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martedì 21 giugno 2022

Nunzio Zenari: aiutate la Siria che vive un'enorme catastrofe umanitaria


Intervista di Salvatore Cernuzio

È nunzio a Damasco da 13 anni, ma ancora il cardinale Mario Zenari non riesce ad abituarsi allo scenario di lacerazione e povertà che ha sfigurato il volto della Siria. “Dopo dodici anni di guerra la situazione non va bene, anzi per certi versi è peggiorata. Da 2-3 anni ormai la Siria è stata dimenticata: il Covid, la crisi in Libano, ora l’Ucraina… è sparita dai radar dei media”. Il porporato è a Roma per partecipare alla plenaria della Roaco (Riunione Opere di aiuto alle Chiese Orientali) dove, dice, è un “veterano”. Sabato mattina, 18 giugno, ha incontrato il Papa che – racconta ai media vaticani a Casa Santa Marta – “ho trovato in buona forma”: “Gli ho portato i saluti dei fedeli e dei vescovi, ma anche la sofferenza, la tanta sofferenza della popolazione”.

Quale situazione vivono i siriani? 

La Siria rimane una delle più gravi crisi umanitarie del mondo. Basti pensare che, oltre agli innumerevoli morti che ha causato questo conflitto, ci sono circa 14 milioni di persone, su 23 milioni che erano in passato, che stanno fuori dalle proprie case, fuori dai propri villaggi, fuori dalle proprie città. Circa 7 milioni sono invece gli sfollati interni, che vivono a volte sotto gli alberi o in tende in mezzo alle intemperie. Quest’anno è stato un inverno particolarmente rigido, soprattutto nel nord ovest, e tante tende sono crollate sotto il peso della neve. In più ci sono milioni di rifugiati nei Paesi vicini. Quindi una catastrofe umanitaria enorme. Enorme…

Ci sono segnali o comunque speranze di un miglioramento?

No, al momento non si vede la luce in fondo al tunnel. Non si vede ricostruzione, non si vede avvio economico. Con la guerra in Ucraina la questione della revoca delle sanzioni, poi, è diventata ancora più problematica. Ci sono soprattutto le sanzioni dell'Unione Europea e quelle dell'America, che sono ancora più dure e puniscono chi vuole andare in Siria per ricostruire, per far ripartire l'economia. La guerra in Ucraina, da questo punto di vista, ha certamente peggiorato la situazione in Siria. La gente, tanta gente, ha quindi perso la speranza. Soprattutto i giovani che cercano in tutti i modi di emigrare e ci chiedono di aiutarli a partire. Ciò rappresenta una sofferenza particolare anche per le chiese locali che hanno visto partire più della metà dei cristiani, in alcuni casi anche due terzi. È un danno anche per la stessa società siriana, perché, come ho sempre detto, i cristiani con il loro spirito aperto, universale, di intraprendenza, con il loro impegno per l’educazione e la salute, sono veramente di supporto a tutto il Paese. Dopo duemila anni di storia, vanno ora scomparendo. La loro assenza o partenza forzata è una ferita per tutti.

Esattamente un anno fa, Eminenza, denunciava ai nostri microfoni che, cessato il fragore delle armi, in Siria è esplosa un’altra “bomba”, quella della povertà. Anche da questo punto di vista la situazione è peggiorata? 

È peggiorata e sta peggiorando, come dimostrano certe scene a Damasco o in altre città dove si vedono file di persone davanti ai panifici che vendono a prezzi calmierati dallo Stato. Non si vedevano neanche durante la guerra. Vuol dire che la gente non ha soldi per comprare il cibo e va in questi panifici dove si compra il pane a cento lire siriane invece che a mille… Fa davvero impressione. Poi non c’è benzina, si fa una fatica enorme a trovarla e pensare che la Siria ha diversi pozzi petroliferi che comunque coprivano buona parte del fabbisogno nazionale. E ancora, non c’è gasolio: le persone non avevano carburante per accendere le stufette durante l’inverno che, come dicevo, è stato molto rigido. Pensiamo quindi a quanti hanno patito il freddo, specialmente anziani, bambini. Mancano beni fondamentali che diamo per scontati, come l’elettricità. In gran parte della Siria c’è solo due ore al giorno. Manca il gas da cucina… Pensate che durante la Quaresima ho avuto tre parrocchie dall’Italia che mi hanno proposto aiuti e mi era venuto in mente che in Siria ci sono delle cucine popolari che distribuiscono pasti caldi alle famiglie. Ero molto contento, ho detto loro: abbiamo raccolto tra i 10 e i 20 mila euro, possiamo aumentare il numero delle persone e anche il servizio, farlo quattro volte a settimana invece che tre. Mi hanno risposto: veramente abbiamo dovuto ridurre da tre a due. E perché? Perché non si trova il gas per cucinare. Capite quindi che si lavora su un terreno minato. Ci sono soldi, come in questo caso, ma non i beni di prima necessità. Per questo dico che non si vede via d’uscita.

Il Papa in numerosi recenti interventi, denunciando la tragedia in corso in Ucraina, ha esortato a non dimenticare le altre guerre nel mondo. E la Siria è una delle prime tra queste…

Sì, la Siria è stata proprio dimenticata. È sparita dai radar dei media internazionali. Non è solo a motivo del conflitto in Ucraina, ancora prima ci sono stati il Covid e la crisi finanziaria delle banche in Libano che, peraltro, è stato un duro colpo per la Siria visto che tutti, anche le Chiese che ricevevano aiuti umanitari, avevano depositato soldi nelle banche libanesi. Da anni è difficile trasferire denaro e soprattutto riceverlo. In più,  vanno diminuendo gli aiuti delle agenzie umanitarie cristiane: continuano ad occuparsi del Medio Oriente, ma chiaramente l’urgenza adesso è l’Ucraina. Inoltre è rimasto un solo corridoio umanitario dei quattro che c'erano fino a due-tre anni fa: dipendono dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che sono soggette a veto. Il 10 luglio scadrà il mandato Onu di questo corridoio e spero e prego che non venga chiuso. Sarebbe un disastro! Il rischio però c'è. Come dico sempre, una crisi danneggia un’altra crisi. Tutto ciò fa davvero male e la gente si sente abbandonata.

Nota una certa disparità negli aiuti e nell’attenzione della comunità internazionale? Forse, dopo dodici anni di guerra in Siria, è subentrata quella che il Papa ha definito “l’abitudine”?

Direi che sì, c’è una certa differenza. I Paesi occidentali che possono aiutare hanno una crisi in casa, quindi i loro aiuti all’Ucraina sono probabilmente più consistenti. Come pure l’attenzione politica. Il Medio Oriente si trova in una zona di turbolenze che durano da anni… La Siria, in particolare, è davvero lacerata. Al suo interno sono tuttora operanti cinque eserciti di cinque nazioni potenti in disaccordo tra loro. Quindi, anche dal punto di vista politico è tutto un garbuglio. 

