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mercoledì 11 novembre 2015

Un appuntamento da non perdere

Incontro con P. Jacques Mourad, rapito e rimasto nelle mani del'Isis per quattro mesi in Siria.

Padre Jacques Murad si racconta sul canale arabo della tivù pubblica inglese

Terrasanta.net | 30 ottobre 2015

Un'inquadratura di padre Jacques Murad durante l'intervista alla BBC.
 «Ho deciso che dovevo scappare da Qaryatayn quando ho visto coi miei occhi che i miliziani dello Stato islamico avevano distrutto il monastero di Mar Elian, di cui ero priore, e la tomba del santo (Mar Elian, un monaco del IV secolo che ebbe tra i suoi discepoli anche Efrem il Siro - ndr). Sono fuggito per incoraggiare gli altri cristiani del mio villaggio a non rimanere sotto lo Stato islamico e ad imitarmi».

Emergono nuovi particolari sulla vicenda di padre Jacques Murad, sacerdote siro cattolico rapito da uomini dello Stato islamico (Isis) lo scorso 21 maggio e fuggito dalle loro mani il 12 ottobre, dopo cinque mesi di prigionia. Oggi padre Jacques si trova nei pressi di Homs. Qui è stato raggiunto da una troupe dei programmi in lingua araba dell’emittente britannica BBC, che lo ha intervistato sabato 24 ottobre. Le immagini riprendono padre Jacques finalmente libero, mentre celebra una messa in un cortile con qualche decina di fedeli. L’altare usato per la celebrazione è un tavolino coperto da un panno, appoggiato ad una parete del cortile. La croce che lo sovrasta è formata da due semplici rami legati insieme. Durante l’omelia padre Jacques si pone ad alta voce la domanda che tutti i cristiani di Siria, in fondo, si portano dentro: «Tanti si chiedono dov’è Dio? Quando verrà a salvare il suo popolo da queste stragi?».

«Tre settimane prima che mi rapissero ho avuto la percezione di essere in pericolo, che qualcuno mi stesse sorvegliando – ha raccontato padre Jacques ad Assaf Aboud, il giornalista della BBC che lo ha intervistato –. Poi, il 21 maggio (quando ancora Qaryatayn non era nelle mani dell’Isis - ndr) alcuni uomini con il volto coperto sono venuti al villaggio. Due di loro sono entrati nel monastero e hanno preso me e un seminarista. Ci hanno legati e incappucciati e, con la macchina del monastero, ci hanno portati a mezz’ora di strada dal villaggio, sulla montagna. Dopo quattro giorni ci hanno trasferito nella città di Raqqa. Qui, per 84 giorni sono rimasto in prigione. In generale mi hanno trattato bene. Non siamo stati torturati. Ma tutti i giorni entravano nella mia cella e mi parlavano duramente: mi dicevano che eravamo infedeli, che sbagliavamo e che l’unica religione vera è l’islam che propone lo Stato islamico. Dicevano di essere venuti per portare la religione giusta. Sono gente dalle grandi ambizioni: vogliono arrivare a (controllare) Roma e Mosca».
Durante tutto il periodo di prigionia padre Jacques ha subito interrogatori da parte degli emiri dello Stato islamico. Nei primi giorni, quando ancora non era a conoscenza del fatto che l’Isis avesse preso il suo villaggio, un emiro gli ha fatto insistenti domande sui luoghi cristiani di Qaryatayn: «Ho risposto che abbiamo due chiese, una siriaco ortodossa e una siriaco cattolica e che poi c’è un monastero. “E cosa è questo monastero?” Mi ha chiesto l’emiro. Allora ho pensato che non sapesse quanto fosse importante il monastero per noi cristiani e musulmani di Qaryatayn. Così gli ho detto che era solo un luogo dove avevamo delle terre coltivate. Ho cercato di nascondere quanto è importante… ma loro sapevano tutto».

«Pensavamo che questi dello Stato islamico fossero dei beduini, degli ignoranti, ma non è così – commenta amaramente il sacerdote –. Specialmente quelli venuti dall’estero, tunisini, algerini e iracheni, sono laureati, hanno studiato e sono molto determinati nel raggiungere i loro obiettivi».
Dopo quasi tre mesi di prigionia a Raqqa i miliziani dell’Isis hanno riportato padre Jacques a Qaryatayn: «Per arrivarci siamo passati da Palmira. Trenta chilometri più oltre, la macchina è entrata in un luogo coperto - racconta padre Murad -. Ci hanno fatti scendere e siamo entrati in un locale con una grande porta di ferro. La prima cosa che ho visto sono stati due dei ragazzi cristiani del mio villaggio. Poi, alzando lo sguardo, ho visto tutti gli altri miei cristiani! Sono stati giorni pieni di sofferenza; per me era molto difficile pensare che i miei figli fossero imprigionati, specialmente gli anziani e i disabili. La cosa che mi ha fatto soffrire di più è stato il fatto che, tra gli altri, c’erano anche una donna e un bambino di dieci anni, entrambi malati di tumore. Avevano bisogno di cure particolari, di medicine… e noi pregavamo gli emiri che avevano responsabilità su di noi, perché almeno questi due potessero andare a farsi curare, potessero cercare le medicine… Non hanno mai accolto la nostra richiesta».

«Il 31 agosto, alla fine, sono venuti da me cinque o sei emiri – continua il racconto –. Mi hanno chiamato e io ho avuto paura, ho temuto davvero che mi avrebbero ucciso. Erano venuti per annunciare cosa aveva deciso il califfo per i cristiani di Qaryatayn. Allora mi sono messo una mano sul cuore e ho detto dentro di me: basta. È finita! Invece il califfo ci lasciava scegliere tra quattro possibilità: la prima che gli uomini fossero uccisi e le donne fatte schiave; la seconda che tutti fossero ridotti in stato di schiavitù. La terza era la conversione di tutti all’islam; e la quarta era di accettare la grazia del califfo. La grazia consisteva nel vivere nella terra dell’Isis, pagando una tassa. Tutti hanno scelto questa possibilità. Così gli emiri hanno preso nota dei nomi di tutti i cristiani. Il giorno dopo hanno preso due grandi camion, ci hanno caricato e ci hanno riportato nel nostro villaggio. Ci hanno dato dei documenti con cui potevamo andare ovunque, anche fino a Mosul, nelle terre governate dallo Stato islamico. Quando ho potuto, sono fuggito, per dare anche agli altri cristiani il coraggio di fuggire. Tra i cristiani di Qaryatayn, infatti, ci sono persone che hanno difficoltà a pensare di andare via. Preferiscono morire nella loro terra. E ci sono cristiani che pensano che sia possibile vivere anche sotto l’Isis».

lunedì 9 novembre 2015

"Chi sei tu per dire che oggi non c'è Messa?" : intervista a don Alejandro José Mendoza

di Cristina Sanchez Aguilar
Alfa y Omega

"Un giorno, circa un anno fa, stavano cadendo missili a Damasco.  Era Domenica, il giorno in cui celebriamo quattro Messe per oltre 500 giovani che frequentano il nostro oratorio. Ho preso la decisione di non celebrare la Messa, perché siamo nel centro della città e la maggior parte dei giovani vive lontano. Ogni fine settimana inviamo autobus per raccoglierli, ma questa volta ho avuto paura. Alla mattina ho mandato messaggi a tutti i responsabili per avvisare i ragazzi. Alle cinque del pomeriggio, all'ora della prima Eucaristia, apparve sulla soglia un gruppo di circa 25 giovani che erano arrivati a piedi da uno dei quartieri più lontani dal centro. Ero veramente arrabbiato con loro, ma mi hanno detto: "Chi sei tu per dirci che non possiamo venire a Messa?", E io ho dovuto restare in silenzio. Se per me questa decisione è stata difficile, immaginarsi per i loro genitori, che ogni giorno devono prendere la decisione se lasciarli andare a scuola o no. Se li lasciano, rischiano la vita dei loro figli. Se non li lasciano rischiano la loro formazione e il loro futuro."

