Dopo tredici giorni di proteste popolari il primo ministro libanese Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni nelle mani del presidente Michel Aoun, che gli ha chiesto di restare in carica per la gestione degli affari correnti, aprendo così una crisi i cui sviluppi non sono al momento ipotizzabili ma che apre uno scenario preoccupante per le sorti del piccolo paese mediorientale e multiconfessionale, già dilaniato nel passato da una lunghissima guerra civile.
La scintilla che ha fatto scoppiare le proteste è stata l’istituzione di una tassa sulle comunicazioni a mezzo internet che sono molto utilizzate nel paese a causa dell’alto costo delle tariffe della telefonia mobile. Ma i motivi del malcontento popolare erano ben più ampi a partire dalla crisi economica che attanaglia il paese ormai da anni e non vede sbocchi, dalle infrastrutture carenti e malfunzionanti, e dall’impossibilità del governo a farvi fronte stante l’altissimo debito pubblico e la situazione internazionale, non ultima la guerra in Siria che ha riversato in Libano circa un milione di profughi su una popolazione residente di quattro milioni di abitanti. A tutto questo va aggiunta la corruzione endemica e, nell’immediato, i provvedimenti dell’amministrazione USA che, per strangolare economicamente Hezbollah, ha posto sotto embargo le banche libanesi legate al movimento politico sciita limitando i trasferimenti di dollari verso tutte le banche libanesi. Il presidente della Banca centrale del Libano, Riad Salameh, ha poi introdotto ulteriori restrizioni al prelievo dai conti in dollari il che in un paese come il Libano dove il dollaro circola esattamente come la lira libanese ha provocato un ulteriore malcontento.
Le proteste avevano una loro intrinseca ragione d’essere, cionondimeno hanno da subito mostrato l’esistenza di una regia alle loro spalle. Molti sono gli indizi di questa regia occulta. Anzitutto il fatto che i blocchi stradali e le barricate sono stati disposti strategicamente, per paralizzare il paese, da gruppi di dimostranti che si muovevano in motocicletta e in molti casi sono stati riconosciuti come sostenitori di Shamir Geagea. Questi blocchi e queste barricate non sono comparsi nelle aree del paese controllate da Amal o da Hezbollah anche se pure in queste aree ci sono state manifestazioni popolari imponenti.
Gli unici ministri ad aver aderito dopo solo quattro giorni di proteste, e prima che il governo offrisse risposte al malcontento popolare, alla richiesta di dimissioni sono stati i quattro rappresentanti delle Forze Libanesi nella compagine governativa.
Nel corso delle manifestazioni sono comparsi a più riprese simboli riconducibili a OTPOR, l’agenzia con cui i servizi USA addestrano i militanti con cui animare “Primavere arabe” o “Rivoluzioni colorate”.
Da ultimo, ma non ultimo come importanza, il modo con cui buona parte dei media libanesi e mediorientali, in testa l’Orient Le Jour, equivalente libanese del nostro “corrierone” e come quest’ultimo legato a “Project Syndicate” fondato da George Soros, ha dato copertura agli avvenimenti. I media, pur dando spazio agli slogan contro il caro vita e la corruzione, hanno tranquillamente ignorato il fatto che la rabbia popolare si sia indirizzata inizialmente contro il mondo bancario e in particolare contro il presidente della Banca centrale di cui si sono chieste a gran voce le dimissioni quando non l’immediata carcerazione. Di contro si è voluto indicare come bersaglio principale della protesta contro la corruzione il presidente del partito che rappresenta il 70% dei Maroniti, il CPL, Gebran Bassil. Questi oltre ad essere il genero del Presidente Aoun e quindi obbiettivo trasversale ideale per chi non può permettersi di attaccare un uomo della popolarità del presidente, è anche nel mirino del principe ereditario Saudita avendo contribuito, come ministro degli esteri libanese, alle pressioni internazionali che portarono al rilascio di Saad Hariri arrestato a Ryad nel 2017.
Appare chiaro comunque che in Libano, come contemporaneamente in Iraq, il duopolio Saudita\Israeliano spalleggiato dallo stato profondo statunitense sta cercando la rivincita per la sconfitta dell’operazione siriana. In un paese fragile come il Libano questo può portare al riaccendersi di contrapposizioni laceranti. Oggi più che mai è necessario, come del resto auspicato dalle componenti maggioritarie dell’attuale compagine governativa, Presidente Aoun in testa, che si arrivi ad una riforma della legge elettorale che esca dal confessionalismo puro fonte di corruzione e di instabilità. Allo stato la cosa appare impossibile tanto che alcuni commentatori ritengono che l’unica via di uscita sia una presa di potere dell’esercito che nomini una costituente. Perché è evidente che una costituente eletta con le pastoie confessionali difficilmente partorirebbe una costituzione che ne sia priva.
Quale che sia l’esito di questa nuova tragica vicenda invochiamo su questo paese simbolo di convivenza la protezione della Vergine di Harissa e di San Marun.
Massimo Granata
Fonte: http://www.appunti.ru/articolo.aspx?id=1111&type=home
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domenica 10 novembre 2019
venerdì 8 novembre 2019
Missione umanitaria d'emergenza tra gli sfollati del nord-est Siria
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mercoledì 6 novembre 2019
La Siria, i cristiani, il loro compito: testimonianza di padre Bahjat Karakash
Mercoledì 30 ottobre a Rimini si è tenuto un incontro pubblico dal titolo “Siria, la lunga Guerra (2011-2019), storie e testimonianze di Cristiani”.
Nelle parole di Padre Bahjat Karakach del Convento della Conversione di San Paolo a Damasco, il racconto di come vivono i cristiani, la loro missione nella società siriana.
In uno scenario apparentemente senza soluzioni il ruolo della minoranza cristiana può essere di decisiva importanza: “il numero dei cristiani è più che dimezzato, sicuramente, in Siria – ha dichiarato padre Karakach - ma possiamo dire sempre che, pur essendo piccola, resta una comunità molto impegnata nella società siriana, che cerca di portare i valori del Vangelo e i valori cristiani. Una comunità culturalmente formata, che non ha mai preso le armi, quindi è dialogante con tutti, è una garanzia anche per il futuro della Siria e per salvarla. Il nostro Presidente Bashar al-Assad ha detto che i cristiani qui non sono un annesso, qualcosa in più, ma sono le radici di questa società e i garanti del pluralismo in Siria: la comunità cristiana ha questa missione ed è per questo che deve rimanere qui. Io dico sempre: aiutateci a non a lasciare questo Paese per altri migliori e a rimanere qui per continuare la nostra missione”.
Padre Bahjat ha sviluppato una lucida lettura della situazione della guerra, con gli occhi di chi la sta subendo, mettendo a fuoco ruoli e compiti (disattesi) dei paesi occidentali. Ha soprattutto indicato il senso della presenza (minoritaria ma decisiva) dei cristiani in quelle terre dalla cultura antichissima.
Il Centro Culturale 'Il Portico del Vasaio' propone l’audio integrale dell’incontro.
