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sabato 21 novembre 2015

La risposta al terrore è la santità e la fede: fra Ibrahim e padre Mourad, due esempi

La bomba durante la messa, le ostie macchiate di sangue, la fede che resiste. 

IL FOGLIO, 21 novembre 2015
di Matteo Matzuzzi




 Parla Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo. E' stato un miracolo, c' è poco altro da dire. La bombola di gas che colpisce la cupola della chiesa, la danneggia, ma non esplode. Rotola e cade sul tetto dell' edificio, fatto di semplici tegole d' argilla sostenute da grandi colonne di legno e cemento. Solo a quel punto, quando non era più in grado di causare una strage, è esplosa fragorosamente. 
Padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano della cattedrale latina d'Aleppo, non ha altre spiegazioni per quel che è accaduto il 25 ottobre, quando una bombola di gas - partita da una base di lancio per missili - ha colpito la cupola della chiesa di San Francesco, mentre i fedeli erano riuniti per la messa vespertina domenicale. 

Erano più di quattrocento persone, quel pomeriggio, sotto la cupola, racconta al Foglio: "I jihadisti hanno scelto con crudeltà il luogo e il tempo precisi per colpire, in modo da provocare il maggior danno possibile in persone e strutture specificamente cristiane". Basta guardare la chiesa per capire subito che l' obiettivo non era stato scelto a caso: "Hanno puntato la cupola, che è la parte più debole della struttura. Se fosse crollata, con essa sarebbe venuta giù la maggior parte del tetto". Anche la tempistica era quella giusta, scelta con cura, dice: "La messa vespertina della domenica, che è la messa principale della parrocchia, quella più affollata. E l'esplosione è avvenuta proprio nell' ultima parte della celebrazione, quella in cui avviene la distribuzione della comunione. Lo ricordo bene, erano le 17.45". Ripercorre, padre Ibrahim, quei momenti: "Avevo il Santissimo in mano e stavo distribuendo la comunione. L' avevo già fatto per cinque o sei fedeli, quando ho avvertito un rumore lontano, non di grande intensità, come di qualcosa di pesante che stesse cadendo sul tetto della chiesa. Non sono passati dieci secondi che tutto l'edificio ha cominciato a tremare senza sosta sotto i miei piedi. Sassi e pezzi di vetro cadevano su di noi, io non vedevo quasi più nulla a causa della polvere. Mentre mi domandavo cosa mai stesse accadendo, sentivo urla di dolore, la gente si disperdeva e si nascondeva ai lati e negli angoli della chiesa. La terra continuava a tremare una pioggia di sassi e calcinacci ci investiva". La gente gridava, "io ho fatto alcuni passi verso l' altare per appoggiarvi il Santissimo che tenevo fra le mani", ma subito "sono tornato sui miei passi per prestare soccorso a chi ne aveva bisogno. Il mio proposito era di farlo il più in fretta possibile, perché sapevo che i jihadisti erano soliti lanciare un secondo missile immediatamente dopo il primo, sullo stesso luogo. Grazie a Dio, questo non è accaduto. 
Non ci sono stati morti. Alla conta iniziale c' erano sette o otto feriti in modo leggero, ma il loro numero è poi salito a più di venti". 
La memoria, poi, va ineluttabilmente sull' immagine che più d' ogni parola fotografa la portata della tragedia: "In sagrestia mi sono accorto che le sacre ostie nella pisside erano macchiate del sangue dei fedeli. Le ostie sacre mescolate con il sangue del suo popolo è un segno della presenza di Dio e di unione con noi. Dio è presente fortemente, soffre con noi, si unisce sempre di più a ognuno di noi nella nostra sofferenza". Al guardare queste ostie tinte di rosso, aggiunge, "pareva che esse brillassero di una luce increata, apportatrice di consolazione e di pace al povero cuore sofferente del parroco". La gente, in quei momenti, era terrorizzata, non sapeva che fare: "Ho invitato i fedeli rimasti a uscire fuori nel giardino e lì ho continuato la distribuzione della santa comunione. Abbiamo recitato un Pater, Ave, Gloria come ringraziamento al Signore e a sua madre Maria, concludendo con la benedizione solenne". 
E' questo che sorprende nelle parole del parroco di Aleppo, la cui serenità - nonostante l'orrore della guerra vissuta giorno dopo giorno appena fuori la porta del monastero - è percepibile anche al telefono, nonostante la linea spesso disturbata. Una bombola di gas lanciata sulla chiesa, danni ingenti, uomini e donne sconvolti, eppure con il tempo di ringraziare Dio. E' la prospettiva a essere diversa rispetto a quella propria dell' uomo occidentale, che guarda con distacco quanto avviene da anni nel vicino oriente, avviluppato in lotte intestine che, come la tela di Penelope, paiono non avere mai fine. 
Padre Ibrahim lo sa e spiega cosa porti a lodare Dio tra la polvere e i frammenti di vetro sparsi qua e là: "Il male pianificato contro di noi era enorme. Se solo il grande lampadario appeso alla cupola fosse caduto, avrebbe ucciso in un colpo solo una decina di persone raccolte lì sotto al momento della comunione. Il Signore, invece, che permette il male per rispetto della nostra libertà, ha ridimensionato questo male, indirizzandolo sulle sole pietre, mentre noi tutti siamo stati salvati. Egli si è glorificato in mezzo al male dandoci, per l' ennesima volta, un segno del suo amore provvidente. Così, invece dei lamenti e delle grida di spavento e di terrore, le nostre bocche hanno innalzato a Lui un inno di ringraziamento ricolmo d'amore e di gratitudine". 

Nel dramma, anziché evitare di frequentare la chiesa, luogo sensibile per eccellenza, bersaglio ideale per le orde nere califfali e per la moltitudine di gruppi che a quelle ideologie si rifanno, il popolo fedele trova proprio in quell' ambiente il punto di riferimento in cui sentirsi meno solo: "Uomini e soprattutto giovani che, pur non essendo stati presenti alla messa, sono accorsi chiedendo come potessero dare una mano. Li ho invitati ad aiutare nella rimozione dei detriti presenti in abbondanza nella chiesa e a spazzare il pavimento, preparando così la chiesa al meglio per la celebrazione dell' indomani mattina", dice padre Ibrahim.
 E infatti, il giorno dopo alle 7.30 "ho potuto far suonare le campane grandi, che da tempo non si suonavano per la mancanza di elettricità. Chiamavo così la gente a partecipare alla santa messa celebrata proprio lì, nella chiesa bombardata. 
La giornata è proseguita con l' arrivo di più di trenta donne, pronte a ripulire con tanta cura il luogo sacro. Hanno lavorato per tutta la giornata. Lo spavento per l' evento traumatico era già stato assorbito in modo positivo: la capacità di reazione dei miei fedeli è stata molto positiva". Forse, non si può far altro che guardare al domani, considerata la situazione. Non si può che vivere proiettati costantemente sul giorno dopo, sperando che esso sia migliore di quello passato.
 "Ormai le bombe arrivano in continuazione e dappertutto. Il pericolo di altri ordigni sulla nostra chiesa è tutt' altro che scampato. Ma tutto questo non ci deve spaventare. Ai cristiani della mia parrocchia, in ogni occasione, continuo a ripetere che non bisogna avere paura di venire in chiesa per la santa messa". 
Si ripete come un mantra, dai pulpiti dei luoghi sacri feriti e minacciati, una sorta di beatitudine che riassume al contempo la drammaticità offerta dall' attualità e il senso più profondo della fede cristiana: "Beati noi se moriamo vicini al Signore, nella sua casa, piuttosto che nelle tenebre delle nostre abitazioni, soli e presi dalla paura". 
La mente del frate francescano torna al 25 ottobre, "il giorno della bomba". Ricorda che poco prima dell'attacco "avevamo fatto catechismo a 166 bambini. La domenica seguente ci chiedevamo con la catechista se i bambini avrebbero avuto ancora il coraggio di presentarsi. Sono venuti, erano 160. E dopo ciò che è accaduto, il numero delle persone che assiste alla messa quotidiana aumenta di giorno in giorno". 
E' calmo, padre Ibrahim, mentre descrive una situazione che a un uomo di questa parte del mondo potrebbe sembrare da girone dantesco, senza speranza. "Alcuni dei miei parrocchiani mi hanno chiesto come avessi fatto a reagire così bene, con la calma e il sorriso, senza mai perdere la pace del cuore e la prudenza. Ho risposto che sentivo esserci in me una forza più grande della mia sola forza umana. Era la forza del Signore che mi guidava in quel momento di difficoltà e il suo consiglio mi muoveva. Non potevo essere io con il mio intelletto a guidare gli avvenimenti e le decisioni, come quella di invitare le persone spaventate in giardino, di continuare la distribuzione della santa comunione, ringraziando con le preghiere il Signore e sua madre, Maria. Sì - dice senza tradire incertezze nella voce - assolutamente non ero io, ma era il Signore che prendeva il controllo della situazione, parlando e agendo tramite me. Non sono forse la fortezza, il consiglio e l' intelletto tre dei sette doni dello Spirito santo?". 
La convinzione, profondamente radicata nella fede, è che alla fine i jihadisti non vinceranno, portae inferi non praevalebunt. Dopotutto, l'ha assicurato Cristo, e tanto basta. E' questa speranza a fortificare l'animo di chi, minoranza perseguitata, combatte la buona battaglia ogni giorno. "Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano dell'odio mentre noi diamo loro in cambio la carità, manifestata nel perdono e nella preghiera per la loro conversione", dice padre Ibrahim. 

