Traduci

domenica 7 febbraio 2016

Angelus papa Francesco domenica 7 febbraio: " Ora tutti insieme preghiamo a Maria per l'amata Siria"




"Con viva preoccupazione seguo la drammatica sorte delle popolazioni civili coinvolte nei violenti combattimenti nell'amata Siria e costrette ad abbandonare tutto per sfuggire agli orrori della guerra. Auspico che, con generosa solidarietà, si presti l’aiuto necessario per assicurare loro sopravvivenza e dignità, mentre faccio appello alla Comunità internazionale affinché non risparmi alcuno sforzo per portare con urgenza al tavolo del negoziato le parti in causa. 
Solo una soluzione politica del conflitto sarà capace di garantire un futuro di riconciliazione e di pace a quel caro e martoriato Paese, per il quale vi invito a pregare molto, anche adesso.
 Ora tutti insieme preghiamo a Maria per l'amata Siria (Ave Maria)."


 











Mentre l'esercito siriano avanza e libera  territori ai sobborghi  di Aleppo per raggiungere i confini turchi, i distretti cristiani di Aleppo ricevono una pioggia di proiettili lanciati dalle bande armate che fanno grande distruzione e vittime innocenti.



giovedì 4 febbraio 2016

#syriaconference e la risposta alla speranza del popolo siriano : la voce delle Monache Trappiste in Siria

La guerra in Siria e la tragedia delle sanzioni


Piccole Note, 3  febbraio 2016

Da Tibhirine ad Azeir. Questo l’itinerario spirituale che ha portato alcune suore trappiste in Siria, come lo racconta suor Marta, la superiora del monastero Vergine Fonte della Pace di Azeir. Ce lo racconta in una sua breve visita romana, durante la quale la incontriamo – al Santuario delle Tre Fontane – per avere notizie su quella tragedia siriana nella quale lei e le sue sorelle sono coinvolte da ormai cinque anni.

Quando avvenne il massacro dei monaci trappisti in Algeria, un eccidio controverso, attribuito gli islamisti ma sul quale si deve ancora fare luce, l’ordine cistercense si fece interpellare dall’accaduto. Fu allora che diversi fratelli e sorelle si offrirono per seguirne le orme, chiedendo di andare in Algeria. Non una sfida da raccogliere, come racconta oggi suor Marta, o una bandiera da rialzare dopo esser stata ammainata da feroci assassini. Semplicemente si trattava di seguire un itinerario cristiano avvincente che aveva fatto breccia nei cuori di tanti monaci e monache: quello di costituire una presenza cristiana nel mondo arabo, minoritaria e aperta al dialogo.

Una presenza di preghiera, ché questa è la caratteristica dei “trappisti”, abitata dalla speranza e dalla carità cristiana verso tutti. Ma le condizioni non erano favorevoli per l’Algeria, così, dopo aver scartato altre opzioni, alcune di quelle suore approdarono in Siria, in un paesino a due passi dalla frontiera con il Libano.
«Quando siamo arrivate, dieci anni fa», spiega suor Marta, «era tutto diverso: la convivenza tra islamici e cristiani era normale, un qualcosa di quotidiano che passava dalle minime cose piuttosto che un astratto dialogo culturale. Certo, il regime aveva le sue rigidità e i suoi limiti, ma grazie ad esso era possibile tale convivenza tra diversi e si viveva tranquillamente.
Si poteva ad esempio girare a qualsiasi ora senza nessun timore. C’era un profondo rispetto, aiuto reciproco, fondato sul fatto che si era tutti davanti a Dio nonostante le diversità del proprio credo. Ricordo che quando giravo per strada, per andare a fare la spesa o altro, gli autobus si fermavano a tirarti su anche al di fuori delle fermate ordinarie. Insistevano, dovevi salire per forza: “Per una benedizione”».
Un piccolo ricordo tra i tanti, che fa intravedere una stagione altra, ormai passata. Perché poi tutto è precipitato.

«Sulla Siria si è abbattuta questa immane tragedia», riprende suor Marta, «che ha fatto scorrere moltissimo sangue e che ci ha fatto scoprire un mondo nuovo, quello della disinformazione. Quando leggevo i giornali o vedevo in Tv i servizi dei media occidentali su quanto avveniva in Siria mi sentivo impotente: tutto veniva manipolato! La foto di una manifestazione pro-Assad veniva presentata come una contestazione del regime, le stragi chimiche fatte dai ribelli come eccidi delle forze governative… che, certo, avevano le loro responsabilità, ma in tutt’altra prospettiva di quella raccontata dai media.. se non fossi stata qui, non avessi visto e ascoltato da così vicino, non avrei mai immaginato si potesse arrivare a tanto».

Azeir e il suo circondario non hanno subito gli orrori del conflitto, se non in alcune circostanze e in piccola parte.
Nondimeno le strette di quanto sta avvenendo nel resto del Paese si sentono. «Non sappiamo come e quando finirà questa guerra. Quel che è certo è che la comunità internazionale non sta aiutando, anzi. Se all’inizio c’erano davvero alcuni ribelli siriani, da subito nella guerra ad Assad si sono infiltrate le  milizie straniere che hanno portato il terrore. Provengono da moltissime nazioni, cosa che ripetono le autorità e che colpisce la gente comune: hanno la consapevolezza di trovarsi nell’epicentro di una sorta di guerra mondiale, e che stanno resistendo a una pressione che proviene da mezzo mondo. “Più di centosettantasei Paesi contro di noi”, ripetono. Un’esagerazione, forse, ma non troppo».

Non che non ci sia un’opposizione siriana tra i tanti movimenti armati che circolano nel Paese, aggiunge suor Marta, ma i moderati ormai sono una presenza residuale. E la gente percepisce Assad come l’unica alternativa al caos e alla dissoluzione violenta della Siria. «Assad è un freno oggettivo al dilagare del terrore, questo è il sentimento comune basato su un fatto semplice: il Paese è talmente pieno di armi e mercenari, che un vuoto di potere di mezz’ora comporterebbe stragi e faide a non finire», spiega suor Marta.