In uno scenario apparentemente senza soluzioni il ruolo della minoranza cristiana può essere di decisiva importanza: “il numero dei cristiani è più che dimezzato, sicuramente, in Siria – ha dichiarato padre Karakach - ma possiamo dire sempre che, pur essendo piccola, resta una comunità molto impegnata nella società siriana, che cerca di portare i valori del Vangelo e i valori cristiani. Una comunità culturalmente formata, che non ha mai preso le armi, quindi è dialogante con tutti, è una garanzia anche per il futuro della Siria e per salvarla. Il nostro Presidente Bashar al-Assad ha detto che i cristiani qui non sono un annesso, qualcosa in più, ma sono le radici di questa società e i garanti del pluralismo in Siria: la comunità cristiana ha questa missione ed è per questo che deve rimanere qui. Io dico sempre: aiutateci a non a lasciare questo Paese per altri migliori e a rimanere qui per continuare la nostra missione”.
Padre Bahjat ha sviluppato una lucida lettura della situazione della guerra, con gli occhi di chi la sta subendo, mettendo a fuoco ruoli e compiti (disattesi) dei paesi occidentali. Ha soprattutto indicato il senso della presenza (minoritaria ma decisiva) dei cristiani in quelle terre dalla cultura antichissima.
Il Centro Culturale 'Il Portico del Vasaio' propone l’audio integrale dell’incontro.
Ecco il file audio, da ascoltare in diretta o scaricare:
http://blog.porticodelvasaio.org/wp-content/uploads/incontro-sulla-siria-2019.m4a
lunedì 4 novembre 2019
Mentre la Turchia invade la Siria nordorientale, i cristiani sono sull'orlo del precipizio.
Benchè l'articolo rifletta la posizione di gruppi cristiani americani che contestano la decisione del ritiro dell'appoggio USA ai Curdi, lo proponiamo ai lettori di OraproSiria perchè ne condividiamo la grave preoccupazione per il destino dei Cristiani Assiri davanti all'avanzata delle milizie pro-turche, di ottomana memoria... Minacciosamente, Erdogan aveva affermato che la 'zona di sicurezza' lungo il confine turco-siriano avrebbe potuto essere 'allargata', e di fatto l'attacco degli islamisti pro-turchi sulla enclave assira Tel Tamr situata a 50 km di profondità nel territorio siriano è andato ben oltre della 'zona di pattuglia di 10 km' o della 'zona sicura di 30 km' concordate con Mosca!
di
Sam Sweeney, National Review
traduzione Gb.P.
traduzione Gb.P.
Dopo
decenni di stallo a causa delle obiezioni della Turchia, la Camera
degli Stati Uniti ha riconosciuto il genocidio del popolo cristiano
Armeno da parte dell'Impero Ottomano durante la prima guerra
mondiale. Nel testo della risoluzione, si fa riferimento ad altre
popolazioni cristiane colpite dal genocidio: Greci, Assiri, Caldei,
Siriaci, Aramei e Maroniti. Ognuna è una comunità unica con una
storia unica. Anche se l'inchiostro si sta asciugando sulla
risoluzione, una di quelle comunità, nel nord-est della Siria,
affronta di nuovo una familiare minaccia esistenziale.
Nonostante
un presunto cessate il fuoco tra Stati Uniti e Turchia e,
separatamente, tra Turchia e Russia, continua l'attacco turco in
Siria. Formazioni sostenute dalla Turchia si stanno spostando in una
serie di villaggi, lungo il fiume Khabur, che avevano dato rifugio ai
cristiani Assiri fuggiti dalla Turchia oltre cento anni fa. I loro
discendenti sono a rischio di scomparsa. Il Consiglio Militare
Siriaco Assiro, composto da cristiani locali, ha difeso con successo
l'area dall'ultima incursione, ma quanto durerà senza il sostegno di
alleati? Prima del 2011, la popolazione assira del Khabur era diffusa
in oltre trenta villaggi che si estendevano da sud della città di
Ras al-Ayn a Hasakah, la capitale della provincia. Al centro dei
villaggi, la popolazione di Tel Tamr era prevalentemente curda e
araba ma con una significativa minoranza assira.
Gli
Assiri del Khabur sono quasi esclusivamente membri della Chiesa
Assira d'Oriente, che ha una storia affascinante, in gran parte
sconosciuta in Occidente. Sono discendenti dei cristiani dell'Impero
Persiano, risalenti ai primi giorni della chiesa. Quando pensiamo
alle origini del cristianesimo, tendiamo a sottolineare l'Impero
Romano e il suo clima politico. Mentre la fede si stava diffondendo
in tutto il Mediterraneo dell'antichità, tuttavia si stava
diffondendo anche nel territorio di uno dei principali rivali di
Roma, l'Impero Persiano all' est. La comunità cristiana parlava in
gran parte aramaico/siriaco e lo usava come lingua liturgica. Il loro
dialetto particolare della lingua madre di Gesù è ancora parlato
oggi in questi villaggi lungo il fiume Khabur. Tra una settimana,
potrebbe non esserlo più.
Nel
424, i cristiani dell'Impero Persiano si staccarono dal resto della
Chiesa, formando la Chiesa d'Oriente. Mandarono missionari verso est
e oggi la più grande concentrazione mondiale di cristiani della
tradizione siriaca vive nell'India meridionale. Iscrizioni bilingue
in siriaco e cinese risalgono al Medioevo. La tradizionale scrittura
mongola, un adattamento dell'alfabeto siriaco, è il frutto di uno
sforzo missionario cristiano che ha ricevuto scarsa attenzione qui in
Occidente.
Le
invasioni mongole del Medio Oriente nel 13 ° secolo furono
particolarmente dannose per le comunità cristiane sopravvissute a
secoli di dominio islamico. Le comunità si ridussero. Fino alla
Prima Guerra Mondiale, i cristiani Assiri erano concentrati in gran
parte nel sud-est della Turchia e in alcune parti dell'Iraq. Nel
1915, il collassante Impero Ottomano, dopo aver deciso che il
territorio che sarebbe diventato la Turchia doveva sbarazzarsi della
sua popolazione cristiana, iniziò a spianare la strada per uno stato
etnico turco, in una zona che un tempo era profondamente diversa. La
attuale oppressione della Turchia nei confronti della popolazione
Curda è un tentativo di finire ciò che era iniziato quando ha
eliminato i cristiani del Paese.
Dopo
il genocidio, che ha mietuto oltre 2 milioni di vite nelle varie
comunità colpite, i cristiani sono fuggiti. Molti sono finiti negli
Stati Uniti. Gli Assiri fuggirono in gran parte in Iraq, ma presto
incontrarono problemi anche lì. Sebbene alcuni abbiano combattuto
per l'esercito britannico che allora occupava il paese, la Gran
Bretagna non ha sostenuto il loro sogno di uno Stato Assiro
indipendente. Dopo il massacro degli Assiri a Simele, nel nord
dell'Iraq nel 1933, molti attraversarono il Tigri verso la Siria
controllata dai francesi, dove si stabilirono lungo il fiume Khabur.
Lì la comunità ha vissuto da allora, preservando il suo dialetto
aramaico.
