripresa economica. 
Preghiamo tutti il Signore, perché tanta sofferenza, nell’amata e martoriata Siria, non venga dimenticata e perché la nostra solidarietà ravvivi la speranza.
Preghiamo insieme per l’amata e martoriata Siria.  Ave, o Maria…"

Riprendiamo dal sito MIDEAST DISCOURSE  un articolo di sintesi degli eventi e dei protagonisti di questi 10 anni di guerra in Siria, scritto dal giornalista  e commentatore politico Steven Sahiounie.

trad. Gb.P. OraproSiria


10 anni dopo Deraa: la situazione di stallo in Siria

Il 15 marzo è la data che molti usano per l' inizio della rivolta siriana nel 2011. Per molti anni, la guerra in Siria è stata una voce costante sui media occidentali; tuttavia, negli ultimi anni i combattimenti si sono interrotti, il processo di pace di Ginevra non ha prodotto risultati e alcuni Paesi hanno iniziato a rimandare a casa i profughi siriani. I campi di battaglia sono silenziosi, ma la sofferenza continua a causa delle sanzioni USA-UE che privano i cittadini di alcune forniture mediche e dei materiali da costruzione per riparare le loro case e imprese. L'economia è in caduta libera, mentre il COVID-19 si è aggiunto alla disperazione che molti sentono. La popolazione non ha ancora ricevuto le prime vaccinazioni.

  Le parti opposte in campo

I media occidentali hanno descritto l'Esercito Siriano Libero (FSA) come combattenti per la libertà e per la democrazia. Le atrocità della FSA non sono state denunciate , mentre gli Stati Uniti e i loro alleati hanno utilizzato la FSA come soldati di fanteria nel progetto del "cambio di regime".

Dei 23 milioni di cittadini in Siria, circa otto milioni erano minoranze, come cristiani, drusi e alawiti, che erano protetti esclusivamente dal governo siriano. Il presidente Assad è il leader del partito Ba'ath, il più antico partito in Siria, e ha un'ampia base di appoggio tra il popolo siriano. Certamente, c'è un'opposizione politica in Siria, ma solo una piccola minoranza dell'opposizione sostiene la rivoluzione armata e la distruzione dello Stato. Questa è la ragione per cui la "rivoluzione" è fallita: non è stata sostenuta dalla maggioranza.

Aleppo è stata attaccata dall'FSA perché era favorevole al governo. L'FSA ha risposto con un brutale giro di vite contro la cittadinanza disarmata oltre a combattere i cittadini che si ribellavano alla loro ideologia islamica radicale.

I media occidentali vorrebbero farvi credere che la maggior parte delle morti in Siria siano state causate dal governo siriano, ma non sentirete parlare delle migliaia di civili disarmati uccisi, violentati, mutilati e torturati dall'FSA e dai loro alleati. Altrettanto erroneamente riportato è il numero di soldati dell'Esercito Arabo Siriano che sono morti, che si ritiene siano almeno la metà delle morti segnalate.

L'FSA ha rubato le riserve di grano ad Aleppo e le ha vendute a commercianti turchi, saccheggiato i farmaci e distrutto le scuole, mentre brutalizzavano il popolo siriano, le loro case e le imprese.

L'FSA ha implementato la legge della Sharia, costringendo i cittadini a rispettare leggi che non avevano mai dovuto affrontare prima, nella Siria laica.

L'FSA ha prodotto un video ampiamente visto, di un bambino di 12 anni costretto dall'FSA a tagliare la testa a un ufficiale dell'Esercito Arabo Siriano.

Quando l'FSA fu sconfitto sui campi di battaglia, inviò una richiesta di aiuto ai suoi compagni d'armi di Al Qaeda, e i terroristi internazionali iniziarono a riversarsi in Siria dalla Turchia, che era il loro rifugio sicuro. Fornire ufficialmente ad Al Qaeda denaro e armi era contro le leggi statunitensi, quindi Washington ha semplicemente esternalizzato il sostegno all'Arabia Saudita e al Qatar che hanno entrambi rifornito Jabhat al-Nusra, l'affiliata di Al Qaeda in Siria.

Il 31 dicembre 2012, l' Huffington Post ha pubblicato: “L'Occidente non dovrebbe sorprendersi se uno Stato islamico emerge da una vittoria dell'FSA. In tal caso, saranno stati complici del risultato ".

Il piano USA-NATO di "cambio di regime" per la Siria doveva culminare in uno Stato islamico, guidato dai Fratelli Musulmani, che erano stati il braccio politico dell'opposizione siriana sostenuta dagli Stati Uniti e dall'UE a Istanbul. Gli Stati Uniti hanno architettato le elezioni egiziane che hanno portato al potere i Fratelli Musulmani, solo per poi essere cacciati dalla carica dalle proteste di massa.

Il gruppo chiamato ISIS (ISIL o Daesh) ha capitalizzato il caos che gli Stati Uniti avevano creato in Siria per proclamare un "califfato" a cavallo tra Siria e Iraq che ha scioccato il mondo. Mentre gli Stati Uniti e l'UE sostenevano l'FSA e i loro alleati di Al Qaeda, le forze della coalizione statunitense stavano combattendo per sradicare l'ISIS.