In alcune regioni, raccontava lei stesso, si è iniziato a usare pure una valuta diversa. Quanto sono profonde queste divisioni?

Sì, tra i cinque eserciti di cui parlavo, uno è entrato senza essere chiamato: è l’esercito turco. Ha occupato una fascia al nord della Siria, stazionando in particolare in una zona della provincia nord occidentale di Idlib. Alcune infrastrutture, come gli operatori telefonici, sono assicurate dalla Turchia e da un certo tempo si usa anche la moneta turca. Poi c’è il nord est che è sotto l’influenza e l’amministrazione dei curdi, che hanno i pozzi petroliferi. E lì c’è anche una parte di esercito americano. Israele, inoltre, effettua regolarmente attacchi contro obiettivi militari di Hezbollah o dell'Iran. La settimana scorsa hanno bombardato per la prima volta la pista dell'aeroporto di Damasco. Non dimentichiamo poi che alcuni fazzoletti di terra sono occupati da bande criminali o residui del Daesh. È una Siria, insomma, che ha perso la sua unità. È veramente una pena vedere questa carta geografica politica, non si sa da dove cominciare per ricucirla. Che disastro…

Lei è nunzio a Damasco dal 2008. Ben tredici anni…

Si, sono il più anziano dei rappresentanti pontifici e decano del corpo diplomatico.

Dinanzi a tutto quello che ha descritto, a uno scenario a dir poco scoraggiante, ha mai pensato di lasciare o chiedere un trasferimento? Cosa la tiene ancora legato?

Proprio sabato mattina ne parlavo con il Santo Padre che mi ha incoraggiato molto e mi ha ricordato di aver fatto sei anni fa un “regalo” alla Siria con un nunzio che è cardinale. La situazione è certamente difficile, ci sono problemi politici, diplomatici, umanitari, ma sento una responsabilità. Sarei dovuto essere emerito già da un anno, ma proprio per questo regalo del Papa vado avanti. Almeno finché Dio vuole e mi concede la salute.

https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-06/cardinale-zenari-intervista-udienza-papa-siria-guerra-poverta.html

mercoledì 15 giugno 2022

Memorie di Siria

Deir Sim'an, Campo Santo
 
di Maria Antonietta Carta

Una volta, più di duemila anni fa, su un piccolo colle, Tell Neshin, Collina delle donne in Siriaco, sorgeva il villaggio di Telanissos, Collina delle donne in Greco.

Gli uomini, in quei tempi, Dio lo chiamavano Madre e poi sole Sole e anche Tempesta. Gli alberi e le grotte erano templi e già si sapeva che la Vita nasce dalla Morte.

Poi vennero i tempi in cui Dio cominciò a essere chiamato Cristo, Alfa e Omega, Salvatore, e Telanissos, abitata da asceti, mercanti, artigiani e visitata da folle di pellegrini che vi giungevano per venerare un santo vivente, cominciò a trasformarsi in una piccola città paleocristiana dove il sacro si mischiava al profano, le preghiere ai commerci e alle giostre di cavalli. Una fiorente piccola città del turismo religioso di allora. Le terre circostanti erano attraversate da numerose vie di comunicazione. Da Antiochia a Chalcis, il deserto di San Gerolamo, ad Apamea E ai porti dell’Eufrate, le piste si affollavano di carovane, eserciti, pellegrini e monaci infervorati che per esaltare la nuova fede abbattevano spesso i templi dei padri.

Più di mille anni fa, Telanissos fu abbandonata e rimase deserta finché, sulle rovine, da pochi decenni è tornato a nascere un villaggio che però ha un nome nuovo, Deir Sim‛an, monastero di Simeone in Arabo, dal santo venerato quindici secoli prima: Simeone Stilita.

I moderni abitanti, che chiamano Dio Allah cioè Dio, non celebrano più Simeone, ma hanno chiamano il loro villaggio con il suo nome!

Deir Sim'an, edifici del villaggio moderno

Deir Sim‛an, avvolto in una quiete particolare: la placidezza di chi ha conosciuto tutto ed è anche rinato dalle ceneri, e che niente può più stupire. Così mi apparve la prima volta che vi arrivai, assolutamente per caso: una città morta che stava rinascendo. Abitazioni nuove a pan di zucchero e rovine di edifici monumentali con porticati su pilastri e colonne, chiese, sepolcri. Qualcuno aveva stabilito la sua dimora nelle solenni vestigia di una basilica con il suolo disseminato di colonne e capitelli abbelliti da lussureggianti foglie di acanto come mosse dal vento. Massaie stendevano al sole il loro bucato tra le pietre rovesciate. Una mucca e un cavallo, affrontati come in un disegno dell’antica Mesopotamia, riposavano tranquilli, i corpi possenti adagiati con grazia dentro l’emiciclo dell’alta abside centrale. Mi sembrarono gli emblemi di una natura che fu divina. Un arco trionfale ferito si stagliava solitario nell’azzurro del cielo alle pendici di una collina.

Erano i primi anni ’80, vivevo da poco in Siria e non avevo mai sentito parlare di Simeone Stilita, delle Città morte paleocristiane, numerosissime nella regione come avrei scoperto in seguito, e neppure dei movimenti monastici del deserto sorti nei primi secoli per sfuggire alle pastoie di una Chiesa trionfante e subito complice-asservita al potere temporale.

Rimasi incantata da quell’apparizione inattesa.

andron

Sono tornata spesso nei luoghi in cui quel giorno ormai lontano mi condusse il caso impersonato da mio marito. Trascorrevamo le vacanze a Bedrusiyyeh. Un villaggio ai piedi del Jebel Akra‛ - il monte sul quale un tempo sorgeva la dimora dorata del dio ugaritico Baal e dove l’imperatore Adriano aveva celebrato sacrifici a Giove - con una lunghissima spiaggia scura bagnata dal Mediterraneo. Appena svegliati, Maarouf disse: sono stanco del mare. Perchè non andiamo a farci un giro?

Lui ama guidare l’auto. Dietro a un volante è felice come un bambino felice. Così, ce ne andammo a spasso attraversando il jebel costiero, il fiume Oronte a Jisr al-Shughour, le ultime propaggini del Jebel Zawiyeh e ancora su, verso nord-ovest, lasciando la via di Aleppo per Bab el-Hawa, la porta del vento, e sempre avanti senza meta spensierati fino alla visione di quello straordinario sito.

Non dimenticherò mai l’improvvisa visione di quegli antichi edifici inaspettati, quelli che avrei in seguito scoperto essere monasteri paleocristiani e le chiese in rovina come risaltavano nell’aria piena di luce, e dentro Maarouf e nostra figlia Salima, la mia cara famiglia sorpresa ed emozionata per l’avventura di quella tarda mattina d’estate.