«In questi anni si sono fatti alcuni tentativi di riconciliazione sponsorizzati dalla comunità internazionale. – aggiunge – Però sono state cose calate dall’alto: i cittadini siriani non avevano alcuna fiducia nelle figure che gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali immaginavano come nuovi dirigenti del Paese: è gente che vive all’estero, dicevano tutti, mentre qui ci ammazzano. “Fantocci”, era il termine con il quale venivano indicati. Oggi c’è una nuova possibilità, ci sono nuovi negoziati… preghiamo, speriamo, che altro possiamo fare?».

Già, la speranza. Nel luglio scorso, il suo monastero si era fatto portatore di un appello accorato perché fossero abrogate le sanzioni contro la Siria. Una esile voce ripresa, alcuni giorni fa dall’Avvenire, ovviamente senza alcun seguito. «Le sanzioni non servono a niente. Anzi. Il governo di Damasco non ne ha alcun danno, mentre stanno fiaccando la povera gente.
L’Occidente si commuove per la sorte dei profughi siriani o quando vede immagini di siriani denutriti a causa dell’assedio di alcune località, ed è giusto. 
Eppure nessuno parla del fatto che tutti i siriani si trovano da cinque anni sotto assedio da parte della comunità internazionale a causa delle sanzioni: soffrono la fame, la malattia a causa di queste. Gli adulti e i bambini muoiono per mancanza di medicine… che civiltà è quella che fa questo?».

«La speranza non si uccide solo con il fucile, ma anche con le sanzioni», continua suor Marta. «La nostra gente non solo è stata privata dei propri beni; non solo ha visto uccidere familiari e amici, ma viene depredata anche del suo futuro. Le sanzioni hanno spinto alle stelle i prezzi di tutti i beni. Senza energia, senza combustibile, privati del necessario, per la gente è impossibile intraprendere una qualsiasi attività lavorativa, tentare una pur piccola ripresa. 
E va tenuto presente che, ad aggravare la situazione, ci sono i tanti rifugiati che hanno trovato riparo all’interno del Paese: persone che hanno perso tutto e non possono far nulla per ricominciare».

«Le sanzioni non colpiscono chi è al potere», conclude suor Marta, «ma stanno abbattendo un intero popolo. O forse si vuole proprio questo: creare disperazione tra la gente per fiaccarne la resistenza e costringerla ad accettare un cambio di regime imposto dall’esterno, senza rispettare l’autodeterminazione, uno dei pilastri della democrazia».

martedì 2 febbraio 2016

Il cantico di Pascale

TEMPI, 2 febbraio 2016
di Rodolfo Casadei

«Il giorno più bello da quando sono in Francia è stato quando, al termine di una testimonianza in un liceo, è venuta da me una ragazza marocchina velata e mi ha detto: “La ringrazio. Lei oggi mi ha insegnato ad amare il profeta Gesù e ad amare i cristiani”. Per un attimo ho visto in lei mia figlia. O forse era mia figlia che guardava lei attraverso di me».
Claude Zerez ha 60 anni e da due vive come rifugiato in Francia con la moglie e due figli maschi di 23 e 25 anni. Viene da Aleppo, dove faceva la guida turistica specializzata in antichità cristiane; insegnava pure arte cristiana all’università Saint-Esprit de Kaslik a Jounieh in Libano. Come tutti i siriani, di ogni religione ed etnia, ha avuto la vita sconvolta dalla guerra civile cominciata nel marzo 2011.

Il peggiore degli incubi di un padre è diventato realtà un giorno d’autunno. Era il 15 ottobre 2012 e una corriera di linea correva lungo la strada che da Hama porta ad Aleppo. Dentro, gente di tutte le professioni e di tutte le età. Di tutte le fedi religiose che si trovano in Siria. Fra loro una ragazza dalla lunga chioma scura. I capelli sono scoperti, come quelli della maggior parte delle donne siriane prima della guerra. Lo sguardo è radioso, gli occhi profondi e scuri brillano perché, nonostante la Siria sia discesa da alcuni mesi nell’inferno della violenza fratricida alimentata dall’esterno, la vita sta sorridendo a questa giovane donna: ha concluso con successo gli studi medi superiori, sta per entrare all’università, ma soprattutto ha da poco celebrato le nozze. Pascale, 18 anni e pochi mesi, è una sposa. Lei che è di Aleppo vivrà col marito che è di Homs a Tartus, sulla costa del Mediterraneo, là dove la guerra ancora non morde.

A Homs infuriano battaglie strada per strada nei quartieri di Baba Amr e della città vecchia già da un anno e mezzo, ad Aleppo le ostilità sono scoppiate nel bel mezzo dell’estate, e i ribelli già stanno conquistando posizioni. La corriera esce dalla città di Hama e non imbocca la strada principale per Aleppo, ormai impercorribile, ma quella che passa più a oriente. Nei pressi della cittadina di al-Manara uomini armati arrestano la marcia del veicolo. I genitori e i fratelli di Pascale non sapranno mai di quale gruppo. Salgono e controllano i documenti dei passeggeri. Cristiani e alawiti vengono fatti scendere. Per Pascale non c’è bisogno nemmeno di controllare: quei capelli al vento, il rossetto sulle labbra e l’abbigliamento giovanile sono altrettante prove a carico contro di lei.