I terroristi sono stati trasferiti con accordi di resa nella provincia nord-occidentale di Idlib , dove circa tre milioni di persone vivono ora in condizioni disastrose sotto l'occupazione di Hayat Tahrir al-Sham (Ex Al Nusra), l'affiliata di Al Qaeda in Siria.

  Proclami su armi chimiche

Nel 2012, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha tracciato un'ipotetica insuperabile linea rossa e ha affermato che l'uso di armi chimiche in Siria avrebbe provocato l'intervento militare degli Stati Uniti. I gruppi terroristici hanno preso questa linea rossa come un semaforo verde.

Nel maggio 2013, Carla Del Ponte , ex procuratore generale svizzero e procuratore presso il Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia (ICTY), ha affermato che le prove indicano che i "ribelli" utilizzano il gas sarin. Era un membro di spicco di una commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite.

Nell'agosto 2013, Obama si è trovato di fronte alla decisione se attaccare la Siria in una decimazione pianificata del governo e delle infrastrutture. Tuttavia, l'ha annullata.

Nell'aprile 2014, Seymour M. Hersh ha pubblicato un'indagine che descriveva in dettaglio l'autostrada per armi illecite dell'amministrazione Obama in Siria gestita dalla CIA, pubblicando anche il rapporto del Laboratorio di Difesa del Regno Unito a Obama, secondo cui il gas sarin utilizzato in Siria non proveniva da riserve del Governo Siriano.

Nell'aprile 2018 il corrispondente di guerra veterano del Medio Oriente Robert Fisk è andato alla ricerca della verità sull' asserito uso di armi chimiche fatte a Douma. Fisk aveva mantenuto una posizione anti-Assad per tutta la guerra, ma andò a Douma con gli occhi aperti, cercando la verità. Quello che ha scoperto è stato l'altro lato del video mostrato in tutto il mondo. Dopo aver intervistato medici, infermieri e astanti, ha scoperto che il video dell'attacco con gas mostrava pazienti sopraffatti non dal gas ma dalla fame di ossigeno nei tunnel e negli scantinati in cui vivevano, in una notte di vento e pesanti bombardamenti che provocarono una tempesta di sabbia.. La gente del posto che ha interpellato ha parlato dei terroristi di Jaish al-Islam (Esercito dell'Islam), supportati dal re dell'Arabia Saudita, che hanno occupato le case, gli uffici e le imprese e hanno soggiogato i residenti.

Gli "White Helmets" erano i responsabili del video, che ha approfittato della situazione e lo ha descritto falsamente come un attacco di gas. Adulti e bambini sono stati annaffiati con getti d'acqua per fornire la prova di un attacco chimico.

Giorni dopo il rapporto Fisk, i funzionari russi hanno mostrato un ragazzo di 11 anni, Hassan Diab in perfetta salute, che era nel video a Douma. I media occidentali hanno screditato la conferenza stampa russa come propaganda. Il ragazzo è stato accompagnato da suo padre mentre descriveva di non essere stato attaccato da sostanze chimiche, ma costretto a essere inzuppato d'acqua dai "Caschi Bianchi".

La maggior parte del popolo siriano non ha lasciato la Siria. Se fossero stati tutti convinti che il governo stesse usando armi chimiche, altri sarebbero fuggiti. Di coloro che sono partiti per la Germania nell'estate 2015, la maggior parte erano migranti economici in cerca di un posto sicuro e di un reddito.

   Gli attori stranieri 

La guerra siriana è stato un copione scritto a Washington, DC, ma il Regno Unito, la Francia e la Germania hanno tutti svolto il loro ruolo di supporto. I leader nel 2011 di Stati Uniti, Regno Unito e Francia se ne sono andati (sconfitti alle elezioni), e rimane solo la tedesca Angela Merkel.

Timber Sycamore era un programma di rifornimento e addestramento di armi classificato gestito dalla CIA, con sede nel sud della Turchia. Nell'agosto 2017, il presidente Trump ha chiuso le operazioni segrete da 1 miliardo di dollari con cui hanno addestrato, finanziato e armato i terroristi islamici radicali per combattere in Siria. Ciò fu fatto in coordinamento con Arabia Saudita, Qatar e Turchia.

Il programma ha perso il sostegno politico al Congresso perché gran parte delle armi sono state consegnate ad Al Qaeda, che era alleata con FSA. Il presidente Barack Obama aveva avviato il programma nel 2013 per rovesciare il governo del presidente Bashar al-Assad, ma è stato sconfitto dalle defezioni dall'FSA verso Jabhat al-Nusra e l'ISIS.

L'esercito russo è entrato in Siria alla fine del 2015. Mosca non voleva permettere a un regime islamico radicale di prendere il potere in Siria, perché ciò avrebbe minacciato la sicurezza nazionale della Russia. Mosca sapeva di dover combattere e sconfiggere i terroristi in Siria o affrontarli in seguito per le strade di Mosca.

La Turchia ha circa 15.000 soldati dispiegati all'interno della Siria e esercita un'influenza significativa a Idlib, che è occupata da Hayat Tahir al-Sham, l'affiliata di Al Qaeda in Siria. La Turchia è guidata da un partito dei Fratelli Musulmani che si oppone al governo laico di Damasco. Inoltre, la Turchia ha invaso la regione nord-est dove i Curdi separatisti avevano stabilito un quasi-stato. Ankara vede i Curdi come terroristi, fedeli al PKK, riconosciuto a livello internazionale come un gruppo terroristico, responsabili di 30.000 morti in tre decenni.

