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martedì 5 maggio 2015

"La crisi in Siria è parte di una guerra mondiale!": mons Arbach

Intervista all'arcivescovo melchita di Homs, mons. Jean Abdo Arbach

 Zenit.org , intervista di Iván de Vargas 

Quattro anni dopo dall'inizio della guerra in Siria, la crisi umanitaria è andata sempre più deteriorandosi, e tuttora non presenta alcun segno di miglioramento. Oltre 200mila persone hanno perso la vita in questi anni, secondo i dati delle Nazioni Unite, e chi è rimasto in vita è in preda ad una sofferenza schiacciante. Su una popolazione totale di 22milioni di abitanti, oltre la metà in Siria necessita di assistenza e di beni primari come acqua, cibo, cure sanitarie. Il resto, circa 6-7 milioni, sono sfollati fuggiti dalle loro case. La maggior parte è rifugiato in Libano (circa un milione), altri 600mila in Giordania.  
A raccontare a ZENIT tutto questo è l'arcivescovo greco-cattolico melchita di Homs, Hama e Yabrud, mons. Jean Abdo Arbach, intervistato in esclusiva a Madrid, in occasione della sua partecipazione alla Giornata sull'Oriente cristiano e il mondo arabo. Nel colloquio, il presule parla dei cristiani che vogliono rimanere in Siria e degli sfollati che vorrebbero tornare a casa; spiega poi che la crisi che attraversa il paese è il frutto di una guerra mondiale che si combatte sul suolo siriano. Al contempo, mons. Abdo interpella la comunità internazionale a trovare una soluzione dignitosa per le famiglie e i milioni di bambini che hanno fame, sono malati e necessitano di una educazione.  

Attualmente ci sono due piaghe in Siria: la guerra civile e le minacce del Califfato islamico. Da quando va avanti questa situazione?
La crisi in Siria, non è una crisi civile. Si tratta di una guerra mondiale combattuta nel territorio siriano. Quando potrà terminare? Parliamo di una domanda internazionale.
La Siria chiede pace e tranquillità. La gente è stanca e vuole tornare a casa. Vuole vivere con dignità. Abbiamo bisogno tutti di pace. Come ha detto il Papa: “Che tacciano le armi!”. Quindi, ripeto, che tacciano le armi!

È possibile trovare una soluzione alla crisi attraverso il dialogo?
Rispondo chiaramente. Nessuno può fermare il dialogo. Proprio oggi, per fortuna, è iniziato un dialogo interno tra il governo e l'opposizione siriana in Russia. Quindi c’è un dialogo. Ma si sta parlando in generale. Se si troverà una soluzione o meno, non lo so... L'opposizione è influenzata dalla comunità internazionale. Non c’è una posizione chiara sulla soluzione. Questo è il problema. Oggi, il Medio Oriente è tutto in fiamme. Non sappiamo chi è il responsabile. Non succede solo in Siria. È necessario che la comunità internazionale, insieme con i governi attuali, trovi una soluzione dignitosa per le persone, per le famiglie, per i bambini... E solo quando ci sarà la libertà e la dignità di dire la verità, si potrà giungere ad un vero dialogo. E la guerra finirà.

Cosa sta facendo la Chiesa per mitigare questa ondata di sofferenza? 
La Chiesa lavora molto. Ci sono riunioni permanenti del Papa con i patriarchi, o dei vescovi della Siria con i patriarchi. La Chiesa aiuta molto. La Chiesa è presente ovunque. La Chiesa dialoga, anche con i leader musulmani. Organizziamo molti incontri per promuovere la riconciliazione tra le due religioni. E per fortuna, siamo riusciti a fare tanto per questo. Il problema non è questo… È che ci sono alcune difficoltà. Ad esempio: cosa fare per far giungere gli aiuti in Siria? Il paese soffre un blocco da pare di Europa e Stati Uniti, e abbiamo quindi grande difficoltà a far entrare materiali in Siria.

L'atteggiamento dell'Occidente influenza la minoranza cristiana?
Il problema che ci si pone è se l'Occidente vuole che i cristiani rimangano nei loro paesi d'origine. Stiamo parlando di paesi che sono le radici stesse del cristianesimo: Siria, Libano, Iraq... Sono la culla del cristianesimo. Oggi, cosa pensa l'Europa dei cristiani? Per esempio, in Iraq prima della guerra del Golfo c’erano un milione e mezzo di cristiani. Oggi ce ne sono appena 200mila. Allora mi chiedo: qual è il futuro dei cristiani in Medio Oriente? Loro vogliono restare, vogliono vivere nella loro terra, dove ci sono le loro radici…
Quali sono le paure del popolo siriano?
In un certo senso, i siriani non hanno paura. Sono spaventati da Daesh [acronimo arabo per lo Stato Islamico, ndr] e dagli estremisti, ma non del Governo. Anzi, al contrario… Il Governo ci protegge. Grazie a Dio, dove permane l’autorità del Governo stiamo bene. Abbiamo festeggiato la Pasqua, possiamo pregare, conviviamo cristiani e musulmani insieme… Il problema sono i luoghi fuori controllo a causa della presenza degli estremisti, di Daesh o del Fronte Al-Nusra. Non permettono di pregare in nessun modo, né di entrare in Chiesa o uscire la notte. Non si può fare nulla. Non c’è libertà, ma solo terrore.
Per rispondere alla sua domanda, una paura per ogni siriano forse è l’interrogativo: quale sarà il mio futuro? Dovrò vivere un’altra guerra più avanti? I cristiani del Medio Oriente già si stanno abituando a vivere così. Ogni 25 anni c’è una guerra.
E le speranze?
Abbiamo una speranza e una fede molto grande, che non sono mai mancate. Per questo siamo vivi. La presenza della Chiesa tra i fedeli è molto importante, soprattutto per sostenere le famiglie cristiane. La mia presenza e quella dei miei fratelli vescovi in questi i luoghi, la presenza dei sacerdoti nelle parrocchie, aiuta tanto i cristiani.