I
cristiani Assiri in Siria sono una minoranza all'interno di una
minoranza. La maggior parte dei cristiani in Siria, che erano meno
del 10 per cento della popolazione del paese prima dell'attuale
guerra, sono etnicamente arabi. Anche la comunità Siriaca (cugini
degli Assiri) nel nord-est della Siria ha una popolazione più
numerosa. I circa 15.000 Assiri che vivevano lungo il fiume Khabur
prima del 2011 erano una delle maggiori concentrazioni di Assiri
rimaste nel mondo.
Il 23 febbraio 2015, dopo quasi un secolo di stabilità per gli Assiri,
i combattenti dell'ISIS scesero dalle montagne di Abdul Aziz a
sud-ovest, presero il controllo di circa la metà dei villaggi assiri
nella zona e rapirono circa 250 residenti. Tre furono uccisi in
video, per inviare il messaggio che la comunità doveva pagare
meglio, cosa che fece dopo aver raccolto denaro dagli Assiri di tutto
il mondo. Gli ostaggi furono restituiti tranne una ragazza. I
residenti pensano che a un emiro dell'ISIS sia piaciuta e l'abbia
tenuta per sè. Il suo destino è ancora sconosciuto. Nei villaggi
sotto il suo controllo, l'ISIS ha deliberatamente distrutto le chiese
e nelle case e attività commerciali ha dipinto graffiti che
esaltavano lo Stato islamico.
L'ISIS
ha detenuto la riva sud-occidentale del fiume Khabur per circa tre
mesi prima di essere respinto dall'YPG curdo (Unità di Difesa
Popolare) e dalle milizie cristiane locali. L'YPG e queste fazioni
cristiane alla fine si unirono formando le Forze Democratiche Siriane
(SDF), sostenute dalla potenza aerea americana. Tra i rapimenti, i
combattimenti e le minacce dell'ISIS, la maggior parte degli Assiri
fuggì. L'assistenza agli Assiri del Khabur arrivava principalmente
sotto forma di visti, verso nazioni come Australia, Svezia, Germania
e Stati Uniti. Entro il 2019, solo circa 700 o 800 persone erano
rimaste sparse in tutti i villaggi. Quelli che rimasero erano
determinati a ricostruire e continuare. Dopo quattro anni di relativa
stabilità, alcuni Assiri erano già tornati, almeno a tempo
parziale, a piantare e raccogliere i loro raccolti di grano e orzo
irrigati dal Khabur.
Negli
ultimi giorni, i militanti sostenuti dalla Turchia hanno iniziato a
invadere i villaggi assiri del Khabur. I residenti vedono la storia
ripetersi. Continuano a emergere video di islamisti sostenuti dalla
Turchia che commettono atrocità contro civili in vari posti. I
cristiani sono fuggiti dalle città di Tel Abyad e Ras al-Ayn mentre
i miliziani pro-turchi li prendevano d'assalto urlando Allahu akbar,
sostenuti dalla potenza militare turca. A Tel Abyad, i militanti
hanno filmato una scena all'interno della chiesa della città,
dicendo che era stata profanata mentre era sotto il controllo curdo
dell'YPG negli ultimi anni. I turchi sostengono che l'YPG ostentava
lì un'immagine di Abdullah Ocalan, il leader del PKK, il Partito dei
Lavoratori del Kurdistan, che ha sede in Turchia e Iraq. Penso che
tale affermazione sia altamente non plausibile, dopo aver visitato
una dozzina di chiese nella Siria nord-orientale nell'ultimo anno,
spesso senza preavviso. Con ogni probabilità, dopo che i Cristiani
Armeni hanno evacuato la città in previsione dei combattimenti, le
milizie sostenute dalla Turchia hanno profanato la chiesa e poi
l'hanno filmata per incolpare i loro nemici. Dal 2011 la comunità
cristiana nel nord-est della Siria si è divisa tra coloro che sono
rimasti aderenti al governo e quelli che hanno sostenuto l'SDF a
guida curda, ma tutti sono uniti nella loro opposizione all'invasione
turca e nella paura dei gruppi jihadisti siriani che la Turchia ha
usato come proxy nel conflitto.
Data
la storia degli ultimi cento anni, è ben comprensibile che i
cristiani della Siria nord-orientale si rifiutino di vivere sotto il
dominio turco. All'inizio del 2018, la Turchia ha conquistato l'area
in gran parte curda di Afrin nella Siria nordoccidentale. Una
comunità di ex musulmani che si era convertita al cristianesimo
evangelico è fuggita a Kobani, una città al confine settentrionale
della Siria con la Turchia. Le milizie sostenute dalla Turchia hanno
profanato i siti religiosi yazidi e saccheggiato i siti archeologici
e più recentemente una storica chiesa maronita.
Non
c'è motivo di pensare che i miliziani al soldo della Turchia
agiranno diversamente nel nord-est, dove ora stanno invadendo i
villaggi assiri del Khabur. Il riconoscimento del genocidio di un
secolo fa è importante, ma non farà nulla per impedire l'attuale
assalto, che potrebbe metter fine del tutto alla comunità assira del
Khabur. Le truppe americane avevano impedito un simile risultato fino
a quando non si sono allontanate dal confine e hanno permesso alla
Turchia di entrare. Il governo siriano e la Russia hanno dichiarato
che avrebbero fermato i turchi, ma i turchi continuano ad avanzare. I
cristiani hanno già lasciato Tel Abyad e Ras al-Ayn. Il Khabur
potrebbe essere il prossimo. Migliaia di altri cristiani, nonché
curdi, yazidi e altri in tutto il nord-est della Siria affrontano la
minaccia di violenza e distruzione, a meno che la Turchia non venga
fermata.
https://www.nationalreview.com/2019/10/turkey-invades-northeast-syria-christians-there-are-on-the-brink/
giovedì 31 ottobre 2019
Perché voglio costruire un monastero in Siria
"La storia di questo articolo inizia da un sapone al profumo d’oliva, con un arabesque raffinato intagliato sulla superficie che una giovane taxista mi fa scivolare tra le mani...."
di Giulia Cananzi
Messaggero di Sant'Antonio
di Giulia Cananzi
Messaggero di Sant'Antonio
Suor Marta Luisa Fagnani è una monaca trappista, superiora di Nostra Signora Fonte della Pace, un germoglio di monastero nel villaggio rurale di Azer, in provincia di Homs, in Siria, al confine con il Libano del Nord. Accanto due villaggi cristiani, tutt’intorno villaggi musulmani, sciiti e sunniti. Con lei una comunità di cinque sorelle. Non è facile mettersi in contatto. Iniziamo un «dialogo telematico» che procede a singhiozzo, quando può ritagliarsi un po’ di tempo e quando la tecnologia ci assiste. È la Siria di oggi – a tratti pacificata ma con i carboni ardenti sotto la cenere – che anche a distanza fa intuire le sue difficoltà. Cosa ci fanno un pugno di suore di clausura in territorio musulmano, in tempi di tregua precaria e di opposti estremismi? «Siamo qui dal 2005 – spiega suor Marta – dopo che il nostro Ordine si è sentito interpellato dalla morte dei sette fratelli, rapiti e uccisi a Tibhirine, in Algeria (beatificati l’8 dicembre scorso, ndr). Volevamo raccogliere la loro eredità, testimoniando la Regola di San Benedetto in un contesto in cui i cristiani sono minoranza». Quattordici anni, sufficienti a vivere in prima persona la parabola di dolore della Siria: «Al nostro arrivo era un Paese in piena crescita, con contraddizioni, ma anche ricchezze culturali, umane, spirituali. C’era tolleranza. Ricordo un anno in cui la Pasqua cristiana coincideva con la festa di Ramadan: una donna velata, vedendoci uscire dalla chiesa, ci fece gli auguri, che noi ricambiammo». Una capacità di stare insieme nella diversità che la guerra ha cercato di spezzare in ogni modo: «Ma non ci è mai riuscita del tutto – continua suor Marta – neppure nei momenti peggiori del conflitto. Ricordo il giorno in cui siamo rimaste bloccate sull’autostrada tra Aleppo e Homs. Si sparava dietro e di fronte a noi. Non sapevamo che fare. Un camionista si è avvicinato e ci ha detto di non preoccuparci. “Quando si ripartirà restate in mezzo a noi”. E, prima di andarsene, ci ha messo in grembo delle arance».