L'Iran ha fornito sostegno all'Esercito Siriano e aiuti umanitari. Hanno anche fatto parte del trio russo e turco per i colloqui di pace e il cessate il fuoco.

  Il prossimo passo

Il processo di pace delle Nazioni Unite sta lentamente producendo una possibile nuova costituzione e le elezioni presidenziali potrebbero essere programmate quest'estate. Niente è ancora chiaro e lo stallo politico continua, mentre la situazione economica peggiora di giorno in giorno.

   Steven Sahiounie è un giornalista pluripremiato

giovedì 11 marzo 2021

10 anni di guerra in Siria, e continuano le sofferenze del popolo siriano

 

Aleppo (AsiaNews)  

La Siria “è una nazione lacerata, a pezzi, cui manca un po’ di tutto e il popolo vive in condizioni di estrema povertà e di crescente disperazione”.  È il grido d’allarme lanciato ad AsiaNews dal vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, secondo cui la gente “avrebbe voluto celebrare non l’anniversario della guerra” a 10 anni dall’inizio, ma “l’anniversario della pace e della riconciliazione, invece va tutto al contrario”. Inoltre, le sanzioni internazionali e il Caesar Act imposto dagli Usa “hanno contribuito a peggiorar la situazione”. 

“Da tempo - racconta mons. Abu Khazen - non distribuiscono più gasolio alle famiglie, in pochissime hanno ricevuto 100 litri, poi le scorte si sono esaurite. Adesso hanno anche cessato di distribuire il gas da cucina, per il quale bisogna aspettare fino a 60 giorni. Per 20 litri di benzina si resta in coda anche due giorni al distributore, abbandonando la macchina in attesa del rifornimento, e lunghe file - anche di ore - sono necessarie per l’acquisto di un po’ di pane a prezzo calmierato”. 

“Senza viverle sulla propria pelle, non è possibile immaginare le difficoltà che è costretta a subire la povera gente” denuncia il vicario apostolico di Aleppo. “Anche l’elettricità è diminuita e viene erogata solo una o due ore al giorno. Questa è la condizione generale di tutto il Paese e dire che la Siria è ricca di petrolio, gas e frumento, ma non può beneficiare di tutto questo, perché le è stato espropriato”. 

Il conflitto è divampato nel marzo 2011 come rivolta popolare nel contesto dei moti di piazza della Primavera araba, che hanno coinvolto alcune nazioni del nord Africa e del Medio oriente. Da scontro interno, esso si è trasformato nella peggiore guerra - per procura fra potenze rivali - del ventunesimo secolo, cui si sono unite derive jihadiste che hanno insanguinato ancor più il Paese. In nove anni si sono registrate quasi 400mila vittime, decine di città sono state rase al suolo e metà della popolazione risulta sfollata interna o profuga in cerca di riparo all’estero.

Ripensando alla Siria prima della guerra, il prelato ricorda “un Paese che stava sperimentando un processo di sviluppo enorme, una realtà di pace, di convivenza, un bel mosaico, un luogo sicuro in cui si poteva andare dappertutto. Anche le ragazze all’una di notte potevano uscire in tutta tranquillità, prendere un taxi e girare senza disturbo”. Il popolo, prosegue, “si ricorda ancora come era prima, ma col passare del tempo sta perdendo la speranza” di tornare ai fasti di un tempo. “E poi ci sono i profughi, sempre più persone dicono di aver sbagliato a restare in Siria e questo è indice di sfiducia generalizzata e di una disperazione diffusa di questa povera gente”. 

A mancare di più, afferma il vicario di Aleppo, “sono gli elementi primari, della vita di tutti i giorni: il gas, la benzina, il pane... la pace! La gente non ha grandi pretese, ma solo la preoccupazione di poter vivere, di andare avanti con un dollaro che prima valeva 50 lire e ora 4mila, mentre la paga è rimasta la stessa. Questo significa che gran parte delle famiglie è costretta a campare con 30 dollari al mese, sotto la soglia di povertà. Senza l’aiuto di varie ong e della stessa Chiesa la gente morirebbe di fame”. A questo si uniscono “le distruzioni, il crollo delle infrastrutture, l’esodo dei profughi per una nazione che ha perso la metà della propria popolazione, le minoranze che soffrono senza che si veda la fine di questo tunnel”. 

In questo dramma, “non vogliamo che finisca la speranza, ma dobbiamo mantenerla viva” afferma mons. Abu Khazen, anche se resta una sfiducia diffusa “per un cammino che non va nella direzione della pace ed è complicato dagli interessi contrapposti“ dei vari attori in gioco: americani, russi, turchi, curdi, arabi. 

