Deir Sim'an, Campo Santo |
di Maria Antonietta Carta
Una volta, più di duemila anni fa, su un piccolo colle, Tell Neshin, Collina delle donne in Siriaco, sorgeva il villaggio di Telanissos, Collina delle donne in Greco.
Gli uomini, in quei tempi, Dio lo chiamavano Madre e poi sole Sole e anche Tempesta. Gli alberi e le grotte erano templi e già si sapeva che la Vita nasce dalla Morte.
Poi vennero i tempi in cui Dio cominciò a essere chiamato Cristo, Alfa e Omega, Salvatore, e Telanissos, abitata da asceti, mercanti, artigiani e visitata da folle di pellegrini che vi giungevano per venerare un santo vivente, cominciò a trasformarsi in una piccola città paleocristiana dove il sacro si mischiava al profano, le preghiere ai commerci e alle giostre di cavalli. Una fiorente piccola città del turismo religioso di allora. Le terre circostanti erano attraversate da numerose vie di comunicazione. Da Antiochia a Chalcis, il deserto di San Gerolamo, ad Apamea E ai porti dell’Eufrate, le piste si affollavano di carovane, eserciti, pellegrini e monaci infervorati che per esaltare la nuova fede abbattevano spesso i templi dei padri.
Più di mille anni fa, Telanissos fu abbandonata e rimase deserta finché, sulle rovine, da pochi decenni è tornato a nascere un villaggio che però ha un nome nuovo, Deir Sim‛an, monastero di Simeone in Arabo, dal santo venerato quindici secoli prima: Simeone Stilita.
I moderni abitanti, che chiamano Dio Allah cioè Dio, non celebrano più Simeone, ma hanno chiamano il loro villaggio con il suo nome!
Deir Sim'an, edifici del villaggio moderno |
Deir Sim‛an, avvolto in una quiete particolare: la placidezza di chi ha conosciuto tutto ed è anche rinato dalle ceneri, e che niente può più stupire. Così mi apparve la prima volta che vi arrivai, assolutamente per caso: una città morta che stava rinascendo. Abitazioni nuove a pan di zucchero e rovine di edifici monumentali con porticati su pilastri e colonne, chiese, sepolcri. Qualcuno aveva stabilito la sua dimora nelle solenni vestigia di una basilica con il suolo disseminato di colonne e capitelli abbelliti da lussureggianti foglie di acanto come mosse dal vento. Massaie stendevano al sole il loro bucato tra le pietre rovesciate. Una mucca e un cavallo, affrontati come in un disegno dell’antica Mesopotamia, riposavano tranquilli, i corpi possenti adagiati con grazia dentro l’emiciclo dell’alta abside centrale. Mi sembrarono gli emblemi di una natura che fu divina. Un arco trionfale ferito si stagliava solitario nell’azzurro del cielo alle pendici di una collina.
Erano i primi anni ’80, vivevo da poco in Siria e non avevo mai sentito parlare di Simeone Stilita, delle Città morte paleocristiane, numerosissime nella regione come avrei scoperto in seguito, e neppure dei movimenti monastici del deserto sorti nei primi secoli per sfuggire alle pastoie di una Chiesa trionfante e subito complice-asservita al potere temporale.
Rimasi incantata da quell’apparizione inattesa.
andron |
Sono tornata spesso nei luoghi in cui quel giorno ormai lontano mi condusse il caso impersonato da mio marito. Trascorrevamo le vacanze a Bedrusiyyeh. Un villaggio ai piedi del Jebel Akra‛ - il monte sul quale un tempo sorgeva la dimora dorata del dio ugaritico Baal e dove l’imperatore Adriano aveva celebrato sacrifici a Giove - con una lunghissima spiaggia scura bagnata dal Mediterraneo. Appena svegliati, Maarouf disse: sono stanco del mare. Perchè non andiamo a farci un giro?
Lui ama guidare l’auto. Dietro a un volante è felice come un bambino felice. Così, ce ne andammo a spasso attraversando il jebel costiero, il fiume Oronte a Jisr al-Shughour, le ultime propaggini del Jebel Zawiyeh e ancora su, verso nord-ovest, lasciando la via di Aleppo per Bab el-Hawa, la porta del vento, e sempre avanti senza meta spensierati fino alla visione di quello straordinario sito.
