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giovedì 17 ottobre 2024

"Israele vuole spargere la paura tra i libanesi per minarne l’unità"

Sono 24 le vittime del raid israeliano del 14 ottobre scorso su una palazzina nel villaggio di Aitou, vicino a Zgharta, nel nord del Libano, un’area a maggioranza cristiana fino all’altro giorno risparmiata dalla furia dei combattimenti tra Israele ed Hezbollah

 SIR 17 ottobre

Le vittime sono salite a 24: l’ultima è una bambina ritrovata dentro un’auto. Era talmente piccola che all’inizio si pensava fosse una bambola e invece, ad una verifica, ci si è accorti che era un’altra vittima innocente”. Padre William Makari aggiorna al Sir il tragico bilancio dei morti del raid israeliano del 14 ottobre scorso su una palazzina nel villaggio di Aitou, vicino a Zgharta, nel nord del Libano, un’area a maggioranza cristiana fino all’altro giorno risparmiata dalla furia dei combattimenti tra Israele ed Hezbollah. 

Il nostro è un villaggio a larga maggioranza cristiana, che è stato tra i primi ad accogliere i rifugiati provenienti da sud, dal confine con Israele, dove si combatte con più violenza – racconta il sacerdote maronita, sposato e con due figli, che fa parte del Vicariato di Ehden-Zgharta .Tutti qui hanno aperto le porte delle proprie abitazioni, hanno dato in affitto le case, sono state messe a disposizione anche le scuole per dare rifugio a quante più persone possibile. La Chiesa locale ha fatto la sua parte mettendo a disposizione locali e ambienti necessari a immagazzinare aiuti e a preparare la consegna”.  

Padre Makari prova a ricostruire l’attacco israeliano del 14 ottobre: “la persona che aveva affittato la palazzina di tre piani, distrutta nel raid, poco prima era stato a visitare i rifugiati alloggiati, in larga parte tutti donne e bambini rimasti poi uccisi dalle bombe. Nei paraggi c’era anche una persona legata ad Hezbollah, non armata, che stava consegnando degli aiuti in denaro alle persone che erano all’interno. Quando questa persona è entrata nel palazzo è avvenuto l’attacco”. Secondo notizie raccolte dall’Agenzia Fides da fonti locali, l’edificio colpito era probabilmente già noto agli israeliani perché era stato affittato fin dal 2006, al tempo della precedente guerra tra Israele ed Hezbollah, alla televisione Al-Manar, legata al movimento sciita filo iraniano. Una conferma in tal senso arriva anche dal sacerdote maronita: “quella del 14 ottobre non è stata la prima volta che Israele attaccava il villaggio di Aitou. Era già accaduto nel 2006 ma quella volta l’obiettivo era una sede di comunicazione dove c’era una radio e altri media e non un palazzo abitato da rifugiati. Oggi bombardano le case e i palazzi”.

Paura per il futuro del Libano. Poi una riflessione che rivela anche una paura per il futuro: “seguendo i notiziari abbiamo modo di ascoltare quanto dicono tanti politici e ministri di Israele e le loro intenzioni di conquistare il territorio libanese per costruire altre colonie. Sentiamo dire che attaccano il Libano per la presenza di attivisti e leader di Hezbollah e che vogliono fare esplodere una guerra civile nel nostro Paese.
Israele crede che il terreno sia già pronto per le divisioni politiche interne al Libano. Il premier israeliano Bibi Netanyahu dice che vuole liberare il popolo libanese dai terroristi. Ma con un atto terroristico non si elimina il terrorismo”. 

La risposta a Israele. “La nostra risposta, come popolo, come Chiesa, a questi tentativi di sovvertire il Libano è la solidarietà e l’unità – ribadisce padre Makari – Le porte delle chiese sono aperte a tutti, non solo ai cristiani. 
Ci sono cristiani anche nel sud del Paese. La nostra è una popolazione abituata a convivere, nel rispetto delle convinzioni politiche e religiose di ciascuno. Siamo tutti libanesi e ci teniamo alla nostra sovranità”. Un modo chiaro per dire che il Libano non può essere solo cristiano o solo musulmano, perché non sarebbe il Libano. 