“In questo quadro - aggiunge - chi rischia di pagare un prezzo altissimo sono i cristiani, che sono sempre stati un fattore di unità e di dialogo mentre la Siria viene spinta a passi sempre più spediti verso la partizione, verso una divisione che nessuno di noi vuole e avrebbe effetti devastanti. Ma noi vogliamo che resti unita”. “Uno dei pochi elementi di forza - conclude - è la vicinanza mostrataci in questi anni da Papa Francesco, le cui preghiere sono sempre state elemento di gioia e di coesione. Il viaggio in Iraq ha dato grande speranza anche a noi, speriamo che un giorno possa venire qui in Siria ed essere testimone di pace per celebrare un anniversario che non sia di guerra, ma di vera riconciliazione”.

http://www.asianews.it/notizie-it/Vicario-di-Aleppo:-guerra-e-sanzioni-hanno-distrutto-il-mosaico-siriano-52576.html

martedì 9 marzo 2021

Uno sguardo allo storico viaggio del Papa in Iraq

Dopo l'incontro con il Papa che gli ha fatto un simbolico dono, il leader delle brigate Babylon , Rayan alKaldani, cristiano caldeo recentemente sanzionato dagli Stati Uniti, è stato ricevuto dal Patriarca siro-cattolico Younan 


da: Piccole Note, 9 marzo 

La visita del Papa in Iraq è andata bene, anzitutto perché ne è tornato, cosa non scontata come si potrebbe pensare (si immagina che anche un eventuale contagio da Covid-19 sia stato evitato).

Non ha solo confortato il piccolo gregge cristiano del Paese, ma tutta la popolazione, per lo più islamica, afflitta prima da un regime crudele, che per conto degli Usa lo trascinò in una guerra terribile contro il vicino Iran, e poi da indebite attenzioni internazionali, fatte di interventi militari diretti, sanzioni durissime e un’occupazione che ancora permane, nonostante il Parlamento abbia chiesto il ritiro delle truppe Usa.

Tanti i momenti toccanti della visita. Più di tutti, sicuramente, quando, con un  rilancio in mondovisione, è stato recitato il “Padre nostro” in aramaico, la lingua di Gesù.

Il Papa ha incontrato la popolazione sofferente, il grande imam sciita Alì al Sistani, punto di riferimento incontrastato degli islamici, in un incontro pieno di significato, e la Chiesa locale, dai presuli ai fedeli che attendevano una visita papale, ritardata per anni.

Non che la Chiesa abbia abbandonato questo popolo. Tante le attenzioni, le preghiere, gli appelli profusi dai papi in favore di questo povero paese, che sotto il pontificato di Benedetto XVI fu beneficato anche dalla creazione a cardinale di Emmanuel Delly, Patriarca di Babilonia dei Caldei, il secondo porporato iracheno nominato a distanza di un secolo dall’altro.

Ma una visita papale ha un significato alto e altro, dimostrazione di una prossimità concreta che non si ferma neanche davanti a pericoli reali, come quelli che hanno messo a rischio il viaggio.

Il Papa ha visitato le rovine della guerra, in particolare quelle lasciate dalla recente invasione del Califfato, ché di invasione si è trattata, dato che la maggior parte dei militanti dell’Isis proveniva da terre straniere, d’oriente e d’occidente, dai miliziani libici, ai sanguinari ceceni, agli uiguri cinesi dello Xinjiang.

Le Tv hanno rimandato lo scempio delle chiese ad opera di questa legione straniera, dimenticando le chiese bombardate dagli americani durante i loro interventi passati, e dimenticando di raccontare chi avesse salvato il Paese dalla marea nera dell’Isis, cioè l’Iran, in una campagna guidata dal generale Qassem Soleimani, ucciso poi dai missili Usa (vedi New York Times: “Perché l’Isis è contento che Soleimani sia morto“).

Della storica visita ha scritto anche il National Interest, commentando: il viaggio di papa Francesco “dovrebbe anche essere occasione di una solenne riflessione da parte degli Stati Uniti, nazione in cui due persone su tre si professano cristiane e anche la nazione che con la sua politica estera errata ha contribuito alla  quasi estirpazione  del cristianesimo in Iraq”.

L’articolo ricorda che quando gli Stati Uniti “invasero” l’Iraq (“invasero”: parola esatta e normalmente evitata in altri report), i cristiani erano il 6 per cento della popolazione.

Racconta che il regime di Saddam perseguitava i cristiani (cosa non vera dato che Tareq Aziz, il vicepresidente che si era scelto, era cristiano, l’unico leader politico cristiano in un Paese arabo, Libano a parte), ma anche generalmente tollerati, come avvenuto per 2000 anni.

Ma dopo l’invasione americana, le guerre settarie, i rapimenti, gli attentati e quant’altro, hanno flagellato la popolazione irachena, cristiani compresi, la cui presenza si è fatta residuale.

Ma se riportiamo l’articolo è per la sua conclusione, che riferisce le parole del reverendo Andrew White, pastore anglicano che opera in Iraq, il quale alla CBS ha dettagliato la drammatica situazione odierna, sedata ma non per questo pacificata.

“White ha detto alla CBS – si legge sul NI – che la situazione dei cristiani iracheni è ‘chiaramente peggiorata’ sotto il regime forzato dagli Stati Uniti rispetto a prima. ‘Non c’è paragone tra l’Iraq di allora con quello odierno’, ha detto. ‘Le cose non sono mai state così difficili per i cristiani. Probabilmente mai nella storia [i cristiani iracheni] hanno conosciuto una situazione come l’attuale'”.