Una guerra manipolata
In Occidente non è mai stato facile capire il conflitto siriano, tra informazioni montate ad arte e un arcipelago d’interessi in gioco. «La guerra ti insegna che bene e male non stanno mai da una parte sola e che non puoi mai giudicare dalle apparenze. Per molto tempo ci siamo limitate ad ascoltare le persone. Poi, quando abbiamo capito che da occidentali avevamo più possibilità di essere prese in considerazione, qualche volta abbiamo parlato al posto loro». Dal piccolo villaggio di Azer la visione dei fatti era, invece, chiarissima: «La guerra è stata orchestrata a tavolino e strumentalizzata da poteri regionali e internazionali, per interessi economici e geopolitici. Si è portata via molto: tante vite, da una parte e dall’altra, le infrastrutture, il lavoro, lo studio, la sanità, le ricchezze culturali e storiche, rubate e vendute, attraverso la Turchia, a collezionisti privati e musei occidentali. Si è portata via il desiderio di cambiamento e di giustizia che animava i siriani, costringendoli a una radicalizzazione, estranea alla loro indole. Ma ciò che è peggio, s’è portata via l’innocenza dei bambini e la speranza nel futuro». Un’altra primavera araba sfiorita anzitempo, «perché a nessuno interessano i diritti dei popoli, altrimenti, invece di riempire la Siria di armi, si sarebbe lavorato per far crescere la coscienza, la cultura, la formazione. La stampa occidentale in quel frangente è stata un disastro, ha contribuito a schierare tutto e tutti. Ciò ha fatto perdere alla gente la fiducia nella tradizione di democrazia, giustizia e libertà dell’Occidente». La Chiesa siriana è stata accusata di essere compiacente verso il dittatore. Un’accusa che suor Marta non manda giù. «È vero che i cristiani sono protetti dallo Stato siriano, come del resto tutte le altre confessioni religiose. È vero anche che proteggere le minoranze è una strategia per acquisire consensi. So persino che spesso ci si chiede come possano i cristiani accettare di “vivere tranquilli” a prezzo di tacere su palesi ingiustizie. In proposito ho qualche risposta: la realtà di una situazione si cambia dal di dentro, non con le armi, ma facendo crescere le persone. Ma la domanda dirimente è un’altra: qual era l’alternativa al governo che i cristiani avrebbero dovuto sostenere? Sarebbe stato razionale sottomettersi a uno Stato islamico, in buona parte rifiutato dagli stessi musulmani? E, infine, siamo sicuri noi, Paesi occidentali, di essere liberi da ogni dittatura di pensiero e di azione?».
Dateci un monastero e capovolgeremo il mondo
È lucida, suor Marta, risoluta e senza paura. Per anni, con le consorelle, ha passato le notti in dormiveglia, attenta ai movimenti dei mercenari che entravano dal Libano. Ha vissuto lo sconforto al pensiero che i jihadisti stavano avanzando e che la Siria non ce l’avrebbe fatta. In un angolo della stanza, un bagaglio con l’essenziale: qualche vestito, le carte del monastero e il calice dell’eucarestia di Tibhirine. Da un lato la tensione e la fatica. Dall’altro l’esempio dei fratelli di Algeria. La guerra è stata un passaggio profondo alla radice della propria vocazione. «Alla fine siamo potute rimanere». In tutti questi anni, chicco dopo chicco, come le formiche, le monache di Azer hanno costruito piccoli trulli con le pietre del luogo per accogliere chiunque cercasse pace e hanno creato gli orti. Da allora la preghiera, il lavoro e l’accoglienza scandiscono la giornata secondo la Regola benedettina. La gente accorre sempre più numerosa dalle suore che hanno piantato un monastero di pietra e di spirito nel deserto della guerra, adornandolo con fiori ed erbe, davanti ai quali i giovani sposi cristiani e musulmani vengono a scattarsi le foto di nozze. Hanno aperto i laboratori di artigianato, da cui deriva il sapone ricevuto in dono dalla taxista. Hanno offerto lavoro alle vedove di guerra e condiviso il pane. «Oggi mi sento pienamente siriana» dice suor Marta, apprezzando il gusto di ogni piccolo segno: la mamma musulmana che le chiede una benedizione per la figlia, il panettiere con le forme contate che le offre il pane «perché quelle di Azer sono le nostre suore», il bambino di 4 anni che assiste rapito alla compieta e quasi piange di nostalgia quando finisce il Salve Regina. Lo spirito passa dove meno te ne accorgi, si nutre di piccoli gesti, di semplici parole.
Le suore vorrebbero costruire, ora che la situazione si va normalizzando, un vero monastero: «Mi dicono che siamo folli, in una tale situazione di bisogno materiale. Però se vivi l’esperienza monastica sai che là dove più nascono domande sulla vita e sulla morte, quello è il posto giusto per un monastero. Possiamo percepire in questo luogo, tra la nostra gente, una sete spirituale profonda. C’è bisogno di spazi per accogliere questa sete e ricostruire le persone».
Per suor Marta il problema non sono i soldi: «Le risorse non mancano nel mondo. Pensate a quanto denaro è stato speso qui per distruggere. Anche come Chiesa dobbiamo evitare una mentalità pauperistica, perché il vero problema è preoccuparci di crescere e far crescere nella consapevolezza, nella coscienza. I cristiani devono essere gente che pensa e che aiuta a pensare. E in questa scuola di pensiero e di vita, un monastero trova il suo giusto posto. Abbiamo chiesto al Signore un segno: se vorrà troveremo i soldi, altrimenti non costruiremo il monastero. Tuttavia qualcosa si sta già muovendo. Contrariamente a quanto si crede, qui la gente lo vuole. È un segno di speranza».
Chiunque abbia messo piede in Siria in questi anni voleva qualcosa per sé, risorse, potere, vendetta, sotto la copertura di un conflitto di religione. Il piccolo convento di pietre e di spirito è un ribaltamento, il segno che ancora tutto è possibile.
