Alla vigilia della visita papale in Libano il cardinale
segretario di Stato Tarcisio Bertone ha rilasciato un'intervista al quotidiano
francese "Le Figaro" che la pubblica nel numero di oggi, 13 settembre. La
presentiamo in una nostra traduzione.
di Jean-Marie GuénoisIl viaggio di Benedetto XVI in Libano s’iscrive inevitabilmente nel contesto drammatico della guerra civile in Siria. È un viaggio a rischio?
La situazione drammatica nella quale vive il popolo siriano è seguita con molta apprensione dal Santo Padre. Da oltre un anno il Papa ha moltiplicato i suoi appelli pubblici a favore della pace, della riconciliazione, dell’unità del popolo siriano. Non ha neppure lesinato sforzi per una soluzione diplomatica. In Libano le nostre reti ecclesiali ci indicano che il Paese non si trova oggi in una situazione pre-conflittuale paragonabile alla crisi siriana. Alcuni episodi hanno potuto suscitare un’impressione diversa nell’opinione internazionale ma, ancora una volta, le informazioni che riceviamo sul posto ci assicurano che, al contrario, c’è grande attesa per la visita del Papa da parte di tutti i libanesi e di tutte le comunità socio-religiose del Paese.
L’ipotesi di un annullamento del viaggio è stata mai contemplata?
No, mai. Noi seguiamo la situazione molto da vicino. Incrociamo molteplici fonti d’informazione. Consideriamo seriamente tutti gli avvenimenti particolari, ma non abbiamo finora mai ricevuto dati sufficientemente gravi da far contemplare l’ipotesi dell’annullamento della visita.
Benedetto XVI ha mai esitato?
Il Santo Padre ha preso la decisione di visitare il Libano molto tempo fa. Vi si reca come un messaggero di pace. Bisogna capire bene questo per non sbagliarsi sul viaggio. Le crescenti tensioni in quell’area, lungi dallo scoraggiarlo, hanno dunque reso ancora più urgente il suo desiderio di visitare il Libano al fine di promuovere la pace e di esprimere a tutti la sua profonda solidarietà.
Sono state richieste particolari misure di sicurezza per il Papa, ma anche per le folle?
Ogni viaggio è oggetto di rigide misure per garantire la sicurezza di tutti. Nessuna richiesta supplementare è stata comunque formulata. A tale riguardo, restiamo in stretto contatto con le autorità.
La posizione della Chiesa cattolica sulla crisi siriana è stata spesso percepita come troppo prudente nei confronti del regime di Damasco. Che cosa pensa oggi la Santa Sede della crisi siriana?
Fin dall’inizio della crisi, il Papa ha condannato con tutte le sue forze le violenze e la perdita di vite umane. Con lo stesso vigore Benedetto XVI ha affermato le legittime aspirazioni del popolo siriano. Ha ripetutamente invitato tutti i responsabili ad astenersi da qualsiasi violenza e a impegnarsi sulla via del dialogo e della riconciliazione per risolvere questioni inevitabili per il bene del Paese e per quello di tutta la regione.
Ci sono oppositori musulmani che rimproverano ai cristiani siriani la loro «neutralità».
In Siria i cristiani cercano di vivere in pace e in armonia con i loro fratelli siriani. Temono l’aumento della violenza che mette in pericolo tutti i siriani. I cristiani sono un punto di riferimento, un ponte tra le comunità. Essi cercano di costruire la pace e l’unità tra tutti i cittadini, al di là della loro appartenenza etnica e religiosa.
Alcuni però vedono questa «neutralità» come una mancanza di coraggio...
La posizione della Chiesa non è neutrale, è semplicemente chiara e netta: la violenza porta solo a nuove violenze! La violenza porta la morte. Ferisce per sempre i corpi ma anche le menti. La violenza infligge ferite psicologiche profonde al cuore della nazione siriana che si faranno sentire per molti anni.
Benedetto XVI si pronuncerà su questa crisi durante il viaggio?
Il Papa intende essere una voce profetica e una voce morale. La Santa Sede chiede la cessazione immediata di ogni violenza per far prevalere il dialogo ed evitare qualsiasi nuova ferita alla popolazione.
Ma perché in questo contesto è stato scelto il Libano?
Benedetto XVI ha già visitato la Terra Santa, cioè Israele, i Territori Palestinesi, la Giordania, Cipro, la Turchia. Il Libano, Paese biblico, è apparso un luogo ideale per consegnare l’esortazione postsinodale a tutte le Chiese del Medio Oriente e per dire al mondo che vivere insieme tra culture e religioni diverse non è un’illusione, ma una realtà che esiste. Questo Libano nel quale Giovanni Paolo II vedeva, «più che un Paese», un «messaggio» di libertà, di convivialità e di dialogo.
Benedetto XVI ha inserito la novità geopolitica della primavera araba nel documento che renderà pubblico domenica a Beirut?
Il Papa non è un commentatore politico! Aspettarsi dall’esortazione post-sinodale una sorta d’interpretazione socio-politica della «primavera araba», o addirittura un programma politico specifico per i cristiani, sarebbe fraintendere il magistero del Santo Padre. L’esortazione post-sinodale sarà piuttosto un messaggio di speranza e un incoraggiamento per tutti i cattolici del Medio Oriente affinché possano offrire il loro prezioso contributo nelle società tanto diverse in cui vivono.
Questo testo inedito per il futuro di quei cristiani non rischia di essere già superato dagli eventi?