Così, nella tragedia che si perpetua, papa Francesco ha portato l’inerme conforto che può portare un successore di Pietro. I suoi appelli alla pace non verranno accolti, ché prima di scendere dall’aereo gli americani hanno dichiarato che avrebbero risposto ai missili lanciati contro una loro base da Kata’ib Hezbollah, ma almeno per qualche giorno questa parola ha coperto il rumore delle bombe e dei missili.

E per una volta, oltre ai vacillanti apparati di Sicurezza iracheni, a vigilare sull’incolumità di papa Francesco anche i due più attrezzati contendenti, Hezbollah (che già vigilò sulla sicurezza di Benedetto XVI nella sua visita in Libano del 2012) e americani (il cattolico Biden ha grande stima del Papa, fu lui a ricercare la visita di Francesco negli Stati Uniti nel 2017).

Tale insolita convergenza può essere annoverata tra i successi della visita. Per una volta, invece di farsi la guerra, i due nemici hanno collaborato. Non è cosa da poco.

https://piccolenote.ilgiornale.it/50024/la-visita-di-francesco-in-iraq

martedì 2 marzo 2021

Il viaggio di Papa Francesco in Iraq

 

Tre sono gli assi principali attorno ai quali sembra ruotare questo viaggio: l'incontro con la comunità cristiana irachena; il dialogo con l'Islam, in particolare l'Islam sciita; una risposta alla crisi politica in cui l'Iraq è precipitato da decenni. 

Per aiutare i suoi lettori a comprendere queste dimensioni, la rivista Oasis ha prodotto uno speciale dossier.

Riprendiamo qui l'articolo di Maria Laura Conte sulla storia delle persecuzioni dei cristiani in Iraq.


È buio pesto a Mosul nella notte tra il 15 e 16 luglio 2014, quando d’improvviso il silenzio si rompe. Gli uomini neri dello Stato islamico, calati da Raqqa il 10 giugno, lanciano ai cristiani un ultimatum: «Convertitevi all’Islam, pagate la jizya [1] o lasciate la città senza portare nulla con voi entro il 19 luglio a mezzogiorno. Altrimenti vi aspetta la decapitazione».

Da quel momento in poi è l’inferno: è fuga per migliaia e migliaia di famiglie che si mettono in marcia verso villaggi considerati più sicuri, verso il Kurdistan. Ai checkpoint gli uomini di Isis strappano loro tutto, denaro, documenti, le chiavi di casa, perfino gli orecchini. Non risparmiano neppure i neonati, ai quali portano via il biberon di latte, lasciandoli affamati e urlanti.

Nella calura insopportabile di un’estate di sangue viene sradicato quel che restava dell’antichissima comunità caldea di Mosul. L’antica Ninive del libro di Giona, dove nel settimo secolo ebbe origine la liturgia caldea, si svuota degli ultimi quindicimila cristiani. Questo piccolo resto aveva scelto di rimanere nonostante le violenze ripetute, esacerbatesi dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, come attesta il rapimento e l’uccisione nel 2006 del vescovo caldeo mons. Farraj Rahho, per citare solo uno tra i tanti casi.

Ma quella notte di luglio la violenza conosce un’impennata: le chiese sono profanate, le croci strappate dai tetti per far posto alle bandiere nere del terrore, tutti i miscredenti cacciati. Una nuova pagina surreale, nella sua tragicità, per Mosul, dopo la caduta in sole sette ore nelle mani di poche centinaia di terroristi a fronte dei 60.000 uomini dell’esercito iracheno.

Da quel momento il terrore dilagante nella piana di Ninive genera un mare di sfollati: solo da Mosul fuggono 500.000 persone, un quarto della popolazione circa. Nel giro di poche settimane naufraga nel Kurdistan iracheno, tra Erbil, Dohuk e Zakho, un milione di persone, che si aggiungono a una popolazione di cinque milioni circa e ai 500.000 profughi dalla Siria.

Non è la prima volta nella storia che i cristiani, per sfuggire a persecuzioni e ingiustizie trovano riparo nella regione alla quale, dopo decenni di scontri con Baghdad (nei quali i cristiani stessi sono rimasti schiacciati pagando un altissimo prezzo), è stata riconosciuta l’autonomia nel 1992. Ricca di petrolio, è considerata l’area più sicura del Paese grazie alla presenza dei quasi mitologici peshmerga, oggi addestrati anche da eserciti stranieri, e nonostante le costanti tensioni con il governo federale che non ha mai sopportato le spinte indipendentiste locali.

Ma è in tutto l’Iraq che il numero degli IDPs (internal displaced people, sfollati), come li definiscono le agenzie delle Nazioni Unite, sta rasentando livelli da collasso: le violenze settarie che hanno incendiato e spaccato il Paese dopo la guerra del 2003 hanno lasciato senza un tetto due milioni di persone, per metà bambini. Si adattano per mesi a vivere in campi allestiti con tende o caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei centri urbani o in parchi cittadini (come quello del cuore di Erbil attorno alla parrocchia di Mar Elia) o in edifici in via di costruzione. Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in piccole casette o negli appartamenti di palazzi ancora allo stadio del cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. Perché in Kurdistan l’attività edilizia paradossalmente ferve: sorprendono gli ambiziosi grattacieli incompiuti che svettano nel centro della capitale e i quartieri residenziali che si intravedono lungo la strada che collega la capitale a Dohuk. Investono qui i ricchi iracheni del Sud, così come stranieri facoltosi, tra cui i turchi, perché la zona è considerata appunto “stabile”.