Il Consiglio dei Capi delle Confessioni cristiane di Aleppo ha appena lanciato un vigoroso appello…
Il popolo siriano non ce la fa più. È stanco. Aleppo ha già sofferto tanto in passato. E adesso viene bombardata coi razzi. Questo la comunità internazionale lo sa, ma non sa chi lotta contro chi. È necessario perciò che ci sia un lavoro congiunto per il rispetto, per fermare questi disastri. Chi fornisce le armi ai ribelli? Quante volte i nostri patriarchi hanno detto chiaramente che bisogna smetterla di inviare armi e denaro? Quando uno non viene più alimentato, smette di vivere.

Che messaggio vorrebbe inviare all’opinione pubblica?
Il mio messaggio è chiaro. È quello che dice il Vangelo: lavoriamo per la pace, lavoriamo per la giustizia. Basta armi! Basta violenza! Per Dio, per misericordia, per i bambini… Ci sono milioni di bambini che hanno fame e sono malati, che hanno bisogno che qualcuno si adoperi per dar loro un’educazione.
 Basta violenza! I nostri figli stanno per strada… Questa non è la nostra cultura. La nostra cultura è l’amore, la carità, la riconciliazione.

sabato 2 maggio 2015

Fra Ibrahim e Pizzaballa: «Ad Aleppo noi cristiani siamo sempre meno, ma decisi a resistere»



Terrasanta.net

«Ad Aleppo si muore, la gente diventa ogni giorno più povera e siamo certi che le cose peggioreranno. Ma quello che mi dà speranza è che molti cristiani non vogliono andarsene. L’esercito ha aumentato le difese. Ho la sensazione che la città possa resistere e non cadere nelle mani dei fondamentalisti…».
Stavolta incontriamo fra Ibrahim Sabbagh, parroco latino nella seconda città della Siria, a Milano. È da pochi giorni in Italia per una breve pausa e per raccogliere aiuti per la sua parrocchia, dopo un viaggio avventuroso che lo ha portato prima a Damasco (dieci ore per fare 360 chilometri e lungo il percorso molti posti di blocco, un blindato dell’esercito esploso su una mina e tre soldati uccisi), poi a Beirut e infine nel nostro Paese.

Il racconto di fra Ibrahim, che ad Aleppo ha lasciato altri tre confratelli francescani della Custodia, fotografa una situazione tragica: 
«I nostri “martiri”, cioè i cristiani morti in città negli ultimi tre anni sotto i bombardamenti sono 178 - annota fra Ibrahim -: 20 sono della Chiesa latina, 20 i melchiti, 14 i greco-ortodossi, 9 i siro-ortodossi, 7 i siro-cattolici, 7 i maroniti e 101 gli armeni. Aleppo prima che scoppiasse la guerra contava circa un milione di cristiani. Oggi nessuno sa quanti siamo rimasti: forse un terzo, forse un quarto... Quando facciamo l’incontro periodico tra tutti i responsabili delle Chiese di Aleppo, nessuno dice di conoscere il numero delle famiglie o il numero delle persone della sua Chiesa. Ma alcuni dati possono farci immaginare la situazione: le 9 scuole cattoliche della città due anni fa contavano 10.500 bambini iscritti, adesso il numero è sceso a 2.500. Questo confermerebbe che i cristiani sono diventati un quarto, un terzo in due anni… E quelli che rimangono, diventano più poveri di giorno in giorno. Secondo i dati di cui dispongo, abbiamo sicuramente 442 famiglie iscritte alla nostra associazione di beneficenza parrocchiale. Quando sono arrivato ad Aleppo, a fine 2014, vi erano iscritte soltanto 220 famiglie: in cinque mesi sono raddoppiate. Lentamente credo che tutte le famiglie busseranno alle porte dell’associazione… Secondo i sondaggi della Caritas, il 70 per cento delle persone che vivono oggi ad Aleppo è sotto la soglia della povertà. Diversamente da quanto avviene a Damasco, dove la maggior parte della popolazione lavora, ad Aleppo solo un quinto degli abitanti lavora ancora».

«Il cibo – prosegue il parroco francescano – in città arriva, ma a volte chi lo vende se ne approfitta e il prezzo cresce fino a diventare insopportabile. La gente è davvero molto povera: ultimamente ci capita addirittura di dover pagare tutte le spese dei funerali perché non hanno soldi neppure per questo…  Nonostante tutto, ci sono diverse cose che mi danno speranza: innanzitutto il fatto che molti cristiani di Aleppo sono decisi a non abbandonare la città. Amano Aleppo e sanno in ogni caso che se lasciano la città perderanno tutto. È positivo il fatto che pensino che ci sono ancora le condizioni per restare! Nonostante l’assedio e i bombardamenti la vita non si ferma: la biblioteca che noi frati abbiamo inaugurato alcuni mesi fa per gli studenti universitari, continua a rimanere aperta e i ragazzi continuano a studiare e a dare esami; le classi di catechismo hanno continuato a svolgersi fino all’ultima lezione, a cui erano presenti oltre 170 bambini. E poi mi consola molto vedere come ci sia tanta gente buona: trovo sempre persone disposte ad aiutare con molta facilità, disponibili, pazienti. Tra noi sacerdoti, infine, è meravigliosa la comunione che si è creata proprio in questa situazione di guerra».

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=7471&wi_codseq=SI001%20&language=it

Jisr el Choughour : la bandiera di al-Nusra issata sopra la croce della chiesa



L'intervista al Custode di Terra Santa 

(da Avvenire, 1 maggio)

di Andrea Avveduto

«Aleppo, la solidarietà resiste»


«La situazione umanitaria, in particolare ad Aleppo, è straziante. Mancano elettricità e acqua, la gente vive continuamente sotto i bombardamenti». Fra Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, appena tornato dalla Siria conserva negli occhi tutte le atrocità di una guerra assurda giunta ormai al quarto anno.


