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mercoledì 4 dicembre 2024

“In Siria gli islamisti avanzano”: la testimonianza di padre Firas Lutfi di Hama

fonte:  Agenzia DIRE 4 dicembre 2024 

Hama, la mia città natale, è il cuore della Siria; l’esercito si è posizionato in periferia, pronto a difenderla; noi preghiamo anche per le famiglie e i bambini che frequentano il Centro di cura francescano, aperto a tutti, cristiani e musulmani”. Con l’agenzia Dire parla padre Firas Lutfi, frate minore per molti anni ad Aleppo, ora guardiano e parroco di Damasco.

“TUTTI DEVONO PASSARE PER HAMA”

L’intervista, al telefono dalla capitale, si tiene mentre arrivano notizie su un’ulteriore avanzata dei ribelli di Hayat Tahrir al-Sham (Hts). “Una formazione islamista”, dice padre Lutfi, “che ha ottenuto finanziamento e addestramento da potenze straniere e che ora vuole prendere una città snodo nevralgico a livello nazionale”.
Hama si trova a circa 130 chilometri a sud di Aleppo, occupata dai ribelli venerdì scorso, e a circa 180 a nord di Damasco, base del governo del presidente Bashar Al Assad. “Tutti devono passare da questa città o dalla vicina Homs“, evidenzia padre Lutfi, “che vogliano raggiungere le regioni settentrionali o quelle meridionali, andare verso est o verso la costa”.
Il frate conosce tutte queste strade. Per 14 anni ha vissuto ad Aleppo, “prima, durante e dopo l’occupazione da parte dei jihadisti”, sottolinea, in riferimento al periodo della guerra civile divampata sull’onda delle “primavere arabe”: quello che va dall’ingresso dei ribelli, nel 2012, fino alla riconquista da parte delle forze governative, nel 2016.

PAURA PER IL CENTRO DI CURA FRANCESCANO DI HAMA, “SPAZIO PER TUTTI”

“Ora sono molto preoccupato” confida padre Lutfi. “Aleppo è caduta in meno di 24 ore, senza che ci fosse alcuna resistenza, nemmeno presso i commissariati di polizia o i centri dell’intelligence”.
Non c’è però solo la seconda città della Siria, al centro dei combattimenti sin dall’inizio del conflitto nel 2011. I ribelli avanzano ora verso sud. “Con i confratelli ad Hama abbiamo creato un Centro di cura francescano, che è gestito da una piccola parrocchia siro-cattolica” riferisce padre Lutfi. “E’ uno spazio aperto a tutti, cristiani e non, dove sono accolti i bambini e le famiglie che hanno subito traumi, anche psicologici, come nel caso dei minori costretti a imbracciare armi”.
L’idea ispiratrice era quella di aprirsi “un’oasi di pace” in un tempo che purtroppo è di guerra. “Il Centro ha una supervisione francescana da Aleppo e conta poi sul lavoro quotidiano di esperti e psicologi del posto, originari di Hama” sottolinea padre Lutfi. Che si sofferma sulle tante anime della comunità cristiana: “C’è una parrocchia siro-cattolica e poi due siro-ortodosse e greco-ortodosse, mentre nella vicina città di Homs restano i padri gesuiti”.

AD ALEPPO LA “RESISTENZA” DEI FRANCESCANI

C’è chi è restato anche ad Aleppo, occupata da Hayat Tahrir al-Sham. “I confratelli del Collegio francescano, quello colpito da un bombardamento nel fine-settimana, si chiamano Samhar Isaak e Bassam Zaza” riferisce padre Lutfi: “Ci sentiamo ogni giorno e stanno bene, anche se non hanno dimenticato lo shock del bombardamento, che la distrutto la loro abitazione e pure la panetteria, dove c’era tanta farina da distribuire ai poveri costretti a casa dal coprifuoco”.
Flashback di qualche anno fa. “Pure quando vivevo lì il Collegio fu centrato da un missile” ricorda padre Lutfi: “Perse la vita una donna anziana, René Salem, che aveva 94 anni e che da sei era nostra ospite”.