Ero giovane allora, e non troppo contenta al pensiero di trascorrere la vita in Siria. Ma ci avrebbe pensato la Siria, strega incantatrice, a farmi cambiare idea. A sedurmi.

Come si chiama questo posto? – chiedemmo a un contadino. Deir Sim‛an – ci rispose, invitandoci a casa sua.

Ho finito per appassionarmi a questa straordinaria regione delle Città Morte.

panorama del Massiccio Calcare

Quante volte poi, non più per caso, Maarouf ha dovuto accompagnarmi!

L’ho studiata e ne ho scritto. Eppure, visitandola provo sempre la stessa emozione di quel giorno lontano. ‘’Chissà - spesso mi domando durante le mie peregrinazioni tra le rovine - dove saranno i discendenti degli antichi abitanti che hanno dovuto abbandonare questi luoghi fuggendo a guerre e carestie. Avranno conservato la coscienza di una patria perduta? ‘’ 

Qatura, mausoleo di Aemilius Reginus

È un altro mattino d’estate. Sono qui per fare delle foto per una rivista spagnola. Ecco le vestigia della via sacra e dell’arco trionfale che forse fu danneggiato da un terremoto o da una guerra.

Entrambi piaghe di questa terra.

Un’alta colonna superstite incoronata da un capitello corinzio si erge ancora solenne verso il cielo.

Oltre la spianata in cui si radunavano i pellegrini, una cappella mortuaria paleocristiana è diventata mausoleo di un santo islamico e per lui adesso ardono a Deir Sim‛an le lampade a olio in terracotta. Il mihrab indica la direzione della Mecca a chi vuole pregare.

In un Campo Santo, preceduto da un portico su colonne e annesso a un monastero monumentale, ostinate resistono al suolo poche tessere di mosaico.

Sul muro di un ospizio per gli antichi viaggiatori è incisa una croce-fallo: il principio fecondatore.

Sono moltissime le pietre delle costruzioni che recano scolpiti simboli: quadrati, triangoli, ottagoni, cerchi, alberi della Vita, colonnette votive, rosette, stelle, ruote...

Immagini di universi invisibili.

Radici.

L’architrave della porta di una casa è decorato con una croce svastica racchiusa da un quadrato e da un cerchio. Rappresentazione del Principio, della Conoscenza, geometria del Sole e di Gesù, eppure inevitabilmente legata a un turbinoso livore. Allo strazio di una guerra.

Emblemi – maschere.

Pretesto per dissimulare oscuri abissi.

Risalgo il monte.

Questi territori, che nei primi secoli della nostra era fertili e ricchi di traffici e colori, si presentano ora come un mare procelloso di rocce grigie. Se ne riceve una sensazione d’immenso abbandono. Di cataclisma cosmico che ogni volta mi affascina e mi sgomenta. 

Qualche albero, però, sta crescendo nuovamente, tenace come un’attesa difficile e qualche campo arato nasce tra le pietre.

Deir Sim'an, monastero

Arrivo in cima alla collina dove, miraggio dorato nel caos del deserto calcareo, sulla spianata sorge il grandioso santuario di Simeone stilita, edificato quindici secoli fa per un ‘’pazzo di Dio’’ che si era messo in testa di soggiogare il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere mantenendo la padronanza di se per elevare lo spirito. Visse esponendosi per trentasei anni alle tempeste, al gelo e al sole bruciante su una colonna. Protagonista di una fede estrema, soggiogava il corpo per diventare insensibile al dolore e al piacere vivendo i patimenti come fuga mistica dalle passioni terrene. Alla morte di Simeone, l’esercito di Leone I si era assicurato con la forza le sue utili spoglie mortali e l’imperatore Zenone aveva fatto erigere il monumento, probabilmente più per calcolo politico che per celebrare il santo carismatico.

Ammiro e capisco la maestosità dell’opera architettonica, ma resto sconcertata davanti alla vicenda umana e spirituale dell’uomo che la ispirò.

Essa mi appare folle.

La ragione si sente inadeguata.

È ciò che ho provato sin dalla prima volta che salii su questa montagna deserta, guardando il grande tempio solitario col tetto e le finestre spalancate al cielo e battuto dal vento che filtrava tra i rami degli alberi come una musica o un respiro arcano. Avvertendo l’assurda sensazione di aver raggiunto un luogo che dovevo aver già incontrato in non so quale sogno.

Mi capita spesso di provare la suggestione di un legame lontano con questo Paese che sembra, da millenni, una specie di tempio cosmico in cui gli esseri umani si sono inventati ogni genere di culti e di riti. È quello che avverto sia nei centri abitati sia negli spazi aperti, dove ogni altura, ogni valle, ogni anfratto nascosto pare conservare il segno di una qualche devozione. Perché?

Mi sgomenta l’ostinazione dell’uomo a voler restare sottomesso ai numi tutelari che non cessa mai d’inventarsi. Mi tornano in mente due leggende su Simeone. Una amara e una gentile. Come le due facce della vita: terrifica e benigna. Mi piacciono le leggende e mi è sempre piaciuto ascoltarle. In esse si occultano le debolezze più intime, i dubbi più profondi, i sogni più audaci e il timore e la fragilità umana che da sempre ha sentito l’irresistibile bisogno di forgiare divinità da cui dipendere.

1. Dopo venti anni, la madre di Simeone scoprì dove si trovava il figlio. Accorsa in gran fretta, dopo la lunga separazione desiderava vederlo senza dovere ancora attendere. Ma non le fu concesso di contemplarlo. Poiché lei bramava ricevere la benedizione dalle sue sante mani, dovette salire sul muro. Avvenne che, mentre saliva sulla scala, fu precipitata a terra prima di aver potuto vedere Simeone. Allora, egli le mandò a dire: «Perdonami, madre. Se ne siamo degni, potremo vederci in questo mondo.» Avendo udite queste parole, sua madre ardeva ancora di più dal desiderio di vederlo. Allora S. Simeone le mandò a dire: «Calmati, signora madre. Poiché tu sei arrivata da molto lontano e ti sei stancata per me miserabile, bene! Siedi e ristorati. Io ti vedrò più tardi.» A quelle parole, sua madre sedette e, immediatamente rese l’anima a Dio.

I guardiani del luogo vennero a risvegliarla, ma la trovarono morta e annunciarono la notizia al santo. 

2. Sul corpo di un serpente femmina spuntò una grossa pustola e a causa delle sofferenze essa fece una corsa di circa un miglio. Il maschio, addolorato per le sue pene, la prese e la condusse da San Simeone, ma arrivati presso la colonna si separarono. La femmina, non osando mostrarsi al giusto, si recò nel luogo destinato alle donne. Il maschio invece confusosi tra la folla dei pellegrini raggiunse la colonna e la abbracciò levando e abbassando la testa in segno di venerazione verso il giusto. Vedendo quel serpente enorme gli uomini fuggirono lontano, ma Simeone disse loro: non fuggite, fratelli, esso è arrivato qua con una supplica. La sua femmina è molto ammalata ed è andata nella sezione delle donne. Poi disse al serpente: « prendi dalla terra un po’ di fango e portalo a tua moglie, applicaglielo e soffia su di esso. Questo fango la guarirà.»