Padre Pizzaballa, quali zone ha potuto visitare e quali sono le più colpite dal conflitto? Sono stato a Latakia, Damasco e Aleppo. Non ho potuto andare nei villaggi del Nord perché c’erano dei combattimenti in corso per prendere Jisr al-Shugur, una cittadina che era sotto il controllo governativo e adesso è stata conquistata da al-Nusra. I jihadisti hanno distrutto in poco tempo anche tutte le nostre proprietà, ma non è il problema principale. Sono le tante famiglie sfollate che bussano alla nostra porta a preoccuparci. La città più colpita è Aleppo, dove la popolazione vive in condizioni disastrose e le uniche forme di lavoro che sopravvivono sono le piccole attività commerciali.

Quali sono le principali difficoltà della popolazione? Il costo della vita è aumentato drasticamente, non si può nemmeno quantificare con esattezza. La lira siriana poi non viene più utilizzata e – anche se è proibito – si impiega il dollaro. Il sistema sanitario è insufficiente per rispondere con tempestività ai bombardamenti, e tanti medici sono scappati. C’è un profondo senso di frustrazione, di disorientamento e di angoscia. Ad Aleppo tutti si chiedono se l’Is riuscirà – presto o tardi – a entrare in città.

Cosa significa la vostra presenza per la popolazione? È fondamentale, perché la gente non ha solo bisogno di pane. A volte conta di più una parola di conforto, un abbraccio o una stretta di mano. Non abbiamo la pretesa di cambiare le sorti della guerra, ma in questo conflitto abbiamo davvero la possibilità di cambiare noi stessi, di rimboccarci le maniche e darci da fare, di continuare a credere che l’uomo sia fondamentalmente buono perché creato a immagine di Dio, e non permettere che la logica della guerra diventi anche per noi il criterio con il quale guardare a tutta questa violenza. Anche nella paura, che è grande e innegabile.

C’è spazio per sperare in Siria? Tanti piccoli segni ci dicono che sperare è possibile e – aggiungerei – doveroso. I poveri si aiutano tra loro, in particolare chi ha perso la casa. C’è chi ha ricavato uno spazio nel suo appartamento per accogliere gli sfollati. Ho assistito a un funerale di una madre morta con le due figlie: c’erano tante donne musulmane con il velo che partecipavano alla Messa per piangere assieme ai vicini cristiani. È un grande segno di solidarietà. Le relazioni non si sono spezzate, come vorrebbero farci credere. Sono piccole cose, ma restano segni importanti, in questo mare di odio.

Che cosa chiede all’Occidente e a ciascuno di noi? Chiedo di non dimenticare i nostri fratelli che continuano a morire in Medio Oriente. E poi chiedo di aiutare economicamente le realtà che sono ben radicate nel Paese e che nonostante questa guerra atroce continuano a lavorare per costruire. È importante e necessario non arrendersi, continuare a credere che sia possibile fare qualcosa e conservare quel patrimonio unico che il Medio Oriente ha preservato fino ad oggi.

È possibile sostenere l’attività dei frati francescani in Siria dal sito www.proterrasancta.org


Da AVVENIRE, 1 MAGGIO 2015

mercoledì 29 aprile 2015

Il patriarca Younan: «Ad Aleppo è una tragedia»


Era la Cattedrale dei 'Quaranta martiri', dedicata ai quaranta martiri di Sebaste. appartenente alla Chiesa apostolica armena. Risalente al XV secolo, è situata nel vecchio quartiere cristiano di Jdeydeh, uno dei più antichi della diaspora armena e della vecchia città di Aleppo.
Distrutta il 28 aprile dai missili Jihadisti.





26 aprile : attraverso i tunnel, gli jihadisti hanno colpito con gli esplosivi il centro storico

Suor Marguerite Slim, dell'ospedale Saint-Louis, da Aleppo scrive:


Cari donatori di SOS Chrétiens d’Orient,

oramai da tre settimane non abbiamo più acqua, niente elettricità, niente internet, tutto è nelle mani di vari gruppi islamisti e non possiamo sapere quando tornerà. È quindi difficile per noi comunicare, ma volevamo ringraziarvi, il generatore che ci avete permesso di acquistare è fondamentale in questi giorni veramente difficili.
La benzina è diventata una merce molto rara e molto costosa a causa delle sanzioni internazionali e delle difficoltà a raggiungere Aleppo: il grande generatore che abbiamo usato finora consumava troppo.

La situazione si è aggravata la scorsa settimana a causa di molti missili inviati sui due quartieri cristiani di Aleppo dagli islamisti: noi siamo in sicurezza in ospedale, noi restiamo e ci portano i morti e molti feriti. Ci è possibile curarli, nonostante l'assenza di energia elettrica, grazie alla vostra generosità. Grazie da parte loro, dal profondo del cuore.

Ma abbiamo anche bisogno delle vostre preghiere perché la popolazione è disperata. A volte è così difficile avere fiducia...

La stragrande maggioranza delle persone dei quartieri cristiani è ormai fuggita a Latakia e Tartous, a causa della distruzione immensa causata da questi missili. Ci resta solo Dio.

In ospedale, riceviamo ammalati o feriti. Ci sono anche alcuni membri del personale che dormano qui perché è diventato impossibile per loro, o troppo pericoloso,  tornare a casa.

Sentiamo i combattimenti per tutto il giorno sulla città e la gente è spossata dai combattimenti. Aleppo è circondata da gruppi jihadisti, e i residenti hanno solo una parola in bocca: aiutateci, salvaci!

Facciamo tutto il possibile, e riusciamo grazie a Dio a fare il nostro lavoro nel modo più corretto possibile.

Vi ringraziamo ancora una volta dal profondo del cuore per la vostra generosità e la vostra preghiera, soprattutto non dimenticateci ... Il vostro sostegno è vitale, ora più che mai.