La violenza è tornata o forse non è mai finita. E in tanti sostengono che in Siria, con il ruolo della Russia in favore del governo o della Turchia a supporto di forze ribelli, si combatta in realtà parte di quella “guerra mondiale a pezzi” tante volte denunciata da papa Francesco. “Il Paese è ostaggio di un gioco politico internazionale” dice padre Lutfi. “Tutti, le potenze della regione ma non solo, vogliono prendere posizione”.
La tesi del francescano è che questa sia anche una guerra “per procura”, combattuta da “soci” di altri. “La Siria ha diviso il mondo e il mondo ha lacerato la Siria, proprio come accade per la Striscia di Gaza o per l’Ucraina” denuncia padre Lutfi. “Le milizie islamiste sono state addestrate e sostenute e oggi hanno a disposizione armi sofisticate”. 

Una deriva conseguenza anche di tanti errori, compresi quelli di Assad. “Nessun governo al mondo è angelico, democratico al cento per cento e immune agli sbagli” dice padre Lutfi. “Quando prese il potere il presidente promise di combattere la corruzione: oggi ci chiediamo se nel nome di questa lotta o magari nel nome della democrazia sia giusto armare milizie e distruggere il patrimonio della Siria, storicamente culla e ponte del dialogo tra Oriente e Occidente?”


di Robi Ronza - 4 dicembre 2024

.... Fino al 2011 la Siria era relativamente un Paese stabile, non povero e con assetto politico accettabile finché gli Stati Uniti di Obama colsero l’occasione dei moti della “primavera araba” per montare un’insurrezione che scoperchiò il vaso di Pandora di movimenti islamisti che il regime di Assad fino ad allora aveva tenuto a bada. Queste forze travolsero rapidamente le esigue élite urbane che avevano animato la “primavera araba” puntando ad abbattere il regime «laico» di Assad e ad installare al suo posto un regime appunto islamista. Fu l’inizio di una guerra più che mai disastrosa costata sin qui, secondo fonti dell’Onu, oltre 570 mila morti, 2 milioni e 800 mila feriti tra cui moli mutilati e invalidi, 6 milioni di rifugiati all’estero e un numero difficilmente calcolabile di milioni di sfollati interni su una popolazione che era di circa 19 milioni di abitanti.

Personalmente mi auguro che Obama e i suoi non si rendessero conto di che cosa stavano provocando quando, invece di aiutare le élite urbane a disagio ad aprire con pazienza spazi di democrazia nel loro Paese, le spinsero a far precipitare la situazione (e un discorso simile si può fare con riguardo alla Libia). In casi del genere ci si dovrebbe sempre domandare se mirando a far cadere un regime non si finisca per aprire la via a qualcosa di peggiore. Nel mondo arabo l’autoritarismo è la regola e la democrazia è l’eccezione. Quindi caduto un regime autoritario di regola ne sorge un altro, e non una democrazia.
In Siria Assad ha poi retto il colpo e il suo regime non è crollato, ma ciononostante non si è voluto porre termine alla guerra, ma solo per così dire congelarla; e adesso si è scongelata. All’occupazione islamista di Aleppo hanno fatto seguito i bombardamenti russi sulla città. Gli aerei provenienti dalla base che Mosca ha nei pressi di Latakia (l’antica Laodicea di cui si parla anche nell’Apocalisse) mirando agli occupanti islamisti hanno ovviamente colpito anche obiettivi civili.

Dal convento di Aleppo dei francescani della Custodia di Terra Santa, in parte distrutto dalle bombe russe, l’altro ieri padre Firas Lufti, parroco della comunità cattolica di rito latino, che molti ricorderanno per averlo incontrato e ascoltato negli anni scorsi in occasione di sue visite in Italia, ha inviato un drammatico appello:
«Per favore, parlate di noi. Raccontate della gente di Aleppo che dopo 14 anni di guerra, dopo il dramma del terremoto, in queste ore è sprofondata ancora nella paura. Per il mondo noi non esistiamo più, la Siria è stata dimenticata. Invece quella del nostro popolo è una ferita che continua a sanguinare. Ecco, siamo sotto il Golgota.
L’animo degli aleppini – che ha resistito a tanti anni di conflitto – è ora scosso da una nuova incertezza. Nel giro di pochissime ore, oltre ventimila miliziani islamisti, molti di loro stranieri, hanno preso possesso di Aleppo senza alcun tentativo di difesa da parte dell’esercito governativo siriano. Hanno occupato l’aeroporto, le stazioni di polizia, tutti i centri nevralgici. Così la gente, in preda al panico, ha iniziato a fuggire. Ben presto però le vie di accesso alla città, l’autostrada e la strada vecchia che usavamo anche durante le ore più difficili della guerra, sono state bloccate. Aleppo è ora una prigione dalla quale non si può più uscire. Né entrare.
Il popolo è confuso, stretto tra due versioni della storia: quella del Governo, che dice di aver lasciato fare per evitare un bagno di sangue tra i civili, e quella dei miliziani jihadisti, che hanno bussato alle case dei civili gridando di essere venuti a liberarli. «Ma da cosa? Ora la paura è quella di sprofondare invece in un altro orrore. Per quanto tempo ancora potremo suonare le campane? Per quanto tempo potremo mostrare il crocifisso o le donne girare senza velo? Questi miliziani saranno più tolleranti di quelli che hanno invaso la città qualche anno fa o hanno solo cambiato strategia? E quale futuro ci sarà per i bambini, per gli anziani, per i più fragili che sono rimasti?».