Il sacrificio dei fratelli di Tibhirine, la guerra, il dolore dei siriani hanno lasciato segni profondi nel cammino spirituale e umano di suor Marta e delle sue sorelle: «Ho imparato molto da questo popolo. Ora guardo le cose con più consapevolezza e allo stesso tempo con più speranza. Qui Dio non è una presenza astratta e privata, ma vive nella vita di tutti, cristiani e musulmani, così che nessuno è dissociato, ma in unità con ciò in cui crede. È una grazia».
Si può compiere la propria missione ovunque, seguendo la chiamata di Dio, eppure questi luoghi risuonano d’echi profondi: «Trovo unica la possibilità di camminare su una terra santa, dove ha mosso i primi passi il cristianesimo. Che effetto incredibile calpestare le strade romane dove Pietro e Paolo sono passati. Che emozione indescrivibile vedere i fiumi Tigri ed Eufrate stendersi sulla pianura che ha visto nascere la civiltà. C’è uno spessore di storia, profana e sacra, che ti mette in un orizzonte di un’ampiezza indicibile. E allo stesso tempo c’è la nostra “piccola storia” quotidiana, quella di una comunità di sei suore, che condivide questo tempo di prova e di speranza con la gente che ha attorno e che, per farlo, ha solo una strada: scegliere Cristo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Sempre».
https://messaggerosantantonio.it/content/perche-voglio-costruire-un-monastero-siria?
Chi volesse sostenere il Monastero trappista 'Nostra Signora della Pace' in Siria con una donazione, può offrire il suo aiuto tramite la ONLUS del Monastero di Valserena:
lunedì 28 ottobre 2019
Al Baghdadi non serve più
l'operazione contro lo Stato islamico a Barisha ha lasciato solo terra bruciata |
Famiglia Cristiana, 27/10/2109
Il suo vero e completo nome era Ibrahim Awed Ibrahim Ali al-Badri al-Samarra’i, in breve Ibrahim di Samarra. Era nato molte volte. La prima, quella per i genitori e per l’anagrafe, appunto a Samarra il 28 luglio del 1971. Ma era nato di nuovo nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, quando era entrato nei ranghi di Al Qaeda. Un’altra volta era nato nel dicembre del 2004, quando era stato rilasciato da Camp Bucca, un carcere americano per terroristi in Iraq, dopo una detenzione di pochi mesi. Altra nascita nel maggio del 2010, quando diventa il capo del ramo iracheno di Al Qaeda. Ultima e definitiva nascita il 29 giugno del 2014, allorché viene proclamato califfo dello Stato islamico con il nome di Abu Bakr al-Baghdadi. L’uomo dalle molte nascite è morto una volta sola e per sempre. Poche ore fa, nella provincia siriana di Idlib dove sono ormai radunati gli ultimi irriducibili dell’Isis e delle altre formazioni islamiste. E, per dirla con Donald Trump, il Presidente più splatter della storia, è morto “piangendo e urlando come un codardo”.
Più prosaicamente, Al Baghdadi ha cercato di sfuggire alle truppe speciali Usa piombategli addosso su otto elicotteri e, quando si è visto in trappola, si è fatto saltare insieme con tre dei suoi figli. È lo stesso Al Baghdadi che il 30 aprile di quest’anno era comparso in un video “stile Osama”, ambiente anonimo, kalashnikov al fianco, minacce per tutti. La sua seconda apparizione pubblica dopo quella di cinque anni prima, il sermone tenuto alla Grande Moschea di Mosul, l’esordio come califfo dello Stato dell’islam armato che avrebbe dovuto ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Cinque anni di riuscita latitanza, mentre i servizi segreti di mezzo mondo gli davano la caccia e lui era costretto a muoversi in ambienti dove il tradimento è all’ordine del giorno, erano quasi un record. Infatti scrissi allora che, con ogni evidenza, Al Baghdadi a qualcuno serviva ancora.
Bisogna scrivere oggi, quindi, che Al Baghdadi non serviva più. E che la sua morte manda a tutti noi una serie di messaggi di grande interesse. Il primo è questo: certifica che il pericolo di una rinascita dell’Isis, di cui si è molto favoleggiato sulla stampa occidentale per via della triste sorte dei curdi che ne tengono molti nelle prigioni da loro controllate nel Rojava e nel Nord-Est della Siria, era appunto una favola. È chiaro, potranno esserci azioni disperate e sanguinose da parte di qualche residuo aspirante martire. Ma Al Baghdadi non serve più, in questa fase, perché è proprio dell’Isis che non c’è più bisogno.
Il progetto (saudita, qatariota, turco, americano e chi più ne ha più ne metta) di inserire una zeppa di estremismo sunnita nella Mezzaluna Fertile dominata dagli sciiti, e in particolare tra Siria e Iraq, chiamandolo Califfato, è fallito. Ha quasi annichilito la Siria e ha tenuto centinaia di milioni di persone con il fiato sospeso ma è fallito. L’Isis può tornare a dormire. Rinascerà con altro nome e altri leader quando i suoi signori e padroni, pieni di miliardi, riterranno di averne bisogno, come hanno avuto in passato bisogno dei mujaheddin del popolo, di Al Qaeda, degli estremisti ceceni, di Al Nusra o di uno qualunque dei tanti movimenti che, tra Medio Oriente e Asia, parlano molto del Corano ma sono in realtà al servizio di precisi piani politici.
Nel Nord della Siria succedono cose che vanno ben oltre l’Isis e quei fanatici senz’arte nè parte che da tempo sono rimasti senza soldi e senza protettori. Per capirlo sarebbe bastato osservare la sequenza degli eventi che si sono scaricati sui curdi. Eccola, in estrema sintesi. Trump annuncia il ritiro delle truppe Usa. Poche ore dopo l’esercito turco già si muove contro le postazioni dei curdi. Trump rinforza con migliaia di uomini le basi americane in Arabia Saudita. L’Iran annuncia una serie di manovre militari al confine con la Turchia ma non se lo fila nessuno. I turchi avanzano in Siria verso Sud. Anche i siriani avanzano, verso Nord. Vladimir Putin e Recep Erdogan si incontrano e si accordano su una gestione comune dell’area.
Bisognerebbe essere ciechi e sordi per non capire che alla base di questi eventi c’è un accordo, più o meno tacito, tra Turchia, Usa e Russia, una sorta di grande compromesso per uscire da una situazione che non vedeva (e non avrebbe potuto vedere) né vinti né vincitori. Che cosa c’entra tutto questo con Al Baghdadi? Intanto è un po’ sospetto che il grande latitante sia stato pizzicato proprio in coda a quei fatti. La sua eliminazione, probabilmente, era uno dei capitoli di quel contratto tra potenze. Fa fare “bella figura” a tutti. Soprattutto a Donald Trump che, con il fragore di questa notizia, cancella tutto quel gran parlare di “tradimento dei curdi” che poteva diventare una macchia della sua campagna elettorale. E infatti, a eliminazione di Al Baghdadi avvenuta, Trump ha ringraziato i siriani, i turchi e soprattutto i russi che hanno messo a disposizione alcune basi e i curdi che hanno collaborato al raid. Ulteriore conferma che questi Paesi, in teoria avversari o nemici, si stanno parlando, e tanto. Succede qualcosa di nuovo, in quella parte di Medio Oriente. Prima o poi capiremo anche cosa.
domenica 27 ottobre 2019
Il diritto internazionale e le pretese USA sul petrolio che appartiene alla Siria
SputnikNews, 26 ottobre 2019
Al ministero della Difesa russo hanno commentato le dichiarazioni del numero uno del Pentagono sul mantenimento di un contingente militare americano in Siria orientale con l'obiettivo presunto di "impedire l'accesso dell'Isis ai giacimenti petroliferi".