Sœur Marguerite Slim

http://www.soschretiensdorient.fr/2015/04/soeur-marguerite-slim-d-alep-ecrit-aux-donateurs-de-sos-chretiens-dorient/


Questo messaggio toccante è stato inviato da

 Aleppo dal gesuita Padre Sami Halla,  del 

Jesuit Refugee Service (JRS):


martedì 28 aprile 2015

Patriarca Béchara Raï all'UNESCO: “Bisogna smetterla di sostenere i belligeranti con armi e denaro e di proteggere politicamente loro e le organizzazioni terroristiche”

BECHARA RAI: LA BUIA NOTTE D’ORIENTE E LE SENTINELLE DELL’AURORA
da: Rosso Porpora – di GIUSEPPE RUSCONI 
Il patriarca maronita è in questi giorni in Francia: sabato 25 aprile ha pronunciato un discorso veemente davanti all’assemblea dell’Unesco in difesa dei cristiani e di tutti i perseguitati del Medio Oriente. La comunità internazionale deve agire, fermare le guerre; le potenze regionali e mondiali blocchino la fornitura di armi e di denaro ai belligeranti, non proteggano più le organizzazioni terroristiche. Tornino i profughi in patria e siano loro restituiti i beni e i diritti.

Sabato 25 aprile il patriarca Raï è stato in visita all’Unesco, dove ha pronunciato un discorso molto lucido, vigoroso e nel contempo accorato sulla “presenza cristiana nel Medio Oriente e sul suo ruolo nel promuovere la pace”.  Dapprima ha incontrato il direttore generale dell’agenzia onusiana per l’educazione, la scienza e la cultura Irina Bokova, che ha salutato osservando come “la cultura divenga sempre più un’arma di guerra, in nome di un’interpretazione deviata della religione”; con lei ha anche evidenziato come tra i problemi più urgenti del Libano (su quattro milioni di abitanti, due milioni di rifugiati) ci sia quello di far sì che ”i profughi possano ritornare degnamente alle loro terre”.
Davanti all’assemblea il patriarca ha poi svolto un intervento (molti i richiami storici e quelli riguardanti le istituzioni educative e sociali delle Chiese d’Oriente) protrattosi per circa mezz’ora e che nell’ultima parte si è trasformato in un vero e proprio appello veemente. “Bisogna smetterla di sostenere i belligeranti con armi e denaro e di proteggere politicamente loro e le organizzazioni terroristiche”, ha detto Béchara Raï, rilevando che oggi “solo nel Libano i cristiani hanno una presenza politica rispettata in patria e nel mondo arabo”. Del resto proprio “il Libano, grazie alla sua cultura conviviale, resta la sola speranza per la convivenza tra cristiani, musulmani e altri”.
Ha poi proseguito il patriarca maronita, riferendosi alla condizione drammatica dei cristiani in Medio Oriente: “Questa situazione non troverà soluzione se non con la solidarietà della comunità internazionale e con i suoi interventi incisivi per fermare le guerre e per imporre il ritorno degli sfollati nei loro Paesi ma in modo tale che essi possano recuperare i loro beni e i loro diritti”. Con voce incrinata Béchara Raï ha poi affermato davanti all’assemblea: “Io sono venuto qui per dar voce a chi la voce è stata rubata, sono venuto qui per attestare le sofferenze di milioni di rifugiati, di sfollati, di bambini, di anziani, di donne e di uomini cui si sono rubati la propria patria, i propri beni e si è distrutto l’avvenire. Sono venuto qui per testimoniare davanti a voi l’immenso e indicibile dolore di chi è stato perseguitato per la sua fede, di chi si è insultata l’identità in nome di un Dio, ragione invocata da assassini implacabili. Sono venuto qui per sostenere gridando la causa di coloro che attendono la fine della notte e che sperano la loro salvezza da una comunità internazionale che purtroppo tarda a porre fine all’azione di morte di omicidi senza fede e senza frontiere”.
Perciò, prima di congedarsi con un richiamo accorato a “Cristo, principe della pace”, il patriarca Raï ha di nuovo scosso visibilmente l’assemblea: “Dal cuore della notte che ci copre, con le tenebre che ci avvolgono, lancio un appello angosciato a tutte le sentinelle dell’aurora d’Oriente come d’Occidente, d’Europa, del mondo arabo e del mondo intero, della Cristianità come dell’Islam, perché ci aiutino a suscitare la speranza e a confortare popoli abbandonati, sconvolti, perseguitati nella loro tenace volontà di non rassegnarsi alla sventura”.



Conférence à l’UNESCO du Patriarche Card. Béchara Boutros RAI Paris, le 25 avril 2015

Introduction

1. Je voudrais tout d’abord saluer et remercier Mme Irina Bokova, Directrice générale de l’Organisation des Nations Unies pour l’Education, la Science et la Culture et le Conseil Exécutif, ainsi que Dr Khalil Karam, Ambassadeur, Délégué permanent du Liban auprès de l’UNESCO, de m’avoir invité à donner cette conférence à l’occasion du 70ème anniversaire de cette Organisation, autour du thème : "La présence chrétienne au Moyen - Orient et son rôle dans la promotion de la culture de la paix". Je développerai ce thème en trois points :
1) Le parcours historique de la présence chrétienne bimillénaire au Moyen - Orient.
2) Ses espaces de promotion de la culture de la paix.
3) Les moyens pour sauvegarder la présence chrétienne.

sabato 25 aprile 2015

«Davvero, non immaginate quanto bene fate quando fate il bene» Intervista a padre Alejandro, salesiano venezuelano a Damasco

«Noi siamo una famiglia. 