Sono in 13 a subire angherie, uomini e donne, succedono le cose che potete immaginare. Vengono uccisi tutti a colpi di arma da fuoco. I guerriglieri si dileguano rapidamente, abbandonano i cadaveri in strada senza nemmeno derubarli. Probabilmente temono di essere intercettati dall’esercito se si attardano sul posto.
Quando lo hanno chiamato, a Claude è cascato addosso il mondo: «Un’ora prima che la assalissero ci avevo parlato al telefono. Era contenta, aveva concluso la telefonata: “Preparatemi qualcosa di buono da mangiare, sto arrivando!”. Non siamo nemmeno potuti correre all’obitorio dell’ospedale di Hama, dove hanno composto i cadaveri, perché la strada era diventata troppo pericolosa. Il corpo di mia figlia ce l’ha portato un musulmano, che s’è preso il rischio di attraversare i posti di blocco dei ribelli per riportare i resti di una figlia cristiana alla sua famiglia. L’ho abbracciato e ringraziato come un fratello. Mi ha anche portato queste cose, che è tutto ciò che mi resta di Pascale». Claude mostra un cellulare col dorso di un fuxia squillante, e una catenina grigio argento che porta al collo. Il telefonino sembra appena uscito da un negozio.

Di Pascale restano anche due filmati che si possono trovare in rete, impaginati uno di seguito all’altro. Nel primo c’è lei con la corale che aveva creato, impegnata a cantare e suonare un organo elettrico in parrocchia durante una liturgia accompagnata dai suoi coristi. 

Non era ancora maggiorenne e aveva composto musica e testo di un inno struggente dedicato ai martiri di Siria. «Non l’ha pensata solo per i martiri cristiani, ma per tutti i siriani innocenti che stavano morendo per la guerra». Le note romantiche e il canto lancinante creano un’atmosfera di indicibile tristezza, quasi un presagio di morte.

                  
Piccolo bambino in questa guerra
il cannone ha ruggito, destate i cuori,
egli di pochi mesi, morto
Il suo cuore bianco gridò AHHHHHHHH
Oh i grandi, dove è il giorno
Il mio cuore è diventato a pezzi e lacrime
Oh i grandi, dove è la pace
Il mondo ha voltato le spalle, i cuori sono morti.
(Canto per i martiri, parole di Pascale Zerez)

Il filmato seguente comincia con una bara bianca, ricoperta da un immenso velo da sposa, che sovrasta una piccola folla in movimento. Portata a spalle da quattro uomini, entra per la porta d’ingresso della stessa chiesa che s’è vista nel filmato precedente. Pascale sorride da una foto incollata sul lato anteriore della bara. Risuona ovattato il motivo portante dell’inno per i martiri composto da lei. Poi le immagini si spostano sugli interventi al microfono dei vescovi presenti al funerale. Claude Zerez e la sua famiglia sono melkiti, ma in chiesa ci sono praticamente tutti i vescovi di Aleppo, cattolici e ortodossi. Al termine della cerimonia, quando la bara esce in un sottofondo di pianti e grida materne, si mettono in fila e rendono omaggio a papà Claude abbracciandolo e baciandolo tre volte sulle guance. Si sentono improvvisamente colpi di arma da fuoco. La gente si gira a destra e a sinistra ma non fugge. La sparatoria continua a lungo, mentre i presenti si scambiano le condoglianze, in un’atmosfera surreale.
«Dopo quella tragedia ho vissuto sei mesi di buio. Niente aveva più senso», racconta Claude. «Sprofondavo ogni giorno di più nella depressione. Mi ha salvato la preghiera. Ho pregato di poter accettare quello che era accaduto alla mia famiglia, di poter trovare la pace del cuore. Allora ho cominciato a sognare Pascale, ed erano sempre sogni sereni, belli. Lei mi diceva “Sto bene, qui è bello”, “Sono sempre con voi”, oppure “Vi voglio bene”. A poco a poco la sua assenza fisica che mi angosciava è diventata una presenza spirituale che mi confortava».

«Smettila o morirai ammazzato»
La vita continua e Claude, persona molto rispettata in città, entra a far parte del Comitato di riconciliazione di Aleppo, che si occupa fra le altre cose di scambi di ostaggi e della liberazione tramite trattative di persone rapite dalle bande armate. Del consiglio fanno parte imam e sacerdoti, notabili e altre personalità indipendenti dal governo e dal partito dominante. Ma dopo poco cominciano ad arrivare minacce di morte da parte ribelle. «A me sono arrivate telefonate minatorie: “Devi smetterla oppure morirai ammazzato”, ad altri lettere anonime. Ho cominciato a temere per la mia vita e per quella dei miei figli».
Jabhat al Nusra, Jaysh al Islam e altri gruppi islamisti della ribellione armata vogliono impedire a tutti i costi la riconciliazione, vogliono la radicalizzazione del conflitto. Nel caso dei ragazzi di Claude si presenta un altro problema: sono in età di militare, potrebbero essere chiamati sotto le armi. Ma nell’esercito stanno succedendo cose tremende: il quartiere di Jebel el Seide cade nelle mani dei ribelli grazie al tradimento del comandante delle truppe che erano stazionate lì per difenderlo, che si lascia corrompere per denaro: decine di soldati vengono massacrati mentre lui fugge. Reparti passano dalla parte degli insorti dopo aver ucciso i militari alawiti e cristiani e altri lealisti, mentre altri reparti cadono in imboscate frutto di tradimenti.

La fuga da Aleppo
Per tutte queste ragioni la famiglia Zerez decide di emigrare. Ha i mezzi e ha i contatti in Francia per organizzare l’uscita dal paese in modo legale. Il problema è un altro: fra Aleppo e il confine col Libano ci sono una serie infinita di posti di blocco, sia delle forze governative che dei ribelli. I rischi sono grandissimi, superarli senza danni quasi impossibile. Molti amici ritengono di fare un favore a Claude scongiurandolo di non partire per non fare la stessa fine della figlia. Che sembra voler comunicare. «Mi è apparsa ancora una volta in sogno. Mi ha detto: “Partite, andrà tutto bene”. Mi sono fidato di quel sogno e mi sono messo per strada. Ho superato 90 barrage per arrivare in territorio libanese sicuro! In tempo di pace per compiere quel percorso ci vogliono meno di tre ore. Noi ce ne abbiamo messe ventuno!».