Trama di destini, non masse senza nome

Finché si leggono nei rapporti delle organizzazioni umanitarie accorse sul campo, le statistiche dei rifugiati e sfollati impressionano, ma finiscono per coincidere con masse di uomini e donne senza volto, ai quali occorre procurare urgentemente enormi quantità di acqua, cibo, vestiti… Gente da organizzare e gestire con progetti specialistici, per esempio di winterizationeducationprotection, come prevede il gergo tecnico. Ma se ognuna di queste azioni è indispensabile per garantire loro la sopravvivenza, non si può arrivare a confondere con una massa impersonale quella che è una trama articolata di profili singolari e vicende uniche. Ogni storia è diversa, ha in sé dettagli particolari che concorrono a comporre quel fenomeno travolgente, dalle radici lontane, che è lo spostamento di intere comunità da Est a Ovest. Un “trasloco” che va cambiando la geografia umana dell’Iraq, dei Paesi vicini e in parte, forse, benché in modo non misurabile, di Paesi anche molto lontani, fino all’altra parte dell’Oceano Atlantico.

«Se va avanti così, in sei o sette anni non avremo più cristiani in Iraq», sostiene mons. Bashar Warda, arcivescovo caldeo di Erbil.  Ogni giorno pare che una settantina di persone lasci il paese per guadagnarsi un futuro altrove. Goccia dopo goccia, la costante partenza dei cristiani si configura come un processo inarrestabile, che ha innescato un cambiamento profondo, di ecosistema, a prescindere dalla consapevolezza o meno dei suoi protagonisti. Perché il fatto che a Mosul dal luglio 2014 non si celebri più la messa per la prima volta in quasi duemila anni di storia di presenza cristiana, non può essere tema esclusivo di quella particolare comunità o dei cristiani di qui.

L’emorragia continua che sta dissanguando il Medio Oriente, almeno da un secolo, da un lato ne cambia la composizione, privandolo di una presenza garante della sua pluralità, come scrisse già nel 2002 non un cristiano, ma un saudita, il principe Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud: «Gli arabi cristiani, in forza della loro pluralità culturale, erano e sono sempre, una sfida costante per la cultura e il pensiero. La loro presenza è una garanzia contro lo svilupparsi dell’arbitrio e dell’estremismo, e di conseguenza, di una violenza che conduce a catastrofi storiche»[2]. E dall’altra la diaspora impianta altrove comunità che custodiscono – e nessun checkpoint di terroristi glielo può sottrarre – il deposito di una tradizione millenaria. Che destino avranno loro, le loro famiglie e il loro patrimonio di cultura, tradizioni e religione? Si “integreranno” fino al punto di confondersi completamente nelle nuove società o inietteranno una differenza nei nuovi contesti? Se si entra in una chiesa a Erbil e si assiste alla messa secondo un rito rimasto intatto nei secoli, celebrato nella stessa lingua dell’apostolo Tommaso che evangelizzò queste terre, o se si ascoltano i racconti di uomini e donne che per fedeltà al loro battesimo si sono lasciati uccidere, sembra impossibile accettare che questa cultura e fede siano destinate a sbriciolarsi nell’innesto in Occidente. Eppure anche questo pericolo incombe, accanto a quello più immediatamente violento di Isis.


Quando è cominciato?

Se si volesse fissare una data di inizio per l’esodo dei cristiani mediorientali, si potrebbe risalire a un secolo fa, al 1915, data del genocidio di armeni e siriaci. Cominciarono a partire dalla Turchia, dall’Iraq e dalla Siria. Gli anni del regime baatista hanno solo aggravato la tendenza all’esodo. Secondo stime non ufficiali oggi sono circa 350-400.000 i siriaci e i caldei che vivono in Europa, in Svezia e Germania soprattutto. Il resto è disperso tra Belgio, Francia, Olanda, Austria, Scandinavia e Inghilterra. Circa 100.000 sono in Australia i cristiani che arrivano da Oriente, con qualche presenza in Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti sono 800-900.000. Ma recuperare dati certi sulla parabola demografica dei cristiani in Iraq è un’impresa. Il patriarca di Baghdad dei caldei, Louis Sako, parla di un milione e mezzo circa prima del 2003. Secondo l’ultimo censimento realizzato, che risale al 1965, i cristiani erano 250.000 circa[3], equivalenti al 3% della popolazione. Per quanto riguarda l’oggi, secondo il patriarca caldeo i cristiani si aggirano tra i 100.000 e i 400.000.