Per questo il numero di giovani e di famiglie in fuga dalla Siria è sempre più alto.
Sono partiti moltissimi cristiani.  Il momento chiave è quando i ragazzi finiscono l'università;  allora devono scegliere di rimanere o di vendere tutto e ripartire da zero. Ma questa decisione implica intraprendere un viaggio in cui si può morire, e in cui tutto lo sforzo della loro vita sia inutile. Noi, per esempio, abbiamo formato moltissimi laici e da un giorno all'altro se ne sono andati. Per fortuna, ora abbiamo 80 animatori che ci aiutano nel lavoro pastorale.

Immagino che la prospettiva di poter emigrare in Europa li incoraggerà ulteriormente.
Sì. Quando i giovani vengono a parlare con me mi dicono che vogliono partire, soprattutto per l'Europa. Se questo viaggio è perché li hanno accettati in una università dico loro di andare avanti. Ma quando mi dicono che stanno per imbarcarsi da clandestini, mostro la mia disapprovazione. Ma il loro ragionamento è travolgente: "Padre, se vado posso morire, ma se resto qui è sicuro."

La situazione a Damasco peggiora di minuto in minuto.
Gli ultimi due mesi sono stati fatali, e anche se è ben protetta dal Governo, Damasco non riuscirà a resistere per sempre. Solo non ci piace quando ci confrontano ad Aleppo, perché se noi stiamo male, là è l'inferno. Ad esempio, a noi tagliano l'elettricità ogni giorno otto ore, ma Aleppo ha elettricità un'ora ogni due giorni. Qui può mancare il pane, ma là manca qualsiasi tipo di cibo.  Noi non abbiamo acqua quattro ore al giorno, loro sono stati per tre settimane senza acqua.

La guerra ha causato una evoluzione nella fede dei cristiani siriani che rimangono?
Certo. In Siria la fede si viveva in un senso molto tradizionale. Quando iniziò la guerra, la gente andò in crisi perché non aveva a che cosa aggrapparsi. Noi sacerdoti abbiamo collaborato con la crisi, perché all'inizio della guerra abbiamo detto a molti che se avessimo pregato forte, tutto sarebbe finito. E non è finita. E' stato un duro colpo per i cristiani. Così siamo cambiati insieme.  Ci siamo abbandonati al Signore e abbiamo deciso di costruire con le nostre mani il Regno. Come potremmo chiedere ai nostri fratelli musulmani di vivere in pace, quando la nostra pace non è quella vera? Ciò ha portato molti a vivere una fede molto profonda.

Una fede che ha portato benedizioni. Ora avete con voi 1.200 giovani.
Eravamo giunti ad averne solo 20, perché i genitori avevano paura di lasciare che i loro figli uscissero per strada. Così abbiamo iniziato a visitare le famiglie a casa. L'obiettivo principale era quello di dare conforto e distribuire l'assistenza economica che stava arrivando. Durante queste visite incontravamo giovani senza speranza che avevano visto i loro amici morti quando erano colpiti da un proiettile. Ci chiedevano a cosa serviva impegnarsi se dovevano morire comunque. Ci siamo centrati sul seguire un cammino spirituale forte con loro, e quelli che andavano rinascendo alla speranza ne contagiavano altri. Così, in estate abbiamo avuto al centro salesiano 1.200 giovani, e ci sono altri che vogliono iniziare a partecipare.
  
 (trad. dallo spagnolo di FM)
http://alfayomega.es/32598/quien-eres-tu-para-decir-que-hoy-no-hay-misa


venerdì 6 novembre 2015

«VOLETE SALVARE I CRISTIANI? FERMATE LA GUERRA»: cardinale Béchara Boutros Raï



FAMIGLIA CRISTIANA
«La prima cosa da fare per proteggere i cristiani in Medio Oriente è far cessare la guerra in Siria, Iraq, Yemen e Palestina. Gli Stati europei litigano fra di loro per il numero di profughi da accogliere ma non agiscono per porre fine al conflitto. Solo il Papa leva la sua voce su questo». Sua Beatitudine Mar Béchara Boutros Raï, 75 anni, creato cardinale nel concistoro del novembre 2012, è il patriarca di Antiochia dei Maroniti del Libano. Lo incontriamo a Milano, in un meeting organizzato dalla Fondazione Oasis, a pochi giorni dalla chiusura del Sinodo sulla famiglia dove era padre sinodale insieme al cardinale Scola che lo ha invitato nell’ ambito dell’ iniziativa “Evangelizzare le metropoli”.

La richiesta d’ aiuto dei cristiani mediorientali è sempre più drammatica. Di cosa hanno bisogno i cristiani in Siria, Iraq, Libano?
«Per prima cosa che la guerra cessi perché a causa del conflitto sia i cristiani che i musulmani moderati emigrano e se ne vanno. Il Medio Oriente si sta svuotando e si lascia campo libero a fondamentalisti e organizzazioni terroristiche. Il secondo è che  ci sia un appello forte perché cessi la guerra. Gli Stati non ne parlano, gli unici appelli li fa il papa Francesco. L’ Europa discute sull’ accoglienza dei profughi, chi  ne vorrebbe diecimila e  chi tremila, ma questo non ci aiuta, non ci serve. L’ Europa dovrebbe concentrarsi sulla causa dei profughi, ossia la guerra. Bisogna chiudere il rubinetto e far sì che musulmani e cristiani tornino nelle loro terre. Un Medio Oriente senza cristiani, come diceva Benedetto XVI, non ha più identità. Perché quello è il luogo di tutta la rivelazione divina: lì Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Lì è nata la Chiesa ed è partito l’ annuncio del Vangelo al mondo».

Oggi però la convivenza con i musulmani è difficile, quasi impossibile.

«I cristiani sono lì da duemila anni, seicento anni prima dell’ arrivo dell’ Islam. Non accettiamo di essere chiamati “minoranza”! Abbiamo creato lo strato culturale cristiano di questa regione. Da 1400 anni viviamo insieme e pacificamente con i musulmani. Come l’ Europa discute su come preservare la propria identità, anche a noi preme di conservare la nostra che è formata dalla cultura islamica e da quella cristiana. È questo di cui abbiamo bisogno oggi».
Lei pensa che ci sia un progetto dei musulmani di conquistare l’ Occidente attraverso i flussi migratori? 
«Ho sentito più volte dai musulmani che il loro obiettivo è conquistare l’ Europa con due armi: la fede e la natalità. Per loro la pratica della fede è essenziale e fondamentale. In Arabia Saudita vanno il Venerdì alla preghiera anche col bastone. Conoscono a memoria il Corano e quando parlano lo citano spesso, lo stesso non accade per i cristiani che non si rifanno né alla Bibbia né all’ insegnamento della Chiesa. Loro credono che la volontà di Dio è procreare e che il matrimonio sia finalizzato a questo. Qui vedono che difficilmente ci si sposa, che non si fanno molti figli. Se siamo tanti possiamo imporci, pensano. Ad esempio non comprendono il significato  celibato dei preti, sono scandalizzati da questo perché secondo loro questo significa andare contro la volontà di Dio. Noi dobbiamo mantenere la nostra presenza con la qualità della vita e della testimonianza, non possiamo puntare sui numeri perché siamo pochi. Nel Golfo e in tutti i paesi arabi i cristiani occupano i migliori posti perché hanno cultura, moralità e non s’ intromettono nella politica interna».