L'intervento del portavoce ufficiale del ministero della Difesa russo, il generale Igor Konashenkov:
La dichiarazione del segretario della Difesa americano Mark Esper sulla necessità di mantenere una presenza militare americana in Siria orientale "per proteggere i giacimenti petroliferi" dai "terroristi dell'Isis*" non dovrebbe stupire.
Assolutamente tutti i giacimenti di idrocarburi e di altre risorse minerarie situate sul territorio siriano non appartengono ai terroristi dell'Isis, ancor meno ai "difensori degli americani contro i terroristi dell'Isis", ma esclusivamente allo Stato siriano.
Né nel diritto internazionale, né nella stessa legislazione americana, da nessuna parte, non può essere legittimo il compito per le truppe americane di proteggere e difendere i giacimenti di idrocarburi siriani dalla stessa Siria e dalla sua popolazione.
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
La situazione nella Repubblica Araba di Siria
Pertanto, quello che Washington sta facendo ora, si tratta di un sequestro e del controllo militarizzato dei giacimenti petroliferi nella Siria orientale, è semplicemente un'azione di brigantaggio internazionale di Stato.
La vera ragione di questa illegale attività americana in Siria è lontana dai proclamati ideali di Washington di libertà e dai suoi slogan contro il terrorismo.
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
Impianto estrattivo petrolifero Daman, la provincia Deir-ez-Zor, il 23 agosto del 2019
Secondo le immagini presentate dell'intelligence spaziale del ministero della Difesa russo, il petrolio siriano prima e dopo la sconfitta dei terroristi dell'Isis, a Zaevfrati, sotto la scorta sicura dell'esercito americano, è stato attivamente estratto e inviato in massa tramite autocisterne per la raffinazione fuori dalla Siria.
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
Le posizioni delle autocisterne, la provincia di al-Hasaka, il 5 settembre del 2019
Contemporaneamente Washington aveva annunciato ufficialmente sanzioni per la fornitura di prodotti petroliferi alla Siria, che si applicano non solo contro le società americane, ma anche contro soggetti ed aziende straniere.
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA
Le posizioni delle autocisterne, la provincia Deir-ez-Zor, l'8 settembre del 2019
Sotto la protezione dei militari americani e degli uomini delle compagnie militari private, le autocisterne provenienti dai giacimenti petroliferi della Siria orientale si occupavano del contrabbando di petrolio in altri Stati. In caso di attacco contro un convoglio simile, le forze speciali e l'aviazione militare statunitense venivano immediatamente attivate in sua difesa.
© FOTO : MINISTERO DELLA DIFESA RUSSO
Le posizioni delle autocisterne, la provincia Deir-ez-Zor, l'8 settembre del 2019
A proposito, la stessa produzione di petrolio viene realizzata utilizzando attrezzature fornite dalle principali società occidentali aggirando tutte le sanzioni americane.
Il contratto di esportazione di petrolio viene attuato dalla società controllata dagli americani Sadcab, creata sotto la cosiddetta "Amministrazione Autonoma orientale della Siria." Le entrate derivanti dal contrabbando di petrolio siriano attraverso le società di intermediazione finiscono sui conti delle compagnie militari private e dei servizi segreti statunitensi.
Dato che il costo di un barile di petrolio siriano di contrabbando è di 38 $, le entrate mensili di questa "impresa privata" delle forze speciali statunitensi superano i 30 milioni di dollari.
Per un flusso finanziario così continuo, fuori controllo e senza la tassazione americana, la leadership del Pentagono e di Langley sarà pronta a proteggere e difendere i giacimenti petroliferi in Siria dalle mitiche "cellule nascoste dell'Isis" per sempre.
(*Il gruppo terroristico dello Stato Islamico è vietato in Russia e molti altri paesi)
venerdì 25 ottobre 2019
Monsignor Giuseppe Nazzaro, nel ricordo dell'amico padre Carlo Cecchitelli
Come ogni anno nell'anniversario della morte (26 ottobre 2015), ci è caro rinnovare il ricordo dell'indimenticabile Padre Nazzaro, a cui OraproSiria è particolarmente legata da affetto filiale.
Il suo compagno Padre Carlo Cecchitelli ripercorre per noi con la freschezza di una lunga amicizia la vita e il servizio di Padre Giuseppe, in questa spontanea bella intervista di Benedetta Panchetti.
Padre Cecchitelli, potrebbe darci un
ricordo suo personale di Monsignor Nazzaro nell’arco della vostra
vita, da frati e durante tutti gli impegni della custodia a
Gerusalemme?
Sì, io ho conosciuto padre Nazzaro già
dagli anni 1952, diciamo che il primo incontro con lui è stato al
Collegio Serafico Internazionale di Quarto Miglio a Roma, allora io
ero lì già come postulante e lui invece è venuto come seminarista
piccolo, lo ricordo come un ragazzo un po’ mingherlino, da ragazzo
non era come fu poi Padre Custode più robusto! Un ragazzo di
campagna che veniva da San Potito Ultra, un paesino dell’avellinese,
un biondino con gli occhi azzurri, un ragazzo semplice, ordinato,
intelligente, estroverso, nonostante che noi fossimo tanti come i
giovani ragazzi che eravamo, lui era sempre di buona compagnia, di
buona amicizia, era ordinato, negli studi e anche nel guardaroba.
Insomma era un ragazzo molto educato e simpatico. Noi abbiamo subito
fatto amicizia, io sono di un anno più grande di lui, perché io
sono nato nel 36 e lui è nato nel 37, quindi appena di un anno. Però
fin da allora ci ha uniti una bella amicizia, ci volevamo bene e poi
ci aiutavamo l’uno l’altro, spesso stavamo insieme durante il
periodo della ricreazione, si parlava del più e del meno. Poi io
sono andato al noviziato a Betlemme e lui ha fatto il noviziato un
anno dopo di me sempre a Betlemme, sicché durante il noviziato io
ero studente di filosofia, lui era novizio, però eravamo nello
stesso convento.
Quindi vi frequentavate?
Stesso convento, la preghiera insieme,
i pasti insieme, qualche volta la ricreazione insieme e quindi
quell’amicizia è continuata con lui. Io ero studente di filosofia,
lui novizio, ricordo che era molto osservante dei regolamenti, degli
atti comuni, puntuale, era un po’ tipo tedesco!
Era un campano tedesco!