Anche questa volta la Chiesa è rimasta accanto al popolo attraverso i vescovi, i sacerdoti, i religiosi. Ieri i fedeli cristiani si sono radunati nella parrocchia francescana per la Messa.
Ieri abbiamo celebrato la prima domenica di Avvento, il tempo della speranza. E il pensiero è stato subito all’attesa che domina questa ora buia: quella della pace. Oggi i civili di Aleppo sono davvero chiamati a vivere sulla pelle l’attesa della salvezza. Una salvezza che non può venire dagli uomini o dalla geopolitica. Dio è l’unico che ci viene a salvare, carne della nostra carne, il Dio-con noi. Lui ha promesso che non ci lascerà mai e la speranza nasce solo da questa fede fiduciosa»...-
 «Pregate. La preghiera è l’unica arma che abbiamo, perché pregando anche i cuori più duri possono aprirsi ad atti di carità concreti, a gesti di generosità, trovando vie creative per la pace. Il nostro appello è per tutti i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di coscienza: non dimenticatevi della Siria».

Tutte le grandi potenze coinvolte nella nuova guerra in Siria

 di Gianandrea Gaiani

L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste dell’Esercito Nazionale Siriano (ENS, la formazione delle forze anti-governative), incluse quelle dell’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo note come Fronte al-Nusra e inserite nella rete di al-Qaeda (sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib) va inserita nel più ampio contesto conflittuale che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria e da Israele all’Iran.

I miliziani raccolti intorno al gruppo islamico Hayat Tahrir al-Sham (HTS) con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un'offensiva contro le forze governative conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l'aeroporto militare di Abu Dhuhur, tra Hama e Aleppo, anche se in città sembra siano ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane (FDS), impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori caduti nelle mani dei jihadisti.

L’offensiva ha visto coinvolte milizie jihadiste kirghize, uzbeke e di altre nazionalità inclusi i ceceni del gruppo salafita Ajnad al Kavkazgià impegnato nella guerra civile siriana, poi trasferito sul fronte ucraino ed ora rientrati nel nord della Siria. Proprio ai ceceni e forse agli uomini dell’intelligence militare ucraina (GUR) la cui presenza tra i ribelli siriani viene da tempo segnalata da fonti russe, ucraine, turche e curde, si devono alcune modalità tattiche adottate dai ribelli che hanno espanso il più possibile la loro presenza sul territorio utilizzando social e media per tentare di dimostrare la rapida conquista di diverse località.

Per questa operazione sono state di fatto riunite tutte le milizie dell’internazionale del jihad che costituirono la “legione straniera” di al-Qaeda e più tardi dello Stato Islamico, jihadisti che oggi con qualche imbarazzo vengono considerati combattenti legittimi o “ex terroristi” da turchi e occidentali.

Nulla di nuovo a ben guardare: durante la guerra civile che sconvolse la Siria tra il 2012 e il 2020 le milizie dello Stato Islamico ricevettero per un periodo ampio supporto dalla Turchia (dove l’ISIS vendeva il petrolio estratto clandestinamente in Siria e Iraq) mentre molte milizie “moderate” addestrate in territorio turco dai consiglieri militari di Stati Uniti e alcune nazioni europee appena attraversato il confine siriano confluivano nelle milizie qaediste o dell’Isis.