Esiste un Islam moderato? 

«La maggioranza lo è, viviamo insieme a loro tutti i giorni: a scuola, al mercato, in università. E non da oggi. Però i musulmani non osano prendere posizioni nette contro gli estremisti e i terroristi. Ultimamente, sia pur con molta cautela, hanno preso posizione contro lo Stato Islamico dell’ Isis. In Libano dicono a noi di schierarci. Vengono da me al patriarcato dicendo di schierarci e che loro non possono parlare. L’ elemento religioso è fondamentale. Per un musulmano viene prima l’ Islam, poi la propria patria. I musulmani sunniti sono legati totalmente all’ Arabia Saudita, mentre gli sciiti all’ Iran. Per questo non possono prendere posizioni forti se non le prendono i loro Paesi di riferimento. In Libano, l’ Isis l’ hanno condannata ma i Fratelli Musulmani no, per fare un esempio. Quando i Fratelli Musulmani hanno preso il potere in Egitto e iniziato a imporre la sharia tutto il popolo si è ribellato fino ala destituzione di Mohammed Morsi. Questo vuol dire che la società è moderata. Poi viene una certa politica da fuori e distrugge tutto».

La persecuzione nei confronti dei cristiani mediorientali quanto è dovuta all’ odio religioso del Califfato e quanto al fatto che sono vittime perché non contano nulla in questi Paesi?

«Ci sono tre elementi essenziali da considerare. Per i musulmani il giudaismo è stato completato e soppiantato dal Cristianesimo e questo è stato completato e soppiantato dall’ Islam. Per loro il passaggio normale e naturale del cristiano è diventare musulmano e quindi guardano al cristiano come una persona che non ha fatto questo passo. Nella loro psiche il cristiano non è accettato come cristiano perché deve diventare musulmano ecco perché dicono che Maometto è l’ ultimo dei profeti. Secondo: loro identificano qualsiasi cosa che viene dall’ Occidente come cristiana tout court. Tutta la politica occidentale è una politica cristiana, è una nuova crociata. Loro dicono che i cristiani sono i resti delle crociate e dell’ imperialismo occidentale e noi rispondiamo che siamo in quelle terre seicento anni prima di voi. Un giorno venne da un personaggio religioso sciita dall’ Iraq per chiedermi cosa bisognava fare per proteggere i cristiani. Io gli risposi di non accettare la parola “proteggere” perché i cristiani sono cittadini iracheni come tutti gli altri. Poi ribaltai la domanda: “Cosa fate voi”, dissi, “per proteggere i cristiani? Perché li ammazzate mentre pregano e fate esplodere le chiese?" E lui mi rispose, indicandomi il fianco: “I cristiani sono il fianco debole della società, nel caos si attaccano loro”. Se gli chiedi perché attaccano i cristiani non trovano motivazioni plausibili però nel loro inconscio giocano questi elementi. Per questo Giovanni Paolo II, da persona saggia, quando convocò un’ assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per il Libano prima di annunciarlo mandò una delegazione nel Paese per parlare con i capi religiosi musulmani e informarli ed evitare che questo venisse interpretato come una crociata nei loro confronti. Abbiamo fatto la preparazione del Sinodo insieme ai musulmani. E l’ esortazione post sinodale l’ hanno letta più loro che noi cristiani! Nella vita quotidiana loro hanno molto fiducia nei cristiani, noi lo sappiamo e sappiamo anche come vivere insieme a loro».
Lei teme che il conflitto siriano si allarghi anche al Libano?
«Siamo un Paese più piccolo della Sicilia e attualmente abbiamo un milione e mezzo di profughi su 4 milioni di abitanti, più mezzo milione di palestinesi. Cosa resterà di noi? La gente libanese emigra. Cosa resterà della cultura libanese, dell’ economia? Se continua la guerra per noi sarà la fine. Ci sono 350mila alunni siriani solo per quest’ anno che hanno bisogno di insegnanti, scuola, libri. Sono quanti gli alunni libanesi delle scuole statali. Stiamo pagando a caro prezzo la guerra in Siria: siamo vicini e non possiamo chiudere le porte a questa gente, sono esseri umani. E se fossi io o la mia famiglia nei loro panni? Ecco perché la comunità internazionale non dovrebbe lasciarci soli».

Al Sinodo i problemi “occidentali” sono stati a lungo al centro della discussione. Lei viaggia molto e conosce bene l’ Europa. Ritiene che  l’ uomo dell’ oriente sia profondamente diverso da quello occidentale o c’ è stato un avvicinamento? 

«C’ è differenza, senza dubbio.  I problemi che riguardano noi e la famiglia sono molti diversi da quelli europei che sono stati discussi dal Sinodo per l’ Occidente. Sia per i musulmani che per i cristiani il punto saldo è che il matrimonio è un’ istituzione divina. Per noi è un sacramento, per i musulmani una legge divina. Le legislazioni civili nei paesi del Medio Oriente salvaguardano il matrimonio come realtà religiosa, non esiste il matrimonio civile e i musulmani non lo riconoscono. In Libano il matrimonio civile è accettato ma solo se celebrato fuori dal Paese. La legislazione salvaguarda il matrimonio e la famiglia. I cristiani sono più aperti verso la laicità e il secolarismo occidentali, però siamo protetti dalle leggi civili. I nostri problemi sono differenti. Ho detto al Sinodo l’ anno scorso che qui in Europa la Chiesa deve andare sempre a raccogliere quello che gli Stati buttano per terra, legiferando senza alcuna considerazione per la legge divina né rivelata né naturale. Bisogna fare un appello allo Stato affinché rispetti almeno la legge naturale. Da noi, invece, le legislazioni statali ci aiutano molto a conservare i nostri valori».  

I Vescovi maroniti: no alla spartizione della Siria

Agenzia Fides  6/11/2015

Beirut – La prospettiva – da tempo ventilata - di una spartizione su base settaria della Siria preoccupa i Vescovi maroniti, che propongono di guardare al modello istituzionale libanese per cercare di neutralizzare le spinte centrifughe settarie che alimentano il conflitto siriano, rischiando di dilaniare il Paese. Sono queste le chiavi di lettura della crisi siriana emerse nell'assemblea dei Vescovi maroniti riunitisi ieri presso la sede patriarcale di Bkerkè, per il loro incontro periodico, sotto la presidenza del Patriarca Boutros Bechara Rai. 
“Le voci sulle ipotesi di una nuova mappa della Siria” si legge nel comunicato finale dell'incontro, pervenuto all'Agenzia Fides “non lasciano ben sperare per il futuro di pace nella regione. La soluzione proposta non è buona”. 
Dal canto loro, i Vescovi suggeriscono che i negoziatori impegnati nella ricerca di una soluzione al conflitto siriano prendano in considerazione l'esperienza storica di convivenza vissuta nel Paese dei cedri, che con tutti i suoi limiti, le sue crisi e le sue contraddizioni, ha consentito che tutte le comunità religiose fossero coinvolte nella gestione della cosa pubblica. Solo la ricerca di sistemi istituzionali capaci di garantire equilibrio tra le diverse realtà etniche e religiose – sostengono i Vescovi maroniti - può salvare l'intera regione dalla logorante prospettiva di un conflitto permanente e generalizzato. 
Nel loro comunicato, i Vescovi libanesi ribadiscono anche il loro pieno sostegno per l'esercito e tutte le forze di sicurezza libanesi, e aggiungono di nuovo la propria voce a quella del Patriarca, che ha lanciato innumerevoli appelli ad uscire dall'impasse politica creatasi intorno all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

giovedì 5 novembre 2015

Il Patriarca Younan accusa l'Europa di aver "abbandonato e tradito" i cristiani mediorientali e gli americani di "essersi inginocchiati agli emiri".