L’esortazione trae la sua ispirazione da un Sinodo che ha riunito a Roma per tre settimane tutti i vescovi e gli esperti del Medio Oriente. In quell’autunno 2010 sono state poste pubblicamente questioni molto precise — e a volte scomode— sulla libertà, la democrazia, la giustizia, lo Stato di diritto. Bisogna ammettere che le richieste del Sinodo, sostenute dai cattolici, hanno in un certo modo anticipato le aspirazioni della «primavera araba» del 2011.
Il Papa ha affrontato questi temi sociali nella stesura finale del documento?
Benedetto XVI ha seguito con molta attenzione l’evolversi della «primavera araba». È molto informato sulla situazione. Quando capi di Stato o primi ministri escono da un incontro con lui, sono sempre sorpresi dal suo livello di conoscenza delle diverse questioni. Per il Papa la promozione dei diritti dell’uomo è la strategia più efficace per costruire il bene comune, base della convivialità sociale. Ritiene che se la democrazia prenderà maggiormente consistenza nel mondo arabo, porterà a un maggiore rispetto dei diritti dell’uomo e a un migliore sviluppo della società a tutti i livelli. Ma allo stesso modo insiste nel dire che la religione e i suoi valori sono un elemento importante del tessuto sociale. La religione è anche un diritto fondamentale dell’uomo ed è per lui inimmaginabile che dei credenti si privino di una parte di se stessi — della loro fede — per essere cittadini attivi.
La primavera araba pone di nuovo la questione delle relazioni tra la Chiesa e l’islam; come vede oggi questo problema?
Conosciamo male la nostra storia comune! Le relazioni islamo-cristiane risalgono a molti secoli fa. Hanno conosciuto tutte le varianti, a seconda dei Paesi, andando dall’osmosi al rifiuto, in seno al mondo musulmano ma anche all’interno della Chiesa. Dal concilio Vaticano II, la linea direttrice è chiara: la comunità cristiana tende una mano aperta in segno di dialogo e di riconciliazione. Noi osserviamo, nel mondo islamico, i segni del desiderio di stringere questa mano e di camminare insieme. A Roma, il nostro Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, sotto la responsabilità del cardinale Tauran, viene in proposito interpellato da ogni parte del mondo. Certo, si levano voci contrarie, ma le società sempre più multietniche, multiculturali e multireligiose impongono questa coabitazione. È una scelta senza appello per la libertà di coscienza, la libertà religiosa, il rispetto e il dialogo. Il problema oggi consiste nel trasporre, soprattutto attraverso la formazione, questa qualità del rapporto dal livello delle élite a quello delle popolazioni che sono talvolta sotto l’influenza dei gruppi fondamentalisti.
Alcuni scettici preannunciano però un inevitabile scontro islamo-cristiano...
Non siamo d’accordo, poiché ci troviamo all’opposto di uno scontro con l’islam! Una simile visione conflittuale non dà ragione né alla realtà sul terreno, né a una visione del futuro, né al credo profondo della fede stessa.
Nell’attesa, sempre più cristiani lasciano il Medio Oriente. Questa partenza è inevitabile?
Bisognerebbe rispondere Paese per Paese, per evitare generalizzazioni. E non dimenticare che il primo motivo della partenza è spesso economico e sociale, mentre il secondo è legato all’instabilità creata dagli anni di guerra. Al contrario, e noi lo constatiamo, quando il contesto sociale e culturale è favorevole, i cristiani si mobilitano, anche in Paesi musulmani, per la costruzione di società in cui ognuno deve avere il proprio posto, indipendentemente dall’appartenenza religiosa. Su questo piano il ruolo degli Stati è decisivo.
I cristiani del Medio Oriente, minoritari, hanno una vocazione particolare?
Per comprenderla, occorre ribaltare la nostra prospettiva: il cristianesimo è nato lì! I cristiani in Medio Oriente non sono arrivati come missionari dell’Occidente o sulle orme di imperi coloniali. Allo stesso tempo, il Medio Oriente attuale deve molto alla presenza cristiana. Questa ha modellato il volto delle società. Un solo esempio: la rinascita araba del secolo scorso che ha visto la partecipazione di eminenti figure cristiane. I cristiani contribuiscono dunque all’edificazione di una società libera, giusta e riconciliata. La loro presenza è auspicata dalla maggior parte dei Paesi. La posta in gioco è di lavorare insieme per fare di questa regione una nuova culla di civiltà, di cultura e di pace.
Questo viaggio di Benedetto XVI a Beirut s’iscrive in un contesto d’instabilità generalizzata: incertezza in Egitto, tensione tra Israele e Iran, Siria a ferro e fuoco, Iraq frammentato. Qual è la principale posta in gioco della visita?
Aggiungerei la questione palestinese che dura da diversi decenni e non ha ancora trovato una vera soluzione. In effetti, accordi parziali, anche se positivi, non possono garantire una pace duratura se altre questioni non sono state risolte. La sfida più grande è di trovare una soluzione condivisa da tutti i protagonisti locali con l’aiuto della comunità internazionale, che è corresponsabile. La presenza del Papa è dunque un invito a tutti i responsabili del Medio Oriente e della comunità internazionale a impegnarsi con una volontà ferma per trovare soluzioni eque e durature per la regione. Benedetto XVI non ha però la pretesa di essere un leader politico. Come responsabile religioso, viene per confermare i suoi fratelli nella fede in Gesù Cristo e intende esortare tutti gli uomini e le donne di buona volontà a far sì che la religione non sia mai un motivo di guerra e di divisione. Cercherà di toccare i cuori affinché ognuno s’impegni a cambiare la situazione.
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