Non è filosofeggiare fine a se stesso o predicare tanto per farlo: si tratta di mettere in pratica questo impegno, come accaduto durante la messa dei bambini del 1° novembre, tra le navate della chiesa sfregiata e violata: "Un frammento della bombola di gas è stato ricoperto di fiori e portato come offerta all' altare. Così, il simbolo di odio e di morte è stato 'battezzato' ed è diventato simbolo dell' amore che perdona e dà vita". 
Vita che ad Aleppo, un tempo crocevia di carovane e ricchi mercanti, non è mai stata così dura come oggi. Per una decina di giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre, l' unica strada che collegava la città al resto della Siria è rimasta chiusa, "poiché i miliziani dello Stato islamico l' avevano interdetta all' esercito regolare". Al mercato non si trovava più nulla: "Non c' era gasolio, carburante, gas", dice il nostro interlocutore. "Non c' erano alimentari: neanche un uovo. Si poteva trovare solo un po' di verdura, tanto che la gente, lamentandosi con amarezza - ma con un grande sense of humour, diceva 'siamo diventati come degli agnelli, mangiamo solo erbe'. Perfino lo zucchero costa molto, troppo. Si fa fatica a trovarne un chilo e - ammesso che si riesca a scovarlo da qualche parte - come si potrebbe pagarlo? Non c' era neanche un pomodoro, in quei giorni, al mercato". La gente era convinta, o almeno sperava, che la strada sarebbe stata aperta per far transitare gli alimenti. Ci hanno detto per giorni che sarebbe stato così, ma alla fine non ci credevamo più. Noi alle promesse non crediamo più, perché vogliamo vedere accadere qualcosa, vogliamo vedere i fatti". 
L'impegno dei frati francescani è costante, sul terreno, anche a proprio rischio: "Continuiamo a distribuire acqua con quattro camioncini e arriviamo a coprire cinquanta case al giorno. Le richieste, però, sono più di seicento. La gente ha paura ed è arrivata al limite della sopportazione". Aleppo è circondata, i miliziani bombardano incessantemente i quartieri cittadini "perché si sentono minacciati dall' avanzata da sud dell' esercito regolare, sostenuto dalle incursioni degli aerei russi". Manca acqua ed elettricità, non c' è neppure lo yogurt, notava padre Ibrahim sorridendo. Quel che non manca, però, è la fede, la certezza che alla fine tutto passerà. 
Un messaggio spedito dal vicino oriente ai cristiani d'occidente che "hanno bisogno di svegliarsi". Il parroco della chiesa di San Francesco sceglie l' immagine del "gigante addormentato" per rappresentare i credenti europei: "Hanno energie incredibili, ma sono legati, bloccati. Non sto parlando del benessere che può essere dato dall' acqua calda o della possibilità di godersi una cena al ristorante. La prosperità di cui parlo, da rifuggire, è uno stato del cuore che, a causa delle ricchezze e delle false sicurezze, si consegna alla freddezza, dimentica del suo bisogno di Dio. E' un male che riguarda purtroppo anche il clero. La crisi profonda che noi stiamo vivendo qui ci aiuta a guarire da questa malattia; ci aiuta a crescere nella fede". Che fare, dunque? "L' occidente dovrebbe tornare all' essenziale. Vivere, cioè, la prosperità in una prospettiva di fede. Questo è ciò che serve". 
In concreto, si tratta di "vivere responsabilmente e seriamente ciò che crediamo. Nella nostra situazione di sofferenza continua, la gente diventa più sincera e sa andare all' essenziale. Io questo lo constato sempre, lo vedo: la gente è meno appesantita dalle preoccupazioni di questo mondo". 
E', sostiene padre Ibrahim, "purificata". "E quindi disposta a lasciarsi guidare dallo Spirito".

http://ilsismografo.blogspot.it/2015/11/siria-ibrahim-alsabagh-parroco-ad.html


Padre Mourad: Nelle mani dello Stato islamico ho avuto compassione dei miei rapitori

AsiaNews, 20 novembre 2015


 “Questa grazia mi è stata accordata per essere di conforto a un gran numero di persone”. A raccontarlo ad AsiaNews è p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica. Di passaggio a Beirut, lo abbiamo incontrato nei saloni della chiesa di Nostra Signora dell’Annunciazione, a Beirut. Priore del monastero di Mar Elian e dei fedeli del villaggio di Qaryatayn, non lontano da Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da miliziani dello Stato islamico (Daesh), il 21 maggio 2015. Egli è rimasto nelle mani dei suoi rapitori per quattro mesi e 20 giorni, prima di ritornare, il 10 ottobre, in quello che noi siamo soliti chiamare “il mondo libero”.

Perseguitato, minacciato, sottoposto a pressioni continue perché si convertisse all’islam, egli è stato minacciato a più riprese di venire decapitato, frustato in una occasione e, il giorno successivo, fatto oggetto di una finta esecuzione. Confinato in una stanza da bagno rischiarata solo da un lucernario piazzato in alto, con un seminarista ad assisterlo, ridotto a un regime forzato di riso e acqua, distribuiti due volte al giorno, senza elettricità né orologio, tagliato fuori in tutto dal mondo esterno, egli è riuscito a rimanere comunque vigile e non ha mai vista una sola volta scalfita la sua fede. Al contrario.
La grazia, o meglio il miracolo di cui parla p. Mourad è di essere rimasto vivo, di non aver rinnegato la sua fede, di aver ritrovato la libertà. “La prima settimana è stata la più difficile” racconta. “Dopo avermi tenuto per qualche giorno all’interno di una macchina, la domenica di Pentecoste mi hanno portato a Raqqa. Ho vissuto questi primi giorni di prigionia diviso fra la paura, la collera e la vergogna”.
La grande svolta nella sua prigionia è coincisa, secondo p. Jacques, con l’ingresso nella sua cella, l’ottavo giorno, di un uomo vestito di nero, con il viso mascherato, come quelli che compaiono nei video delle esecuzioni resi celebri da Daesh. La mia ora è arrivata, si è detto, in preda al terrore. Ma, al contrario, dopo avergli chiesto quale fosse il suo nome e quello del suo compagno di prigionia, l’uomo si è rivolto a lui con un “assalam aleïkoun” di pace ed è entrato nella sua cella. In seguito, egli ha intavolato una lunga discussione, come se lo sconosciuto cercasse davvero di conoscere meglio i due uomini di fronte a lui.
“Prendilo come un ritiro spirituale” gli ha risposto lo sconosciuto, quando p. Jacques lo ha interrogato sulle ragioni della sua prigionia. “Da quel momento - racconta il sacerdote - le mie preghiere, le mie giornate, hanno acquisito un senso. Come posso spiegarvi... Ho avvertito che attraverso di lui, era il Signore stesso che mi rivolgeva queste parole. Quel momento è stato davvero di grande conforto”.
“Grazie alla preghiera, io ho potuto ritrovare la mia pace” riferisce il sacerdote siriano. “Era maggio, il mese di Maria. Ci siamo messi a recitare il Rosario, che non ero solito pregare molto in passato. Tutto il mio rapporto con la Vergine Maria è stato rinnovato. La preghiera di santa Teresa d’Avila ‘Niente ti turbi, niente ti spaventi…’ anch’essa ha contribuito a sostenermi; e per lei, una notte, ho composto una melodia che ho poi iniziato a canticchiare. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi tra le mani del Signore, con la consapevolezza che non mi era dato di scegliere. Perché tutto portava a pensare che l’esito finale sarebbe stata la conversione all’islam, oppure la decapitazione".
Quasi ogni giorno, continua, "entravano nella mia cella e mi interrogavano sulla mia fede. Ho vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo. Ma non ho mai abiurato. Dio mi ha donato due cose: il silenzio e la cortesia. Sapevo che certe risposte potevano essere colte come provocazione, che qualunque parola può diventare la fonte della tua condanna. Così, mi hanno interrogato sulla presenza di vino al convento. Quell’uomo mi ha interrotto all’improvviso, quando ho iniziato a rispondere. Egli ha giudicato le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Grazie alla preghiera, ai salmi, sono entrato in un mondo di pace, che non mi ha più lasciato. Mi sono ricordato anche delle parole di Cristo nel Vangelo di san Matteo: ‘Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano’. Ero felice di poter vivere nel concreto questa parola. Non è cosa da poco, poter vivere il Vangelo, in particolare questi versi così difficili, che fino a quel momento erano solo teoria. Ho iniziato a provare compassione per i miei sequestratori”.
“In quell’occasione, mi sono tornate in mente anche le canzoni poetiche di Feyrouz - confessa p. Jacques - e in particolare una di quelle che parla del crepuscolo, che ero solito cantare quando su Raqqa calavano le lunghe notti di giugno, che ci lasciavano avvolti nell’oscurità. Anche queste parole e la loro musica diventavano fonte di preghiera. Esse parlavano della sofferenza ‘iscritta nel crepuscolo’”.