"Le sanzioni alla Siria sono peggio di una guerra"



Roma,  (ZENIT.org

di Federico Cenci 

C’era una volta il Mare Nostrum, “che collegava l’Europa al Medio Oriente”. Di quel corridoio attraverso cui transitavano cultura e scambi commerciali è rimasta oggi solo l’espressione geografica. Tra le acque del Mar Mediterraneo sventola la bandiera a stelle e strisce, in Medio Oriente scorre il sangue dei cristiani e, di fronte a questo scenario, in Europa vige l’apatia.
È l’immagine che consegna Sua Beatitudine Ignatius Joseph III Younan, Patriarca della Chiesa siro-cattolica, parlando a ZENIT e durante il convegno La Jihad da Oriente a casa nostra, tenutosi a Roma su iniziativa di Umanitaria Padana Onlus e dell’associazione Pakistani Cristiani in Italia.
Sono dure come macigni le critiche che il Patriarca muove all’Occidente e all’Europa. Quest’ultima - ha esclamato - “ci ha abbandonati e traditi”, poiché “ha lasciato che nel Mediterraneo fossero gli americani a prendere iniziativa, non per difendere i diritti delle minoranze ma per andarsi ad inginocchiare agli emiri per il petrolio”.
Ne deriva la “grave situazione” in cui versano i cristiani. Oltre un terzo della comunità siro-cattolica ha dovuto lasciare i propri villaggi d’appartenenza a causa delle offensive dei terroristi islamici. E in Europa - ricorda il Patriarca - per lungo tempo “i Governi hanno dato una ‘falsa lettura’ di quegli eventi”, rendendosi così “complici della distruzione di un popolo e di una civiltà”.
Il Patriarca Younan invita allora ad abbandonare il linguaggio “politicamente corretto”, che gli americani esportano nel mondo "insieme alle bombe". Il suo appello è invece ad affermare “la verità con carità”.
 Entrando nel merito, spiega che sente spesso parlare di “islamofobia”. Concetto che tuttavia stride con una realtà, in Medio Oriente, in cui quotidianamente i cristiani vengono massacrati dai più aggressivi aderenti “all’Islam politico”.
Islam politico che si è potuto sviluppare grazie all’ingenuità occidentale.
Il Patriarca ricorda che nel maggio 2011, a Parigi, incontrò l’allora ministro degli Esteri francese Alain Juppé che, appena tornato da un viaggio in Egitto, gli parlò dei Fratelli Musulmani come di un gruppo “moderato”. “Ebbene - la riflessione del capo dei siro-cattolici - questa organizzazione politico-religiosa si fonda su cinque colonne, di cui la quarta è espressamente il jihad”.
Oltre al linguaggio politicamente corretto, Sua Beatitudine ha attaccato anche la “manipolazione mediatica”. Ricorda che “è stato detto che alcuni membri del Patriarcato di Mosca avrebbero definito l’intervento russo in Siria una guerra santa”. In realtà - precisa il Patriarca - da Mosca hanno sostenuto che “chi combatte i terroristi sta facendo guerra per una giusta e santa causa”. Che è diverso dal compiere una guerra santa contro un’altra religione. “Del resto in Russia milioni di musulmani vivono liberamente e godono di tutti i diritti”, ha aggiunto il Patriarca.
Intervistato da ZENIT a margine della conferenza, il Patriarca Younan è quindi tornato a parlare dell’intervento russo in Siria. Si è detto a tal riguardo “molto ottimista” e ha riconosciuto che la Russia ha “intenzioni serie”, in quanto “si coordina sul terreno con l’esercito regolare siriano”. Questo modo di agire - ha proseguito - “limita anche i danni collaterali, che invece sono inevitabili quando si bombarda e basta, come stanno facendo gli americani”.
Agli americani e ad altri Paesi occidentali il Patriarca Younan imputa anche altro:
“Le sanzioni rivolte alla Siria sono una tragedia per il suo popolo, lo affamano e lo rendono più vulnerabile agli attacchi dei terroristi”. Questo sistema di sanzioni nei confronti del Governo di Bashar al-Assad - ha concluso il Patriarca - “è peggio della guerra stessa”.
Infine il Patriarca Younan ha ringraziato papa Francesco, il quale in apertura dei lavori del Sinodo, “ha espresso solidarietà alle Chiese coinvolte dalla guerra e ha chiesto di pregare per la pace”.
Unità nella preghiera che fa dei cristiani nel mondo membra di un solo corpo.

martedì 3 novembre 2015

Viaggio in Siria (2): Homs, ya Rabb!



    "Ya Rabb! = mio Dio!"
Davanti ai mozziconi di palazzi testimoni verso il Cielo di mesi e mesi di bombardamenti incrociati, atti terroristici e sofferenze immani, non trovo che questa parola, delle dieci che ho imparato: 'mio Dio!'
I due terzi di Homs sono ridotti così.



    Ci rechiamo alla casa dei Gesuiti dove riposa il caro padre Frans per pregare sulla sua tomba, affidargli l'intercessione per la pace in Siria e salutare i suoi confratelli. E qui comprendo un po' meglio le parole del Vangelo  "era necessario che il Figlio dell'uomo soffrisse molte cose ..." .
  Grata di raccogliere la testimonianza di padre Nouras Sammour, questo è il suo racconto:

    “Tutto è cominciato nel giugno 2012 con l'assedio, c'erano persone che volevano andarsene e altre che volevano restare; sono rimasti circa 90 cristiani, tra questi nel corso dei mesi diversi sono morti a causa di malattie, non direttamente per la guerra. Poi, nel febbraio 2014 ci fu un accordo tra lo Stato siriano e gli uomini armati che stavano qui, infine si concluse che quelli che volevano uscire potevano farlo.
Dunque molti della comunità cristiana sono usciti ma un piccolo resto di cristiani si è fermato, padre Frans ha voluto restare con loro, perché non c'era nessun altro che potesse prendersene cura.
Ne sono rimasti una ventina; era il 7 aprile 2014; un mese dopo Frans è morto.
Durante questo tempo egli era diventato un simbolo; era lui che teneva insieme questa gente.
Egli aveva delle provviste, farina, cibo, mentre in generale approvvigionarsi qui era assai difficile. Frans aveva qualcosa, ma soprattutto era il pastore: visitava i malati, portava conforto, faceva i funerali e celebrava la messa la domenica; nei pomeriggi si riunivano per la preghiera e la cena. La domenica dopo la messa si radunavano qui.  Ci sono video e registrazioni di questo, perché con il 3G riuscivano a inviare le comunicazioni. C'è chi ha trascritto le sue omelie, le sue riflessioni, e ce le ha comunicate. Di tanto in tanto riuscivamo a sentirci al telefono, l'ultima comunicazione che avremmo fu due giorni prima del suo assassinio. Ogni tanto io venivo a Homs ma dalla parte della nostra residenza;  ma pur essendo a 1 km di distanza non si riusciva a giungere fin qui.