Dopo aver raccolto un po’ di fango, il serpente tornò dalla compagna. I pellegrini lo seguirono per vedere cosa avrebbe fatto e videro oltre il recinto il serpente femmina con una grossa escrescenza. Il serpente maschio le applicò il fango e dopo averci soffiato sopra la guarì alla presenza di tutti. Poi andò via con lei. Assistendo a questo mistero la folla rese grazie a Dio.

Faccio le foto poi torno a piedi al villaggio, alla via sacra che si perde tra le pietre rovesciate, e ancora immagino le processioni di Arabi, Germani, Galli, Bretoni, cittadini della decadente Roma imperiale e Iberici, che con i ceri in mano cantavano preghiere e speravano miracoli.

Una moltitudine di uomini diversi uniti da una fede.

Per alcuni secoli.

Un giorno.

Una monade di eternità.

In un piazzale desolato, confinante con i monumenti, alcuni uomini fabbricano mattoni di fango e paglia. Come i loro antenati.

Sono le dodici, l’ora della seconda preghiera. Il muezzin intona il Takbir: la lode a Dio. 

Dio é il più grande. Dio è Uno. 

Nei campi circostanti, lavorano delle donne. Le loro schiene sono curve sul terreno. I loro vestiti a colori vivaci screziano le zolle ferrigne scivolate dai fianchi nudi della collina. Quelle liete macchie di colore mi riempiono di mestizia. Le incolpo di mistificare la fatica contadina. La fanno bella e dolce come un quadro di Corot.

L’intensa bellezza del dolore! Penso arrabbiata. E ingiusta.

Non è la bellezza una meravigliosa riposante consolazione?

Anche nelle case più povere, nelle baracche, nelle tende dei nomadi ho sempre trovato un qualche adorno, e anche nelle donne più stanche un qualche commovente segno di civetteria.

Poco lontano, oltre una valle, si staglia il cono solitario del Jebel Sheikh Barakat, il monte Korifeo, sulla cui sommità si offrivano sacrifici a Giove. E al Sole. 

O Signore, o luce della terra

Solamente tu sei risplendente.

È un giorno di festa. Il pulmino per il vicino centro di Deiret Azzeh ritarda.

Il sole sta ormai diventando alto e troppo caldo.

Non ho voglia di aspettare. Decido di fare l’autostop.

Mi danno un passaggio alcuni uomini provenienti dalla valle di Afrin su un autocarro carico di cipolle che stanno trasportando ad Aleppo. Il loro sguardo è riservato – rispettoso - incuriosito. Dall’alto della cabina, ci viene incontro la valle di Qatura, dove si conserva un insediamento di legionari e coloni romani con i loro culti agrari scolpiti nella pietra e la necropoli e il mausoleo di Emilio Regino ,un soldato ventunenne morto duemila anni fa. 

Giù in basso a Ovest verso il Mediterraneo, la valle di Antiochia che attraversarono gli eserciti assiri, Alessandro il Grande, Dario, Zenobia di Palmira, Aureliano, Giuliano l’Apostata..., è coperta da una leggera bruma. A Nord, la valle del fiume Afrin e le grotte dove uomini di Neanderthal ricevettero una sepoltura rituale. Più lontano, si leva la catena dell’Amanus che Plinio chiamò Montagne d’argento.


A Deiret Azzeh ci separiamo, ma essi continuano a salutarmi sventolando le mani dall’alto dell’autocarro. Rispondo al loro saluto finché scompaiono all’orizzonte.

Noleggiata un’auto, scendo verso la valle dell’Oronte fino a Derkush, villaggio situato su una striscia di terra lambita dal fiume che qui scorre dentro la stretta gola tra il Jebel Wastani e il Jebel el-Qussayr, che Strabone chiamò Cariddi. Rovine del ponte romano e del porto fluviale da cui partivano i blocchi di calcare e i prodotti agricoli per la vicina città di Antiochia. Un sacrarium con centinaia di nicchie, tracce di un tempio forse risalente al regno di Antonino Pio e dedicato a Zeus Betylos; grotte votive, si pensa per il culto popolare della divinità delle acque, Atargatis - la Dea Syria e Tifone - il fiume Oronte divinizzato. Sopra l’ingresso ad arco di un sepolcro ipogeo sono incise le parole di un racconto di pietà:

L’anno quattrocento (di Antiochia, 352 d. C.)

il giorno ventisette del mese di Panemos

Eutikes Marone capo battelliere

alla dolcissima Domitilla madre mia:

Coraggio mamma, nessuno è immortale.

 

Precarietà di foglie al vento e amore sconfinato.

Passioni che incessantemente attraversano il tempo e gli spazi.

Che sempre confondono, travagliano o esaltano.

Uguali per tutti e non vogliamo accorgercene.

Nello specchio del fiume si riflettono giardini di melograni.


Queste sono alcune pagine del mio diario scritte a metà degli anni ‘90 del secolo scorso, molto prima che la guerra devastasse quel prezioso Paese che era la Siria. Quando in Siria era dolce vivere. Ora, il santuario di S.Simeone e la maggior parte degli altri luoghi descritti sono occupati, devastati e saccheggiati dai terroristi o dagli occupanti turchi.  Domenica prossima sarà pubblicato un mio articolo dedicato al monastero di S. Simeone stilita.

Le foto pubblicate in questo articolo sono dell'autore, M.A.Carta

venerdì 10 giugno 2022

Il generale Bertolini sulla guerra in Ucraina intervistato da Angela Pellicciari

 

Riprendiamo dal sito della storica Angela Pellicciariinsegnante di Storia della Chiesa nei seminari Redemptoris Mater, l'interessante e utilissima video-intervista al generale Marco Bertolini. 