Poi, un giorno, p. Jacques viene frustato…
“Era il 23mo giorno della mia prigionia” ricorda. “Sono entrati all’improvviso. Era una sorta di messa in scena. La flagellazione è durata circa una trentina di minuti. La frusta era composta da un pezzo di tubo da giardino e delle corde. Ho avvertito il male fisico ma, nel profondo, mi sentivo in pace. Percepivo una grande consolazione nel sapere che potevo condividere in qualche modo le sofferenze di Cristo. Al contempo, mi sentivo per questo assai confuso, poiché pensavo di non essere degno di quella grazia. Perdonavo il mio aguzzino, nel momento stesso in cui egli mi colpiva. Ogni tanto, confortavo con un sorriso il diacono Boutros, mio compagno di cattività, che a stento riusciva a trattenersi nel vedermi oggetto di frustate. Dopo di che, mi sono ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la sua forza. Ne ero sempre più sorpreso, perché mi sentivo debole, sia a livello spirituale che fisico. Vedete, io soffro di mal di schiena sin dall’infanzia e le condizioni di prigionia erano tali da far aumentare, in un primo momento, il male. Al monastero avevo a disposizione un materasso speciale, e una sedia ergonomica. In cella, dormivo per terra e non c’era modo di camminare in questi servizi igienici”.
“La grande paura - prosegue p. Jacques - l’ho conosciuta poco dopo, quando un uomo armato di pugnale è entrato nella nostra cella; ho sentito sul collo la lama del coltello e ho pensato che fosse iniziato il conto alla rovescia per la mia esecuzione. Nello spavento, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio. In realtà, si trattava solo di una messa in scena”.
Il 4 agosto scorso, il gruppo jihadista ha assunto il controllo di Palmira e, da lì, di Qaryatayn. Il giorno successivo, all’alba, hanno preso in ostaggio la popolazione, almeno 250 persone, portandole a Palmira.
L’11 agosto, p. Jacques e il suo compagno hanno intrapreso lo stesso percorso. Ecco come: “Uno capo saudita è entrato nella nostra cella. ‘Sei tu padre Jacques?' ha chiesto. 'Ecco, allora vieni con me! I cristiani di Qaryatayn ci hanno fatto una testa quadra parlandoci di te!' Ho subito pensato che mi stavano prelevando per essere giustiziato. A bordo di un van, abbiamo compiuto un tragitto di quattro ore. Superata Palmira, abbiamo imboccato una strada di montagna che conduce a un edificio chiuso da una grande porta di ferro. Appena aperta, quello che vedo è tutta la popolazione di Qaryatayn lì radunata, meravigliata nel vedermi davanti a sé. Quello è stato un momento di sofferenza indicibile per me. Per loro, un momento straordinario di gioia".
Venti giorni più tardi, il primo settembre, "ci hanno portato a Qaryatayn, liberi, ma col divieto di lasciare il villaggio. In quel momento si è venuta a creare una sorta di contratto religioso collettivo: noi eravamo ormai sotto la loro protezione (‘ahl zemmé’), dietro pagamento di una tassa speciale, la jizya, che riguardava i non musulmani. Potevamo anche praticare i nostri riti, a condizione che questo non fosse elemento di scandalo per i musulmani. Qualche giorno più tardi, alla morte di uno dei nostri parrocchiani, deceduto per un cancro, siamo andati al cimitero, nei pressi del convento di Mar Elian. Ed è in quel momento che ho visto che era stato raso al suolo. Curiosamente, non ho avuto alcun tipo di reazione. Dentro di me, mi è sembrato di cogliere che Mar Elian abbia voluto sacrificare il suo convento e la sua tomba per la nostra salvezza”.

“Oggi - conclude p. Jacques, che ha sfidato il divieto di lasciare Qaryatayn e ha trovato il modo di fuggire, pur mantenendo uno stretto riserbo sulle modalità di fuga - continuo a provare per i miei rapitori lo stesso sentimento che provavo quando ero nelle loro mani: la compassione. Questo sentimento deriva dalla contemplazione dello sguardo di Dio nei loro confronti, a dispetto della loro violenza, come egli la prova verso tutti gli uomini: uno sguardo di pura misericordia, senza il minimo sentimento di vendetta”.

“Oggi - prosegue il sacerdote, un tempo monaco al monastero di Mar Moussa, fondato da p. Paolo Dall’Oglio - sappiamo che la preghiera è la via della salvezza. Bisogna continuare a pregare per i vescovi e i sacerdoti che sono tuttora scomparsi e di cui non si sa niente. Pregare per il mio fratello Paolo Dall’Oglio (scomparso a Raqqa nel luglio 2013). Dobbiamo infine pregare per una soluzione politica in Siria. Oggi ricordiamo il centenario del massacro e l’esodo del 1915. Senza una soluzione politica, l’emigrazione completerà il lavoro che i massacra del 1915 hanno iniziato”.

http://www.asianews.it/notizie-it/P.-Mourad:-Nelle-mani-dello-Stato-islamico-ho-avuto-compassione-dei-miei-rapitori-35941.html

giovedì 19 novembre 2015

L'Isis e i suoi benefattori

Vendita di petrolio, contrabbando di reperti e rapimenti, ma anche ingenti finanziamenti dai Paesi del Golfo Persico: ecco come si finanziano i terroristi, che nel 2015 prevedono un ricavo di 2 miliardi di dollari

da 'VITA' 19 novembre: È atterrato poco prima delle 10 in Arabia Saudita un cargo carico di bombe MK-80 fabbricati in Sardegna. È la seconda spedizione nel giro di tre settimane, da un aeroporto civile e in palese violazione della legge 185 sull'export di armi, con l'avallo del Governo. 

ZENIT , 18 novembre
di Federico Cenci


I recenti attacchi di Parigi hanno finalmente suscitato, oltre ai vari commenti di solidarietà, un dibattito sull’intricata rete di alleanze e di interessi finanziari che fa da scudo alle azioni terroristiche dell’Isis. Nel corso del G20 di Antalya, in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin si è espresso a tal proposito in maniera fin troppo chiara: “L’Isis è finanziato da 40 Paesi, in particolare da alcuni membri del G20”.
Ora però qualcosa potrebbe iniziare a cambiare. Durante il vertice è stato infatti stabilito, su iniziativa della Russia, di implementare una risoluzione Onu con lo scopo di impedire i finanziamenti al terrorismo, nonché di metter fine al contrabbando di oggetti artistici che i membri del Califfato hanno sottratto dai musei nei territori occupati.
Questa decisione potrebbe aver scosso qualche grattacielo delle avveniristiche città situate nel Golfo Persico. In quanto a sostegno nei confronti del terrorismo islamico, infatti, gli indiziati numero uno sono le monarchie di Arabia Saudita, Qatar e Kuwait. Ma non va sottovalutato il ruolo svolto dalla Turchia, Paese in cui si respira in questa fase un clima molto pesante: ieri in uno stadio di Istanbul, durante il minuto di silenzio osservato prima di una partita di calcio per commemorare le vittime della strage di Parigi, folti gruppi di tifosi turchi hanno dapprima fischiato e poi urlato “Allah akbar”.


Una sfida, quella lanciata al pudore comune da parte di alcuni tifosi turchi, che è non meno preoccupante degli ingenti finanziamenti a beneficio del Califfato. Un autorevole centro di studi americano come il Brooking Institution offriva già oltre un anno fa, nell’ottobre 2014, una dettagliata analisi dall’eloquente titolo Cutting off Isis Cash Flow(Tagliare la liquidità all’Isis).
Il centro studi riportava le dichiarazioni di David Cohen, sottosegretario per il Terrorismo e l’Intelligence finanziaria del Tesoro americano. A proposito dello Stato Islamico, egli diceva: “È  l’organizzazione terroristica meglio finanziata che abbiamo combattuto” e “non c’è una pallottola d’argento o arma segreta per svuotare i forzieri dell’Isis in una notte”. Come a dire: la potenza finanziaria dei terroristi è tale da render dura la vita ai suoi avversari.
Secondo Cohen, è il petrolio la prima fonte di guadagno del Califfato. L’esponente del Tesoro americano stimava che l’oro nero consente all’Isis un introito quotidiano di un milione di dollari. L’imponente cifra si deve al controllo da parte dei jihadisti di importanti raffinerie, sottratte alla sovranità di Siria e Iraq, che riescono a produrre fino a 40mila barili al giorno. E in cima alla lista delle esportazioni, si trova appunto la Turchia.
Il commercio di petrolio è tuttavia in flessione a causa del calo del prezzo del greggio. Ma i ricavi per l’Isis giungono anche da altri settori: i rapimenti (che solo nel primo anno di vita del Califfano hanno fruttato tra i 20 e i 45 milioni di dollari), il contrabbando di opere d’arte (circa 10 milioni di dollari) e i furti e le estorsioni (5-6 milioni di dollari).
Ciò che rende stabile l’arricchimento dell’Isis è poi la presenza di ricchi benefattori del Golfo Persico. Il Brooking Institution non riesce nemmeno a quantificare una stima precisa dell’enorme flusso di denaro che ricchi uomini con turbante e tunica bianca fanno convogliare verso il Califfato. David Cohen ha chiarito che alcuni Paesi del Golfo hanno messo in piedi norme più restrittive sul controllo di capitali sospetti.
Ciò nonostante, il direttore del Programma su antiterrorismo e intelligence del Washington Institute fo Near Policy, Matthew Levitt, ha stimato che nel biennio 2013/14 l’Isis abbia ottenuto più di 40 milioni di dollari in finanziamenti provenienti dal Golfo Persico, soprattutto da Arabia Saudita, Qatar e Kuwait.
A questo punto - commenta il Brooking Institution - non è chiaro se la nuova legislazione finalizzata a contrastare il finanziamento del terrorismo sia davvero efficace. “In ogni caso - prosegue l’analisi - resta evidente che deve essere fatto di più da parte di Qatar e Kuwait affinché siano rispettate queste leggi”.
Il Financial Action Task Force, organizzazione intergovernativa impegnata nell’anti-riciclaggio, ha preparato in occasione del G20 di Antalya un dossier dal quale emerge che queste misure risultano spesso insufficienti o parziali. In particolare il Fatf accusa gli Stati di essere troppo lenti nell’adottare misure restrittive contro i gruppi inseriti nelle liste dei terroristi. Si tratta di un favore ai fiancheggiatori dei seminatori d’odio, i quali hanno così tutto il tempo di fornire le loro sovvenzioni in danaro.
In attesa che le misure adottate diano i risultati sperati, l’Isis continua a guadagnare. Recentemente Abu Saad Al Ansari, un religioso di Mosul, ha dichiarato al quotidiano del Qatar Al Arabi, che il Califfato prevede per il 2015 entrate “per oltre 2 miliardi di dollari, con un avanzo netto di circa 250 milioni, destinato a sostenere lo sforzo bellico”.