   La ragione del suo assassinio?
Sì, lui era un simbolo, tutta la sua vita è stata per l'incontro e la riconciliazione, questo è chiaro,
Che lui sia stato assassinato proprio perché egli era questo simbolo, può essere, non lo so, né so chi lo ha ucciso, non lo conosco personalmente. Ma senza dubbio è qualcuno che ha fatto un atto di male contro il bene, semplicemente IL MALE: questo è certo. Non si tratta di condannare la persona, non spetta a me giudicarla. Ma l'atto in sé è un atto di male contro una figura di bene, contro una testimonianza del Vangelo.
E oggi la sua presenza continua. Certo, noi vorremmo vederlo ancora in mezzo a noi , così come allora avremmo voluto avere il suo corpo, per fare i funerali … Ma in quel momento era molto difficile, questo quartiere che era sotto assedio: mi ero messo in contatto con alcuni ufficiali che mi dissero che erano pronti a inviare l'ambulanza per recuperare il suo corpo se l'altra parte che stava qui avesse accettato. Allora quando interpellai questa parte dissero: “Si, ma noi ci dobbiamo sentire anche con altri...“. E allora io ho detto: “ se non c'è risposta io lo seppellirò lì".  
Non arrivando risposta, io ho sentito che bisognava seppellirlo qui, dove lui aveva donato la sua vita.
E dunque lo abbiamo seppellito qui, e questa ora è una consolazione: è qui il suo posto. È una consolazione, la comunicazione misteriosa della fede che continua.
carboncino di Layla Orfali

Può essere un mio pensiero personale, ma forse il ritorno delle persone che sono rientrate nel quartiere, nelle loro case, non sarebbe stato così facile se Frans non avesse donato la sua vita.
È il chicco di grano che dona la sua vita perché la moltitudine possa vivere.
Questa è la mia lettura.

Nella città di Homs c'erano circa 150,000 cristiani. Oggi ne sono rientrati la metà."


    Poco distante, la chiesa della Santa Cintura: la ricordo bene prima della guerra,  santuario di devozione alla reliquia della Madonna: oggi è il simbolo della devastazione ma anche  della volontà ostinata dei cristiani di ricostruire, di riprendere la vita, la presenza, la speranza che 2000 anni di storia hanno radicato qui.  Qui è passata la Vergine Maria : 2000 anni fa, alla radice della storia cristiana.

    Allo stesso modo, negli scantinati della parrocchia greco-ortodossa della Madonna dell'Annunciazione ammiro le preziose antichissime icone del Monastero di san Georges qui custodite, salvate per l'amore dei fedeli consapevoli di un patrimonio molto più grande del valore economico di queste opere d'arte:
 'una questione di vita o di morte' , come mi dicono con semplicità.

Nella via di fronte alla chiesa rimbalzano i richiami dei bambini che escono a frotte dalla scuola, voci di un popolo che domanda solamente di poter avere un futuro nella propria terra.


  Fiorenza 
  (segue)




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il documentario di Anastasia Popova:

domenica 1 novembre 2015

Nella Festa di Tutti i Santi, un immenso 'GRAZIE!' a mons. Giuseppe Nazzaro, dalla Siria



Sono passati già alcuni giorni dalla sua morte… ma oggi, celebrando la festa di tutti i Santi, questa solennità che apre il nostro orizzonte e ci fa comprendere a quale speranza siamo chiamati, ed anzi, qual è la realtà di comunione che è già presente, che già viviamo con quelli che ci hanno preceduto ed anche con chi verrà dopo di noi, non possiamo non avere nel cuore Mons. Giuseppe Nazzaro.

Cara sorella, siamo alla fine” ... “Noi la ricordiamo sempre, e preghiamo per lei…” “grazie, grazie”..
Ecco, l’ultimo saluto, al telefono, una quindicina di giorni fa… Un saluto cordiale, reciprocamente fraterno, come è stato fra il nostro vescovo e la sua piccola comunità di trappiste in tutti questi anni di vita in Siria.
Il primo incontro, è stato in verità piuttosto severo: Padre Giuseppe ha messo subito alla prova il nostro desiderio; come suggerisce San Benedetto, ha scrutato gli animi… “Siete proprio sicure di volere venire qui? Che cosa vi aspettate? “. Ma la sua franchezza, la sua chiarezza senza finzioni, invece di scoraggiarci è stata la base che ci ha fatto decidere positivamente...
Ed è stato subito padre”. Sì, perché dopo averci messe alla prova, per così dire, poi ci ha sempre seguite, incoraggiate, sostenute.. Con lui, di lui, abbiamo moltissimi bei ricordi. I tanti consigli, le delicatezze, l’aiuto per comprendere le situazioni. E’ lui che ci ha spinte da subito a cercare un terreno per il monastero, che ci ha seguite nell’acquisto, che ha partecipato insieme al vescovo maronita al primo “segno” importante della nostra fondazione, l’impianto della Croce sul terreno di Azer, e ad altre tappe successive. Con lui e con le suore Dorotee, che ci ospitavano al Midan, con le Focolarine, abbiamo condiviso qualche cena di festa, a Pasqua, a Natale, durante l’anno… Con semplicità, momenti di condivisione di gioie, preoccupazioni, speranze, sforzi…
Le fatiche dell’arabo. Le gioie dei tortellini italiani fatti in casa…
Qualche celebrazione liturgica, persino le vigilie e la Messa di Natale (un po’ in gregoriano, un po’ in arabo, un po’ in italiano.. come si poteva) nel nuovo Vescovado di Aleppo, con le Suore e i padri del Verbo Incarnato…

Ma soprattutto abbiamo condiviso l’amore per questa terra, per i popoli che la abitano. L’amore per la Chiesa di Cristo… e la speranza per il futuro.
I suoi modi a volte potevano sembrare sbrigativi, un po’ rudi, ma quale cuore buono in lui! E ci pare che il suo cuore, e il suo amore per la Siria, sia diventato ancora più evidente alla fine del suo mandato come Vicario Apostolico della Siria, e all’inizio del suo consumarsi come amico della Siria, amico vero…
Non ha smesso di darsi, per far comprendere, per raccontare, per aprire gli occhi, le coscienze, le menti, per condividere la SUA ESPERIENZA della Siria e del Medio Oriente. A volte la sua posizione ha creato reazioni..”troppo di parte !”. Ma chi l’ha conosciuto sa che Mons. Giuseppe non era, non è certo un ingenuo… eppure si è giocato la faccia pur di dirci che non possiamo accontentarci dei luoghi comuni di un certo giornalismo “di altra parte”.
In ogni caso, ora siamo certe che, senza rischio di fraintendimenti, può fare ancora di più per la Siria, e certamente lo sta facendo…

Senza canonizzare nessuno (non è necessario, perché la comunione dei santi è fatta da tutti noi, battezzati e peccatori e però figli di Dio) ci piace pensare, come un’amica ci ha suggerito, che mentre Padre Giuseppe entrava in agonia, la parrocchia di Azizieh, ad Aleppo, era sotto bombardamento… e che non ci sono stati morti… e che è un piccolo segno che una vita donata con tutto il cuore partecipa di grandi cose...
Insomma, il nostro alla fine vuol essere un GRANDE GRAZIE a Mons. Nazzaro.. con tutto il cuore!

Le sorelle di AZEIR

giovedì 29 ottobre 2015

Viaggio in Siria (1)

  Dal 17 al 26 ottobre mi sono recata in Siria, ospite delle monache Trappiste di Azeir, un villaggio cristiano affacciato sulla valle verdeggiante in cui scorre il fiume che separa la Siria dal Libano, non lontano da Tartous.
Su questa collina boscosa cinque suore italiane (a cui presto si uniranno due postulanti locali) stanno costruendo un luogo bellissimo e semplice dedicato alla preghiera, al silenzio, all'incontro personale con Dio, che offra agli ospiti l'occasione di incontro con un'esperienza che ogni giorno vive nell'orizzonte della libertà, cioè della coscienza di chi è l'uomo e per quale ragione sta al mondo.