Siamo quel quasi nulla che fa la differenza»



TEMPI, 24 Aprile 24 2015
di Rodolfo Casadei

Padre Alejandro ha parlato a Concorezzo (Mb), quinto appuntamento della sua ultima giornata italiana, e oggi riparte per Damasco, via Libano. Questo salesiano venezuelano, il cui nome completo è Alejandro José Leon Mendoza, è residente in Siria dall’1 luglio 2011. Da tempo è direttore del Centro giovanile salesiano nel quartiere di Mazraa. Negli anni precedenti trascorreva in Siria i periodi estivi. Il suo trasferimento permanente è cominciato quando la guerra civile stava mettendo radici. 

Padre Alejandro, noi ci siamo visti quattordici mesi fa a Damasco. Com’è cambiato lo stato della sicurezza? È migliorata o peggiorata?
Direi che è peggiorata: gli ordigni sparati dai mortai sono diventati più potenti, arrivano più lontano. Nella nostra zona, una delle più riparate, ne cadevano 2-3 all’anno. Ne sono arrivati fra i 15 e i 20 nei primi quattro mesi di quest’anno. Nei quartieri a forte presenza cristiana come Baab el Touma e Jaramana la qualità della sicurezza ha continuato a degradarsi. Abbiamo vissuto un bel periodo fra settembre e dicembre, le ostilità si erano affievolite. Con l’anno nuovo sono riprese intensamente.


In un contesto del genere, cosa vuol dire essere presente come salesiano? Tu sei stato assegnato alla Siria proprio quando la ribellione si stava trasformando in lotta armata, e hai vissuto lì tutto questo periodo.
Diciamo che è diventata una “questione personale”. Noi salesiani insistiamo molto sul concetto che la realtà umana che si crea nei nostri centri giovanili è una famiglia. Che siamo una famiglia. Come potrei andarmene, o chiedere di andarmene, dopo aver predicato per tanto tempo in tutti i modi che siamo una famiglia? Come potrei lasciare le persone alle quali ho detto “siamo un’unica famiglia”? Non potrei più dormire la notte. E poi mi sono reso conto di un’altra cosa. Noi siamo piccoli, siamo quasi un nulla. Ma siamo quel quasi nulla che fa la differenza. Quando sono arrivato io, al centro giovanile c’erano 250 persone, in maggioranza bambini. Poco dopo c’è stato il crollo, per la paura dei bombardamenti non veniva quasi più nessuno, in una settimana venivano lì 30 ragazzini. Adesso sono 650 alla settimana, e in maggioranza sono giovani delle scuole medie superiori e universitari. Sono cristiani di tutti i riti, cattolici e ortodossi. Diciamo la Messa insieme, tutti si accostano all’Eucarestia.


Si parla molto dei profughi siriani all’estero, tre milioni e passa. Ma più di 20 milioni di siriani continuano a vivere all’interno del loro paese, sei milioni come sfollati. Come fanno a resistere?
Voglio essere onesto: quelli che sono rimasti dentro al paese è perché non hanno il modo per andarsene. Se potessero, i siriani se ne andrebbero tutti per fuggire la guerra. Ma una volta accettata l’idea che per loro non ci sono le condizioni per partire, lottano per vivere in un modo che abbia senso, lottano per una vita che abbia dignità. E allora noi religiosi ci impegniamo con loro a educare, a preparare una generazione di ricostruttori. Ci stiamo preparando alla ricostruzione. Le Chiese chiedono ai cristiani di restare, di non andarsene, ma onestamente io non me la sento di insistere coi fedeli con cui sono in rapporto: per noi sacerdoti è relativamente facile decidere di restare, ma per un padre e una madre di famiglia che sono responsabili della vita dei loro figli, la scelta è più difficile. Studiare seriamente, formarsi, nella Siria di oggi è molto difficile. Per questo io sono comprensivo.


Le parole riconciliazione e perdono hanno uno spessore nella situazione attuale? Oppure sono travolte dagli eventi?
Siamo maturati molto come comunità cristiana su questi temi, perdono e riconciliazione. La vita è maestra, se ci mettiamo in ascolto di quello che ci dice. Con umiltà abbiamo percorso la strada della maturazione. Fra i musulmani il cammino è più difficile, perché si sono polarizzate le differenze fra sunniti, sciiti e alawiti. Ma soprattutto perché nella cultura tradizionale araba i morti vanno onorati; oggi in Siria praticamente tutte le famiglie hanno perduto qualcuno, e il modo più comune di rendere onore ai morti assassinati è di vendicarli. Questo rende più difficile l’uscita dal ciclo della violenza. E rende più necessaria la presenza dei cristiani: potrebbero avere un ruolo importante nella ricostruzione del paese. I cristiani in Siria sono come il ponte che unisce le due sponde del fiume che divide una grande città. Il ponte è piccolo, ma senza di esso le due metà della grande città resterebbero separate. Si dice che ormai i cristiani sono appena il 4 per cento di tutta la popolazione. Ma hanno un compito di grande responsabilità.



Cosa hai detto nei tuoi incontri in giro per l’Italia? 
Ho descritto la vita quotidiana e i suoi problemi, specialmente ai più giovani, e ho raccontato storie di persone, testimonianze. Giovani che sono diventati capifamiglia perché il padre è morto per la guerra, che hanno dovuto organizzare la fuga della famiglia. Storie che fanno capire la natura dei cristiani siriani. Un giovane del nostro oratorio per un certo tempo è rimasto sequestrato, rapito da un gruppo di estremisti islamici. La famiglia non aveva soldi per pagare il riscatto, e la sua situazione si faceva di giorno in giorno più difficile. Un giorno i rapitori lo hanno lasciato da solo con una guardia armata che doveva controllarlo. A un certo punto il guardiano si è tolto dalla spalla il fucile, perché gli causava dolore. Allora il rapito, che prende parte alle nostre attività sportive, gli ha detto: «Posso farti io un massaggio, il dolore ti passerà. So fare i massaggi perché assisto una squadra di calcio». Il sequestratore è rimasto stupito: «Noi stiamo discutendo se ammazzarti o lasciarti andare libero, perché la tua famiglia non riesce a pagare, e tu ti offri per massaggiarmi? Perché fai questo?». E il nostro giovane ha risposto: «Perché sono cristiano, e noi cristiani facciamo così!». Alla fine lo hanno liberato senza che la famiglia avesse pagato nulla. Un’assoluta rarità!