L’appello e il monito. Da qui l’appello alla comunità internazionale e un monito al mondo della politica libanese: “Chiediamo aiuto per tutto il Libano, e non solo per i cristiani. Siamo critici verso chiunque tenti di insidiare l’unità del Libano per interessi di parte” sottolinea il sacerdote, facendo sue posizioni analoghe espresse più volte in passato dal patriarca maronita, card. Boutros Bechara Rai. Nell’ultima loro assemblea, presieduta dallo stesso patriarca, i vescovi maroniti hanno insistito sull’urgente necessità che il Parlamento libanese “faccia il proprio dovere affinché, dopo una lunga attesa e tanta sofferenza, venga eletto un nuovo Presidente della Repubblica che completi il quadro delle istituzioni costituzionali”. Presidente la cui priorità sarà quella di mantenere unito il popolo libanese. 

https://www.agensir.it/mondo/2024/10/17/libano-testimonianza-dal-villaggio-cristiano-di-aitou-colpito-da-israele-p-makari-maronita-vogliono-far-esplodere-una-nuova-guerra-civile/ 

Le stesse considerazioni sono espresse da Mons. Alwan. Il vicario patriarcale maronita sull’attacco israeliano a un villaggio cristiano del nord libanese: “Un vero e proprio crimine di guerra” 
di Giuseppe Rusconi- Rossoporpora.org

Mons. Alwan, che cosa ha provato quando ha saputo della strage di Aitou?

Aitou è il mio villaggio natale e si trova in una zona del nord del Libano abitata solo da cristiani maroniti. Il palazzo abbattuto è vicino a casa mia. Quando è giunta la notizia mi sono spaventato, perché non immaginavo chi potesse essere ricercato da Israele in questo piccolo villaggio di montagna. Poi ho saputo che il villaggio ospitava persone musulmane sciite sfollate dal sud del Libano. Ho capito allora che tra loro ci doveva essere qualcuno nel mirino dell’esercito israeliano. L’intero palazzo è crollato sui suoi abitanti: bambini, donne, anziani… 24 i morti, 5 i feriti. Non erano tutti ricercati, solo uno o due di loro: gli altri abitanti sono stati sacrificati. E’ un comportamento ingiusto, illegale, vietato anche in guerra, perché non si può uccidere civili inermi. E’ un vero e proprio crimine di guerra. 

Perché Israele continua a colpire de facto tanti civili per distruggere Hezbollah?

I responsabili militari in Israele avevano dichiarato all’inizio che le loro operazioni militari erano limitate e miravano solo a combattere i miliziani di Hezbollah e a distruggere i loro depositi di armi. Però de facto accade che ogni volta che colpiscono un miliziano uccidono decine e centinaia di civili inermi nello stesso palazzo, spesso tra gli sfollati. Questi attacchi cosiddetti limitati in effetti si sono trasformati in una vera e propria guerra in territorio libanese. 

Come vede il futuro prossimo del Libano? Continuerà ad esistere come Stato indipendente?

Il Libano è una Repubblica indipendente, membro fondatore dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Deve rimanere tale anche se è un piccolo Paese indifeso. Questo deve essere il compito delle grandi potenze e dell’ONU. E’ la nostra speranza e noi lottiamo per concretizzarla. Oggi insistiamo sul cessate il fuoco, sull’elezione di un presidente della Repubblica (NdR: vacante dall’ottobre del 2022) e sull’applicazione della risoluzione n. 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I punti citati sono contenuti nel comunicato ufficiale dell’incontro di oggi, mercoledì 16 ottobre, tra capi religiosi diversi convenuti nel nostro Patriarcato maronita di Bkerké su invito del patriarca cardinale Béchara Boutros Raï.