Eh sì, un tipo tedesco! E quindi
avevamo questi momenti in comune, poi lui ha finito il noviziato ed è
entrato in filosofia, perché allora erano 4 anni di filosofia, dopo
ci siamo ritrovati insieme nella stessa comunità dello studentato
filosofico, io ero un anno avanti però a filosofia siamo stati
almeno 3 anni insieme. E durante la filosofia lui seguiva le lezioni,
era intelligente, studioso, aveva molta propensione per le lingue. A
noi già dal noviziato insegnavano l’arabo, quindi lui lo ha
appreso bene. Aveva studiato i primi elementi già a Roma, poi
durante il noviziato avevamo pure delle lezioni di un professore di
Betlemme, lui aveva facilità di apprendimento, quindi l’arabo l’ha
imparato da subito. E poi, sempre durante lo studentato di filosofia,
ha imparato anche il francese perché avevamo un professore proprio
di lingua francese, quindi ha imparato anche bene il francese. Poi io
per la teologia mi sono trasferito al seminario di teologia a
Gerusalemme e lui mi ha seguito un anno dopo. Sempre così, un anno
dopo! In teologia pure mostrava un carattere serio, convinto della
vita religiosa, non era uno che si lamentava, seguiva l’andamento
comune della comunità, quindi studiava, aveva bei voti.
Sempre diligente!
Sì, intelligente e diligente. Aveva
bei voti, si comportava bene. Poi io l’ultimo anno di teologia l’ho
fatto a Roma alla Pontificia Università Antoniana per motivi di
salute e lui ha fatto tutti e quattro gli anni di teologia a
Gerusalemme, a San Salvatore. Io sono stato ordinato sacerdote a Roma
e lui è stato ordinato a Gerusalemme nel giugno. Dopo il sacerdozio
per forza siamo stati un po’ divisi, nel senso che io sono stato
mandato a studiare a Napoli, lettere e filosofia, lui fu mandato a
Roma, catechesi, pastorale, queste cose, per reggere una parrocchia.
Io rimasi 4 anni lì, lui mi pare 2-3 anni a Roma, e poi io tornai a
Gerusalemme come professore, invece a lui assegnarono subito la
parrocchia, perchè sapeva bene l’arabo, sapeva bene il francese,
sapeva bene l’italiano, quindi lo mandarono in Egitto, perché a
quel tempo la custodia di Terrasanta aveva molti conventi in Egitto.
Diversi anni dopo, il Ministro Generale ha voluto che le due entità
che erano in Egitto fossero una unità perché diceva “frati minori
quelli, frati minori questi, non ha senso che ci siano due unità,
facciamo una sola provincia religiosa”. E quindi la Custodia ha
ceduto tutto a quella che era la vice provincia di frati egiziani,
tutto, conventi, proprietà, tutto ciò che era della Custodia.
Questo è avvenuto quando io ero
Custode di Terrasanta e padre Nazzaro era il segretario della
Custodia e naturalmente anche mio segretario! Ci siamo ritrovati! Ma
dal periodo in cui ha finito i suoi studi universitari superiori,
fino a che è diventato segretario custodiale, lui praticamente è
vissuto in Egitto, nei vari conventi che avevamo: a Santa Caterina ad
Alessandria, san Giuseppe al Cairo, Bulacco al Cairo. E faceva bene,
faceva bene. Io che non ero in Egitto ma professore a Betlemme e poi
segretario custodiale a Gerusalemme e poi a Roma, sentivo ben parlare
di lui. Era guardiano, aveva un certa autorità, era uno dei frati
che avevano anche il senso del comando, anche di amministratore.
Sapeva fare, non era inesperto, sapeva condurre, rimase là finchè
non è stato mandato qui a Roma. Avevamo il Collegio Serafico
Internazionale e lui è stato nominato vice rettore di quel collegio,
era severo. I ragazzi filavano dritti! Mi pare che rimase 3 anni e
mentre lui era vicerettore a Roma io ero segretario custodiale a
Gerusalemme. E poi io sono andato a Roma come rettore e lui è
tornato in Egitto, come guardiano. E però ci sentivamo, ci
telefonavamo.
Quindi l’amicizia è andata
avanti nel Mediterraneo, su e giù!
Io sono stato 12 anni a Roma, lui nel
frattempo era sempre in Egitto e ci sentivamo. Poi capitava spesso
anche a Roma perché suo fratello con la mamma erano portinai del
Collegio Serafico, e quindi lui quando veniva in Italia per le
vacanze veniva al Collegio, perché oltre che amico mio aveva lì
anche la mamma e il fratello sposato. In seguito io, dopo 12 anni a
Roma, sono stato chiamato di nuovo come segretario custodiale e dopo
3 anni mi hanno nominato Custode di Terrasanta. A quel punto ho
cercato un segretario della Custodia perché il posto era vacante
essendo stato io il segretario, e siccome avevamo un certo feeling,
ho prima chiesto a un paio che hanno rifiutato e allora dissi al
Nazzaro che mi telefonava “vieni tu” ed è venuto lui.
Come segretario era serio, si faceva
rispettare, la segreteria funzionava, poi c’era questa amicizia,
con me Custode eravamo in buoni rapporti, ci aiutavamo a vicenda.
Dopo 6 anni in cui sono stato io il Custode e lui segretario, fu
eletto lui Custode. Quindi io sono stato Custode dall’86 al 92 e
lui è stato nominato Custode dal 92 al 98.
Il suo custodiato è stato buono: era
stimato, era benvoluto anche perché era di principi, le leggi, gli
statuti dovevano essere osservati, era uno che camminava dritto e
quindi mi è stato di aiuto durante il custodiato mio. E veramente
devo dire che insieme, come segretario e Custode avevamo spesso
colloqui, parlavamo di situazioni, del personale, di attività, di
opere, ci scambiavamo il parere e lui dava dei consigli, offriva
anche lui la sua opinione. E così abbiamo passato quei 6 anni
insieme. Poi una volta che io sono scaduto da Custode e lui è
diventato Custode, mi ha destinato qui a Napoli, al Commissariato di
Terrasanta, e quindi sono stato 6 anni io Commissario e lui Custode.
Nel triennio il Custode deve fare una
visita a tutti i conventi, e lui fece la visita anche qui a Napoli,
interrogando tutti i frati che c’erano. Allora eravamo nei
quartieri spagnoli, nel vecchio commissariato, e i frati si
lamentavano perché quel convento era diventato impossibile, nel
senso che quei quartieri brulicano di mafiosi della camorra, un
disastro! Specialmente i fratelli avevano difficoltà quando
tornavano il sabato dalla colletta e trovavano sempre le porte
sbarrate del garage, perché quelli mettevano le macchine ovunque.
Avevamo messo anche dei paletti di ferro per limitare, li hanno
tagliati di notte i paletti di ferro! Non c’era niente da fare. E
allora il Custode disse “è il tempo di cercare un nuovo
commissariato. Una nuova sede più confacente, dove non ci sono tutte
queste storie”. Così trovammo questa che era una villa abbandonata
da tempo e abbiamo comprato questo complesso, un ambiente vicino al
museo di Capodimonte, alla reggia, qui è gente del popolo, e siccome
confiniamo con la parrocchia, aiutiamo in parrocchia. Siamo stati
fortunati perché siamo riusciti a sistemarla come convento.
Quindi stato un po’ pragmatico
come decisione, nell’abbandonare l’altro convento.