L’arrivo in Francia
In Francia, dove arriva nel gennaio 2014, la famiglia Zerez fa una grande esperienza di accoglienza: non solo gli amici, ma famiglie cristiane completamente sconosciute si prendono cura di loro. «In casa mia non c’è nemmeno un mobile che non mi si sia stato donato!», racconta Claude. In questa atmosfera di fraternità cristiana continua il suo cammino di approfondimento della fede seguito all’assassinio di Pascale. Comincia a essere invitato a tenere incontri e testimonianze. Parla delle sofferenze della Siria e dei suoi cristiani, ma soprattutto parla della conquista del perdono. «Grazie a mia figlia sono diventato un messaggero della pace e del perdono. Ho perdonato, senza dimenticare. Mi rivolgo a Dio come Gesù sulla croce s’è rivolto a Dio Padre: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Il cammino del perdono è il cammino della pace e della riconciliazione nel mio paese. Senza perdono non ci sarà nessun ritorno alla pace e nessuna possibilità di ricostruire la Siria; e noi cristiani dobbiamo essere i primi a perdonare, perché ci vorrà del tempo prima che quelli che si sono macchiati le mani di sangue arrivino alla conversione del cuore. Hanno imparato a uccidere, e gli ci vorrà del tempo per imparare a non farlo più, dobbiamo insegnarglielo noi».
Quella che Claude definisce «la chiamata di Dio» si traduce in 86 testimonianze pubbliche che lui ha reso nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Vincendo ogni volta la diffidenza di chi sospetta nei cristiani siriani degli emissari e dei sostenitori acritici del regime al potere. «Io cerco di anticipare gli attacchi politici. Dico: “In Siria ci sono tante cose che non vanno: la corruzione, lo stato d’emergenza che dura da trent’anni, l’analfabetismo, la diseguaglianza economica. Ma la guerra civile non l’hanno voluta i siriani, l’hanno voluta l’Arabia Saudita e il Qatar. Se cambia il regime non avremo la democrazia, avremo una dittatura religiosa. Prima della guerra avevamo la sanità e la scuola gratuite, il pane e la benzina a prezzi calmierati, la sicurezza pubblica. Chi ha aderito alla ribellione credeva di poter avere un futuro migliore, invece ha perso tutto quello che aveva prima”. Alla fine nessuno mi dà torto».

I musulmani mi dicono “grazie”
Al contrario, tutti gli sono grati per la mansuetudine e la totale mancanza di odio con cui racconta la sua tragedia personale, con cui distingue le responsabilità degli estremisti da quelle della gente comune musulmana e con cui testimonia la convivenza pacifica fra cristiani e islamici prima della guerra. «I musulmani mi dicono: “Grazie, qui dopo il 13 novembre tutti ci guardano come mostri, con le sue parole lei ci sta veramente aiutando”. Alcuni cristiani mi si avvicinano come se fossi un santo. Uno mi ha detto: “Vorrei baciarle le mani e i piedi, perché non ho mai incontrato un cristiano come voi. Voi siete la luce dei cristiani”».
Ma Claude ha chiaro che la strada del cristiano non è fatta di successi e applausi umani, anche se talvolta sembra così. La cosa più importante è la conversione personale, che permette di avvicinarsi alla santità: «Il perdono non è umano, è divino. E allora o crediamo che Dio può operare il miracolo in noi, oppure non ci crediamo. Se ci crediamo, la prospettiva che abbiamo è quella di accettare di salire il Calvario per giungere alla Resurrezione. Il Calvario è il cammino da percorrere per la Resurrezione».

domenica 31 gennaio 2016

L'Arcivescovo di Aleppo: il governo di Assad è "una protezione per la popolazione" siriana

Risposta ai colloqui iniziati venerdì a Ginevra: nessuna negoziazione! Questo significa l'attentato settario messo a segno oggi nei pressi del mausoleo sciita di Sayyida Zeinab, a Sud di Damasco, costato la vita ad almeno 60 persone. La strage è stata compiuta con un'autobomba e due attentatori suicidi. Nelle esplosioni sono rimaste ferite 110 persone civili. 


Durante la 'Notte dei testimoni' organizzata annualmente da Aiuto alla Chiesa che Soffre, l' Arcivescovo greco melchita di Aleppo, mons Jeanbart, aveva il cuore pesante.
Dopo aver descritto la drammatica situazione degli aleppini, il vescovo siriano si è rivolto al pubblico di giornalisti che sono venuti ad ascoltare.

"I media europei hanno continuato a distorcere il quotidiano di chi soffre in Siria e hanno anche utilizzato per giustificare quello che sta accadendo nel nostro paese delle informazioni senza mai controllarle», ha cominciato, fustigando le agenzie di stampa create durante la guerra, "stumenti dell'opposizione armata ", come l'Osservatorio siriano per i diritti umani, fonte indiscussa dei media occidentali.
"Dovete capire che tra lo Stato islamico e il governo siriano, la nostra scelta è presto fatta. Possiamo condannare il regime per alcune cose, ma voi non avete mai cercato di essere obiettivi ", ha ulteriormente accusato.