Per Bashar Assad l'offensiva dei ribelli jihadisti filo-turchi nel nord della Siria è un tentativo di "ridisegnare la mappa della regione" mentre il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan (ex capo dell’intelligence di Ankara), ha affermato che le attuali tensioni in Siria non sono dovute all'intervento di Paesi stranieri ma a questioni risalenti alla guerra civile iniziata nel 2011 che non sono ancora state risolte. «Damasco deve trovare un riconciliazione con l'opposizione» e ha sottolineato che la Turchia può aiutare a questo proposito.

Sul piano militare l’esercito siriano è stato costretto a ripiegare poiché indebolito dal ritiro delle milizie libanesi di Hezbollah che fornirono un ampio supporto alle forze di Damasco, ma erano state richiamate in Libano in vista del conflitto con Israele.

L’offensiva jihadista in Siria è stata scatenata, non certo casualmente, subito dopo il cessate il fuoco (più o meno stabile) tra Hezbollah e Israele. Del resto negli ultimi mesi le forze aeree israeliane si erano accanite sulle postazioni e i depositi di armi e munizioni di Hezbollah e dell’esercito siriano intorno alla città di Aleppo. Area distante dal confine israeliano a conferma che lo Stato ebraico ha volutamente indebolito le forze siriane e i suoi alleati in quella regione per favorire l’attacco jihadista.

Anche quella tra qaedisti e israeliani non è certo un’alleanza inedita dal momento che negli anni scorsi molti ribelli salafiti rimasti feriti negli scontri con le truppe siriane nel sud della Siria sono stati curati negli ospedali militari israeliani nelle alture del Golan, territorio siriano che Israele occupa dal 1967. Più sorprendente invece è l’intesa tra Israele e la Turchia, nazione che ha certamente chiuso un occhio sull’afflusso di armi e munizioni che hanno consentito ai miliziani jihadisti di scatenare l’offensiva, inclusi droni FPV e altri equipaggiamenti provenienti con ogni probabilità dagli arsenali ucraini.

Del resto Israele punta sulla caduta del regime di Bashar Assad per interrompere la continuità territoriale della cosiddetta “Mezzaluna sciita” che unisce Iran, Iraq, Siria e Libano consentendo l’alimentazione di Hezbollah. Allo stesso modo Recep Teyyp Erdogan sembra aver rinunciato a negoziare con Bashar Assad il rientro in Siria di almeno due milioni di profughi siriani da anni ospitati in Turchia, Vladimir Putin si era offerto di mediare la riappacificazione tra i due capi di governo ma la l’attacco jihadista certo non facilita colloqui.

Erdogan potrebbe quindi puntare sia a rimpatriare i profughi nelle aree sotto controllo dei miliziani sia a utilizzare questi territori per ampliare le operazioni militari contro le forze curde, schierate nel nord e nell’est della Siria che fanno parte del Fronte Democratico Siriano sostenuto dagli Stati Uniti i quali però sembrano avere interesse nel sostenere lo sviluppo dell’offensiva jihadista per colpire Assad e gli interessi russi.

Negli ultimi tempi l’amministrazione Biden ha ammorbidito le sue posizioni nei confronti della Turchia aprendo a forniture di armi fino a ieri negate, come i moderni aerei F-16 Viper o forse addirittura gli F-35, accettando quindi che Ankara schieri missili da difesa aerea russi S-400. Un ammorbidimento che Erdogan potrebbe aver compensato sostenendo senza troppo clamore l’offensiva jihadista in Siria o lasciando transitare armi dirette ad alimentarla.

Circa il ruolo degli Stati Uniti l’offensiva jihadista sembra rientrare tra i “colpi di coda” dell’Amministrazione Biden, intenzionata a lasciare in eredità il maggior numero possibile di crisi da gestire. Non è un caso che dopo la vittoria elettorale di Donald Trump sia stato dato il via libera agli ucraini per colpire il territorio russo con i missili balistici ATACMS, siano esplose rivolte anti-governative in Georgia e sia stata scatenata l’offensiva jihadista in Siria.

Peraltro in Siria gli Stati Uniti mantengono una presenza militare di occupazione, illegale per il diritto internazionale. Delle 4 aree che controllano quella meridionale di al-Tanf è a ridosso del confine giordano e permette di proteggere diversi gruppi di ribelli anti-Assad ma le altre tre nella Siria Orientale sono dislocate in prossimità di pozzi petroliferi. Truppe americane che hanno da anni il solo compito di impedire al governo siriano di sfruttare le risorse energetiche per la ricostruzione post-bellica.    