martedì 17 novembre 2015

Isis ha vinto? dove ci porta la Francia?



Piccole Note, 17 novembre

Nel primo articolo sui tragici eventi parigini avevamo accennato alle similitudini tra l’esfiltrazione dallo Stade de France di Franςois Hollande e quella di George W. Bush nel post 11 settembre, paventando un sequel di quel che accadde allora. ovvero la caduta del Paese nelle mani dei neocon.
 
E così sembra essere accaduto in Francia. Il discorso alla nazione pronunciato ieri da Hollande riecheggiava quello di George W. Bush: chiamata alla guerra dell’Europa in base all’articolo 42 del Trattato dell’Unione, Patriot Act in salsa francese, stato di emergenza prolungato per altri tre mesi, riforma costituzionale volta a delimitare le libertà democratiche e via dicendo.
 
Come allora Bush era stato aggiogato dai suoi falchi, così Hollande sembra si sia consegnato nelle mani dei dioscuri neocon transalpini: Manuel Valls (Primo ministro) e Laurent Fabius (ministro degli Esteri).
Proprio quel che l’Isis voleva: trascinare la Francia in una guerra dai contorni indefiniti e generalizzati. Costringerla a baciare il diavolo, come recita il titolo della canzone sulle cui note è avvenuta la strage al Bataclan.
 
Allora le cose non andarono granché bene: le guerre neocon, con le loro ambiguità e la loro sconsideratezza, hanno provocato i disastri che sono sotto gli occhi di tutti, alimentando ancora di più il terrorismo.
E oggi come allora i proclami di guerra transalpini non sono immuni da ben note ambiguità. Le ha sottolineate Alain Touraine sul Corriere della Sera di oggi: «È strano come un uomo di esperienza come Fabius abbia indugiato nell’equivoco “né con l’Isis né con Assad”. Assad non ci ha attaccati: lo Stato islamico sì».
 
Se l’Isis non è stato ancora battuto, ha chiosato Sergio Romano in una lettera pubblicata sul Corriere di oggi, «la responsabilità è di coloro che si oppongono alla nascita di un fronte comune in cui tutti i nemici dell’Isis, dal presidente siriano al presidente russo, possano fare la loro parte».
Insomma, lo strano errore di Fabius non fa ben sperare.
 
Già, perché il problema non è il contrasto militare all’Agenzia del terrore, che pure è indispensabile, ma come si andrà a sviluppare. L’unica strada è quella suggerita da Romano, richiesta più volte da Mosca e più volte rifiutata dall’Occidente: ricercare un consenso allargato alla Russia e a tutte le forze che lo stanno combattendo e innestare un processo politico per stabilizzare la Siria coinvolgendo Assad.
 
L’altra strada, egualmente importante, è quella di contrastare i flussi finanziari che alimentano la macchina del terrore : ieri Putin ha illustrato al G20 i tanti finanziatori della nota Agenzia, tra i quali diversi membri dello stesso G20 ( sarebbe utile se queste carte girassero, ma nessuno le ha pubblicate se non in minima parte…).
Ma quanto sta accadendo in Francia non fa ben sperare.
 
Chiudiamo ricordando la guerra in Libia: allora fu proprio la Francia del bellicoso Sarkozy (e la Clinton) a costringere il riluttante Obama a un’avventura della quale ancora paghiamo le conseguenze.
Ad oggi il presidente degli Stati Uniti resiste alle pressioni dei falchi Usa (come accenna Vittorio Zucconi sulla Repubblica) che chiedono un surge militare in Iraq e Siria: un vasto fronte che va dai repubblicani fino, ancora una volta, alla Clinton.
 
Ma in caso di nuove operazioni “Made in Isis” Obama potrebbe essere costretto a cedere, trascinando Stati Uniti ed Europa, come avvenne allora, in un’avventura bellica dai contorni indefiniti quanto disastrosi. Che potrebbe comportare, dati gli interessi specifici e le diverse strategie riguardo il contrasto del terrorismo, anche un confronto più vasto tra Occidente e Russia.
 
Lo sa l’Isis, Lo sanno, anche se fanno finta di non saperlo, i falchi americani e francesi.



Cantando la Marsigliese ...



di Patrizio Ricci, 16 novembre
In Siria la Francia, insieme ai propri alleati, ha aiutato il terrorismo islamico a rovesciare uno stato sovrano.  La  messinscena che era già avvenuta in Libia, in cui la Francia ha avuto un ruolo di primo piano nel 2011 è stata messa in atto anche in Siria.
Il gruppo ‘amici della Siria’ di cui la Francia ha fatto parte, ha fornito ai jihadisti armi sofisticate, sostegno finanziario, addestramento, e basi sicure in Turchia e Giordania. Tuttavia, nei dibattiti ‘h24’ di questi giorni nessun giornalista ha posto pubblicamente con chiarezza la questione cruciale. La Francia è vittima ma ha usato essa stessa il terrorismo per rovesciare il governo di un paese sovrano: nella finta primavera siriana si sono usati prima i Fratelli Mussulmani, poi visto che questi non sono riusciti arrivare a Damasco, si è ripiegato per i salafiti.
FireShot Pro Screen Capture #139 - 'Syria_ Britain, US and France in urgent talks on arming rebels - Telegraph' - www_telegraph_co_uk_news_worldnews_m
In tempi non sospetti, il vescovo di Aleppo Abou Kazen lo aveva detto: ‘’chi ha fatto salire l’asino sul minareto sa come farlo scendere’ – lo disse in almeno in due distinte interviste. 
E lo detto più recentemente Assad: “il terrorismo non è una carta che puoi giocare e poi rimettere in tasca. Il terrorismo è uno scorpione che può pungerti in qualsiasi momento”.
E chiaro quindi che la risposta del governo francese al Califfato, è una risposta consapevolmente ipocrita.
Gli aleppini quotidianamente vengono presi di mira dai razzi e dai colpi di mortaio dei ‘ribelli’ direttamente nelle loro case,  i bambini vengono colpiti a scuola, i fedeli in Chiesa. I parigini sono  stati colpiti  mentre si trovavano in un bar a sorseggiare un drink o all’interno di auditorium a sentire musica oppure allo stadio a tifare la propria squadra.  E’ evidente in entrambi i casi chi uccide proditoriamente è un terrorista.
Eppure c’è un dibattito ‘serissimo’ per stabilire se i vari criminali siano terroristi o meno… sono mesi che ne discutono tanto che i russi dicono ‘terroristi moderati’ e ‘ISIS’. Nell’attesa che si riesca a reperire un po' di logica (a quanto pare di questi tempi  merce rara) e che così tale dilemma si dissolva,  l’esercito siriano o ‘esercito di Assad’ (come piace dire ai giornali), naturalmente continua a combattere per liberare il paese contro tutti.  Non è facile:  il governo siriano (e la popolazione tutta) già alle prese con i terroristi, è sotto embargo. Sì, sembra strano ma mentre tutti sono solidali con la Francia per i recentissimi attentati,  la Siria è stata sanzionata con un embargo durissimo perché si difende dai terroristi.
Ma non è solo questo il problema (altrimenti la guerra sarebbe finita da un pezzo): alla jihad continuano ad affluire rifornimenti. Anzi sono aumentati.
Putin al G20 ha sollevato e denunciato il supporto che alcuni paesi membri stanno dando al terrorismo:
“Durante il vertice del G20 di Antalya, la Russia ha dato esempi di come persone fisiche di 40 Paesi, compresi membri del G20, riescano a finanziare ISIS”.
Questo è il succo della questione. La risposta degli altri intervenuti? Non pervenuta.
Conclusione: … Ali Baba e i 40 ladroni chiamano alla guerra  ma come abbiamo visto, non è una guerra come sembra . Stona vedere Hollande cantare la ‘Marsigliese’, dovrebbe essere un inno di protesta, di rivendicazione… perciò oggi stride. Il popolo francese che farà… vedremo.
Ma noi che possiamo fare di fronte a tutto questo? Consideriamo che in fondo la vita è appesa ad un filo, siamo fragili, diciamo ‘sono cose più grandi di noi’ e lasciamo stare? Oppure ci stringiamo e riscaldati dall’orgoglio nazionale cantiamo come hanno fatto i francesi senza chiedere conto al proprio governo?
Non sta a me dare ‘istruzioni per l’uso’ ma so che, vista la malafede manifesta dei leader, l' unica cosa intelligente da fare è attaccarci alla Verità e confidare in essa: giudichiamo la realtà per quella che è, vediamo cosa ci aiuta in questo, guardiamo gli uomini secondo le proprie esigenze originarie, ricordiamo così che ogni giorno della vita non appartiene a nessun potere.
E preghiamo molto che Dio ci accompagni e la Madonna ci protegga, perchè ce n’è bisogno…