Quando gli è stato chiesto se aveva potuto spiegare la sua posizione alle autorità francesi, monsignor Jeanbart ha detto di aver provato, prima di sentirsi dire che doveva essere "meno critico".
Per lui, tuttavia, l'Occidente ha continuato a tacere le esazioni dell'opposizione armata, al contempo denigrando il governo siriano e il suo presidente.  " Bachar Assad ha molti difetti, ma sappiate che ha anche qualità ", ha spiegato," le scuole erano gratuite, come gli ospedali, moschee e chiese non pagano nessuna tassa: ma qual altro governo nella regione fa queste cose, siate onesti? Ricordatevi anche che, se noi preferiamo sostenere il governo oggi, è perché temiamo l'istituzione di una teocrazia sunnita che ci priverebbe del diritto di vivere sulla nostra terra. "

"Sì, ho cercato di dire tutte queste cose alle autorità francesi, ma cosa vi aspettate da un Laurent Fabius che pensa di essere Dio Padre nel decidere chi merita o meno di vivere su questa Terra? "ha finalmente risposto, visibilmente stanco (Laurent Fabius, ha detto: “Assad non merita di essere sulla terra ").
"E 'possibile che la Francia - che amo e che mi ha educato attraverso le comunità religiose che si erano stabilite in Siria - sia cambiata così tanto? E' possibile che i suoi interessi e il suo amore per il denaro abbiano avuto la precedenza sui valori che una volta difendeva? " continua l'arcivescovo con amarezza.
Alla domanda sulla posizione dei vescovi francesi, il vescovo presente del Pakistan non ha voluto rispondere. Quindi monsignor Jeanbart ha ripreso il microfono:
"La Conferenza dei Vescovi di Francia avrebbe dovuto fidarsi di noi, sarebbe stata meglio informata. Perché i vostri Vescovi sono stati in silenzio circa una minaccia che è ora anche la vostra? Perché i vescovi sono come tutti voi, avvezzi al politicamente corretto! Ma Gesù non è mai stato politicamente corretto, è stato politicamente giusto! " è sbottato.
"La responsabilità di un vescovo è quella di insegnare, e usare la sua influenza per trasmettere la verità.  I vostri vescovi perché hanno paura di parlare?  Naturalmente saranno criticati, ma darà loro la possibilità di difendersi e difendere questa verità. Dobbiamo ricordare che il silenzio a volte è un segno di assenso. "

E' anche la politica migratoria dei paesi occidentali che l'arcivescovo ha criticato:
"L'egoismo e gli interessi servilmente difesi dai vostri governi alla fine uccideranno anche voi. Aprite gli occhi, non avete visto quello che è successo di recente a Parigi? " ha aggiunto l'arcivescovo, prima di concludere  supplicando:" Abbiamo bisogno che voi ci aiutiate a vivere a casa nostra! [...] Non posso accettare di vedere la nostra Chiesa di duemila anni scomparire. Preferisco morire piuttosto che vivere questo. "



venerdì 29 gennaio 2016

La furia islamista che abbatte le chiese

Mosaico ( perduto) della chiesa dei Martiri del 443 in Taybet Al-Imame a 15 Km sud di Hama.

Terrasanta.net
di Carlo Giorgi | 25 gennaio 2016

Dura Europos: la più antica raffigurazione
del miracolo del paralitico
Quale sarà la prossima chiesa ad essere distrutta dal sedicente Stato islamico (Isis)? Quella del quartiere cristiano di Deir el Zor, città siriana sul fiume Eufrate dove i terroristi stanno avanzando proprio in queste ore? Oppure la cosiddetta Domus Ecclesiae del sito archeologico siriano di Dura Europos (del secondo secolo dopo Cristo), uno dei luoghi di culto cristiani più antichi al mondo e oggi sotto il controllo dell’Isis?

In Siria e Iraq, in questi quattro anni di guerra, sono decine, se non centinaia, i luoghi di culto cristiano che i fondamentalisti islamici hanno distrutto o profanato. Non importa se si tratti di chiese moderne o di siti archeologici: ogni edificio che porti i simboli della fede cristiana (croci, statue della Vergine Maria e dei santi) per la folle logica dei terroristi, è considerato luogo di «politeismo» e merita di venire distrutto.
Solo pochi giorni fa, le televisioni di tutto il mondo hanno mostrato le foto satellitari del monastero di Sant’Elia, vicino alla città irachena di Mosul. Le immagini mostrano il sito archeologico prima e dopo la sua totale distruzione, avvenuta nell’estate del 2014 – qualche settimana dopo la conquista di Mosul da parte dell’Isis – e scoperta solo ora. Il monastero, fondato nel 590 d.C., aveva resistito per quattordici secoli tra conquiste e persecuzioni, diventando uno dei simboli più preziosi per i cristiani assiri dell’Iraq. Una grave perdita non solo per i credenti.
Da quando il monastero di Sant’Elia è stato distrutto al momento in cui ne abbiamo avuto notizia, sono passati 14 lunghi mesi. Questo significa che non sempre la profanazione delle chiese – per quanto antiche – è divulgata, a fini di propaganda, dai terroristi. Di conseguenza, c’è da credere che la lista ad oggi conosciuta dei luoghi di culto cristiano distrutti sia lacunosa e incompleta. In ogni caso, è impressionante scorrere l’elenco di quelli noti.

la chiesa di Raqqa trasformata in sede del cosiddetto Stato Islamico
Già nel 2013, quando l’Isis si insedia a Raqqa, le due chiese della città siriana vengono subito profanate. Nel settembre del 2013 i terroristi di Al Nusra occupano la cittadina cristiana di Maalula, sulle montagne tra Damasco e il Libano, con i suoi 5 mila abitanti in maggioranza cristiani che parlano aramaico, la lingua usata anche da Gesù.
L’antichissima chiesa di San Sergio e San Bacco, risalente al IV secolo, e il monastero di Santa Tecla, vengono profanati e distrutti (va detto che dopo alcuni mesi l’esercito governativo, sostenuto da Hezbollah, riprende la città e restituisce ai cristiani i luoghi di culto).