Appello dei Capi religiosi: Dio doni ai libanesi la speranza di resistere alla catastrofe

FIDES, 16 ottobre 2024

La Patria libanese è ferita, “e la ferita sta infettando ognuno di noi”. Ha iniziato così il suo discorso il Patriarca maronita Béchara Boutros Raï, aprendo il Summit straordinario di capi religiosi convocato presso la Sede patriarcale di Bkerké per farsi carico insieme della “responsabilità spirituale, morale e nazionale”, davanti al perpetuarsi delle offensive militari messe in atto dalle forze armate israeliane in territorio libanese. 

Davanti al nuovo tempo di tribolazione attraversato dal Paese dei Cedri, le tessere del composito mosaico confessionale libanese hanno messo da parte diffidenze e controversie, ricompattandosi. Al molto partecipato summit di Bkerké (vedi foto) c’erano i rappresentanti di tutte le comunità di credenti presenti in Libano. Tra gli altri, hanno partecipato al Vertice spirituale il Patriarca greco ortodosso di Antiochia Yohanna X Yazigi, lo sheikh druso Akl Sami Abi el-Mona, il Mufti della Repubblica, il sunnita Abdul Latif Daryan, il vicepresidente del Consiglio superiore islamico sciita Ali el-Khatib, il Presidente del Consiglio Islamico Alawita Ali Qaddour, il Presidente del Sinodo Supremo della comunità evangelica in Libano e Siria, Joseph Kassab. L’incontro ha registrato anche la presenza dell’Arcivescovo Paolo Borgia, Nunzio apostolico in Libano.
I partecipanti al summit – riferisce il comunicato finale dell’incontro – hanno discusso a lungo “della barbara e brutale aggressione che Israele ha compiuto e sta compiendo contro il Libano, ignorando i trattati e le leggi internazionali, in particolare la Carta dei Diritti Umani, le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza dell'ONU e le loro risoluzioni, persistendo nell'uso della violenza, della distruzione, dell'uccisione, del genocidio e della demolizione di strutture, istituzioni e case sopra i loro abitanti, tutto questo dopo aver completamente distrutto Gaza, uccidendo bambini, donne e disabili, e distruggendo ospedali, moschee e chiese”. 

Capi e rappresentanti cristiani e musulmani hanno espresso insieme il loro cordoglio per “i martiri della Patria che hanno sacrificato la loro vita in difesa del Libano, e per le vittime innocenti tra i civili, le donne, i bambini, i disabili e gli anziani”, chiedendo “a Dio Onnipotente di guarire i feriti e di concedere loro una rapida guarigione”.
La “barbara aggressione israeliana contro il Libano” sottolinea il comunicato finale del summit “colpisce tutto il Libano e mina la dignità e l'orgoglio di tutti i libanesi, e che i libanesi”, che “grazie alla loro unità” sono in grado di “resistere e respingere il nemico”: le soluzioni per il Libano insistono i capi delle comunità di credenti libanesi “non possono e non devono essere altro che soluzioni nazionali inclusive fondate sull'adesione alla Costituzione libanese, all'Accordo di Taif, all'autorità unica dello Stato libanese, alla sua libera decisione e al suo ruolo responsabile nella protezione del Paese, alla sovranità nazionale”. 

La seconda parte del comunicato raccoglie in 9 punti richieste, esortazioni e auspici condivisi dai Capi religiosi libanesi, che per prima cosa invitano il “Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a riunirsi immediatamente e senza indugio per prendere la decisione di imporre il cessate il fuoco e fermare questo massacro umanitario perpetrato contro il Libano”.
I cittadini libanesi vengono invitati a mettere da parte scontri e controversie, perché questo “non è tempo di sterili discussioni” ma è il momento di accettare sacrifici e unirsi “per salvare il Libano”. Viene rinnovato l’appello a uscire dalla paralisi politico istituzionale favorendo “l'elezione immediata da parte della Camera dei Rappresentanti di un Presidente della Repubblica che goda della fiducia di tutti i libanesi”, nello “spirito del Patto nazionale”. Si richiama l’urgenza di rafforzare le capacità di difesa dell’esercito libanese.