sabato 14 novembre 2015

Il Vicario di Aleppo: “Solidarietà alle vittime di Parigi... Il popolo siriano comprende molto bene, da anni soffriamo per gli attacchi terroristici ”

“Urge fermare chi finanzia il terrorismo”













Aleppo: prima e dopo il terrorismo




Agenzia Fides 14/11/2015

Aleppo  – “Siamo profondamente colpiti e dispiaciuti. Esprimiamo condoglianze e solidarietà alle vittime della strage di Parigi e a tutta l’Europa. Il terrorismo è una ideologia che non risparmia nessuno. Il popolo siriano comprende molto bene la situazione di angoscia in cui oggi si trovano i cittadini europei. Qui da anni subiamo stragi e viviamo nel terrore. Per questo occorre ritrovare l’unità e soprattutto smettere di dare finanziamenti, armi, addestramento a gruppi terroristici che operano in Medio Oriente e ora anche in Europa”: così Sua Ecc. Mons. Georges Abou Khazen, Vicario apostolico di Aleppo dei latini, si esprime all’Agenzia Fides, commentando il massacro di Parigi dove diversi attacchi terroristici, rivendicati dallo Stato Islamico (IS), hanno ucciso oltre 127 persone e fatto 200 feriti.
 Mons. Georges Abou Khazen osserva a Fides:  “Il terrorismo è un mostro che non si controlla, una ideologia di morte che non rispetta niente e nessuno, che uccide sempre e dovunque. In Siria lo conosciamo bene, perché da anni soffriamo per gli attacchi terroristici che hanno creato migliaia di profughi. Tutto questo è avvenuto nell’indifferenza della comunità internazionale. Oggi, dopo la strage di Parigi, occorre trovare una decisa e autentica unità per contrastare il terrorismo.
 Come abbiamo detto più volte, i gruppi terroristi come l’IS sono finanziati, armati, addestrasti dalle grandi potenze, per puri interessi economici e politici. Chi li sostiene? E’ un tema che anche il Papa ha sollevato, inascoltato”. 
 Per questo, secondo il Vescovo, “la riposta politica è quella di smettere di fornire appoggio a quei gruppi, promotori di morte, che si fanno scudo di una ideologia religiosa”. 
Sul piano religioso e spirituale, conclude, “da cristiani possiamo solo guardare al Giubileo della Misericordia, e pregare perchè il Signore infonda il suo Spirito di misericordia nei cuori e nelle menti degli uomini”.

http://www.fides.org/it/news/58812-ASIA_SIRIA_Il_Vicario_di_Aleppo_Solidarieta_alle_vittime_di_Parigi_Urge_fermare_chi_finanzia_il_terrorismo#.VkdvC3YveM9

venerdì 13 novembre 2015

Viaggio in Siria (3): «Aiutateci a rimanere nella nostra terra»



 Lo scopo principale del mio viaggio era quello di individuare modalità per rispondere alla domanda del Papa, dei Vescovi e Patriarchi siriani: "aiutiamo i cristiani a restare nella loro terra".
In realtà non è stato facile, lo sconcerto davanti alla frenesia di fuga dalla Siria mi ha interrogato molto, per comprenderne le ragioni.
   Ne parlo con suor Marta , la superiora del monastero di Azeir:
 “Fra tutte queste vicende alterne che senza soluzione di continuità accompagnano il conflitto siriano da anni, c’è speranza, non c’è speranza, c’è accordo , non c’è accordo, sono buoni gli uni e cattivi gli altri, cattivi gli uni e buoni gli altri, gli aerei cadono per gli incidenti, oppure per l’Isis, oppure per il lavoro dei servizi segreti… in tutto questo, durante questa estate è accaduto qualcosa di molto importante, e di molto triste. Più triste del solito, perché colpisce la Siria al cuore: si sta ammalando la speranza. Non diciamo che è morta, non è vero, e poi…c’è sempre speranza. Ma il colpo è stato forte. Noi, che cerchiamo sì di essere informate per come si può, ma cerchiamo soprattutto di stare con la nostra gente, di sentire quello che loro sentono, semplicemente con loro, in tutti questi anni ci siamo incontrate sempre con questo sentimento di base: siamo colpiti, magari umiliati, certamente violati, abbiamo tutto il mondo contro… ma resistiamo. Resisteremo. Ecco, da questa estate, da quei giorni in cui si sono spalancate le porte dell’Europa e le immagini ci hanno mostrato migliaia di siriani (e non solo) percorrere i campi e le strade europei, cioè non quando le avete viste voi ma quando queste immagini sono state viste QUI, in Siria… per la prima volta dall’inizio della guerra abbiamo sentito attorno a noi lo sconforto, la desolazione. La solitudine della gente rimasta.  Prima –e dopo- c’era tanto dolore, tragico, orribile, devastante… ma con un’anima di vita dentro, nonostante tutto. Ma dopo queste immagini, abbiamo sentito attorno a noi un vero e proprio sgomento.
Ma soeur, hai visto ? non è rimasto più nessuno… Se ne sono andati tutti"..”ya haram! Cosa restiamo a fare qui ?” “Ma soeur, in Università da me non ho più compagni, sono rimasto solo io, sono tutte ragazze… Voglio andarmene anch’io..”. “I miei amici mi mandano messaggi, da là…mi chiedono cosa aspetto a partire”...
Qui da noi non cadono bombe e non piovono missili, come ad Aleppo; eppure vogliono partire. Non è solo emotività: ci sono delle ragioni molto concrete e valide per volersene andare, come il costo sempre più insostenibile della vita, il problema delle sanzioni che abbiamo cercato di segnalare  già altre volte, sanzioni che pesano come una spada di Damocle su qualunque iniziativa si possa prendere, il non vedere la prospettiva di una fine ( solo ora, dopo l’intervento della Russia, qualcuno riprende un po’ di coraggio…). Per qualcuno anche la prospettiva del servizio militare è una motivazione in più...  Questo desiderio irrefrenabile di partire è una desolazione. Una cosa tristissima. Più della morte, non sappiamo come spiegarvelo. 
Però, va bene, a cosa serve rattristarsi? Cosa facciamo? Ci piangiamo addosso? No. Ci sono comunque ancora tanti, abbastanza almeno, che scelgono di restare. Non diremmo “ non hanno scelta”. Qualcuno sì, e partirebbe subito. Ma altri scelgono di restare. Bene, senza giudicare chi fa altre scelte, costruiamo con chi resta.
Questo è quello che si può fare oggi...     Ed è importante, più di quel che sembri.  Non è solo questione di non darsi per vinti, di volere a tutti i costi portare avanti i propri progetti. E’ in gioco qualcosa di più importante, una vera e propria visione dell’uomo. Perché quello che ha colpito tutti è stato vedere che non sono solo quelli sotto le bombe a partire, quelli che hanno perso la casa, quelli che sono a rischio di qualche persecuzione, da una parte o dall’altra della barricata..., sono anche tanti che “cercano un futuro migliore”.   Non giudichiamo e capiamo bene: in Europa c’è povertà, sì, ma insomma un giovane magari comunque all’Expo riesce ad andare, occasioni di esperienze ne ha molte, sarà forse uno strazio e organizzato male, ma l’università è di buon livello, in giro per le strade di una città come Milano può anche sentire un concerto, o vedere una mostra a Firenze, o in qualunque paesino di provincia può imparare a fare l’elettricista con altri mezzi e altre tecnologie… a installare un fotovoltaico.. anche semplicemente avere una buona connessione internet gratis o quasi.. 
E a noi sembra proprio qui la sfida: tutte queste cose buone, utili in se stesse, che noi stesse apprezziamo quando ne abbiamo l’occasione, sono indispensabili per essere uomini e donne veri, pieni, completi, oggi ? E’ vero, questa società siriana è impoverita, distrutta, messa in ginocchio.. Ma questo significa che abbiamo perduto l’opportunità di “completare” il nostro percorso umano, di arricchirlo oggi e qui ? Cosa è veramente nelle nostre mani ? Quale potere abbiamo veramente nella nostra vita ? Non esiste davvero un’alternativa di sviluppo a quella che i paesi dell’Occidente hanno percorso ? E se qualcosa veramente ci manca, non possiamo cercare come ottenerlo, lavorare per ricrearlo, magari trovando il “ nostro” modo ? Anche in questa rovina concreta che abbiamo sotto gli occhi? 
Concretamente. Per aiutare a restare, occorre aiutare a vedere delle possibilità buone, possibilità vere... Aiutare per cibo, acqua , gasolio è fondamentale, soprattutto là dove le condizioni sono veramente inumane, e siano benedette le tante persone che spesso, anche a rischio della vita, si prodigano per il loro fratelli. E che lo stanno facendo instancabilmente da anni.  Ma aldilà della sopravvivenza, bisogna pensare anche a ricostruire l’oggi e il domani secondo criteri di vita, di crescita, persino di bellezza.. altrimenti la speranza si ammala. L’uomo non è fatto solo per mangiare, scaldarsi, sopravvivere, e il suo cuore lo sa.  Occorre sostenere l’impresa locale, tutte le piccole iniziative possibili sul posto. Tutti i segni di attività, di ingegno, di creatività.. Di collaborazione fra le forze. Sostenere e aiutare a creare il nuovo, là dove se ne intravvede la possibilità. In gioco c’è l’uomo, c’è la nostra piena umanità.  E questo raggiunge, riguarda , non solo i cristiani, ma tutti i siriani, senza differenze, perché è solo in uno sforzo della comune umanità rinnovata che potranno ricostruire insieme una nuova Siria. 
Da parte nostra, come monastero, sentiamo sempre di più l’invito ad essere, anche se semplicemente, un punto in cui si possa attingere una e-ducazione, cioè un essere condotti innanzi, fuori, fatti crescere prima di tutto dallo Spirito Santo, in un percorso di presa di coscienza della propria dignità e del valore della nostra esistenza comune come figli di un unico Padre."