L’estate del 2014 è un momento cruciale: il 29 giugno Abu Bakr al-Baghdadi viene proclamato califfo dello Stato Islamico e le azioni propagandistiche dei fondamentalisti aumentano. In queste settimane le 50 chiese di Mosul, appena conquistata dall’Isis, vengono profanate e distrutte (tra agosto e settembre subisce la stessa sorte anche il monastero di Sant’Elia, di cui abbiamo scritto sopra). A settembre, a Tikrit, in Iraq, l’Isis distrugge la cosiddetta «Chiesa verde», risalente al VII secolo e molto cara ai cristiani assiri. Nello stesso mese distrugge, nella città di Deir Ezzor, la chiesa-mausoleo del genocidio armeno, costruita per ricordare la strage di 200 mila cristiani armeni avvenuta in questa località nel 1916. Sempre in Siria nell’autunno 2014 le parrocchie francescane dei villaggi della valle dell’Oronte, vicino al confine con la Turchia, vengono profanate: croci abbattute, simboli cristiani distrutti. Nel 2015 viene raso al suolo l’antico monastero di Mar Elian, del V secolo, il cui priore, padre Jacques Murad, è già stato rapito dai terroristi (riuscirà a fuggire in modo rocambolesco dopo cinque mesi di prigionia, nel mese di ottobre). Infine, secondo Aina, l’agenzia internazionale d’informazione dei cristiani assiri, all’inizio del 2015, nell'attacco sferrato dall’Isis nella valle cristiana del Khabur, nella provincia di Hassake, vengono distrutte 11 chiese di altrettanti villaggi.

Mosaico di Cristo -Adamo del museo di Hama
rubato e venduto dalle bande armate
La speranza di tutti in Siria e Iraq è che questo sistematico annientamento della storia e della presenza cristiana termini finalmente. Tuttavia, c’è da credere che, dove arriveranno, i terroristi dell’Isis non perderanno occasione di distruggere.
Quali potrebbero essere i loro prossimi obiettivi? La Siria in particolare, terra in cui il cristianesimo si è radicato fin dal primo secolo, è ricca di testimonianze di un’antica presenza cristiana. Ad esempio, nel territorio compreso tra la città di Idlib e il confine con la Turchia, in un territorio oggi sotto l’influenza delle milizie islamiche, si trovano i resti di decine di chiese cristiane del IV secolo, che proprio i francescani della Custodia hanno contribuito a far conoscere e valorizzare.




Nelle aree sotto il controllo del governo del presidente Bashar al Assad il pericolo per le chiese può arrivare invece dal cielo: ad Aleppo, nel mese di ottobre, la parrocchia di San Francesco, tenuta dai frati della Custodia, è stata colpita durante una messa da un colpo di mortaio sparato dai ribelli. Si è sfiorata la strage e ci sono stati sette feriti. I fedeli sono subito accorsi dalle loro case per sistemare i danni e pulire la chiesa.

A chi volesse approfondire il tema delle vestigia cristiane in Siria segnaliamo il libro Chiese cristiane del IV Secolo (Edizioni Terra Santa, 2014 - II ed.), acquistabile online oppure nelle migliori librerie.

mercoledì 27 gennaio 2016

Il Patriarca caldeo: la “mano malefica” di “giocatori esterni” ha portato il caos in Medio Oriente

Affresco ( distrutto) del Giudizio Universale. Chiesa Armena di Aleppo 

Agenzia Fides, 26/1/2016

 “Sembra che una mano malefica abbia messo in atto tutto ciò che è stato pianificato per cambiare la situazione”, causando sofferenze inaudite ai popoli dell'area mediorientale. 
E “non è un segreto” che in tale pianificazione è stato determinante “l'intervento di ‘giocatori’ esterni che hanno agito in base alle proprie ambizioni nella regione”. 
Sono quelli che “hanno usato la democrazia e la libertà come copertura per privarci delle nostre risorse naturali, della pace e della libertà, ed hanno creato il caos ed il terrorismo in Iraq e in Medio Oriente”. 
Così il Patriarca di Babilonia del Caldei, Louis Raphael I, ha delineato le ragioni profonde dei conflitti che stanno dilaniando il suo Paese e tutta la regione. Lo ha fatto nel discorso preparato per la conferenza sui diritti delle minoranze religiose nel mondo musulmano, che è in corso in questi giorni a Marrakech (Marocco). 

Nel suo discorso, pervenuto all'Agenzia Fides, il Primate della Chiesa caldea identifica nel 2003 – anno dell'intervento militare a guida Usa contro il regime di Saddam Hussein – l'inizio dei processi storici che stanno portando l'Iraq alla deriva, sulla base di un “ordine del giorno sistematico e ben pianificato” che prevede anche “la sparizione dei cristiani e delle altre minoranze religiose” autoctone. Processi che vengono condotti anche usando la religione, ridotta a strumento ideologico per fanatizzare le masse, spegnendo in esse ogni autentica vita spirituale. 

Nel suo intervento, il Patriarca Louis Raphael ha anche elencato una serie di recenti episodi che documentano la crescente discriminazione dei cristiani nella società irachena: “Un giudice donna di Baghdad” ha raccontato il Patriarca caldeo, “ha respinto un cristiano dal tribunale in qualità di testimone, affermando che i cristiani non sono ammessi come testimoni nei tribunali iracheni. Alcuni costruttori musulmani si sono rifiutati di costruire case e dimore religiose per i cristiani, perchè identificati come infedeli. Le milizie a Baghdad hanno preso possesso delle case dei cristiani, dei loro terreni e delle loro altre proprietà. Sono stati affissi dei manifesti, anche negli uffici pubblici, con cui si chiede alle ragazze cristiane di indossare il velo, sull'esempio della Vergine Maria”. 
Tra le urgenze da affrontare per salvare il Medio Oriente dall'abisso in cui sembra sprofondare, il Patriarca ha indicato anche la necessità di formare e favorire “religiosi musulmani istruiti, che si oppongano al fanatismo e alla mentalità settaria con le parole e le azioni”. 