L' ex comandante della Folgore era già intervenuto sul quotidiano "La Verità" del 6 giugno collocando anche la Siria nella sua visione della guerra in Ucraina, di cui riportiamo alcuni passaggi:

 "La Russia è al centro di un enorme blocco. Il continente euroasiatico va dall’Atlantico al Pacifico e l’Europa, più che il centro, è un’escrescenza. Gli Stati Uniti invece sono una potenza navale e non continentale legata a Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda. Questi vedono nella Russia un competitor temibile. Ecco perché la contrapposizione non poteva venire meno con la fine del comunismo.... Le primavere arabe con Obama hanno infettato tutto il Nord Africa. Sono arrivati alla Siria,  snodo cruciale per spiegare la questione ucraina... La Siria è l’unico alleato russo nel Mediterraneo.  Nel 2016 avrebbe dovuto vincere la Clinton sostituendo Obama ...  Occhio alle date . Settembre 2013 , Obama minaccia di intervenire contro Assad accusato di aver usato i gas ad Aleppo. L'intervento non riesce perchè Putin fa uscire dalla base di Sabastopoli in Crimea una squadra navale che si piazza davanti alle coste siriane . Fu rispettata la prassi di sempre. USA e Russia , una di fronte all'altra, non potevano combattere.  Novembre 2013, tre mesi dopo, guarda caso esplode la rivolta di Maidan che costringe Putin nell'aprile 2014 a riprendersi la Crimea , altrimenti avrebbe perso il suo affaccio sul Mar Nero. Ecco perchè Siria e Ucraina sono legate fra loro.  Sono due punti strategici con cui la Russia si affaccia rispettivamente nel Mediterraneo e in Europa...”.

mercoledì 8 giugno 2022

9 giugno: memoria di Sant’Efrem, il Siro

È fra i più antichi scrittori di lingua siriaca e il più importante fra essi. Nacque a Nisibi, sentinella avanzata dell'impero romano nella Siria orientale, fra il 306 e il 307 (Treccani)
 

UDIENZA GENERALE DI BENEDETTO XVI

Cari fratelli e sorelle,

secondo l’opinione comune di oggi, il cristianesimo sarebbe una religione europea, che avrebbe poi esportato la cultura di questo Continente in altri Paesi. Ma la realtà è molto più complessa, poiché la radice della religione cristiana si trova nell’Antico Testamento e quindi a Gerusalemme e nel mondo semitico. Il cristianesimo si nutre sempre a questa radice dell’Antico Testamento. Anche la sua espansione nei primi secoli si è avuta sia verso occidente – verso il mondo greco-latino, dove ha poi ispirato la cultura europea – sia verso oriente, fino alla Persia, all’India, contribuendo così a suscitare una specifica cultura, in lingue semitiche, con una propria identità. Per mostrare questa pluriformità culturale dell’unica fede cristiana degli inizi, nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato di un rappresentante di questo altro cristianesimo, Afraate il saggio persiano, da noi quasi sconosciuto. Nella stessa linea vorrei parlare oggi di sant’Efrem Siro, nato a Nisibi attorno al 306 in una famiglia cristiana. Egli fu il più insigne rappresentante del cristianesimo di lingua siriaca e riuscì a conciliare in modo unico la vocazione del teologo e quella del poeta. Si formò e crebbe accanto a Giacomo, Vescovo di Nisibi (303-338), e insieme a lui fondò la scuola teologica della sua città. Ordinato diacono, visse intensamente la vita della locale comunità cristiana fino al 363, anno in cui Nisibi cadde nelle mani dei Persiani. Efrem allora emigrò a Edessa, dove proseguì la sua attività di predicatore. Morì in questa città l’anno 373, vittima del contagio contratto nella cura degli ammalati di peste. Non si sa con certezza se era monaco, ma in ogni caso è sicuro che è rimasto diacono per tutta la sua vita e che ha abbracciato la verginità e la povertà. Così appare nella specificità della sua espressione culturale la comune e fondamentale identità cristiana: la fede, la speranza – questa speranza che permette di vivere povero e casto nel mondo, ponendo ogni aspettativa nel Signore – e infine la carità, fino al dono di se stesso nella cura degli ammalati di peste.

Sant’Efrem ci ha lasciato una grande eredità teologica. La sua considerevole produzione si può raggruppare in quattro categorie: opere scritte in prosa ordinaria (le sue opere polemiche, oppure i commenti biblici); opere in prosa poetica; omelie in versi; infine gli inni, sicuramente l’opera più ampia di Efrem. Egli è un autore ricco e interessante per molti aspetti, ma specialmente sotto il profilo teologico. La specificità del suo lavoro è che in esso si incontrano teologia e poesia. Volendoci accostare alla sua dottrina, dobbiamo insistere fin dall’inizio su questo: sul fatto cioè che egli fa teologia in forma poetica. La poesia gli permette di approfondire la riflessione teologica attraverso paradossi e immagini. Nello stesso tempo la sua teologia diventa liturgia, diventa musica: egli era infatti un grande compositore, un musicista. Teologia, riflessione sulla fede, poesia, canto, lode di Dio vanno insieme; ed è proprio in questo carattere liturgico che nella teologia di Efrem appare con limpidezza la verità divina. Nella sua ricerca di Dio, nel suo fare teologia, egli segue il cammino del paradosso e del simbolo. Le immagini contrapposte sono da lui largamente privilegiate, perché gli servono per sottolineare il mistero di Dio.

Non posso adesso presentare molto di lui, anche perché la poesia è difficilmente traducibile, ma per dare almeno un’idea della sua teologia poetica vorrei citare in parte due inni. Innanzitutto, anche in vista del prossimo Avvento, vi propongo alcune splendide immagini tratte dagli Inni sulla natività di Cristo. Davanti alla Vergine Efrem manifesta con tono ispirato la sua meraviglia:

«Il Signore venne in lei
per farsi servo.
Il Verbo venne in lei
per tacere nel suo seno.
Il fulmine venne in lei
per non fare rumore alcuno.
Il Pastore venne in lei
ed ecco l’Agnello nato, che sommessamente piange.
Poiché il seno di Maria
ha capovolto i ruoli:
Colui che creò tutte le cose
ne è entrato in possesso, ma povero.
L’Altissimo venne in lei (Maria),
ma vi entrò umile.
Lo splendore venne in lei,
ma vestito con panni umili.
Colui che elargisce tutte le cose
conobbe la fame.
Colui che abbevera tutti
conobbe la sete.
Nudo e spogliato uscì da lei,
Egli che riveste (di bellezza) tutte le cose»
(Inno sulla Natività11, 6-8).

Per esprimere il mistero di Cristo, Efrem usa una grande diversità di temi, di espressioni, di immagini. In uno dei suoi inni, egli collega in modo efficace Adamo (nel paradiso) a Cristo (nell’Eucaristia):

«Fu chiudendo
con la spada del cherubino,
che fu chiuso
il cammino dell’albero della vita.
Ma per i popoli,
il Signore di quest’albero
si è dato come cibo
lui stesso nell’oblazione (eucaristica).
Gli alberi dell’Eden
furono dati come alimento
al primo Adamo.
Per noi, il giardiniere
del Giardino in persona
si è fatto alimento
per le nostre anime.
Infatti tutti noi eravamo usciti
dal Paradiso assieme con Adamo,
che lo lasciò indietro.
Adesso che la spada è stata tolta
laggiù (sulla croce) dalla lancia
noi possiamo ritornarvi»
(Inno 49,9-11).