Non solo cristiani i perseguitati

Sebbene i numeri della cancellazione dei cristiani siano i più imponenti, va sempre ricordato che non sono solo cristiane le vittime della violenza praticata da Isis. Le minoranze come gli yazidi, i turcomanni, i mandei, sono state tutte prese di mira dai jihadisti nel loro disegno di purificazione dello Stato dalla presenza dei “miscredenti”. Gli yazidi pare fossero 500.000 in Iraq, la maggioranza residente attorno a Sinjar. Oggi almeno 400.000 di loro sono sfollati. Mentre sono 3.000 circa le loro donne rapite da Isis, delle quali solo 240 sono riuscite a tornare libere. Molte sono rimaste incinta dopo gli abusi subiti, e hanno scelto nella maggior parte dei casi di abortire. Una strage di innocenti dentro un’altra strage. Chi è riuscita a scappare dalla morsa nera ha raccontato dell’assurda violenza e dell’abbrutimento di quegli uomini. Come Amsha, 19 anni, il viso pallido stretto da un velo cupo, lo sguardo basso, le mani inquiete a tranquillizzare il suo bambino aggrappato alla gonna. Si è rifugiata in una località nel nord del Kurdistan, Sharia, insieme ai suoi famigliari e ai suoi due bambini, il primo di due anni e il secondo appena nato, in una casetta in costruzione, dove l’odore di una convivenza sovraffollata si mescola a quello del cibo in cottura e della campagna brulla. Fu catturata e assegnata come schiava a un jihadista dello Stato islamico originario di Falluja, stabilitosi a Mosul con moglie e figli. È rimasta in quella casa per alcune settimane, chiusa in una stanza con il figlio. Finché una notte, spinta dal pianto disperato del bimbo affamato, è riuscita a scappare e, dopo ore di marcia nella notte, a trovare aiuto. Il suo racconto dei giorni di prigionia è molto asciutto: Amsha non riesce a offrire molti dettagli, ma non può dimenticare che tre delle sue compagne per la disperazione si sono tagliate le vene, e che del marito non ha più notizie dal giorno del rapimento.


In attesa del VISA

Di quella trama sottile che lega milioni di sfollati in un destino assurdo fanno parte anche Foco e sua sorella Lary, chiamati così dai genitori legati al movimento dei Focolari. Diciott’anni, esile, lo sguardo di pece, durante la permanenza provvisoria a Dohuk, Foco dava una mano agli operatori della Caritas che si occupa là, come nel resto del Paese, almeno fin dove può spingersi, delle migliaia e migliaia di iracheni sfollati, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa: «Avevamo una profumeria a Qaraqosh – racconta Foco – un bel negozio. Quando abbiamo capito che stavano per arrivare i terroristi, il 6 agosto alle 11 siamo scappati. Tutti i cristiani del mio villaggio sono fuggiti. Ora siamo qui, in attesa del permesso di entrare in Francia, dove vive una zia. Per ricominciare da capo». “In attesa di ripartire”: la fuga, decisa quando ormai il tam-tam confermava l’avanzata inarrestabile degli assassini e l’abbandono inaspettato della città da parte delle forze curde che dovevano difenderla, approda in prima battuta in Kurdistan. Ma la lunga sosta in quel luogo sospeso nel tempo e nello spazio, qual è un campo di profughi, non spegne il desiderio vitale di chi è stato privato di tutto e si sente braccato, né rimuove il bisogno di ri-partenza, di lasciarsi riafferrare da una speranza di ripresa.

Il visto alla fine è arrivato, a fine febbraio, e il giovane di Qaraqosh è partito con tutta la famiglia per Lione. La foto che ha postato su Facebook con poche valigie all’aeroporto di Erbil prima del decollo è la traccia di quel viaggio che conduce lui e migliaia di altri dagli antichi villaggi iracheni verso l’Europa. Tornerà un giorno alla sua casa? Ci sarà una nuova chance per lui in Iraq? Intanto a Lione ha ricominciato ad andare a scuola.


L’addio dei Vescovi

Lungo la direttrice da Oriente a Occidente si colloca anche la vicenda di mons. Amel Shamon Nona, già vescovo di Mosul. Papa Francesco l’ha nominato vescovo della comunità di Sidney, che conta circa 50.000 fedeli, al posto di mons. Djibrail Kassab, che a sua volta lasciò Bassora nel 2006. La città era stata abbandonata in massa dai cristiani per il massacro sistematico perpetrato contro di loro, quella volta da milizie sciite. «Quando mi hanno detto “o ti converti o paghi la jizya o te ne vai”, io ho scelto di andarmene – spiega mons. Nona, a febbraio ancora a Erbil. Basta, era arrivato il momento di dire basta: la misura era stata superata. Da 1400 anni i cristiani in queste terre vivono pagando il prezzo della loro fede. Ci si sorprende di Isis come di un fenomeno recente, ma noi a Mosul lo conoscevamo almeno dal 2003: la vita per i cristiani era drammaticamente peggiorata. Quando uscivano la mattina per andare al lavoro, non sapevano se sarebbero ritornati la sera. Chi aveva attività commerciali doveva pagare la jizya e riceveva una ricevuta con la scritta Stato islamico. Dopo la morte del mio amico e predecessore, quando mi muovevo cercavo di fare percorsi sempre diversi, per ridurre il pericolo di attentati».

Nona è rimasto dall’arcivescovo di Erbil per qualche mese, prima del trasferimento in Australia. Anche lui “ospite” del quartiere cristiano, Ankawa, che tra giugno e agosto 2014 ha visto più che raddoppiata la sua popolazione: da 40.000 gli abitanti sono passati a 80-90.000. Non è mancata la solidarietà immediata di tanti che hanno ospitato sotto il loro tetto per mesi famiglie intere, mentre la Caritas irachena e le diocesi hanno moltiplicato gli sforzi per rispondere ai bisogni di persone sconosciute, strappate dal ciglio della strada. 