http://www.fides.org/it/news/59270-ASIA_IRAQ_Il_Patriarca_caldeo_la_mano_malefica_di_giocatori_esterni_ha_portato_il_caos_in_Medio_Oriente#.VqkoNPnhCM8


Papa Francesco all’udienza generale di oggi 27 gennaio , salutando i pellegrini di lingua araba, in ‎particolare quelli provenienti dall’Iraq e dal Medio Oriente, ha detto:
Dio non rimane ‎in silenzio dinanzi alle sofferenze e alle grida dei suoi figli, o dinanzi ‎all’ingiustizia e alla persecuzione, ma interviene e dona, con la Sua ‎Misericordia, la salvezza e il soccorso. Egli usa pazienza con il peccatore per ‎indurlo alla conversione e cerca lo smarrito affinché ritorni, perché Dio ‎‎’vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità’ (1 Tim. 2, 4)‎. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga dal maligno!‎”.

martedì 26 gennaio 2016

“Io, esule di Aleppo con la forza del perdono” la testimonianza di Claude Zerez



Vatican Insider, 25 gennaio 2016
di Giorgio Bernardelli

«Quando accompagnavo i pellegrini era Pascale ad insegnare loro il Padre Nostro in aramaico». C’è tutta la vita di Claude Zerez, nell’immagine della ragazzina che proietta sullo schermo. L’amore profondo per le sue radici, il dolore per quella figlia portata via in modo brutale, ma anche lo sguardo di chi dentro la sua via crucis non è rimasto prigioniero dell’odio. 

Era il 9 ottobre 2012 quando la rapirono, mentre su un autobus da Homs stava tornando ad Aleppo. Erano milizie legate all’Esercito Siriano Libero, il fronte degli oppositori a Bashar al Assad. Aveva vent’anni, la ritrovarono cadavere. Fu allora che questo cristiano melchita di Aleppo - grande conoscitore dell’arte sacra dell’Oriente, guida di tanti gruppi di pellegrini in Siria - scrisse una lettera aperta a Francois Hollande, con parole molto forti sul sostegno politico offerto dalla Francia ai gruppi ribelli, sempre più infiltrati dai gruppi salafiti. «Avete visto come Aleppo, la città più antica è diventata una città fantasma? - scriveva nell’ottobre 2012 -. Potete immaginare Parigi come una città fantasma, dove centinaia di migliaia di famiglie francesi si aggirano in cerca di ripari per evitare spari, bombe e atti di discriminazioni arbitrarie, di fanatismo e brutalità?». 
A distanza di tempo quelle parole si sono rivelate una drammatica profezia. «Ma a Parigi è successo un giorno solo. Invece ad Aleppo da cinque anni è una storia quotidiana». A raccontarlo è lui stesso, in un incontro organizzato a Bresso dal locale Centro Culturale Manzoni, tappa milanese di una serie di testimonianze che Claude Zerez sta tenendo in questi giorni in diverse città italiane. Non analisi geopolitiche, ma il racconto di una storia che porta dentro di sé anche mille altre ferite.  

Porta al collo il rosario di Pascale: l’ha accompagnato nel suo cammino da esule. Perché anche Claude Zerez è stato costretto a fuggire lontano dagli orrori della guerra; oggi vive proprio in Francia. «Ho perso tutto quello che avevo - racconta -. Ma la cosa peggiore è ovviamente perdere una persona cara. Come credente ho trascorso i primi sei mesi a lottare con Dio. Ma la rabbia per l’assenza fisica di mia figlia, a poco a poco, ha lasciato il posto a una presenza spirituale. Quando siamo scappati da Aleppo tutti ci dicevano che eravamo matti, era troppo pericoloso. Abbiamo dovuto attraversare un’infinità di posti di blocco, ogni volta avremmo potuto morire. Ma proprio lì ho sentito accanto la presenza di Pascale, come se avesse steso un velo per proteggerci». 
«Mi chiedono spesso se abbia perdonato gli assassini di mia figlia - continua Claude Zerez - Rispondo: perdono, ma non dimentico. Ho fatto mie le parole di Gesù: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Un musulmano me l’ha sentito dire e mi ha detto: “Lei mi ha spinto ad amare di più i cristiani”. Ecco: questo è l’inizio della riconciliazione». 

Li nomina spesso i musulmani Claude Zerez. Sottolinea che sono vittima anche loro delle bande jihadiste che imperversano nel suo Paese e le cui atrocità mostra senza sconti nelle immagini durante la sua testimonianza. «Non mi sarei mai aspettato che la Siria arrivasse a questo punto dopo secoli di convivenza - commenta -. Ma ancora adesso i rapporti tra cristiani e musulmani in tante situazioni sono buoni. Quando è stata uccisa mia figlia i nostri amici hanno pregato per lei in moschea. E 40 giorni dopo alla liturgia di suffragio in chiesa c’erano più musulmani che cristiani. Siamo tutti vittime della stessa oppressione». 
Gli chiediamo dei cristiani di Aleppo, quanti sono rimasti oggi? «In una città di quattro milioni di persone, come era Aleppo fino al 2011, i cristiani erano 300 mila - risponde -. Gli ultimi dati parlano di appena 22mila cristiani rimasti. Perché fuggono? Non c’è più luce, pane, acqua, possibilità di scaldarsi. Un litro di gasolio costava un euro, oggi ne costa quattro». Sull’embargo non ha dubbi: come avveniva in Iraq colpisce solo i più poveri, favorisce il mercato nero e aggrava le sofferenze.  

Che cosa si può fare per aiutare la Siria? Risponde che la prima cosa è pregare. Ma ce n’è anche una seconda: «Uscire dall’indifferenza - ammonisce -. Noi cristiani non possiamo accontentarci di vivere tranquillamente la nostra vita. Dobbiamo ascoltare la voce di Gesù che dice: avevo fame, avevo sete… Siamo chiamati a uscire dall’indifferenza per un nuovo Esodo. Uscire da sé per andare verso gli altri: la paura oggi è il peccato più grave». 