I cristiani nel mondo vi stanno aiutando? Gli italiani vi stanno aiutando?
Sì, e da questi aiuti nascono conseguenze virtuose che voi nemmeno immaginate. Quest’inverno degli amici di Lecco ci hanno fatto avere delle giacche pesanti, molto utili per l’inverno, soprattutto a causa della scarsità di gasolio per il riscaldamento nel periodo invernale. Una parte di questa spedizione è stata finanziata vendendo oggetti che erano stati prodotti da bambini delle scuole elementari. Quando i nostri universitari lo hanno saputo, sono rimasti profondamente colpiti. Mi hanno detto: «Abbiamo capito che nessuno è troppo piccolo e impotente per fare il bene». Come gesto di ringraziamento, hanno deciso di dedicare una parte del loro tempo ad attività di animazione e di gioco rivolte ai bambini musulmani dei centri di raccolta per gli sfollati in città. Davvero, non immaginate quanto bene fate quando fate il bene».

giovedì 23 aprile 2015

Il primo genocidio del XX secolo


 Io sono armeno. Ես հայ եմ

di Alessandro Aramu
 Da qualche mese nel mio DNA c’è anche l’Armenia. Il mio patrimonio genetico è fatto di tutti i luoghi che ho visitato, di tutte le persone che ho incontrato, di tutti gli sguardi che ho incrociato. C’è un pezzo di loro in tutte le cose che faccio, in tutto ciò che credo.
Da qualche mese sono anche armeno, figlio adottivo di quel genocidio che ha sterminato cento anni fa milioni di persone. Lo sono in particolar modo da quando ho intervistato gli ultimi sopravvissuti, in una cavalcata di emozioni e pulsioni che mi ha portato in quel paese schiacciato tra la Turchia e l’Azerbaigian.
Sono loro ad avermi chiesto di ricordare quelle persecuzioni, quell’odio, quella ferocia che da un secolo si portano dentro. Un crimine che non dimenticano. Che nessuno deve dimenticare.
Le mani intrecciate sul rosario di Aharon, lo sguardo fiero di Silvard e la forza di Andranik sono la ragione che mi ha spinto a raccontare le loro storie, fatte di strappi, di lacerazioni, di affetti impossibili da ricongiungere. Di luoghi che non potranno più visitare perché qualcuno ha violentato, ma non ucciso, la loro identità di popolo.
Fotografie sparse su un tavolo, ricordi che si perdono nel tempo, quando ancora si era bambini e tutto sembrava avvolto da innocenza e ingenuità.
Ma poi vennero gli uomini cattivi, con le loro armi, a portare via mamma e papà. Fratelli. Sorelle. Nonni e zii. Uomini cattivi che non hanno neppure un volto.
Pensieri, silenzi. Ancora silenzi. E poi, improvvisi, ricordi che acquistano spessore, come quella pelle marchiata dal sole al termine di camminate interminabili. Dove c’era vita all’improvviso crebbe la morte, come una pianta infestante che sbuca fuori subito dopo averla estirpata.
Morte.
Sono armeno. Lo sono ogni giorno che passa, perché da quella gente ho imparato la dignità, la semplicità e l’affetto sincero. Invaso dal calore di una casa che si apre a uno sconosciuto e diventa anche un po’ tua.
Sono armeno perché ho il diritto e il dovere, come uomo e come giornalista, di ricordare quella violenza, che non scalfisce solo i corpi, non li violenta, non li deturpa. No, quella rabbia ha segni profondi che si imprimono nell’anima. E nella memoria collettiva di una nazione.
Ho sentito le loro grida, visto i ventri delle donne incinte squarciati dalle lame, le teste mozzate ed esposte come trofei. Corpi smembrati, ripiegati come cartacce da calpestare. Croci, tante croci. Simbolo di un cristianesimo negato. Luogo di morte per migliaia di persone.
Ecco perché “Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio” non è un libro qualunque. Non è il mio libro. E neanche degli altri autori che hanno costruito insieme a me questo viaggio verso l’orrore, di ieri e di oggi. Perché, qui dentro c’è anche un pizzico della Siria contemporanea, con il suo sangue che scorre proprio nei luoghi dove migliaia di armeni trovarono rifugio o morte.
Siria e Armenia. Legate da un destino comune, abbracciate come le donne costrette a soffocare i propri figli in una stretta mortale. Perché tutto qui si mischia, sangue, sudore, polvere e sofferenza.
Questo è il libro di quei sopravvissuti, dei loro figli, dei loro nipoti. Un libro offerto in dono a chi vuole vivere in un mondo migliore, dove i giusti e i torturatori possono finalmente sedersi intorno a un tavolo nella consapevolezza del riconoscimento dell’orrore e del perdono. Un libro che deve unire, che deve far riflettere, che deve far sentire tutti un po’ figli di quella terra generosa che sa perdonare ma non potrà mai dimenticare.
Ecco perché sono armeno. Orgoglioso di esserlo diventato.


1915-2014










SALUTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
Messa  per i fedeli di rito armeno
del 12 aprile 2015

Cari fratelli e sorelle armeni,
cari fratelli e sorelle!
In diverse occasioni ho definito questo tempo un tempo di guerra, una terza guerra mondiale ‘a pezzi’, in cui assistiamo quotidianamente a crimini efferati, a massacri sanguinosi e alla follia della distruzione. Purtroppo ancora oggi sentiamo il grido soffocato e trascurato di tanti nostri fratelli e sorelle inermi, che a causa della loro fede in Cristo o della loro appartenenza etnica vengono pubblicamente e atrocemente uccisi – decapitati, crocifissi, bruciati vivi –, oppure costretti ad abbandonare la loro terra.
Anche oggi stiamo vivendo una sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino che esclama: “A me che importa?”; «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9; Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014).