«Vogliamo aiutarli non solo assicurando cibo, coperte, cure mediche, ma promuovendo la loro dignità integrale – spiega mons. Warda. Desideriamo “aiutarli ad aiutarsi”. La sfida che incombe prepotente è l’emigrazione verso la Turchia, il Libano, la Giordania, prime tappe di un viaggio che spesso ha destinazioni ancora più remote. Se non possiamo arginarla del tutto, almeno possiamo tentare di contenerla. Per esempio offrendo un contributo economico per pagare l’affitto di una casa qui. Erbil non è il loro villaggio, ma almeno non è straniera. L’Europa, l’America sembrano promettere molto, quanto le immagini da qui, ma poi cosa troverà lì davvero, chi parte esattamente non lo sa. Magari solo porte chiuse e ancora la strada». Un progetto in controtendenza per tutelare la ricchezza di una stoffa umana variegata come quella del popolo iracheno: «Per l’Occidente può essere facile accogliere cento o mille profughi – osserva il patriarca Sako – il punto è come aiutare coloro che vogliono rimanere in patria. Tutti parlano di democrazia, di riforme, di cambiamento. Ma prima di tutto ci vuole un’educazione nuova, che sradichi fin dai suoi primi germogli la mentalità del jihadista. Solo così si può pensare a un futuro per i cristiani qui. E anche a un futuro sicuro per l’Occidente. L’islamizzazione radicale è l’obiettivo di chi non vuole i cristiani qui e voi in Occidente non li conoscete, non sapete cosa intendono dire quando parlano».


Senza scarpe nel fango

Non c’è spazio per le illusioni quando si cammina tra tende di sfollati e bagni comuni provisori, si parla con bambini che giocano nel fango nel pieno dell’inverno e non hanno le scarpe, o si incrocia lo sguardo con chi è scampato alla morte, è stato derubato di tutte le sue cose e dei suoi progetti, e vive appeso a un filo. «Nella migliore delle ipotesi – osserva ancora mons. Warda –, se anche lo Stato islamico fosse sconfitto e i suoi miliziani eliminati, che cosa potrebbe trovare chi si azzardasse a rientrare in quei villaggi? Case distrutte, terreni minati e soprattutto il tessuto di fiducia reciproca tra gli abitanti stracciato».

Tra quanti sono stati cacciati dai loro villaggi c’è anche chi non vuole abbassare la testa e cerca di costituire delle milizie cristiane, come Yoseph Yacoub Methy, del Bethnarin Patriotic Party: «Nessuno prende le nostre difese fino in fondo, l’esercito iracheno e i peshmerga curdi hanno già dimostrato nella piana di Ninive che sanno abbandonare i cristiani nella mani di Isis senza muovere un dito. Dobbiamo imparare a difenderci da soli». Un’impresa quasi impossibile considerata la situazione di frammentazione dei pochi cristiani nel Paese (divisi politicamente in oltre sette partiti), a fronte di nemici numerosi e molto ben armati.

Dove si è installata la furia diabolica di Isis, casi come quello di Mahmad al-Assali, professore all’università di Mosul ucciso per aver contestato l’espulsione dei cristiani e testimonianza potente di quale tipo di coesistenza poteva essere possibile, sono rimasti rari. Se per pavidità o calcolo, resterà da decifrare. Più si affonda nella complessa realtà e storia irachena, più diventano martellanti due interrogativi: perché tanto odio nei confronti dei cristiani? E perché provare ad aiutarli a restare? Un principio di risposta si può attingere da una riflessione del patriarca Sako: «Il nostro problema è che siamo assimilati all’Occidente. E molti musulmani pensano che di là vengano tutti i loro mali: l’Occidente sostiene Israele, l’Occidente attacca i musulmani e sfrutta il petrolio… Siccome considerano l’Occidente cristiano, la sua colpa ricade anche su di noi. I membri dello Stato islamico in particolare ritengono che i cristiani con la loro libertà, i loro costumi diano fastidio. Guardate le giovani cristiane in jeans e senza velo! In questo presunto califfato una cristiana libera, vestita diversamente, obbliga le altre donne a porsi delle domande. I cristiani con la loro differenza seminano il dubbio»[4]. Sono insopportabili, vanno eliminati.

Insopportabili come la croce, che nelle chiese caldee è senza il Cristo crocifisso, solo legno. A sottolineare che Gesù ha sconfitto la morte, la violenza, la spada, ed è risorto. La croce dei caldei è una croce gloriosa, la certezza alla quale non smettono di restare aggrappati.

[1] La jizya, l’imposta di “protezione” prevista dalla sharî‘a, pare si aggirasse intorno ai 450 dollari, cifra esorbitante che non sarebbe stata comunque sufficiente a salvare la vita di chi non si convertiva, tanto più in uno Stato che non può accettare al suo interno la presenza di “miscredenti”.

[2] Talal Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud, Arabes chrétiens, ne partez pas !, «an-Nahar», 28 marzo-3 aprile 2002, p. 28.

[3] Andrea Pacini (a cura di), Comunità cristiane nell’Islam arabo, Fondazione Agnelli, Torino 1996, p. 69.

[4] Louis Sako, « Ne nous oubliez pas ». Le SOS du patriarche des chrétiens d’Irak, Bayard, Paris 2015, p. 34.

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