Per parlare dell’Eucaristia, Efrem si serve di due immagini: la brace o il carbone ardente e la perla. Il tema della brace è preso dal profeta Isaia (cfr 6,6). E’ l’immagine del serafino, che prende la brace con le pinze, e semplicemente sfiora le labbra del profeta per purificarle; il cristiano, invece, tocca e consuma la Brace, che è Cristo stesso:

«Nel tuo pane si nasconde lo Spirito,
che non può essere consumato;
nel tuo vino c’è il fuoco, che non si può bere.
Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino:
ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra.
Il serafino non poteva avvicinare le sue dita alla brace,
che fu avvicinata soltanto alla bocca di Isaia;
né le dita l’hanno presa, né le labbra l’hanno inghiottita;
ma a noi il Signore ha concesso di fare ambedue cose.
Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori,
ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane.
Invece del fuoco che distrusse l’uomo,
abbiamo mangiato il fuoco nel pane
e siamo stati vivificati»
(Inno sulla fede10,8-10).

Ed ecco ancora un ultimo esempio degli inni di sant’Efrem, dove egli parla della perla quale simbolo della ricchezza e della bellezza della fede:

«Posi (la perla), fratelli miei, sul palmo della mia mano,
per poterla esaminare.
Mi misi ad osservarla dall’uno e dall’altro lato:
aveva un solo aspetto da tutti i lati.
(Così) è la ricerca del Figlio, imperscrutabile,
perché essa è tutta luce.
Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido,
che non diventa opaco;
e nella sua purezza,
il simbolo grande del corpo di nostro Signore,
che è puro.
Nella sua indivisibilità, io vidi la verità,
che è indivisibile»
(Inno sulla perla 1,2-3).

La figura di Efrem è ancora pienamente attuale per la vita delle varie Chiese cristiane. Lo scopriamo in primo luogo come teologo, che a partire dalla Sacra Scrittura riflette poeticamente sul mistero della redenzione dell’uomo operata da Cristo, Verbo di Dio incarnato. La sua è una riflessione teologica espressa con immagini e simboli presi dalla natura, dalla vita quotidiana e dalla Bibbia. Alla poesia e agli inni per la liturgia, Efrem conferisce un carattere didattico e catechetico; si tratta di inni teologici e insieme adatti per la recita o il canto liturgico. Efrem si serve di questi inni per diffondere, in occasione delle feste liturgiche, la dottrina della Chiesa. Nel tempo essi si sono rivelati un mezzo catechetico estremamente efficace per la comunità cristiana.

E’ importante la riflessione di Efrem sul tema di Dio creatore: niente nella creazione è isolato, e il mondo è, accanto alla Sacra Scrittura, una Bibbia di Dio. Usando in modo sbagliato la sua libertà, l’uomo capovolge l’ordine del cosmo. Per Efrem è rilevante il ruolo della donna. Il modo in cui egli ne parla è sempre ispirato a sensibilità e rispetto: la dimora di Gesù nel seno di Maria ha innalzato grandemente la dignità della donna. Per Efrem, come non c’è redenzione senza Gesù, così non c’è incarnazione senza Maria. Le dimensioni divine e umane del mistero della nostra redenzione si trovano già nei testi di Efrem; in modo poetico e con immagini fondamentalmente scritturistiche, egli anticipa lo sfondo teologico e in qualche modo lo stesso linguaggio delle grandi definizioni cristologiche dei Concili del V secolo.

Efrem, onorato dalla tradizione cristiana con il titolo di «cetra dello Spirito Santo», restò diacono della sua Chiesa per tutta la vita. Fu una scelta decisiva ed emblematica: egli fu diacono, cioè servitore, sia nel ministero liturgico, sia, più radicalmente, nell’amore a Cristo, da lui cantato in modo ineguagliabile, sia infine nella carità verso i fratelli, che introdusse con rara maestria nella conoscenza della divina Rivelazione.

https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20071128.html

domenica 29 maggio 2022

Damasco, ricostruzione e speculazione

 

L’Italia post bellica dovette misurarsi con i gravi danni prodotti dalla guerra e con difficoltà e problematiche di vario genere inerenti la ricostruzione, spesso purtroppo dovuti anche a maneggioni e speculatori che, per arricchirsi, contribuirono allo snaturamento del carattere artistico e architettonico e alla disgregazione delle comunità urbane. Lo hanno raccontato Rosi nel suo film ‘’Le mani sulla città’’,  Pasolini,  Calvino e tanti altri intellettuali.  

Oggi la Siria, sebbene la guerra non sia ancora terminata, si trova ad affrontare gli stessi problemi.
Nadia Khost, una grande intellettuale damascena impegnata da tempo nella denuncia dei pericoli relativi alla degradazione dei centri urbani siriani e in particolare della plurimillenaria città di Damasco, scrive spesso sull’argomento.  ‘’Spazio pubblico’’ è uno dei suoi testi. 
Nadia Khost, nata nel 1935, laureata in filosofia presso l’Università di Damasco è autrice di numerosi saggi sulla storia, sull’architettura e sulla conservazione del patrimonio artistico siriano.

Salima Francesca Karroum 

Spazio pubblico

di Nadia Khost

Traduzione di Salima Francesca Karroum 

La giornalista Maha Naameh ha raccontato per sommi capi l’indignazione generale contro l'occupazione dei parchi urbani (di Damasco, NdT), menzionando in particolare il ristorante che è stato ricavato dal Parco Tishreen e il Parco chiuso di al-Talaa. Io ho toccato con mano l’evidenza dell'attacco agli spazi pubblici della città. Ritagliano negozi privati dallo stadio Tishreen per costruire un grande albergo, empori e ristoranti ornati con insegne esterofile, che disdegnano l’alfabeto arabo persino davanti alla facciata del Ministero dell'Informazione, e sottraggono alle persone semplici il Caffè all’aperto al-'Hijaz per costruire un hotel per l'élite. Bisogna forse ricordare che gli orti e i giardini pubblici sono espressione della classe o della categoria che amministra la città? É per questo che le celebrazioni pubbliche si svolgono all’aperto nelle ricorrenze importanti, mentre le riunioni avvengono in piccole sale quando il popolo si disperde per tornare alle brighe quotidiane. I giardini si espandono quando l'obiettivo è la serenità delle persone e si atrofizzano quando la città è invasa dal settore immobiliare da un lato e dalle baraccopoli dall’altro. Percorrendola, deduciamo lo status sociale dei residenti. Tuttavia, il capitalismo è giunto alla conclusione che i produttori abbiano bisogno di comodità per migliorare la resa nel lavoro. Sono stati ampliati i grandi parchi, hanno escogitato nuove feste culturali, l'industria del turismo contempla anche la storia delle città e l’abbellimento dei musei, arrampicate in montagna, percorsi forestali, segnaletica per gli escursionisti, Comuni e organizzazioni impegnati in progetti per la depurazione dei fiumi. Nonostante la guerra alle ricchezze vitali avesse superato la teatralità delle commedie di "Molière", nel nostro Paese vigevano standard rigorosi per proteggere le foreste, i terreni agricoli, l'identità delle città e degli spazi pubblici. Ci chiediamo dunque: siamo nella fase di un attacco barbarico del denaro alle città e alle campagne? Perché la terra della Fiera Internazionale di Damasco è stata lasciata in rovina anche se il presidente Hafez al-Assad si era rifiutato di costruirci il Panorama di Tishreen e l'Ebla Hotel, affermando che apparteneva al popolo? Non vi è dubbio che ne apprezzava la storia, poiché lì si celebrò la prima ‘Aid al-Jalaa (Festa della Liberazione) e avvenne l’esercitazione della resistenza popolare durante la guerra di Suez. Lì si innalzò il canto di Fayrouz, i gruppi dei Paesi socialisti presentarono le loro opere artistiche e gli abitanti della città erano colmi di gioia. Perché è trascurata la Hadiqa al-Talaa (Giardino dei giovani esploratori), forse perché lo sguardo degli imprenditori immobiliari è rivolto verso quella direzione?