   Tra gli ospiti, incontro Layla, insegnante e poetessa di Aleppo che tra queste mura silenziose cerca di curare la ferita profonda della devastazione della sua città. Mi racconta dei palazzi sventrati, tra le cui macerie, con le mani, lei e i suoi famigliari cercavano i corpi dei vicini. Layla parla italiano e mi aiuta a comunicare con i cristiani del luogo e a superare la barriera insormontabile della lingua araba; con lei vado a visitare e portare un messaggio di amicizia ai bambini della scuola statale del villaggio, a cui dono del cioccolato che ho portato con me. Il giorno successivo, l'autista del taxi che mi conduce nella Valle dei Cristiani e papà di due alunni della scuola mi racconta che i suoi due bimbi sono tornati trionfanti tenendo come una reliquia la barretta di cioccolato che non vogliono che nessuno mangi perché “l'hanno portato dall'Italia proprio per me!”...   La scuola è povera ma dignitosa e organizzata con ordine; il maestro George mi dice con uno sguardo luminoso: “noi cerchiamo di rendere la vita più bella con tutti gli strumenti che abbiamo”.

   'Rendere la vita più bella' è veramente la sfida di oggi: scopro con sconcerto che proprio tutti se ne vogliono andare. Il ritornello comune è: “non c'è più niente per me, non c'è possibilità per il mio futuro”.    Nell'incontro con una famiglia cristiana di Bayda emerge tutto il dramma degli sfollati da Aleppo: la mamma rimasta vedova si reca tre volte alla settimana a lavorare a Latakia, la figlia Miriam di 16 anni frequenta con impegno il liceo artistico, il piccolo Daoud va alla scuola elementare, deve restare lunghe ore in casa da solo ma si comporta con piena responsabilità; poche frasi dicono la durezza della condizione di sfollati: “eravamo benestanti ora siamo quasi dei miserabili … Non siamo né vivi né morti...”. E Miriam si domanda: “per cosa restare qui? Restiamo per morire?”.

   La difficoltà principale a cui tutti devono far fronte è l'aumento spropositato del costo della vita: gli alimenti, le medicine, qualsiasi servizio costa 10 volte più di quanto era prima della guerra. Tutti vogliono andare in Germania, convinti che come rifugiati avranno il servizio sanitario, la previdenza, la sovvenzione da parte dello Stato e la certezza di ottenere prima o poi un lavoro dignitoso. Anche la prospettiva di finire in fondo al mare non è così terribile dopo aver vissuto i bombardamenti giorno e notte ad Aleppo o a Homs: “se muoio in mare sarà lo stesso che morire sotto le bombe” ... “viviamo nella paura: adesso arrivano! Ed ogni uomo armato che viene nella nostra direzione ci fa sussultare”.
Le sanzioni internazionali strangolano ogni impresa locale e favoriscono il proliferare delle mafie  e dei profittatori di tutti generi, sulla pelle degli sfollati e della gente comune.
Anche il vescovo di Tartous mons. Antoine Shbeir mi conferma che, pur essendo la cittadina di mare al riparo da bombardamenti, i giovani e le famiglie se ne vanno perché non reggono il costo della vita: lo stipendio mensile ormai basta solo a malapena a pagare l'affitto. Ma, aggiunge: “ora con l'intervento dei russi hanno ripreso un po' di speranza e alcuni che erano decisi ad andarsene stanno ripensandoci”.

   Il lavoro della ricostruzione umana sarà enorme, si è davvero rotta la convivenza e si è instaurata la sfiducia e il sospetto, Quello che prima della guerra era normale - stare fianco a fianco sunniti, alawiti, cristiani- ora è diventato tremendamente difficile: la ferita di tanta violenza, dei tradimenti, delazioni, di inimmaginabili vendette, lascia un rancore e una diffidenza che ai più pare impossibile sanare. Tra i bambini della scuoletta di Azeir,  ci sono gli orfani di due panettieri locali che si erano trasferiti a Homs per fare funzionare il forno ogni giorno e sono stati uccisi dai 'musallaheen', cioè i ribelli, solo perché ogni giorno lavoravano e quindi erano considerati sostenitori del governo. E gli abitanti delle cittadine cristiane situate sotto il Castello (il Crack des Chevaliers) ricordano con raccapriccio i massacri efferati che tra quelle mura sono stati compiuti dalle bande e il tormento dei proiettili che piovevano su di loro notte e dì.
I cristiani che prima erano l'elemento di moderazione nella società ora sono considerati, dai seguaci del Califfato, dei kuffar: infedeli; un 'Califfato' il cui sogno alberga nei pensieri di molti più sunniti di quanto si pensi ... Come del resto 'infedeli' sono considerati anche i sunniti 'laici' come il Mufti Hassoun o il ministro al Moallem..   I cristiani mi parlano con sdegno della devastazione e sfacelo operato da quelli che noi ora chiamiamo 'ribelli moderati' nelle chiese di Rableh e di Qaryatayn, da cui tutte le antiche bellissime sacre immagini sono state rubate prima della distruzione..
Lo slogan scandito nei primi giorni della 'rivoluzione' “alawiti nella tomba, cristiani a Beirut” si è rivelato realtà, e ormai non vi sono più remore nel ribadirne l'intento.


  Su ogni casa campeggia almeno un poster con la foto del 'martire': non c'è famiglia in cui manchi un figlio, o fratello, o marito, morto tra le fila dell'esercito siriano.  All'entrata di Tartous sussulto passando sotto interi muri tappezzati da questi volti, soprattutto di ragazzi, che rappresentano il tributo del popolo a questa guerra che non ha voluto, e di cui 'non ne può più'.

   Eppure piccoli segni  di speranza col passare dei giorni si presentano (e concordiamo di promuovere in Italia il modo per supportarli) :  gente che ancora osa credere nella possibilità di guardare l'altro con rispetto, di rinnovare in sé la speranza e la decisione della convivenza sperimentata in passato e da affermare ancora nel futuro:
- l'insegnante cristiana di musica che ogni mattina va a a fare lezione nel vicino villaggio sciita e anche nel villaggio sunnita
- i cristiani di Homs che tornano nel quartiere al Hamidiyah e il pellegrinaggio di musulmani e cristiani al convento gesuita in cui riposa padre Frans Van der Lugt
- le suore che gestiscono egregiamente la scuola 'al Amal' ( La Speranza) di Marmarita aperte agli sfollati provenienti da ogni parte di Siria
- i cooperanti salesiani sfollati da Aleppo che vogliono rimettere in piedi piccole attività lavorative: l'inizio di possibili attività di promozione della donna, laboratori di cucito, stamperie …
- la professoressa sfollata che non vuole vedere i suoi figli emigrare e vorrebbe allestire un salone vicino alla Parrocchia come biblioteca e centro di incontro giovanile 

  Percorriamo l'incantevole valle di Myssiaf (come sarà bella la Siria senza guerra!), ad  uno degli innumerevoli posti di controllo il militare restituisce alle suore e a me i documenti con questo saluto: "La Siria è illuminata dalla vostra presenza".


Aiutateci a restare. Questo grande compito , ridestare la speranza dei cristiani per trovare le ragioni per restare e radicare la speranza in un fondo umano più vero, è l'impegno che si assumono le Monache: perchè tutto ricomincia da una testimonianza che rimette in moto il riconoscimento della ragione per cui val la pena rimanere e sperare che ci sia un futuro. O come dice suor Marta: “Adesso basta piangerci addosso, muoviamoci! Anche qui , dove non c'è certamente l'ottimo delle condizioni, puoi dare un senso alla tua vita, sostenendo gli altri, operando per la dignità della vita e per la bellezza, che è dono gratuito!”.

Fiorenza
(segue)

mercoledì 28 ottobre 2015

Siria, dove i genitori non sanno se i figli torneranno da scuola...

La testimonianza di Samaan Daoud, profugo cristiano siriano che insieme alla sua famiglia è fuggito in Italia, al convegno 'Genocidio dei Cristiani. La Jihad da Oriente a Casa nostra'.