Vale la pena ricordare che nel suo primo mandato Trump si era espresso a favore del ritiro dei militari dalla Siria ma le pressioni del Pentagono bloccarono quell’iniziativa. Nei mesi scorsi però il governo iracheno ha stabilito che le truppe statunitensi e alleate schierate in Iraq dai tempi della guerra allo Stato Islamico dovranno ritirarsi entro settembre 2025. Senza le basi in Iraq non sarà più possibile mantenere quelle in Siria a meno che non vi sia un cambio di regime a Damasco.

Del resto la posizione assunta da Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania appare chiara pur celandosi dietro qualche ambiguità. «L'attuale escalation non fa che sottolineare l'urgente necessità di una soluzione politica del conflitto a guida siriana, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite», si legge in una dichiarazione congiunta rilasciata dal Dipartimento di Stato statunitense, che fa riferimento alla risoluzione Onu del 2015 che approva un processo di pace in Siria e cioè la fine del regime di Bashar Assad. 

Una posizione che sembra mutuata direttamente da quella di Washington, dove il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha detto che «i principali sostenitori del governo siriano - Iran, Russia ed Hezbollah - erano tutti distratti e indeboliti da conflitti ed eventi altrove».

L’Amministrazione Biden non sembra quindi aver perso l’occasione per contribuire alla destabilizzazione anche in questa regione colpendo così gli interessi di Russia e Iran, che però non restano a guardare.

Nella guerra che finora sembra aver provocato meno di 500 vittime le forze aeree russe basate a Latakya sono intervenute fin dalle prime ore dell’offensiva e del resto da settimane i velivoli Sukhoi russi colpivano le milizie jihadiste nella regione di Idlib, forse sospettando imminenti minacce.

Se l’obiettivo di Washington e Kiev era di indurre Mosca a ritirare truppe dall’Ucraina per inviarle in Siria, almeno per ora non sembra essere stato raggiunto. I russi stanno intensificando i raid aerei e forse invieranno altre unità di forze speciali ma la nuova guerra in Siria, al pari dell’attacco ucraino alla regione di Kursk, non sembrano costringere Mosca a ridurre la pressione offensiva sui fronti ucraini.

Il grosso dei rinforzi destinati ad affiancare le truppe siriane sta affluendo dall’Iraq dove le milizie scite di mobilitazione popolare (MUP) sostenute dall'Iran ma integrate nelle forze armate di Baghdad (e già protagoniste della guerra contro l’ISIS) stanno trasferendo molti combattenti oltre il confine, nell’ambito del trattato tra Damasco e Baghdad che impegna entrambi al mutuo soccorsi contro la minaccia terroristica.

Le truppe governative siriane hanno costruito una linea difensiva nel nord della provincia di Hama nel tentativo di bloccare lo slancio offensivo jihadista raccogliendo tutte le forze disponibili. Anche l’Iran potrebbe inviare reparti di pasdaran dopo il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha incontrato domenica a Damasco il presidente Assad annunciando il pieno sostegno di Teheran. Ma di certo la presenza di più truppe iraniane in Siria non sarà gradita a Israele. Anche per questo il conflitto riesploso in Siria rischia di rappresentare l’anello di congiunzione tra la guerra in Ucraina e quella tra Israele e gli alleati dell’Iran.  

Il Cremlino continua a sostenere Assad (anche se ieri si siano diffuse voci di un golpe militare a Damasco) come ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. «Naturalmente continuiamo a sostenere Bashar al Assad», ha detto Peskov: «Continuiamo i nostri contatti ai livelli appropriati e analizziamo la situazione. Sarà valutato quello che è necessario fare per stabilizzare la situazione».

https://lanuovabq.it/it/tutte-le-grandi-potenze-coinvolte-nella-nuova-guerra-in-siria

martedì 3 dicembre 2024

Jacques Mourad, Arcivescovo di Homs: Vogliono far finire la grande storia dei cristiani di Aleppo