Le attività economiche e sociali sono state riavviate, investendo nell'agricoltura e nel settore alimentare della costa siriana con gli stabilimenti che producono succhi di frutta, chiusi per la guerra, con gli allevamenti di mucche e con altre attività industriali, ripristinando quindi con imprese di produzione e piani di sostegno le fabbriche distrutte e non realizzando hotel e ristoranti per ricchi.

Nel 2018, pubblicai il dramma "Zona sicura" di cui riporto la scena seguente: 


Scena ventisette. Due vecchi e altri uomini. Sullo sfondo, un’immagine di edifici distrutti. In un lato del palco i due vecchi si scaldano intorno al falò dentro una tanica. 

Primo vecchio - Pensavo che sarei morto di freddo, ma l'inverno è finito e sono ancora vivo. Durante la guerra, mia figlia ha sposato un uomo che non conoscevo. Quando le chiesi: ‘’Lo ami?’’ mi rispose: ‘’In guerra, chi pensa all'amore?! Lo sposerò per migliorare la nostra situazione. Gli uomini armati trafficano con lo zucchero e il riso, e spartiscono gli alberi che hanno abbattuto e che vendono come legna da ardere.’’ L'ammonii: ‘’Tuo fratello sta combattendo con l'esercito. Non importa quanto tema per mio genero, temo di più per mio figlio. Segui tuo marito! Questo è meglio per te e per me!’’ Lasciò la casa e non ho avuto più sue notizie. Non credetemi se dico che non sono triste per lei! La guerra finirà, ma finora né mio figlio è tornato né ho avuto notizie di mia figlia. In sette anni sono invecchiato più di settant'anni. In questi tempi, a chi chiedere dei dispersi? Dirò a testa alta: datemi notizie di mio figlio che ha difeso la patria, ma a chi dovrei dire: datemi notizie di mia figlia che ha sposato uno degli uomini armati che hanno distrutto il Paese?

Secondo vecchio - Se conosci le disgrazie altrui, la tua sventura ti sembrerà più lieve. Eravamo sulla strada io e mia moglie, i miei due figli e mia figlia. Cinque o sei uomini ci fecero scendere dall’automobile, ci svuotarono le tasche, violentarono mia moglie e mia figlia. I miei figli, che si precipitarono a liberarle, furono uccisi e uccisero il conducente. Gli uomini armati salirono sulle loro auto e restammo in una landa desolata. Mi sono gettato sui due ragazzi a piangere per loro. Mia moglie cercava di farmi alzare e mia figlia piangeva con noi. La disgrazia mi ha spezzato. Come se fossi morto. Ci era rimasto il figlio maggiore. Ci chiamò e mi lamentai della nostra tragedia. Lui impazzì e decise di uccidere sua sorella. Gli urlai: ‘’Pazzo, la uccidi perché non l'hanno uccisa loro? Non darci altre preoccupazioni! Se fossi giovane, mi arruolerei nell'esercito per combattere quei bastardi. Arruolati figlio al posto di tuo padre! Ecco come potrai vendicare tua sorella!

Primo vecchio - Capì le tue parole?

Secondo vecchio - Non so. Scappammo da casa. Dal giorno dell’accaduto, non ho più posato gli occhi su mia moglie o su mia figlia. Il mio cuore è rotto. Temo che questi bastardi si tolgano i loro abiti e vivano tra noi. La guerra finirà e perderanno i loro datori di lavoro. Se non si sono arruolati in un esercito fuori dal Paese, potremmo incontrarli tra noi.

Primo vecchio - Potrebbero diventare una banda di ladroni.


I due vecchi continuano a parlare sottovoce. La luce illumina un uomo. Alle sue spalle, altri tre uomini.  

Investitore (osservando gli edifici distrutti) - Tutto terreno da lavorare, ma non mi avventurerò nell’edilizia. Questa è una rete di cui fanno parte Governatorati e Municipi in cui risiedono i proprietari di case diventate ruderi che ai loro occhi sono un tesoro. Nell’edilizia, la tua mano è sempre dentro la tua tasca, mance, mazzette, dammi e ti do, passami una strada per qui, mettimi un giardino di là, alza questo edificio di dieci piani, abbassa quell'edificio di due piani.

Primo uomo - Noi ci assumiamo il fastidio degli accordi.

Secondo uomo - Alla fine a pagare quello che tu spendi in mance è il consumatore.

Investitore - Il ristorante è un progetto accettabile, nonostante abbia i suoi problemi e il Paese sia pieno di ristoranti.

Terzo uomo - Scegli un posto, del resto ci occupiamo noi. Hai un cuoco, non sporcarti le mani!

Investitore - Qui c'era un giardino. Questo è un posto conveniente. Aperto.

Primo uomo - Le mie informazioni dicono che gli alberi del giardino sono stati tagliati per riscaldarsi durante la guerra. Ma il giardino resta e il direttore dei parchi ha preparato alberelli da piantare.

Secondo uomo (come se stesse indicando l’ingresso del giardino) - Questo è un luogo adatto. Prendiamo la parte anteriore del giardino. Installiamo per i poveri visitatori una capanna che vende panini e falafel e costruiamo un ristorante per i ricchi, che dalle vetrate possono godersi il giardino senza soffrire il freddo e il caldo o bagnarsi con la pioggia.

Investitore (pensoso) - Sono d'accordo. Sistemate la parte anteriore del parco con una mancia adeguata.

Terzo uomo - Agli ordini, signore!

Primo uomo - Considera conclusa la faccenda, come se fosse nelle tue tasche.

Secondo uomo - Ho sottomano un architetto di qualità. Ti fa un ristorante occidentale se vuoi, oppure orientale come un palazzo da mille e una notte o parigino o cinese.

Investitore - Affare fatto, con la benedizione di Dio; ma non voglio casini e contestatori che gridano "Si è ingoiato il parco pubblico"!