S.O.S. : si sta ammalando la speranza… teniamola viva!

  Ci sono siriani disposti a restare e a custodire la speranza e aiutarsi reciprocamente per sperare, li abbiamo incontrati!  

  I religiosi, come suor Lydia del Giardino d'Infanzia di Marmarita ( "noi restiamo con la nostra gente, e se dovremo andarcene perchè vince Daesh saremo gli ultimi a lasciare il Paese") che si prende cura di 270 bimbi dai 6 mesi ai 6 anni, in gran parte sfollati;  
  il gruppo Foi et Lumiere della Valle dei Cristiani, che sulle orme di Jean Vanier continua ad accompagnare gli handicappati;   
  le nostre sorelle trappiste che vogliono offrire lo spazio perchè le donne del villaggio creino un laboratorio di cucito utile alle loro famiglie e in seguito aperto a ricevere ordinazioni di lavoro sartoriale; 
 il padre di famiglia amico dei Salesiani che produce candele, e Joni , sfollato da Aleppo, che ha inventato una macchina per fare i cioccolatini e si illumina alla mia proposta di sostenere il ricrearsi della sua micro-impresa qui in Kafroun , dando lavoro a un gruppo di famiglie cristiane.

E poi , mano a mano, si affacciano altre timide proposte: sostenere l'iniziativa di creare una sala a disposizione dei ragazzi per incontrarsi e per studiare, con qualche PC, un generatore per la luce , dei buoni testi i lettura;  
aiutare le iniziative di promozione della donna, come piccolo artigianato e una stamperia... 

  Non smettiamo di pregare perchè cessi l'instabilità politica e venga finalmente la pace nella 'amata Siria': soltanto  questo potrà veramente ridestare la speranza. 
E neppure smettiamo di operare presso gli organismi occidentali perchè vengano tolte le sanzioni che in Siria colpiscono non i governanti ma il popolo ( senza sanzioni si abbasserebbero i prezzi e le mafie non avrebbero tanto potere) .

  Vi propongo quindi di sostenere il primo piccolo progetto individuato : 
'scalda il Natale di un bimbo sfollato' : a Marmarita in inverno fa abbastanza freddo,  un completo 'berretto, sciarpa, guantini' , fatti a mano in modo da dare anche  lavoro a un gruppo di donne. Bastano 10 euro per bimbo. Sarà suor Lydia (Suore del Perpetuo Soccorso) a ricevere e provvedere alla distribuzione. 
Scrivendo all'indirizzo mail:  oraprosiria@gmail.com  vi daremo ogni riferimento.

  In seguito, nello spazio "Aiutateci a restare": progetti, sulla pagina principale del Blog, vi proporremo le iniziative che implementeremo con i coraggiosi che là resistono.

   Diamo una alternativa ragionevole alla disperazione dei nostri fratelli siriani, ma  in fin dei conti diamo a noi stessi le ragioni in cui si radica la speranza del nostro futuro e la nostra libertà.
Grazie, e buon Avvento!

   Fiorenza

mercoledì 11 novembre 2015

Un appuntamento da non perdere

Incontro con P. Jacques Mourad, rapito e rimasto nelle mani del'Isis per quattro mesi in Siria.

Padre Jacques Murad si racconta sul canale arabo della tivù pubblica inglese

Terrasanta.net | 30 ottobre 2015

Un'inquadratura di padre Jacques Murad durante l'intervista alla BBC.
 «Ho deciso che dovevo scappare da Qaryatayn quando ho visto coi miei occhi che i miliziani dello Stato islamico avevano distrutto il monastero di Mar Elian, di cui ero priore, e la tomba del santo (Mar Elian, un monaco del IV secolo che ebbe tra i suoi discepoli anche Efrem il Siro - ndr). Sono fuggito per incoraggiare gli altri cristiani del mio villaggio a non rimanere sotto lo Stato islamico e ad imitarmi».

Emergono nuovi particolari sulla vicenda di padre Jacques Murad, sacerdote siro cattolico rapito da uomini dello Stato islamico (Isis) lo scorso 21 maggio e fuggito dalle loro mani il 12 ottobre, dopo cinque mesi di prigionia. Oggi padre Jacques si trova nei pressi di Homs. Qui è stato raggiunto da una troupe dei programmi in lingua araba dell’emittente britannica BBC, che lo ha intervistato sabato 24 ottobre. Le immagini riprendono padre Jacques finalmente libero, mentre celebra una messa in un cortile con qualche decina di fedeli. L’altare usato per la celebrazione è un tavolino coperto da un panno, appoggiato ad una parete del cortile. La croce che lo sovrasta è formata da due semplici rami legati insieme. Durante l’omelia padre Jacques si pone ad alta voce la domanda che tutti i cristiani di Siria, in fondo, si portano dentro: «Tanti si chiedono dov’è Dio? Quando verrà a salvare il suo popolo da queste stragi?».

«Tre settimane prima che mi rapissero ho avuto la percezione di essere in pericolo, che qualcuno mi stesse sorvegliando – ha raccontato padre Jacques ad Assaf Aboud, il giornalista della BBC che lo ha intervistato –. Poi, il 21 maggio (quando ancora Qaryatayn non era nelle mani dell’Isis - ndr) alcuni uomini con il volto coperto sono venuti al villaggio. Due di loro sono entrati nel monastero e hanno preso me e un seminarista. Ci hanno legati e incappucciati e, con la macchina del monastero, ci hanno portati a mezz’ora di strada dal villaggio, sulla montagna. Dopo quattro giorni ci hanno trasferito nella città di Raqqa. Qui, per 84 giorni sono rimasto in prigione. In generale mi hanno trattato bene. Non siamo stati torturati. Ma tutti i giorni entravano nella mia cella e mi parlavano duramente: mi dicevano che eravamo infedeli, che sbagliavamo e che l’unica religione vera è l’islam che propone lo Stato islamico. Dicevano di essere venuti per portare la religione giusta. Sono gente dalle grandi ambizioni: vogliono arrivare a (controllare) Roma e Mosca».
Durante tutto il periodo di prigionia padre Jacques ha subito interrogatori da parte degli emiri dello Stato islamico. Nei primi giorni, quando ancora non era a conoscenza del fatto che l’Isis avesse preso il suo villaggio, un emiro gli ha fatto insistenti domande sui luoghi cristiani di Qaryatayn: «Ho risposto che abbiamo due chiese, una siriaco ortodossa e una siriaco cattolica e che poi c’è un monastero. “E cosa è questo monastero?” Mi ha chiesto l’emiro. Allora ho pensato che non sapesse quanto fosse importante il monastero per noi cristiani e musulmani di Qaryatayn. Così gli ho detto che era solo un luogo dove avevamo delle terre coltivate. Ho cercato di nascondere quanto è importante… ma loro sapevano tutto».