Si rende grazie al popolo per la generosa accoglienza offerta agli sfollati, mentre si ringraziano “i Paesi arabi fratelli e i Paesi amici per le loro gentili iniziative nei confronti del Libano e per il loro sostegno politico e gli aiuti materiali, medici e alimentari”.

Si rende grazie anche ai contingenti militari delle Nazioni Unite (Unifil) che operano nel Libano meridionale “per gli sforzi e i sacrifici che stanno compiendo per salvaguardare i confini meridionali del Libano e la popolazione di quella regione”, apprezzando “il loro impegno a rimanere nelle loro posizioni nonostante le ingiustificate vessazioni e gli avvertimenti israeliani volti a cancellare tutti i testimoni dei brutali massacri che stanno commettendo contro la nostra Patria”. Infine, si ribadisce che “la questione centrale attorno alla quale ruotano la maggior parte delle questioni nella regione araba è la giusta causa palestinese”. 

Nella conclusione del loro messaggio condiviso, i Capi religiosi libanesi (cristiani, musulmani, drusi) chiedono insieme “a Dio, il Dio della pace, di benedirci con una pace giusta, duratura e globale e di renderci costruttori di pace”. Pregano l’Onnipotente “di proteggere il Libano e i libanesi da ogni male e di concedere al nostro popolo la capacità e la speranza di resistere a questa catastrofe”.

mercoledì 16 ottobre 2024

Verso il 20 ottobre: la canonizzazione dei Martiri di Damasco (2° parte)

Memoria di Sant'Ignazio di Antiochia , patrono della Siria

Il reliquiario dei Martiri di Damasco, un capolavoro di fede e arte



Engelbert Kolland: dal Tirolo alla Terra Santa: la storia di padre Engelbert (“Abuna Malak”)



Michael Kolland nacque a Ramsau il 21 settembre 1827. Narrano le fonti che fu lavorando come boscaiolo, a contatto con la natura, che ebbe l’opportunità crescere umanamente e maturare l’idea di diventare sacerdote. Nell’autunno del 1845 si decise di completare la sua formazione scolastica e riprendere gli studi interrotti,  al termine dei quali chiese e ottenne di essere accolto nel convento dei Frati Minori di Salisburgo per servire il Signore nell’Ordine di San Francesco di Assisi. Con la vestizione religiosa, il 19 agosto 1847, ricevette il nome di “Engelbert” che significa “splendente come un angelo”.

«I testimoni lo descrivono come sano, robusto, il volto ridente, i capelli biondi e gli occhi azzurri – racconta fra Ulise ZarzaVice postulatore e membro, insieme a fra Rodrigo Machado Soares e fra Narciso Klimas, del Comitato di preparazione delle celebrazioni per la canonizzazione dei Martiri  –. In convento si sentiva a casa ed era amato da tutti grazie al suo carattere affabile: ebbe una devozione particolare per la Madre di Dio».

A Bolzano si dedicò allo studio delle lingue straniere, italiano, francese, spagnolo, inglese e soprattutto arabo.  Dopo la professione solenne, il 22 novembre 1850, e l’ordinazione sacerdotale nel 1851, manifestò al Capitolo provinciale la disponibilità per diventare missionario in Terra Santa.

Accolta la sua richiesta, si imbarcò da Trieste alla volta di Giaffa: la traversata durò dal 27 marzo al 13 aprile 1855.

