artista siriano Boutros-Al-Maari |
di Maria Antonietta Carta
Si chiamava Mohammad, ma per me fu da subito il nonno. Era un vecchietto minuto e gentile, lieto e sicuro. Da giovane, aveva lavorato come bigliettaio nel primo cinema aperto a Lattakia e di lui parlavano, con simpatia e sorridente affetto, diverse generazioni di ex ragazzi che avevano nutrito la loro immaginazione in quella magica stanza dei sogni.
La prima volta che lo incontrai fu quando decisi di mettermi in cerca delle fiabe siriane. Viveva con sua moglie, costretta a letto da una paralisi, e si prendeva cura di lei e anche del figlio di un nipote: un bimbo di cinque anni con occhi che lasciavano indovinare la serenità di chi trascorre molto tempo in compagnia di una forza tranquilla e gioiosa. Frequentandoli, mi sarei accorta che quei due, il vecchio e il bambino, erano una bella storia d’amore.
Il nonno mi offrì un’accoglienza senza enfasi, ma speciale, calorosa e attenta.
Volle sapere perché mi interessavo alle fiabe e ascoltò le mie risposte con gravità e rispetto. Poi, dopo aver ben riflettuto, accettò di diventare il mio primo narratore. Subito, quello stesso giorno senza indugi si mise a raccontarmi le storie che sapeva. Il mio nuovo viaggio cominciò con lui e compresi immediatamente di aver incontrato un uomo che mai, durante la sua lunga e difficile esistenza, aveva rinunciato a sognare.
Era un narratore incantevole. Aveva una voce evocativa, tenera, commovente, e la gestualità appassionata di chi vive quel che racconta. Egli raccontava anche con gli occhi, con le mani, col capo, con l’anima. Rappresentava ogni situazione, ogni personaggio in maniera palpitante, ma ogni tanto usciva dalla storia e, sollecito, mi chiedeva: ‘’Hai scritto tutto?’’. Ci salutammo con l’intesa di rivederci presto. Dopo alcuni giorni, tornai con il magnetofono. Il nonno, accogliendomi già come una vecchia amica, mi mostrò, fiero, un quadernetto sgualcito e pareva avesse tra le mani un trofeo. Vi aveva segnato un elenco di fiabe ritrovate nella sua memoria. Fece un breve riassunto di una di quelle fiabe cercate per me e mi chiese: ‘’Questa ti piace? Vuoi che te la racconto?’’
A ogni nostro incontro, da allora, avrebbe fatto il riassunto preliminare di qualcuna delle sue storie per sapere se mi conveniva.
Anni prima, era stato operato di un tumore alla gola e quando parlava a lungo la voce gli si faceva rauca.
Io, sentendomi colpevole, gli dicevo:
- Basta, per oggi, nonno.
- No! Dobbiamo finire. - mi rispondeva deciso.
Soltanto quando stabiliva che, finalmente, ci potevamo concedere una pausa, mi ordinava: ‘’ Spegni.’’ Poi si alzava, lasciava la stanza e si assentava per qualche minuto, tornando con un piatto di arance o di mele, secondo le stagioni. Si risedeva con il piatto in grembo, sbucciava le mele o le arance, me le porgeva e io, guardandogli le mani solcate dalla vita, mangiavo la frutta insaporita dalla sua premurosa tenerezza. Egli, intanto, suggeva una caramella per pacificare la gola stanca. Dopo, riprendevamo. Lui a raccontare, io ad ascoltare. Le sue storie, spesso con intrecci complessi come mitici labirinti, mi facevano conoscere metamorfosi di Amore e Psiche specchi della sua terra e Cenerentole che non si accontentavano della magia per realizzare le loro storie d’amore, ma affrontavano prove difficili e altre ne imponevano ai loro innamorati per conquistarsi il diritto alla felicità. Raccontava l’amore con la semplicità che meritano le cose essenziali della vita e le sventure come cammini segnati, e io cominciavo a intravedere un universo d’immagini che, pensavo, doveva essere costato ai nostri progenitori fatica e costante ascolto dei silenzi per riuscire a concepirle.
Quando il silenzio era sacro e si sapeva ascoltarlo.
Quel viaggio nelle ormai arcane costellazioni di simboli e metafore, poetico linguaggio dei pensieri che forse soltanto i vecchi che sanno essere davvero vecchi e i bambini che sono davvero bambini e i poeti che nascono poeti e i folli possono ancora capire pienamente, avveniva dentro un piccolo salotto arredato con poltrone di legno scolpito, minuscoli tavolini ricoperti da arabescati centrini all’uncinetto e un unico quadro di seta nera che, racchiuso in una cornice argentata, adornava le nude pareti bianche di calce.
Sulla seta buia, ricamati a caratteri cufici con fili d’argento lucevano alcuni versetti della sura coranica chiamata Del trono:
Dio, non vi è dio all’infuori di lui, il vivificante, il sussistente.
né la sonnolenza né il sonno avranno presa su di lui;
a lui appartiene tutto ciò che si trova nei cieli e sulla terra.
Chi potrà intercedere presso di lui, se non con il suo permesso?
Egli conosce ciò che è stato prima e ciò che verrà dopo,
e le sue creature non abbracciano della sua sapienza
se non ciò che egli vuole. Il suo trono si estende per i cieli e la terra,
e non lo affatica la loro custodia. Egli è l’altissimo, l’immenso.
Si narra che il profeta Muhammad, ispirato dal Signore, avesse detto queste parole ad alcuni uomini che si erano recati da lui per chiedergli come sconfiggere i jinn: creature con poteri tremendi; ed esse, intessute in un quadro, sono diventate numi tutelari delle famiglie musulmane. O un talismano dalle magiche virtù. I versi coranici sembravano vigilare anche nel salottino del nonno. Atto di fede e leggenda che si fondono e confondono.
artista siriano Boutros-Al-Maari |
Nei giorni d’estate, entravano dalla finestra aperta i confusi rumori di un quartiere popolare: venditori ambulanti, bambini giocherellanti, muezzin che pregavano, massaie ciarliere. Radio e magnetofoni a volume scatenato spargevano canzoni di Michel Jackson a quell’epoca molto in voga presso i giovanissimi Siriani, poetici canti monodici della divina Umm Kalthum e l’ultima canzonetta urlata della hit parade mediorientale.
Musiche, rumori e voci si mischiavano nell’aria afosa impastata di umidità, e a me, che prima infastidita-stordita da tutto quel frastuono ingarbugliato poi incuriosita vi riflettevo, essi finivano per sembrare simili, nella loro pur grande diversità. Come le fiabe della mia infanzia in Sardegna e quelle che stavo scoprendo in Siria. Il nonno, quando il rumore diveniva intollerabile, smetteva di raccontare, aggrottava per un momento la fronte, infastidito-pensieroso, si alzava senza dire una parola, chiudeva i vetri, tornava a sedersi rasserenato, cercava di schiarire quella sua voce rauca che mi inteneriva e mi stringeva il cuore, poi diceva: ‘’Riprendiamo ma fai attenzione, cara, controlla che non sia finito il nastro.’’
La vita, poi, mi portò nuove vicende e io mi allontanai da lui. Alcune volte, che adesso, come spesso accade dopo le separazioni definitive, mi sembrano desolatamente rare, gli avevo portato altri sacchetti di caramelle ed egli mi aveva offerto, contento, qualche altra storia ritrovata.
Un giorno, seppi che era morto.
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