Non vorrebbe parlare di politica, ma è inevitabile arrivarci. «Che cosa servirebbe? Mettere fine alla guerra. Basterebbe una comunità internazionale con onestà e coscienza. Invece i cristiani d’Oriente valgono meno di un barile di petrolio oggi…», commenta con amarezza. «Bashar al Assad non è un angelo e anche Putin ha i suoi interessi - spiega Claude Zerez -. Ma l’Oriente è diverso dall’Occidente, il concetto di cittadinanza non c’è. Qui viene prima l’etnia, poi la religione e solo dopo la nazionalità. Ciò che oggi vogliono i siriani è uno Stato che li protegga e faccia valere la legge. Senza, faremmo la fine della Libia». 

Descrive nel dettaglio gli orrori che lo Stato islamico sta seminando in Siria. Parla della sfida più difficile: «Quale domani per i bambini che gli uomini con le bandiere nere oggi educano a uccidere?». Ma parla anche della vita che continua, delle associazioni caritative che nel momento della prova aiutano tutti senza fare distinzioni. Della tomba di padre Frans van der Lugt, il gesuita olandese ucciso a Homs nell’aprile 2014, «veneratissima da tutti, cristiani e musulmani». 
Indica una strada. Alla politica il compito di raccoglierla.  

domenica 24 gennaio 2016

“Il dialogo tra cristiani e musulmani si può fare solo nella verità” Padre Pizzaballa, Custode di Terra Santa

“Dire da dove nasce il fondamentalismo”. 
L’esempio dei cristiani “che resistono”
25 gennaio: conversione di S Paolo


Il Foglio, 21 gennaio 2016

Roma. “Il medio oriente come l’abbiamo conosciuto nel Novecento non esiste più, è saltato. Questa guerra, che definirà i nuovi assetti, non ha distrutto solo le infrastrutture e gli stati, ma anche la fiducia tra le diverse comunità, specie tra i cristiani e la maggioranza musulmana. Niente sarà più come prima”. 
A dirlo è stato padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, intervenendo all’incontro “Cristiani in medio oriente e migrazioni forzate. Dentro il cambiamento epocale”, promosso dalla Fondazione Avsi e Oasis, che si è tenuto nel tardo pomeriggio di martedì all’Università La Sapienza di Roma. Al tavolo dei conferenzieri sedevano anche Michele Valensise, segretario generale del ministero degli Esteri e Adnane Mokrani, docente all’Università Gregoriana e al Pontificio istituto di studi arabi e islamistica. 
“Non si parla mai degli sfollati, di gente che ha perso la casa, il lavoro e non ha più soldi per ricominciare. Più di due terzi dei siriani non abita più dove si trovava prima del conflitto. La situazione è drammatica – ha osservato Pizzaballa – al punto che non diciamo nemmeno più quando i religiosi vengono rapiti. Lo facciamo solo se dopo una settimana non sono ancora tornati”.

Eppure, in tale disastro, “vi sono episodi di grande determinazione. Quanti sono rimasti sono per lo più poveri, non hanno mezzi per muoversi, non sanno dove andare. Ma quasi nessuno tra essi ha rinnegato la propria fede. Si fanno tagliare la testa ma non rinunciano a nulla”. Il francescano porta qualche testimonianza vista con i propri occhi, nel nord della Siria, nei territori “sotto il controllo di gruppi satelliti di al Qaeda. 
Questi, rispetto ai jihadisti dello Stato islamico – i cui miliziani, come testimoniano le foto satellitari diffuse ieri dalla Associated Press, hanno raso al suolo il monastero di Sant’Elia a Mosul, il più antico d’Iraq – sono sì moderati, ma è una ‘moderazione’ che consiste nel divieto per i non musulmani d’avere proprietà, di esibire simboli religiosi. Niente croci né statue. Di vino per celebrare la messa neanche a parlarne. Ma qui i cristiani non hanno ceduto: nessuno ha permesso che i loro simboli fossero toccati e sono arrivati a nascondere il vino per l’eucaristia in casa propria”. 
Il problema, ha aggiunto ancora il custode di Terra Santa, “è che il fondamentalismo di oggi non può nascere dal nulla. C’è sempre un background, ed è su questo che bisogna interrogarsi. Io sono convinto che si debba dialogare, sia perché senza dialogo siamo finiti sia perché il dialogo è incontro con l’altro e parte integrante della mia vita di fede. Ma deve essere fatto nella verità. Non so – ha proseguito – se si possa dialogare tra le fedi. Io penso di no. Però si può dialogare tra credenti e condividere le esperienze di fede. Questo si deve fare. Non posso credere che vi sia un miliardo e mezzo di persone con le quali non posso entrare in relazione. E’ una aberrazione pensare questo. Dobbiamo farlo, ma nel rispetto  reciproco, nella verità. Su questo non si può transigere”.

A margine dell’incontro, padre Pizzaballa – che si è chiesto “cosa sia e dove sia la comunità internazionale”, visto quel che sta accadendo “nell’indifferenza generale” – ha ammesso, conversando con il Foglio, che “le reazioni delle autorità musulmane riguardo le persecuzioni delle minoranze sono state molto timide”. Certamente non tutti, visto che ci sono state lodevoli eccezioni che danno speranza. Ma bisogna riconoscere che se è vero che le narrative sono diverse e ognuno legge gli eventi in maniera diversa, allo stesso tempo è oggettivo che i leader islamici del medio oriente sono stati molto timidi nel denunciare l’abominio che è in corso”. 
Sarà un’impresa ardua ricomporre la frattura che s’è venuta a creare tra musulmani e cristiani nel vicino e medio oriente: “Ci vorranno molto tempo e diverse generazioni per recuperare il tipo di coesistenza precedente la guerra”, ha chiosato.