La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come «il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001); essa ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana –, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. 
Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che “la guerra è una follia, una inutile strage” (cfr Omelia a Redipuglia, 13 settembre 2014).

Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!
Vi saluto con affetto e vi ringrazio per la vostra testimonianza.

Con la ferma certezza che il male non proviene mai da Dio, infinitamente Buono, e radicati nella fede, professiamo che la crudeltà non può mai essere attribuita all’opera di Dio e, per di più, non deve assolutamente trovare nel suo Santo Nome alcuna giustificazione. 
Viviamo insieme questa Celebrazione fissando il nostro sguardo su Gesù Cristo Risorto, Vincitore della morte e del male.




Il discorso di Sua Santità Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di Tutti gli Armeni:

http://www.news.va/it/news/il-discorso-di-sua-santita-karekin-ii-patriarca-su




Il Patriarca maronita: evitano di nominare il Genocidio armeno solo per paura delle conseguenze legali


Erevan (Agenzia Fides) - “Dopo cento anni, la comunità internazionale sta cercando una definizione per il Genocidio armeno e ha paura di chiamarlo Genocidio perché ne teme le conseguenze legali”. Così il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, Bechara Boutros Rai, ha spiegato la riluttanza di nazioni e organismi internazionali a pronunciare la parola genocidio per indicare i massacri pianificati di armeni avvenuti in Anatolia nel 1915. Le dichiarazioni del Patriarca Rai sono state rilasciate a Erevan, dove il Primate della Chiesa maronita si trova per prendere parte alle commemorazioni ufficiali del centenario del Genocidio armeno. 

Senza citare espressamente la Turchia – che esercita pressioni diplomatiche a tutti i livelli e in tutte le direzioni per evitare che la definizione di Genocidio armeno sia utilizzata dai leader politici e religiosi, dalle istituzioni politiche delle singole nazioni e dagli organismi internazionali – il Patriarca maronita ha ribadito l'urgenza di riconoscere il Genocidio armeno “non per rivalersi, ma per evitare il ripetersi di altri Genocidi”. Se la comunità internazionale non riconosce il Genocidio armeno, ha avvertito il Cardinale Rai, “saranno commessi altri Genocidi” Mentre “nessun Genocidio, attacco o massacro può essere giustificato per ragioni economiche, come sta succedendo adesso”. 
Alle celebrazioni ufficiali in corso a Erevan prendono parte, oltre al Patriarca Rai, anche il Patriarca copto ortodosso Tawadros II e il Patriarca siro ortodosso Ignatius Aphrem II. La delegazione della Santa Sede è guidata dal Cardinale Kurt Koch, Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani. 

martedì 21 aprile 2015

A due anni dal rapimento dei due vescovi ortodossi di Aleppo, Boulos Yazigi e Youhanna Ibrahim.


Ormai sono passati due anni dal rapimento (22 aprile 2013) nel nord della Siria di due vescovi ortodossi: il Metropolita greco-ortodosso di Aleppo, Boulos Yazegi e il Metropolita siriaco-ortodosso della stessa città, Youhanna Ibrahim. D'allora non si è mai più saputo nulla di concreto e verificabile sulla sorte di questi due religiosi. .... :
http://ilsismografo.blogspot.it/2015/04/siria-due-anni-dal-rapimento-in-siria.html

Un armeno nell'inferno di Aleppo "Il genocidio è ricominciato, 100 anni dopo"


La Nuova Bussola quotidiana, 18-04-2015di Stefano Magni




 Accolta mentre era in fuga dal genocidio turco del 1915-16, la comunità armena rivive gli orrori della persecuzione. E’ come una nemesi storica: ora stanno morendo proprio nella città che li salvò.Uno di loro, un armeno siriano, un pastore protestante che chiameremo Seraphim (per motivi di sicurezza), lo abbiamo incontrato in Italia, in questi giorni, invitato dall’associazione Open Doors. Ci racconta brevemente che cosa voglia dire spostarsi in tempo di guerra, chiuso in un bus, con le tende tirate, senza possibilità di muoversi, con la paura che qualche cecchino inizi a sparare sui passeggeri. Il bus attraversa infatti aree urbane controllate dagli jihadisti. Un viaggio che in tempo di pace avrebbe comportato otto ore, in tempo di guerra ne dura il doppio, per arrivare fino a Beirut e giungere a contatto col mondo esterno, per ottenere un visto (rimandato tre volte) per poter arrivare fino all’Italia, che lui chiama “il paradiso”. Fra non molto, però, sarà destinato a tornare nell’inferno siriano, in quello che ormai, chiama “la mia vita normale”. Ed è una vita fatta necessariamente di poco: spostamenti ridotti al minimo (“Quando la città era assediata, non potevo muovermi oltre un migliaio di metri attorno alla mia casa”), acqua e luce razionati, a volte disponibili anche solo per un’ora ogni due giorni, niente carne, code e lotte per il pane, medicine reperibili solo al mercato nero. Il tutto a poche centinaia metri dalle linee tenute dagli jihadisti, che non si fanno scrupoli a sparare razzi contro la sua chiesa, a rapire i suoi fedeli. E non c’è mai la certezza di risvegliarsi il giorno dopo, perché i bombardamenti e i proiettili vaganti sono una minaccia continua, per cui si deve necessariamente dormire lontano da muri esterni e finestre, possibilmente in cantina.