Roma,  (ZENIT.org)  , di Federico Cenci 

“Io sono un siriano e un cristiano, sono di Damasco, nato e cresciuto a pochi metri di distanza dal luogo in cui San Paolo si è convertito. Sono fierissimo della mia appartenenza”. È con parole solenni e dense di emozione che Samaan Daoud, profugo cristiano siriano, ha iniziato il racconto della sua esperienza nel corso del convegno La jihad da Oriente a casa nostra, che si tiene questo pomeriggio, 19 ottobre, nell’Aula dei Gruppi parlamentari, a Roma.
Samaan, padre di famiglia, in un perfetto italiano ha spiegato di essersi trasferito alla periferia di Damasco una volta sposato. Viveva in una zona residenziale, tranquilla almeno fino al marzo 2011, data d’inizio del conflitto che sta falcidiando la Siria.
Ma l’impeto d’odio non ha risparmiato nemmeno i luoghi lontani dai centri di potere della capitale siriana. La sua casa, in particolare, si trovava in un punto nevralgico dello scontro tra l’esercito regolare e i gruppi ribelli. “I colpi di mortaio sono arrivati fin dentro il mio giardino di casa”, ha raccontato.
Soprattutto, metaforicamente sono arrivati fin dentro il suo cuore procurandogli ferite che il tempo non potrà cancellare. L’uomo ricorda che un colpo di mortaio un giorno ha sfiorato uno dei suoi due figli ed ha colpito a morte un altro bambino all’uscita da scuola. “Ogni giorno, in Siria, quando i genitori mandano i bambini a scuola sanno che potrebbero non tornare più a casa”, spiega.
D’altronde tra le decine di migliaia di morti che la guerra ha provocato in Siria, molti sono bambini. Dei quasi 4milioni di rifugiati, circa la metà sono bambini. Numeri che testimoniano come le vittime principali della guerra siano i più innocenti.
E che testimoniano, al contempo, l’insopprimibile stato di tensione in cui si trovano a vivere i siriani. “Il grido Allah akbar è diventato per noi una maledizione, perché ogni volta che lo ascoltavamo capivamo che stavano arrivando i gruppi terroristi a portarci guerra, e non la benedizione del Signore”, afferma Samaan.
Il sinistro grido è diventato sempre più ricorrente nelle orecchie sue e dei suoi vicini di casa, anche una volta che si era trasferito di nuovo nel centro di Damasco. Da circa un anno e mezzo a questa parte, infatti, i ribelli hanno cominciato ad usare missili più potenti, di lunga gittata, capaci di colpire anche il cuore della capitale siriana da luoghi assai distanti.
La situazione era diventata insopportabile tanto che, non senza patimenti d’animo, lui e la sua famiglia hanno deciso di abbandonare la propria terra per trasferirsi in Italia, dove Samaan ha vissuto alcuni anni nel corso degli studi universitari.
La famiglia Daoud si trova da un mese nel nostro Paese, ma ha lasciato il cuore e la mente in Siria. È quasi commosso Samaan, quando ricorda la condizione in cui versa la Siria oggi. Quando era a Damasco ha spesso accompagnato cronisti italiani per far loro da interprete. I suoi occhi hanno visto lo sfacelo causato dall’Isis, “in villaggi non solo cristiani, ma anche musulmani”, ci tiene a precisare. E aggiunge: “Perché questi terroristi sterminano tutti coloro che non sono disposti ad accettare la loro linea”.
In futuro il Medio Oriente potrebbe ritrovarsi senza più presenza cristiana. In Siria - la riflessione di Samaan - i cristiani erano “il lievito”, perché pur rappresentando solo il 10% della popolazione, era all’interno delle loro comunità che pulsavano la cultura e il fermento industriale.
Da un lato Samaan afferma di invidiare coloro che sono rimasti in Siria, perché “sono martiri viventi, che ancora camminano - dice -. Sono persone che non sono state ancora uccise ma che portano la croce ogni giorno”. Croce che si manifesta in questi mesi sotto forma di mancanza di acqua e di luce elettrica, in ampie zone popolari di Damasco vessate dai colpi di mortaio.
In conclusione del suo intervento Samaan ha citato lo scrittore e filosofo libanese Kahill Gibran, il quale nel suo libro Le tempeste in modo poetico descrive le persecuzioni del passato e prefigura l’esperienza tragica che sta vivendo ancora oggi il Medio Oriente: “Ma la mia famiglia non è morta ribellandosi, e nemmeno è stata distrutta dalla guerra e nemmeno travolta dalle macerie durante un terremoto. La mia famiglia è morta in croce”.

lunedì 26 ottobre 2015

Ci ha lasciato quest'oggi mons. Giuseppe Nazzaro, fu padre dei cattolici latini ad Aleppo


E' scomparso questa mattina nell’ospedale San Giovanni Moscati di Avellino il vescovo Giuseppe Nazzaro, già vicario apostolico latino di Aleppo, in Siria, e, prima ancora, Custode di Terra Santa. Monsignor Nazzaro era nato il 22 dicembre 1937 a San Potito Ultra (Avellino) ed era entrato nel seminario minore della Custodia di Terra Santa, a Roma, nel 1950.
Vestì il saio francescano nel 1956 ed emise la professione solenne nel ‘60. Ad Aleppo giunse per la prima volta nel 1966, un anno dopo l’ordinazione sacerdotale. Vari incarichi in seno alla Custodia lo condussero però ben presto a Roma (1968), ad Alessandria d’Egitto (1971) e al Cairo (1977).
Nel corso del Capitolo custodiale del 1986 venne nominato segretario della Custodia. È del 1992 la sua nomina a Custode di Terra Santa. Al termine del mandato, nel 1998, fu trasferito in Italia. Ma nel 2001 venne nuovamente inviato in Siria. Un anno dopo venne scelto come vicario apostolico d’Aleppo da san Giovanni Paolo II e ordinato vescovo il 6 gennaio 2003 dal Papa stesso nella basilica di San Pietro.
Monsignor Nazzaro lasciò l’incarico nel 2013, al compimento dei 75 anni, quando ormai la Siria era già da due anni stravolta da disordini e moti di piazza contro il governo centrale, ben presto trasformatisi in un vero e proprio conflitto. 
Padre Nazzaro ha speso le ultime energie della sua vita viaggiando, pronunciando discorsi e rilasciando interviste per sensibilizzare l’opinione pubblica, i media e i politici sulla tragedia del popolo siriano.
I funerali si svolgeranno domani pomeriggio, alle 15.30, nel suo paese natale.


INFINITAMENTE GRATI A DIO DI AVERLO DATO ANCHE A NOI , 
ORA PRO SIRIA, COME PADRE E AMICO 

venerdì 23 ottobre 2015

I poveri del Libano


Ottobre 2015 n° 7

Notiziario di un gruppo di volontari libanesi membri di “Oui pour la vie”, associazione di volontariato con sede a Damour in Libano, legalmente riconosciuta e operante in favore dei più poveri.


La guerra ha ridotto le case di quelli che oggi sono profughi della Siria ad un cumulo di macerie e in molti casi si è presa anche gli affetti più cari. Senza più nulla e con la paura di rimanere vittime delle bombe, fuggono dal loro paese alla ricerca di una speranza e di una vita migliore oltre il confine con il Libano.
Una situazione al limite, che rischia di esplodere e creare tensioni in un Paese grande quanto l’Abruzzo, che conta circa quattro milioni di abitanti e che non riesce ad accogliere tutti i migranti in arrivo, fornendo loro l’assistenza necessaria: accesso alle strutture ospedaliere, servizi di accoglienza e inserimenti scolastici. Sono stati tanti i profughi che lo scorso inverno sono morti di freddo e di stenti.