«Pensavamo che questi dello Stato islamico fossero dei beduini, degli ignoranti, ma non è così – commenta amaramente il sacerdote –. Specialmente quelli venuti dall’estero, tunisini, algerini e iracheni, sono laureati, hanno studiato e sono molto determinati nel raggiungere i loro obiettivi».
Dopo quasi tre mesi di prigionia a Raqqa i miliziani dell’Isis hanno riportato padre Jacques a Qaryatayn: «Per arrivarci siamo passati da Palmira. Trenta chilometri più oltre, la macchina è entrata in un luogo coperto - racconta padre Murad -. Ci hanno fatti scendere e siamo entrati in un locale con una grande porta di ferro. La prima cosa che ho visto sono stati due dei ragazzi cristiani del mio villaggio. Poi, alzando lo sguardo, ho visto tutti gli altri miei cristiani! Sono stati giorni pieni di sofferenza; per me era molto difficile pensare che i miei figli fossero imprigionati, specialmente gli anziani e i disabili. La cosa che mi ha fatto soffrire di più è stato il fatto che, tra gli altri, c’erano anche una donna e un bambino di dieci anni, entrambi malati di tumore. Avevano bisogno di cure particolari, di medicine… e noi pregavamo gli emiri che avevano responsabilità su di noi, perché almeno questi due potessero andare a farsi curare, potessero cercare le medicine… Non hanno mai accolto la nostra richiesta».

«Il 31 agosto, alla fine, sono venuti da me cinque o sei emiri – continua il racconto –. Mi hanno chiamato e io ho avuto paura, ho temuto davvero che mi avrebbero ucciso. Erano venuti per annunciare cosa aveva deciso il califfo per i cristiani di Qaryatayn. Allora mi sono messo una mano sul cuore e ho detto dentro di me: basta. È finita! Invece il califfo ci lasciava scegliere tra quattro possibilità: la prima che gli uomini fossero uccisi e le donne fatte schiave; la seconda che tutti fossero ridotti in stato di schiavitù. La terza era la conversione di tutti all’islam; e la quarta era di accettare la grazia del califfo. La grazia consisteva nel vivere nella terra dell’Isis, pagando una tassa. Tutti hanno scelto questa possibilità. Così gli emiri hanno preso nota dei nomi di tutti i cristiani. Il giorno dopo hanno preso due grandi camion, ci hanno caricato e ci hanno riportato nel nostro villaggio. Ci hanno dato dei documenti con cui potevamo andare ovunque, anche fino a Mosul, nelle terre governate dallo Stato islamico. Quando ho potuto, sono fuggito, per dare anche agli altri cristiani il coraggio di fuggire. Tra i cristiani di Qaryatayn, infatti, ci sono persone che hanno difficoltà a pensare di andare via. Preferiscono morire nella loro terra. E ci sono cristiani che pensano che sia possibile vivere anche sotto l’Isis».

lunedì 9 novembre 2015

"Chi sei tu per dire che oggi non c'è Messa?" : intervista a don Alejandro José Mendoza

di Cristina Sanchez Aguilar
Alfa y Omega

"Un giorno, circa un anno fa, stavano cadendo missili a Damasco.  Era Domenica, il giorno in cui celebriamo quattro Messe per oltre 500 giovani che frequentano il nostro oratorio. Ho preso la decisione di non celebrare la Messa, perché siamo nel centro della città e la maggior parte dei giovani vive lontano. Ogni fine settimana inviamo autobus per raccoglierli, ma questa volta ho avuto paura. Alla mattina ho mandato messaggi a tutti i responsabili per avvisare i ragazzi. Alle cinque del pomeriggio, all'ora della prima Eucaristia, apparve sulla soglia un gruppo di circa 25 giovani che erano arrivati a piedi da uno dei quartieri più lontani dal centro. Ero veramente arrabbiato con loro, ma mi hanno detto: "Chi sei tu per dirci che non possiamo venire a Messa?", E io ho dovuto restare in silenzio. Se per me questa decisione è stata difficile, immaginarsi per i loro genitori, che ogni giorno devono prendere la decisione se lasciarli andare a scuola o no. Se li lasciano, rischiano la vita dei loro figli. Se non li lasciano rischiano la loro formazione e il loro futuro."

Per questo il numero di giovani e di famiglie in fuga dalla Siria è sempre più alto.
Sono partiti moltissimi cristiani.  Il momento chiave è quando i ragazzi finiscono l'università;  allora devono scegliere di rimanere o di vendere tutto e ripartire da zero. Ma questa decisione implica intraprendere un viaggio in cui si può morire, e in cui tutto lo sforzo della loro vita sia inutile. Noi, per esempio, abbiamo formato moltissimi laici e da un giorno all'altro se ne sono andati. Per fortuna, ora abbiamo 80 animatori che ci aiutano nel lavoro pastorale.

Immagino che la prospettiva di poter emigrare in Europa li incoraggerà ulteriormente.
Sì. Quando i giovani vengono a parlare con me mi dicono che vogliono partire, soprattutto per l'Europa. Se questo viaggio è perché li hanno accettati in una università dico loro di andare avanti. Ma quando mi dicono che stanno per imbarcarsi da clandestini, mostro la mia disapprovazione. Ma il loro ragionamento è travolgente: "Padre, se vado posso morire, ma se resto qui è sicuro."

La situazione a Damasco peggiora di minuto in minuto.
Gli ultimi due mesi sono stati fatali, e anche se è ben protetta dal Governo, Damasco non riuscirà a resistere per sempre. Solo non ci piace quando ci confrontano ad Aleppo, perché se noi stiamo male, là è l'inferno. Ad esempio, a noi tagliano l'elettricità ogni giorno otto ore, ma Aleppo ha elettricità un'ora ogni due giorni. Qui può mancare il pane, ma là manca qualsiasi tipo di cibo.  Noi non abbiamo acqua quattro ore al giorno, loro sono stati per tre settimane senza acqua.

La guerra ha causato una evoluzione nella fede dei cristiani siriani che rimangono?
Certo. In Siria la fede si viveva in un senso molto tradizionale. Quando iniziò la guerra, la gente andò in crisi perché non aveva a che cosa aggrapparsi. Noi sacerdoti abbiamo collaborato con la crisi, perché all'inizio della guerra abbiamo detto a molti che se avessimo pregato forte, tutto sarebbe finito. E non è finita. E' stato un duro colpo per i cristiani. Così siamo cambiati insieme.  Ci siamo abbandonati al Signore e abbiamo deciso di costruire con le nostre mani il Regno. Come potremmo chiedere ai nostri fratelli musulmani di vivere in pace, quando la nostra pace non è quella vera? Ciò ha portato molti a vivere una fede molto profonda.

Una fede che ha portato benedizioni. Ora avete con voi 1.200 giovani.
Eravamo giunti ad averne solo 20, perché i genitori avevano paura di lasciare che i loro figli uscissero per strada. Così abbiamo iniziato a visitare le famiglie a casa. L'obiettivo principale era quello di dare conforto e distribuire l'assistenza economica che stava arrivando. Durante queste visite incontravamo giovani senza speranza che avevano visto i loro amici morti quando erano colpiti da un proiettile. Ci chiedevano a cosa serviva impegnarsi se dovevano morire comunque. Ci siamo centrati sul seguire un cammino spirituale forte con loro, e quelli che andavano rinascendo alla speranza ne contagiavano altri. Così, in estate abbiamo avuto al centro salesiano 1.200 giovani, e ci sono altri che vogliono iniziare a partecipare.
  
 (trad. dallo spagnolo di FM)
http://alfayomega.es/32598/quien-eres-tu-para-decir-que-hoy-no-hay-misa


venerdì 6 novembre 2015

«VOLETE SALVARE I CRISTIANI? FERMATE LA GUERRA»: cardinale Béchara Boutros Raï



FAMIGLIA CRISTIANA
«La prima cosa da fare per proteggere i cristiani in Medio Oriente è far cessare la guerra in Siria, Iraq, Yemen e Palestina. Gli Stati europei litigano fra di loro per il numero di profughi da accogliere ma non agiscono per porre fine al conflitto. Solo il Papa leva la sua voce su questo». Sua Beatitudine Mar Béchara Boutros Raï, 75 anni, creato cardinale nel concistoro del novembre 2012, è il patriarca di Antiochia dei Maroniti del Libano. Lo incontriamo a Milano, in un meeting organizzato dalla Fondazione Oasis, a pochi giorni dalla chiusura del Sinodo sulla famiglia dove era padre sinodale insieme al cardinale Scola che lo ha invitato nell’ ambito dell’ iniziativa “Evangelizzare le metropoli”.

La richiesta d’ aiuto dei cristiani mediorientali è sempre più drammatica. Di cosa hanno bisogno i cristiani in Siria, Iraq, Libano?
«Per prima cosa che la guerra cessi perché a causa del conflitto sia i cristiani che i musulmani moderati emigrano e se ne vanno. Il Medio Oriente si sta svuotando e si lascia campo libero a fondamentalisti e organizzazioni terroristiche. Il secondo è che  ci sia un appello forte perché cessi la guerra. Gli Stati non ne parlano, gli unici appelli li fa il papa Francesco. L’ Europa discute sull’ accoglienza dei profughi, chi  ne vorrebbe diecimila e  chi tremila, ma questo non ci aiuta, non ci serve. L’ Europa dovrebbe concentrarsi sulla causa dei profughi, ossia la guerra. Bisogna chiudere il rubinetto e far sì che musulmani e cristiani tornino nelle loro terre. Un Medio Oriente senza cristiani, come diceva Benedetto XVI, non ha più identità. Perché quello è il luogo di tutta la rivelazione divina: lì Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Lì è nata la Chiesa ed è partito l’ annuncio del Vangelo al mondo».

Oggi però la convivenza con i musulmani è difficile, quasi impossibile.