Seraphim, come era la vita prima che iniziasse questo inferno?
Come qui in Italia, forse anche più sicura. La Siria era uno dei posti più sicuri del mondo. Potevo girare indisturbato anche a mezzanotte. Le donne potevano circolare liberamente, sia di giorno che di sera e nessuno le importunava. Come cristiani, era rispettato il nostro diritto di praticare la nostra fede e di esprimerci apertamente. Dal 2011 in poi è cambiato tutto. Gli islamici più fanatici sono dappertutto. Se sei cristiano, puoi essere ucciso per la tua fede, il rischio è altissimo. Ora è uno dei posti più pericolosi del mondo.

Se definisce la Siria d’ante-guerra come uno dei luoghi più sicuri al mondo, perché è scoppiata la rivoluzione, secondo lei?
Prima di tutto non la chiamerei una “rivoluzione”. La chiamo “caos”, un caos che è stato alimentato per far attecchire il radicalismo islamico, oltre che per distruggere un sistema politico in cui, da cristiani, eravamo liberi. Ed è scoppiata perché i Fratelli Musulmani vogliono governare il Paese.
Non sono un politico, ma secondo me questo caos, per come è iniziato all’improvviso, è stato pianificato. Erano la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita che volevano cambiare la mappa del Medio Oriente, cambiare i governi in carica e la testa della gente. La guerra è scoppiata, nel nostro Paese, nel nome della democrazia. Ma io mi sono sempre chiesto: perché non si parla mai di democrazia in Arabia Saudita? E’ una democrazia, per caso, la monarchia assoluta saudita? Tutti sanno che i paesi meno liberi sono proprio quelli del Golfo, dove alle donne non è neppure consentito di guidare l’auto. In Siria, ai cristiani era permesso di costruire nuove chiese. In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa. Qualcuno se l’è chiesto? In Turchia è difficile ottenere il permesso per costruire nuove chiese, anche solo per riparare quelle già costruite. Dalle monarchie del Golfo non è arrivata democrazia, né libertà. Hanno esportato il wahhabismo, hanno prodotto l’Isis, hanno prodotto Al Nusrah. E la copertura per tutto questo è chiamata “democrazia”. Che democrazia è mai quella in cui i fanatici islamici sgozzano i cristiani?

Suleimaniya è stato bombardato nei giorni scorsi…
E’ importante notare che il quartiere di Suleimaniya è prevalentemente abitato da cristiani armeni. Essendo armeno, io vedo ancora la mano della Turchia dietro a queste azioni. Perché è stata la Turchia ad aprire i suoi confini meridionali, per far passare tutti questi fanatici. In un certo senso, è come se la Turchia stia cercando di completare il genocidio degli armeni, a 100 anni di distanza. E quel che è più grottesco, è che lo fa nel nome della “democrazia”. C’è una definizione del Vangelo che descrive molto bene questo modo di comportarsi: “Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono verso di voi in vesti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci” (Mt 7,15-20). Nella Turchia vedo questo falso profeta, questo lupo travestito di valori democratici. E lo si deduce anche dalla reazione che ha avuto il Gran Muftì turco dopo le parole di Papa Francesco sul genocidio armeno. Quel che sta avvenendo è una prosecuzione del genocidio, non vogliono gli armeni, nemmeno vicino ai loro confini.

Quanti cristiani hanno deciso di restare ad Aleppo?
Non conosciamo le cifre esatte. Posso parlare, per esperienza diretta, della mia comunità. Ogni domenica nella mia chiesa si radunano fra le 240 e le 260 persone, nonostante debbano camminare per almeno mezzora per arrivarci. E camminare, ad Aleppo, vuol dire sfidare cecchini, granate, bombardamenti improvvisi, sempre nuovi posti di blocco stabiliti dai fanatici. Difficile dire chi voglia restare o andare. Ognuno ha i suoi piani personali e familiari. Il nostro scopo è quello di far sì che la gente sopravviva, perché continui a testimoniare la fede e sia capace di ricostruire ancora la vita dopo la guerra.

Ma come è possibile continuare a vivere ad Aleppo?
Dal punto di vista umano, devo dire che è impossibile. Immagini di vivere senza energia elettrica, senza acqua, dormire e correre il rischio concreto di essere ammazzato da una bomba, all’improvviso, nel sonno, lanciata da un fanatico islamico. E’ impossibile continuare a vivere così. Ma al tempo stesso, quali sono le alternative? Nessuna. L’unica vera alternativa è essere uccisi o sopravvivere. Scappare? E dove? Il Libano sta chiudendo le porte, la Turchia è contro di noi, nel resto della Siria c’è guerra, abbiamo tre fronti attorno alla nostra città. Quindi l’unica alternativa è sopravvivere alla morte.

Lei ritiene che sia possibile che l’Isis possa conquistare Aleppo?
Nessuno lo può sapere. Guardi cosa è successo a Mosul: in un solo giorno hanno preso la città, quando nessuno se l’aspettava. In un giorno è cambiato tutto. Se il Qatar e la Turchia continuano ad appoggiarli, lo possono fare anche altrove, anche ad Aleppo. L’esercito siriano dichiara di fare tutto il possibile per tenere l’Isis fuori dalla città, ma non riesce ad impedire loro di lanciare i razzi contro i quartieri cristiani. L’anno scorso, quando il Fronte Al Nusrah attaccò una cittadina armena, nel Nordovest della Siria, la Turchia gli spalancò le porte. I miliziani entrarono nella città, distrussero case e chiese, distrussero tutto. In sintesi, finché la Turchia non chiuderà i suoi confini ai fanatici, questa guerra andrà avanti. Finché Qatar e Arabia Saudita non continueranno a dare ai fanatici i loro soldi sporchi, questa guerra andrà avanti.

Cosa significa la persecuzione, vissuta dai cristiani?
I fanatici ci lanciano un messaggio molto chiaro: o diventi musulmano, o ti sottometti e paghi la relativa tassa, o morirai. Ma anche se accetti di restare e pagare la tassa di sottomissione, loro ti uccideranno. Per loro, l’uccisione di cristiani è premiata con il Paradiso.