Secondo uomo - Stai tranquillo. La stampa è occupata con altre faccende.

Investitore (si volta sorpreso) - Cosa ti preoccupa?

Terzo uomo - Da mesi non vedo un giornale.

Investitore - Siamo d'accordo, con la benedizione di Dio.


giovedì 26 maggio 2022

L’Ascensione del Signore nella tradizione bizantina

Ascensione del Signore. XVII secolo. Latakia (Siria)
 

Oggi il Signore cerca Adamo e lo fa sedere nella gloria

di P.Emmanuel Nin, Esarca Apostolico

          La festa dell’ascensione del Signore, celebrata il quarantesimo giorno dopo la sua risurrezione dai morti, è una delle grandi feste negli anni liturgici di tutte le Chiese cristiane di Oriente e di Occidente. Mi soffermo nella tradizione bizantina i cui testi liturgici sono una vera e propria professione di fede che ripercorre, possiamo dire, i grandi momenti della storia della salvezza, dall’incarnazione del Verbo eterno di Dio, alla sua nascita, alla sua passione e morte, e quindi alla sua risurrezione ed ascensione ai cieli dove ha portato, ha fatto salire, ha glorificato la nostra natura umana redenta e salvata, e da dove ha mandato, come dono suo e di suo Padre, lo Spirito Santo. Attraverso i testi della liturgia, la Chiesa ci fa gustare direi in un bel intreccio di teologia e di poesia, i grandi momenti della salvezza che avviene per noi in Cristo.

          Il primo tropario del vespro della festa introduce i principali aspetti che troveremo poi in tutti gli altri testi: “Il Signore è asceso ai cieli per mandare il Paraclito nel mondo. I cieli hanno preparato il suo trono, le nubi il carro su cui salire; stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro. Il Padre riceve colui che dall’eternità, nel suo seno dimora. Lo Spirito santo ordina a tutti i suoi angeli: Alzate, príncipi, le vostre porte. Genti tutte, battete le mani, perché Cristo è salito dove era prima.”. Vediamo come l’ascensione del Signore è collegata senza soluzione di continuità con il dono dello Spirito Santo, e tutti i tropari metteranno in evidenza questo collegamento tra ascensione del Signore e discesa, dono dello Spirito. In questo tropario troviamo anche un altro tema che appare ripetitivamente nei testi della festa, cioè la meraviglia, lo stupore degli angeli di fronte all’ascensione del Signore. In questo testo troviamo l’espressione: “…stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro…”, mentre in un altro testo troviamo la frase: “…restarono attoniti i cherubini, vedendo venire sulle nubi te, Dio, che siedi su di loro.” Lo stupore degli angeli diventa nei testi liturgici una vera e propria professione di fede nel Verbo di Dio incarnato, vero Dio e vero uomo, attraverso lo stupore degli angeli vedendo un uomo, la meraviglia dei cherubini vedendo Dio.

Questa stessa professione di fede la troviamo ancora bellamente cantata in un altro dei tropari: “Signore, compiuto il mistero della tua economia, hai preso con te i tuoi discepoli e sei salito sul Monte degli Ulivi: ed ecco, te ne sei andato oltre il firmamento del cielo. O tu che per me come me ti sei fatto povero, e sei asceso là, da dove mai ti eri allontanato, manda il tuo Spirito santissimo per illuminare le anime nostre”. Di questo testo ne sottolineo due aspetti che ritroviamo poi anche in altri della stessa festa. In primo luogo, la presenza dei discepoli all’ascensione del Signore, fatto che oltre ad essere un dato evangelico, è anche un dato ecclesiologico: i discepoli -e in alcuni tropari troviamo menzionata anche la Madre di Dio-, sono testimoni dell’ascensione e quindi della piena glorificazione e redenzione della nostra natura umana assunta pienamente da Cristo e da lui glorificata; infatti, la stessa icona dell’ascensione ci mostra la presenza della Madre di Dio, e dei Dodici con Paolo. In secondo luogo, l’immagine molto bella usata nel tropario: “…O tu che per me come me ti sei fatto povero…”, che riprende 2Cor 8,9 e Fil 2,6-7, per parlare dell’incarnazione. Si tratta di un tema che troviamo ancora in altri tropari, cioè il collegamento messo in parallelo tra incarnazione/discesa e glorificazione/ascensione: “Tu che, senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesù, hai vissuto sulla terra come uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando, compassionevole, la nostra natura caduta, l’hai fatta sedere con te accanto al Padre. Per questo le celesti schiere degli incorporei, sbigottite per il prodigio, estatiche stupivano e, prese da tremore, magnificavano il tuo amore per gli uomini. Con loro anche noi quaggiù sulla terra, glorificando la tua discesa fra noi e la tua dipartita da noi con l’ascensione, supplici diciamo: O tu che con la tua ascensione hai colmato di gioia infinita i discepoli e la Madre di Dio che ti ha partorito, per le loro preghiere concedi anche a noi la gioia dei tuoi eletti, nella tua grande misericordia”.

          Nei testi della festa troviamo un uso abbondante, con una interpretazione chiaramente cristologica e soteriologica, del salmo 23 collegato direttamente con l’ascensione del Signore: “Lo Spirito santo ordina a tutti i suoi angeli: Alzate, príncipi, le vostre porte. Genti tutte, battete le mani, perché Cristo è salito dove era prima… Mentre tu ascendevi, o Cristo, …le schiere celesti che ti vedevano, si gridavano l’un l’altra: Chi è costui? E rispondevano: È il forte, il potente, il potente in battaglia; costui è veramente il Re della gloria… Sollevate le porte celesti: ecco è giunto il Cristo, Re e Signore, rivestito di corpo terrestre”. Il dialogo del salmo lo troviamo possiamo dire scenificato tra lo Spirito Santo e gli angeli, oppure tra gli angeli tra di loro. Si tratta, in questa festa come in tante altre della tradizione bizantina, di un’esegesi cristologica applicata ai salmi.

          In uno dei tropari del mattutino della festa ci riassume in quattro versetti lo smarrimento di Adamo dopo il peccato, e l’incarnazione di Cristo con l’immagine del rivestirsi proprio della natura di Adamo, presentata quasi fosse l’icona del buon pastore che si carica sulle spalle, che assume la pecora smarrita e la fa sedere con lui nella gloria: “Dopo aver cercato Adamo che si era smarrito per l’inganno del serpente, o Cristo, di lui rivestito sei asceso al cielo e ti sei assiso alla destra del Padre, partecipe del suo trono, mentre a te inneggiavano gli angeli”.

          L’ascensione del Signore adempie, porta a compimento l’opera della nostra redenzione, perché lui, asceso in cielo, rimane sempre con noi ed accanto a noi. Romano il Melodo (+555) lo canta in uno dei tropari della festa: “Compiuta l’economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi”. 

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