Dal 30 giugno a oggi militari libanesi hanno sgomberato 95 campi in oltre 12 località sulla regione costiera a nord di Tripoli, a ridosso del confine con la Siria. Con un caldo torrido, in tende di plastica e sovraffollate, i rifugiati devono fare i conti con mancanza di acqua e pochissimo cibo. Si vive in una tenda di nylon.
In tutto i profughi di Siria e Iraq in Libano sono, di fatto, circa 2 milioni. Niente elettricità e niente ventilatori, acqua sporca e zanzare. Continuiamo, come “Oui pour la Vie” ad aiutarli con le nostre rinunce e visitandoli continuamente nei luoghi dove vivono cercano di sopravvivere, cercando anche di coinvolgerli nella nostra attività gratuita e di supporto per tutti. Sono enormi le necessità perché praticamente vivono su strada, e dato che non possiamo dare loro troppi contenitori di cibo, perché non hanno lo spazio per conservarli, avremmo pensato di attrezzare un paio di stanze come cucina, nel loro quartiere,  al costo di circa 400 dollari al mese, per poter loro preparare qualcosa di caldo, direttamente sul posto. Si chiede sempre a tutti di aiutarli e di farne pubblicità.

Una delle nostre volontarie aveva preparato un dolce per il suo ragazzo. Poi ha pensato, invece, di offrirlo a un bambino povero, senza dire niente a nessuno. Più tardi la mamma di questo ragazzo le ha confidato che suo figlio, ricevuto il dolce, lo aveva nascosto e lo mangiava un poco al giorno per conservarlo per più tempo. La nostra volontaria è stata contentissima di questa rinuncia fatta ad un momento personale di festa e sente il suo cuore ancora più sereno per continuare il suo impegno e anche il suo cammino verso il matrimonio.

Alcuni volontari entrati al Mc Donald avevano notato alcuni bambini che andavano là solo per giocare ma non avevano i soldi per mangiare. Hanno comprato loro dei sandwich e li hanno difesi da alcuni più grandi che li trattavano male.
Una famiglia vive in una baracca ed tutti dormono per terra sopra un telo. Uno dei nostri volontari ha regalato un pallone ai ragazzi e si è intrattenuto molto con tutta la famiglia, molto disagiata. Giocando, uno dei ragazzi che prima aveva male allo stomaco, poi stava molto meglio. La settimana successiva, questi ragazzi non avevano più il pallone perché lo avevano regalato ad un bambino vicino, che moriva dalla voglia di giocarci.

Chi è interessato a maggiori informazioni o a conoscere le modalità per una testimonianza in Italia o un  contributo in favore della nostra opera può inviare un sms al 333/5473721 in Italia o al 0096171509475 (Libano) 
o scrivere un email a:          info@ouipourlavielb.com

P. Damiano Puccini 

lunedì 19 ottobre 2015

Non abbandoniamo i Cristiani d'Oriente: sono le nostre radici...non dimentichiamolo

author :Nikola Sarić




APPUNTI
ottobre 2015

Melchiti, siriaci, caldei, assiri, maroniti... dietro questi nomi vi è un mondo la cui ricchezza spirituale e culturale raggiunge altezze che la Cristianità in occidente, ormai immersa in una realtà puramente orizzontale, non è in grado di comprendere e di apprezzare. 
Proprio per questo abbiamo un disperato bisogno di loro, forse addirittura più di quanto loro abbiano bisogno di noi. La ragione è semplice, quelle comunità sono le eredi dirette delle persone che videro, conobbero e amarono Nostro Signore Gesù Cristo. Vi è una corrente di fede profonda che, attraverso i secoli, sgorga dai primi Cristiani ed irriga tutte le generazioni che si sono succedute permettendo loro di far fiorire una Fede talmente profonda da consentire il superamento di tutte le durissime prove che la convivenza con il mondo islamico ha loro imposto.


Chi ha avuto modo di frequentare quei luoghi, il Libano, la Siria, la Palestina, ha sicuramente percepito questa qualità straordinaria delle locali comunità cristiane. Per loro Gesù non è un personaggio mitologico o una leggenda tramandata nei secoli, ma l'Uomo/Dio di cui i loro antenati hanno visto le gesta ed ascoltato le parole. Faccio solo due esempi: il primo è Malula, una cittadina siriana di cui già ci siamo più volte occupati. A Malula , unico luogo al mondo, si parla ancora l'Aramaico orientale, vale a dire la stessa lingua utilizzata da Nostro Signore. Gli abitanti di Maalula quindi, quando recitano ad esempio il Padre Nostro, utilizzano gli stessi identici termini che ha pronunciato duemila anni fa il Salvatore. 
Un secondo esempio: nel sud Libano (una volta chiamato alta Galilea) c'è un villaggio chiamato Cana. Molti ritengono sia il luogo dove Gesù ha operato il suo primo miracolo (significativamente trasformando l'acqua in vino, con buona pace di certi fanatici salutisti odierni), ma la circostanza è controversa perchè vi sono altri villaggi con lo stesso nome in Palestina. Di certo vi è che il villaggio venne visitato più volte da Gesù che vi veniva a predicare “alloggiando” in una grotta posta a circa un chilometro dal centro abitato. Dopo la Sua morte, gli abitanti del villaggio che erano divenuti suoi seguaci scolpirono sulle rocce a fianco del sentiero che portava dalla grotta a Cana diverse scene della vita del Salvatore. Quei bassorilievi sono ancora là, vero e proprio Vangelo scolpito sulla pietra prima ancora di essere scritto sulla carta. 

Questi esempi aiutano a capire perchè, da quelle parti, la Fede è ancora una cosa seria, che forgia tutta la vita di una persona e per la quale si può anche decidere, in situazioni estreme, di impugnare un'arma o affrontare il martirio. E' grazie a questo virile atteggiamento che le comunità cristiane d'oriente sono sopravvissute a tutti i tentativi di islamizzazione, fino ad arrivare a guadagnarsi la stima ed il rispetto delle componenti più tolleranti ed aperte del mondo musulmano. Stima e rispetto che hanno permesso, per esempio, ai musulmani libanesi di accettare che il Presidente della Repubblica fosse un cristiano o a quelli siriani che lo Stato ponesse tutte le confessioni religiose su un piano di uguaglianza, garantendo a tutte i medesimi diritti...


Oggi però, la rapida diffusione di un Islam fanatico e totalitario -incarnato da organizzazioni come Daesh o Al Qaeda e appoggiato da Stati come la Turchia e l'Arabia Saudita e, paradossalmente, da potenze laiche e massoniche come Stati Uniti e Francia- pone un drammatico interrogativo sulla sopravvivenza dei Cristiani in Oriente. Dove arrivano le bande islamiste le Chiese vengono sistematicamente distrutte (a partire, significativamente, dagli altari) e la vita dei cristiani diviene impossibile. Il progetto è tragicamente chiaro: cancellare ogni presenza cristiana dal Medio Oriente, di più, cancellare dalla regione ogni presenza che non sia quella di un Islam retrogrado e fanatico. 
Rendiamoci conto però che la cancellazione delle comunità cristiane d'oriente non è fine a se stessa. E' un gesto con un alto valore simbolico e, nelle menti degli intellettuali islamisti, con un tremendo valore strategico. Per distruggere la Cristianità bisognare tagliarne le radici spirituali. Quando non si celebreranno più messe in Medio Oriente, quando a Malula non si parlerà più l'aramaico, quando i segni visibili del passaggio del Figlio di Dio su questa terra saranno cancellati, allora la Cristianità tutta sarà svuotata e diverrà facile preda dei fanatici del Daesh e di Al Qaeda. 
La difesa di queste radici quindi è un dovere morale che incombe oggi su ogni Cristiano in ogni parte del mondo...