Eh sì perché c’è una differenza
enorme. E così poi una volta che lui ha terminato di fare il
Custode, è stato destinato di nuovo in Egitto e dopo è stato
mandato in Siria. In Siria è stato mandato come parroco e superiore
a Damasco. Si intuiva che veniva mandato là in vista magari di
diventare vescovo della Siria e difatti, quando finì il vescovo
Bertolaso lui fu nominato vescovo della Siria.
La notizia fu ben accolta, lui
conosceva bene l’arabo, era un figlio della Custodia, fin da
ragazzo conosceva tutti gli ambienti arabi e divenne vescovo. Nel suo
incarico, fece sempre le visite alle nostre parrocchie della Siria,
dandosi da fare prima di tutto per coprire un po’ tutti i debiti
che purtroppo la diocesi aveva. La cosa più importante fu costruire
l’episcopio perchè prima i vescovi di Siria abitavano al convento
di san Francesco a Aleppo, nel centro della città. E invece mons
Nazzaro ha detto “il vescovo deve avere la sua sede, la sua
cattedrale”. E così si è dato da fare per cercare i fondi e ha
costruito la chiesa e tutto il resto. Ci ha messo le suore di madre
Teresa per i poveri, vicino c’era anche il monastero delle
Carmelitane. Ha lavorato, si è tanto dato da fare. Mi faceva vedere
i progetti, era entusiasta di questa cosa. Ha trovato a Roma buoni
appoggi dal prefetto per la Congregazione per le Chiese Orientali,
ha avuto i fondi e ha costruito.
Era un’esigenza impellente di
avere un episcopio finalmente funzionante?
Certamente! Io, quando ho terminato di
fare il Custode, in Siria non ci sono più andato o forse ci sono
andato qualche volta. Ma lui quando veniva a Roma mi metteva al
corrente di tutto quello che faceva. E dopo è venuta la guerra e
padre Giuseppe ha lottato molto. Lui certo aveva tutta l’esperienza,
sapeva cosa c’era sotto. I giornalisti scrivevano cose che non
corrispondevano alla realtà ma lui era al corrente di tutto. Quindi
sapeva chi aveva provocato la guerra, perché era venuta la guerra,
dal punto di vista politico aveva l’occhio giusto. E difatti in
seguito si è rivelato che aveva proprio ragione lui. Però poi a
causa della salute quando è arrivato all’età di 75 anni e c’è
la norma che i vescovi devono dare le dimissioni, a quel punto lui ha
chiesto di poter essere ospitato qui al Commissariato di Napoli e gli
è stato concesso. E gli ultimi anni li ha passati qui, poi la
malattia si è aggravata ed è poi è morto in ospedale. Però viveva
qui. Girava per l’Italia per fare le conferenze, poi tornava qua,
era qua la sua sede.
E qua con voi in quegli anni, lui è
venuto in pensione nel 2013 se non mi sbaglio, in quei due anni
parlavate della Siria, di quello che succedeva?
Sempre sempre sempre. Lui era molto
acuto nell’interpretare le situazioni, e capiva bene anche perché
sapeva tutti gli arretrati. E comunque era sempre interessato alla
Siria, anche quando stava qua. Sapeva tutto quello che succedeva.
Quindi oltre all’impegno che ci
metteva nel fare le conferenze, quando era qui la Siria era sempre il
suo pensiero?
Sì nel suo pensiero e nelle sue
preghiere e ci soffriva anche, perché lui è stato pastore di quei
cristiani. Ci soffriva anche per questo. Lo vedevo, perchè
l’amicizia nostra di sempre è continuata ancora, fino agli ultimi
anni. Volevo dire che durante il custodiato lui è stato uno dei
custodi migliori nel senso che ha tenuto fermo il punto. Lì il
Custode aveva a che fare con gli ortodossi, con il Patriarcato
latino, con il Nunzio Apostolico, con i consoli e gli ambasciatori
delle varie nazioni, insomma è Gerusalemme. Ma lui ha difeso sempre
la Custodia, amava la Custodia. La amava e ci teneva che le cose
andassero bene sia sotto l’aspetto religioso, disciplinare,
liturgico, sia sotto l’aspetto amministrativo perché insomma la
Custodia la guarda tutto il mondo, i pellegrini.. si trova a dover
amministrare. Ma lui teneva il punto ed era difensore dei diritti
della Custodia, non transigeva sullo status quo!
Sapeva difendere la Custodia su
tutto i piani, anche quello più politico, delicato?
Sì sì, per questo non era duro, era
sempre diplomatico ma fermo. La Custodia era la Custodia, e lui era
figlio della Custodia, perciò ci teneva. Durante il custodiato ha
fatto molte opere, era presente, visitava spesso i frati, quello che
prometteva lo faceva. Mi sembrava che fosse benvoluto. Ha mantenuta
alta la bandiera.
…. che è una bandiera
impegnativa!
Eh come no! Io son stato 6 anni pure
Custode, quelli più difficili anche politicamente. Il suo custodiato
è ricordato ancora, anche se sono passati 20 anni ma è ricordato.
Ha fatto tante cose. C’è da dire che è stato uno dei Custodi che
è passato alla storia. È giusto dargli la riconoscenza per quello
che ha fatto. Durante il suo custodiato e il suo episcopato lui è
stato molto attivo, molto dinamico e molto creativo. Ha accettato con
entusiasmo anche l’episcopato e si è dato da fare. Non è stato
un vescovo curiale che se ne sta lì in Curia. No, girava, faceva,
guardava, spronava. Era attivo, questi sono stati i periodi più
belli di padre Nazzaro. Prima che diventasse segretario custodiale
aveva occupato posti di responsabilità e di una certa gravità in
Egitto soprattutto. Lui già da fratino, lì al Collegio Serafico,
poi in teologia, filosofia, poi i primi anni di sacerdozio, gli studi
in Egitto, ha vissuto una vita attiva, anche come guardiano ci teneva
alla disciplina, alla preghiera, alle funzioni liturgiche. Sotto
questo aspetto è stato un buon guardiano. Quando è diventato
Custode conosceva i frati, conosceva tante cose.
Quindi conosceva davvero i paesi
principali del Medio-Oriente.
Sì sì, e poi anche situazioni
politiche, perché quando siamo arrivati noi negli anni 50 tutta la
Cisgiordania apparteneva alla Giordania, Gerusalemme vecchia
apparteneva alla Giordania. Noi stavamo nella vecchia città di
Gerusalemme e abbiamo visto tutte le evoluzioni, le guerre, tutto. E
io ho visto 5 guerre! Ma siamo sempre andati avanti. Anche in Egitto
ha fatto bene, ha fatto belle esperienze in Egitto, gli è servito.
Ma è servito anche a me, perché io andavo in Egitto come Custode
per le visite canoniche, ma lui conosceva tutti i frati, tutte le
situazioni, tutti i conventi, tutti i problemi. E quindi è stato
utile sotto questo aspetto. E poi ha conosciuto la Siria: prima
ancora di diventare vescovo, parroco a Damasco. E poi come vescovo,
naturalmente ha vissuto tutte le vicende della Siria, ha cercato di
fare del suo meglio. È stato bravo.
Padre Carlo, la ringraziamo di cuore!
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