Non dimenticherò mai l’improvvisa visione di quegli antichi edifici inaspettati, quelli che avrei in seguito scoperto essere monasteri paleocristiani e le chiese in rovina come risaltavano nell’aria piena di luce, e dentro Maarouf e nostra figlia Salima, la mia cara famiglia sorpresa ed emozionata per l’avventura di quella tarda mattina d’estate.
Ero giovane allora, e non troppo contenta al pensiero di trascorrere la vita in Siria. Ma ci avrebbe pensato la Siria, strega incantatrice, a farmi cambiare idea. A sedurmi.
Come si chiama questo posto? – chiedemmo a un contadino. Deir Sim‛an – ci rispose, invitandoci a casa sua.
Ho finito per appassionarmi a questa straordinaria regione delle Città Morte.
panorama del Massiccio Calcare |
Quante volte poi, non più per caso, Maarouf ha dovuto accompagnarmi!
L’ho studiata e ne ho scritto. Eppure, visitandola provo sempre la stessa emozione di quel giorno lontano. ‘’Chissà - spesso mi domando durante le mie peregrinazioni tra le rovine - dove saranno i discendenti degli antichi abitanti che hanno dovuto abbandonare questi luoghi fuggendo a guerre e carestie. Avranno conservato la coscienza di una patria perduta? ‘’
Qatura, mausoleo di Aemilius Reginus |
È un altro mattino d’estate. Sono qui per fare delle foto per una rivista spagnola. Ecco le vestigia della via sacra e dell’arco trionfale che forse fu danneggiato da un terremoto o da una guerra.
Entrambi piaghe di questa terra.
Un’alta colonna superstite incoronata da un capitello corinzio si erge ancora solenne verso il cielo.
Oltre la spianata in cui si radunavano i pellegrini, una cappella mortuaria paleocristiana è diventata mausoleo di un santo islamico e per lui adesso ardono a Deir Sim‛an le lampade a olio in terracotta. Il mihrab indica la direzione della Mecca a chi vuole pregare.
In un Campo Santo, preceduto da un portico su colonne e annesso a un monastero monumentale, ostinate resistono al suolo poche tessere di mosaico.
Sul muro di un ospizio per gli antichi viaggiatori è incisa una croce-fallo: il principio fecondatore.
Sono moltissime le pietre delle costruzioni che recano scolpiti simboli: quadrati, triangoli, ottagoni, cerchi, alberi della Vita, colonnette votive, rosette, stelle, ruote...
Immagini di universi invisibili.
Radici.
L’architrave della porta di una casa è decorato con una croce svastica racchiusa da un quadrato e da un cerchio. Rappresentazione del Principio, della Conoscenza, geometria del Sole e di Gesù, eppure inevitabilmente legata a un turbinoso livore. Allo strazio di una guerra.
Emblemi – maschere.
Pretesto per dissimulare oscuri abissi.
Risalgo il monte.
Questi territori, che nei primi secoli della nostra era fertili e ricchi di traffici e colori, si presentano ora come un mare procelloso di rocce grigie. Se ne riceve una sensazione d’immenso abbandono. Di cataclisma cosmico che ogni volta mi affascina e mi sgomenta.
Qualche albero, però, sta crescendo nuovamente, tenace come un’attesa difficile e qualche campo arato nasce tra le pietre.
Deir Sim'an, monastero |
Arrivo in cima alla collina dove, miraggio dorato nel caos del deserto calcareo, sulla spianata sorge il grandioso santuario di Simeone stilita, edificato quindici secoli fa per un ‘’pazzo di Dio’’ che si era messo in testa di soggiogare il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere mantenendo la padronanza di se per elevare lo spirito. Visse esponendosi per trentasei anni alle tempeste, al gelo e al sole bruciante su una colonna. Protagonista di una fede estrema, soggiogava il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere vivendo i patimenti come fuga mistica dalle passioni terrene. Alla morte di Simeone, l’esercito di Leone I si era assicurato con la forza le sue utili spoglie mortali e l’imperatore Zenone aveva fatto erigere il monumento, probabilmente più per calcolo politico che per celebrare il santo carismatico.
Ammiro e capisco la maestosità dell’opera architettonica, ma resto sconcertata davanti alla vicenda umana e spirituale dell’uomo che la ispirò.
Essa mi appare folle.
La ragione si sente inadeguata.