Agenzia Fides 3/12/2024

“Siamo veramente stanchi. Siamo veramente sfiniti, e siamo anche finiti, in tutti i sensi”. Le parole di padre Jacques, come sempre, vibrano della sua fede e della sua storia.
Jacques Mourad, monaco della Comunità di Deir Mar Musa, dal 3 marzo 2023 è Arcivescovo siro cattolico di Homs, la città dove continuano a arrivare i profughi in fuga da Aleppo, tornata in mano ai gruppi armati dei “ribelli” jihadisti. Lui ad Aleppo c’è nato, li ha alcuni tra i ricordi e i compagni di destino più cari. Lui, figlio spirituale di padre Paolo Dall’Oglio (il gesuita romano, fondatore della Comunità di Deir Mar Musa, scomparso il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, a quel tempo capitale siriana di Daesh) nel maggio 2015 era stato sequestrato da un commando di jihadisti e aveva vissuto lunghi mesi di prigionia, dapprima in isolamento e poi insieme a più di 150 cristiani di Quaryatayn, presi anche loro in ostaggio nei territori allora conquistati da Daesh. 

Anche per questo padre Jacques sa cosa dice, quando ripete che “non possiamo sopportare tutta questa sofferenza delle genti che arrivano qui distrutte, dopo 25 ore di strada. Assetati, affamati, infreddoliti, senza più niente”. Il racconto che condivide con l'Agenzia Fides è come sempre una testimonianza di fede. Una fede che domanda “perché tutto questo, perché dobbiamo sopportare questa sofferenza”, E intanto si muove con sollecitudine operosa, verso le vite che fuggono da Aleppo di nuovo straziata.

“La situazione a Homs” racconta padre Jacques “è pericolosa. Tanti profughi di Aleppo, anche cristiani, sono arrivati da noi nei primi giorni dopo l’assalto dei gruppi armati, passando per la strada vecchia. Non eravamo pronti per tutto questo, abbiamo fatto subito un incontro tra i Vescovi e abbiamo organizzato due punti di accoglienza con l’aiuto dei Gesuiti e anche contando sulla disponibilità di sostegno espressa da Œuvre d’Orient e da Aiuto alla Chiesa che Soffre. Per aiutare i profughi serve cibo, materassi, coperte e diesel”.

La carità operosa si coniuga con un giudizio lucido e incalzante su quello che sta succedendo. “E’ una sofferenza immensa, i siriani sono sconvolti per quello che è stato fatto. Chi e come ha deciso di fare questa azione dei gruppi armati, quando tutti conosciamo quello che abbiamo visto per anni, quello che accade quando un gruppo armato entra in un paese, e subito la reazione del governo e dei russi è quella di bombardare le città e i villaggi occupati… Perché fanno questo strazio di Aleppo? Perché vogliono distruggere questa città storica, simbolica, importante per tutto il mondo? Perché il popolo siriano deve pagare ancora, dopo 14 anni di sofferenza, di miseria, di morte? Perché siamo così abbandonati in questo mondo, in questa ingiustizia insopportabile?”

L’Arcivescovo di Homs dei siri cattolici non ha remore a chiamare in causa “la responsabilità delle potenze straniere, America, Russia, Europa… Hanno tutti responsabilità diretta di quello che è successo a Aleppo”. Un “crimine” prosegue padre Jacques “che è un pericolo per tutta l’area, per Hama, per la regione di Jazira”, e dove la “responsabilità diretta non ricade solo sul regime o sui gruppi armati ribelli, ma sulla Comunità internazionale”, e sui “giochi politici che tutti stanno facendo in quest’area”.

Padre Jacques, che nella sua diocesi stava lavorando a rilanciare i corsi di catechismo dei bambini e dei ragazzi come punto reale di ripartenza per le comunità cristiane dopo gli anni di dolore della guerra, ha ben presente i sentimenti che ora cominciano a attraversare i cuori di tanti fratelli e sorelle nella fede:

“Dopo l’azione di questi gruppi armati” dice all’Agenzia Fides “i cristiani di Aleppo saranno convinti che non si può rimanere a Aleppo. Che per loro è finita. Che non hanno più una ragione per rimanere. Questa cosa che si sta facendo a Aleppo è per far finire la storia ricca, grande e unica dei cristiani di Aleppo”.

http://www.fides.org/it/news/75751-ASIA_SIRIA_Jacques_Mourad_Arcivescovo_di_Homs_Vogliono_far_finire_la_grande_storia_dei_cristiani_di_Aleppo