«I cristiani sono lì da duemila anni, seicento anni prima dell’ arrivo dell’ Islam. Non accettiamo di essere chiamati “minoranza”! Abbiamo creato lo strato culturale cristiano di questa regione. Da 1400 anni viviamo insieme e pacificamente con i musulmani. Come l’ Europa discute su come preservare la propria identità, anche a noi preme di conservare la nostra che è formata dalla cultura islamica e da quella cristiana. È questo di cui abbiamo bisogno oggi».
Lei pensa che ci sia un progetto dei musulmani di conquistare l’ Occidente attraverso i flussi migratori? 
«Ho sentito più volte dai musulmani che il loro obiettivo è conquistare l’ Europa con due armi: la fede e la natalità. Per loro la pratica della fede è essenziale e fondamentale. In Arabia Saudita vanno il Venerdì alla preghiera anche col bastone. Conoscono a memoria il Corano e quando parlano lo citano spesso, lo stesso non accade per i cristiani che non si rifanno né alla Bibbia né all’ insegnamento della Chiesa. Loro credono che la volontà di Dio è procreare e che il matrimonio sia finalizzato a questo. Qui vedono che difficilmente ci si sposa, che non si fanno molti figli. Se siamo tanti possiamo imporci, pensano. Ad esempio non comprendono il significato  celibato dei preti, sono scandalizzati da questo perché secondo loro questo significa andare contro la volontà di Dio. Noi dobbiamo mantenere la nostra presenza con la qualità della vita e della testimonianza, non possiamo puntare sui numeri perché siamo pochi. Nel Golfo e in tutti i paesi arabi i cristiani occupano i migliori posti perché hanno cultura, moralità e non s’ intromettono nella politica interna».

Esiste un Islam moderato? 

«La maggioranza lo è, viviamo insieme a loro tutti i giorni: a scuola, al mercato, in università. E non da oggi. Però i musulmani non osano prendere posizioni nette contro gli estremisti e i terroristi. Ultimamente, sia pur con molta cautela, hanno preso posizione contro lo Stato Islamico dell’ Isis. In Libano dicono a noi di schierarci. Vengono da me al patriarcato dicendo di schierarci e che loro non possono parlare. L’ elemento religioso è fondamentale. Per un musulmano viene prima l’ Islam, poi la propria patria. I musulmani sunniti sono legati totalmente all’ Arabia Saudita, mentre gli sciiti all’ Iran. Per questo non possono prendere posizioni forti se non le prendono i loro Paesi di riferimento. In Libano, l’ Isis l’ hanno condannata ma i Fratelli Musulmani no, per fare un esempio. Quando i Fratelli Musulmani hanno preso il potere in Egitto e iniziato a imporre la sharia tutto il popolo si è ribellato fino ala destituzione di Mohammed Morsi. Questo vuol dire che la società è moderata. Poi viene una certa politica da fuori e distrugge tutto».

La persecuzione nei confronti dei cristiani mediorientali quanto è dovuta all’ odio religioso del Califfato e quanto al fatto che sono vittime perché non contano nulla in questi Paesi?

«Ci sono tre elementi essenziali da considerare. Per i musulmani il giudaismo è stato completato e soppiantato dal Cristianesimo e questo è stato completato e soppiantato dall’ Islam. Per loro il passaggio normale e naturale del cristiano è diventare musulmano e quindi guardano al cristiano come una persona che non ha fatto questo passo. Nella loro psiche il cristiano non è accettato come cristiano perché deve diventare musulmano ecco perché dicono che Maometto è l’ ultimo dei profeti. Secondo: loro identificano qualsiasi cosa che viene dall’ Occidente come cristiana tout court. Tutta la politica occidentale è una politica cristiana, è una nuova crociata. Loro dicono che i cristiani sono i resti delle crociate e dell’ imperialismo occidentale e noi rispondiamo che siamo in quelle terre seicento anni prima di voi. Un giorno venne da un personaggio religioso sciita dall’ Iraq per chiedermi cosa bisognava fare per proteggere i cristiani. Io gli risposi di non accettare la parola “proteggere” perché i cristiani sono cittadini iracheni come tutti gli altri. Poi ribaltai la domanda: “Cosa fate voi”, dissi, “per proteggere i cristiani? Perché li ammazzate mentre pregano e fate esplodere le chiese?" E lui mi rispose, indicandomi il fianco: “I cristiani sono il fianco debole della società, nel caos si attaccano loro”. Se gli chiedi perché attaccano i cristiani non trovano motivazioni plausibili però nel loro inconscio giocano questi elementi. Per questo Giovanni Paolo II, da persona saggia, quando convocò un’ assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per il Libano prima di annunciarlo mandò una delegazione nel Paese per parlare con i capi religiosi musulmani e informarli ed evitare che questo venisse interpretato come una crociata nei loro confronti. Abbiamo fatto la preparazione del Sinodo insieme ai musulmani. E l’ esortazione post sinodale l’ hanno letta più loro che noi cristiani! Nella vita quotidiana loro hanno molto fiducia nei cristiani, noi lo sappiamo e sappiamo anche come vivere insieme a loro».
Lei teme che il conflitto siriano si allarghi anche al Libano?
«Siamo un Paese più piccolo della Sicilia e attualmente abbiamo un milione e mezzo di profughi su 4 milioni di abitanti, più mezzo milione di palestinesi. Cosa resterà di noi? La gente libanese emigra. Cosa resterà della cultura libanese, dell’ economia? Se continua la guerra per noi sarà la fine. Ci sono 350mila alunni siriani solo per quest’ anno che hanno bisogno di insegnanti, scuola, libri. Sono quanti gli alunni libanesi delle scuole statali. Stiamo pagando a caro prezzo la guerra in Siria: siamo vicini e non possiamo chiudere le porte a questa gente, sono esseri umani. E se fossi io o la mia famiglia nei loro panni? Ecco perché la comunità internazionale non dovrebbe lasciarci soli».

Al Sinodo i problemi “occidentali” sono stati a lungo al centro della discussione. Lei viaggia molto e conosce bene l’ Europa. Ritiene che  l’ uomo dell’ oriente sia profondamente diverso da quello occidentale o c’ è stato un avvicinamento? 

«C’ è differenza, senza dubbio.  I problemi che riguardano noi e la famiglia sono molti diversi da quelli europei che sono stati discussi dal Sinodo per l’ Occidente. Sia per i musulmani che per i cristiani il punto saldo è che il matrimonio è un’ istituzione divina. Per noi è un sacramento, per i musulmani una legge divina. Le legislazioni civili nei paesi del Medio Oriente salvaguardano il matrimonio come realtà religiosa, non esiste il matrimonio civile e i musulmani non lo riconoscono. In Libano il matrimonio civile è accettato ma solo se celebrato fuori dal Paese. La legislazione salvaguarda il matrimonio e la famiglia. I cristiani sono più aperti verso la laicità e il secolarismo occidentali, però siamo protetti dalle leggi civili. I nostri problemi sono differenti. Ho detto al Sinodo l’ anno scorso che qui in Europa la Chiesa deve andare sempre a raccogliere quello che gli Stati buttano per terra, legiferando senza alcuna considerazione per la legge divina né rivelata né naturale. Bisogna fare un appello allo Stato affinché rispetti almeno la legge naturale. Da noi, invece, le legislazioni statali ci aiutano molto a conservare i nostri valori».  

I Vescovi maroniti: no alla spartizione della Siria

Agenzia Fides  6/11/2015

Beirut – La prospettiva – da tempo ventilata - di una spartizione su base settaria della Siria preoccupa i Vescovi maroniti, che propongono di guardare al modello istituzionale libanese per cercare di neutralizzare le spinte centrifughe settarie che alimentano il conflitto siriano, rischiando di dilaniare il Paese. Sono queste le chiavi di lettura della crisi siriana emerse nell'assemblea dei Vescovi maroniti riunitisi ieri presso la sede patriarcale di Bkerkè, per il loro incontro periodico, sotto la presidenza del Patriarca Boutros Bechara Rai. 
“Le voci sulle ipotesi di una nuova mappa della Siria” si legge nel comunicato finale dell'incontro, pervenuto all'Agenzia Fides “non lasciano ben sperare per il futuro di pace nella regione. La soluzione proposta non è buona”. 
Dal canto loro, i Vescovi suggeriscono che i negoziatori impegnati nella ricerca di una soluzione al conflitto siriano prendano in considerazione l'esperienza storica di convivenza vissuta nel Paese dei cedri, che con tutti i suoi limiti, le sue crisi e le sue contraddizioni, ha consentito che tutte le comunità religiose fossero coinvolte nella gestione della cosa pubblica. Solo la ricerca di sistemi istituzionali capaci di garantire equilibrio tra le diverse realtà etniche e religiose – sostengono i Vescovi maroniti - può salvare l'intera regione dalla logorante prospettiva di un conflitto permanente e generalizzato. 
Nel loro comunicato, i Vescovi libanesi ribadiscono anche il loro pieno sostegno per l'esercito e tutte le forze di sicurezza libanesi, e aggiungono di nuovo la propria voce a quella del Patriarca, che ha lanciato innumerevoli appelli ad uscire dall'impasse politica creatasi intorno all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.