È ciò che ho provato sin dalla prima volta che salii su questa montagna deserta, guardando il grande tempio solitario col tetto e le finestre spalancate al cielo e battuto dal vento che filtrava tra i rami degli alberi come una musica o un respiro arcano. Avvertendo l’assurda sensazione di aver raggiunto un luogo che dovevo aver già incontrato in non so quale sogno.
Mi capita spesso di provare la suggestione di un legame lontano con questo Paese che sembra, da millenni, una specie di tempio cosmico in cui gli esseri umani si sono inventati ogni genere di culti e di riti. È quello che avverto sia nei centri abitati sia negli spazi aperti, dove ogni altura, ogni valle, ogni anfratto nascosto pare conservare il segno di una qualche devozione. Perché?
Mi sgomenta l’ostinazione dell’uomo a voler restare sottomesso ai numi tutelari che non cessa mai d’inventarsi. Mi tornano in mente due leggende su Simeone. Una amara e una gentile. Come le due facce della vita: terrifica e benigna. Mi piacciono le leggende e mi è sempre piaciuto ascoltarle. In esse si occultano le debolezze più intime, i dubbi più profondi, i sogni più audaci e il timore e la fragilità umana che da sempre ha sentito l’irresistibile bisogno di forgiare divinità da cui dipendere.
1. Dopo venti anni, la madre di Simeone scoprì dove si trovava il figlio. Accorsa in gran fretta, dopo la lunga separazione desiderava vederlo senza dovere ancora attendere. Ma non le fu concesso di contemplarlo. Poiché lei bramava ricevere la benedizione dalle sue sante mani, dovette salire sul muro. Avvenne che, mentre saliva sulla scala, fu precipitata a terra prima di aver potuto vedere Simeone. Allora, egli le mandò a dire: «Perdonami, madre. Se ne siamo degni, potremo vederci in questo mondo.» Avendo udite queste parole, sua madre ardeva ancora di più dal desiderio di vederlo. Allora S. Simeone le mandò a dire: «Calmati, signora madre. Poiché tu sei arrivata da molto lontano e ti sei stancata per me miserabile, bene! Siedi e ristorati. Io ti vedrò più tardi.» A quelle parole, sua madre sedette e, immediatamente rese l’anima a Dio.
I guardiani del luogo vennero a risvegliarla, ma la trovarono morta e annunciarono la notizia al santo.
2. Sul corpo di un serpente femmina spuntò una grossa pustola e a causa delle sofferenze essa fece una corsa di circa un miglio. Il maschio, addolorato per le sue pene, la prese e la condusse da San Simeone, ma arrivati presso la colonna si separarono. La femmina, non osando mostrarsi al giusto, si recò nel luogo destinato alle donne. Il maschio invece confusosi tra la folla dei pellegrini raggiunse la colonna e la abbracciò levando e abbassando la testa in segno di venerazione verso il giusto. Vedendo quel serpente enorme gli uomini fuggirono lontano, ma Simeone disse loro: non fuggite, fratelli, esso è arrivato qua con una supplica. La sua femmina è molto ammalata ed è andata nella sezione delle donne. Poi disse al serpente: « prendi dalla terra un po’ di fango e portalo a tua moglie, applicaglielo e soffia su di esso. Questo fango la guarirà.»
Dopo aver raccolto un po’ di fango, il serpente tornò dalla compagna. I pellegrini lo seguirono per vedere cosa avrebbe fatto e videro oltre il recinto il serpente femmina con una grossa escrescenza. Il serpente maschio le applicò il fango e dopo averci soffiato sopra la guarì alla presenza di tutti. Poi andò via con lei. Assistendo a questo mistero la folla rese grazie a Dio.
Faccio le foto poi torno a piedi al villaggio, alla via sacra che si perde tra le pietre rovesciate, e ancora immagino le processioni di Arabi, Germani, Galli, Bretoni, cittadini della decadente Roma imperiale e Iberici, che con i ceri in mano cantavano preghiere e speravano miracoli.
Una moltitudine di uomini diversi uniti da una fede.
Per alcuni secoli.
Un giorno.
Una monade di eternità.
In un piazzale desolato, confinante con i monumenti, alcuni uomini fabbricano mattoni di fango e paglia. Come i loro antenati.
Sono le dodici, l’ora della seconda preghiera. Il muezzin intona il Takbir: la lode a Dio.
Dio é il più grande. Dio è Uno.
Nei campi circostanti, lavorano delle donne. Le loro schiene sono curve sul terreno. I loro vestiti a colori vivaci screziano le zolle ferrigne scivolate dai fianchi nudi della collina. Quelle liete macchie di colore mi riempiono di mestizia. Le incolpo di mistificare la fatica contadina. La fanno bella e dolce come un quadro di Corot.
L’intensa bellezza del dolore! Penso arrabbiata. E ingiusta.
Non è la bellezza una meravigliosa riposante consolazione?
Anche nelle case più povere, nelle baracche, nelle tende dei nomadi ho sempre trovato un qualche adorno, e anche nelle donne più stanche un qualche commovente segno di civetteria.
Poco lontano, oltre una valle, si staglia il cono solitario del Jebel Sheikh Barakat, il monte Korifeo, sulla cui sommità si offrivano sacrifici a Giove. E al Sole.
O Signore, o luce della terra
Solamente tu sei risplendente.
È un giorno di festa. Il pulmino per il vicino centro di Deiret Azzeh ritarda.
Il sole sta ormai diventando alto e troppo caldo.
Non ho voglia di aspettare. Decido di fare l’autostop.
Mi danno un passaggio alcuni uomini provenienti dalla valle di Afrin su un autocarro carico di cipolle che stanno trasportando ad Aleppo. Il loro sguardo è riservato – rispettoso - incuriosito. Dall’alto della cabina, ci viene incontro la valle di Qatura, dove si conserva un insediamento di legionari e coloni romani con i loro culti agrari scolpiti nella pietra e la necropoli e il mausoleo di Emilio Regino ,un soldato ventunenne morto duemila anni fa.
Giù in basso a Ovest verso il Mediterraneo, la valle di Antiochia che attraversarono gli eserciti assiri, Alessandro il Grande, Dario, Zenobia di Palmira, Aureliano, Giuliano l’Apostata..., è coperta da una leggera bruma. A Nord, la valle del fiume Afrin e le grotte dove uomini di Neanderthal ricevettero una sepoltura rituale. Più lontano, si leva la catena dell’Amanus che Plinio chiamò Montagne d’argento.
A Deiret Azzeh ci separiamo, ma essi continuano a salutarmi sventolando le mani dall’alto dell’autocarro. Rispondo al loro saluto finché scompaiono all’orizzonte.
Noleggiata un’auto, scendo verso la valle dell’Oronte fino a Derkush, villaggio situato su una striscia di terra lambita dal fiume che qui scorre dentro la stretta gola tra il Jebel Wastani e il Jebel el-Qussayr, che Strabone chiamò Cariddi. Rovine del ponte romano e del porto fluviale da cui partivano i blocchi di calcare e i prodotti agricoli per la vicina città di Antiochia. Un sacrarium con centinaia di nicchie, tracce di un tempio forse risalente al regno di Antonino Pio e dedicato a Zeus Betylos; grotte votive, si pensa per il culto popolare della divinità delle acque, Atargatis - la Dea Syria e Tifone - il fiume Oronte divinizzato. Sopra l’ingresso ad arco di un sepolcro ipogeo sono incise le parole di un racconto di pietà:
L’anno quattrocento (di Antiochia, 352 d. C.)
il giorno ventisette del mese di Panemos
Eutikes Marone capo battelliere
alla dolcissima Domitilla madre mia:
Coraggio mamma, nessuno è immortale.
Precarietà di foglie al vento e amore sconfinato.
Passioni che incessantemente attraversano il tempo e gli spazi.
Che sempre confondono, travagliano o esaltano.
Uguali per tutti e non vogliamo accorgercene.
Nello specchio del fiume si riflettono giardini di melograni.
Queste sono alcune pagine del mio diario scritte a metà degli anni ‘90 del secolo scorso, molto prima che la guerra devastasse quel prezioso Paese che era la Siria. Quando in Siria era dolce vivere. Ora, il santuario di S.Simeone e la maggior parte degli altri luoghi descritti sono occupati, devastati e saccheggiati dai terroristi o dagli occupanti turchi. Domenica prossima sarà pubblicato un mio articolo dedicato al monastero di S. Simeone stilita.
Le foto pubblicate in questo articolo sono dell'autore, M.A.Carta