«Si conserva una lettera in cui racconta il suo viaggio  – continua fra Ulise Zarza – segnato da grandi sofferenze, in mare e in terra. La descrizione di quando giunse a Gerusalemme, dopo tante pene, rivela tuttavia la devozione e l’ardore che nutriva per la Terra Santa. Le sue parole sono state: “Scesi da cavallo. Il pensiero che in quella città il Signore, nostro Redentore, avesse versato il suo prezioso sangue anche per la mia salvezza, mi fece piangere ancora più forte. Alle tre del pomeriggio, nella stessa ora in cui morì Gesù Cristo, giravo a piedi per le vie di Gerusalemme. Laddove egli aveva portato la sua pesante croce, volli anch’io camminare a piedi”».

Come ogni missionario in Terra Santa, anche Fra Engelbert prestò servizio per un certo tempo presso il Santo Sepolcro. Nonostante la dura vita nel convento scriveva: “la vicinanza al monte Calvario e agli altri luoghi in cui Nostro Signore ha tanto sofferto rende tutto sopportabile”. Più tardi ricevette l’obbedienza del Custode di Terra Santa di andare a Damasco, nel convento di San Paolo. «Svolse con facilità gli incarichi che gli venivano affidati – sottolinea fra Ulise Zarza –  grazie alla conoscenza dell’arabo, che gli permise rapidamente di conquistare il cuore dei fedeli. Questi lo chiamavano “Padre Angelo” perchè il nome di Engelberto era troppo lungo: e perciò era stato abbreviato in Engel, che divenne poi Angel».

«Sarebbe dovuta essere una collocazione provvisoria – continua fra Ulise Zarza –, fino a quando ci fosse stato a disposizione un confratello spagnolo con una buona conoscenza dell’arabo.  Siccome, però, Fra Carmelo Bolta Bañuls, il parroco di Damasco, era ammalato, il giovane e dinamico Padre Engelbert assunse praticamente tutti gli incarichi pastorali. Fu sua l’iniziativa di costruire un campanile per la chiesa del convento, collocando una campana pesante circa mezzo quintale. Un gesto coraggioso, visto che il convento era situato proprio di fronte a una moschea».

Svolgeva questi incarichi quando subì il martirio.

Nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1860, un commando druso di persecutori entrò nel convento.

All’accostarsi del pericolo Fra Engelbert fuggì dal convento e si nascose in una casa vicina con un maronita chiamato Metri, che invece scampò alla carneficina.

«Fu questo maronita che ci racconta gli ultimi istanti della vita di Padre Angelo – spiega fra Ulise Zarza –. Il Padre, dopo essere stato scoperto, cessò da ogni difesa e rimase tranquillo:  esortato a farsi musulmano per avere salva la vita, rispose: «Non posso, perché sono cristiano e ministro di Gesù Cristo». La sua vita si concluse a colpi di ascia, a 33 anni. E sopraggiunse così il martirio “con quella calma e quella santa libertà che il Signore concede ai difensori della sua causa”».

Il  10 ottobre 1926  Fratel Engelbert fu beatificato insieme agli altri dieci martiri del monastero di San Paolo. Il 10 luglio è giorno di commemorazione nell'arcidiocesi di Salisburgo. Nel 1986 fu elevato a secondo  patrono parrocchiale  della sua parrocchia natale Zell am Ziller.

Preghiera al Beato Engelbert Kolland “Abouna Malak” – “Padre Angelo”
Pieno dello spirito di San Francesco,
sei andato in Terra Santa.
Lì hai proclamato la fede e hai versato il tuo sangue per Cristo.
Aiutami ad avere il mio cuore pieno di amore per Cristo
affinché io possa vivere nella potenza della fede
come testimone del Vangelo nella vita di ogni giorno.
Prega il Signore per noi, affinché nella sua chiesa
si risveglino molte vocazioni, al sacerdozio e alla vita religiosa
per l'istituzione di sante famiglie e
nella ricerca dell’amore cristiano nella vita di ogni giorno.
Accendi nei credenti attraverso la tua intercessione
lo spirito missionario che ti ha ispirato,
lo zelo per l'apostolato e la disponibilità generosa
alla devozione amorosa. Amen
Imprimatur dell'Arcivescovo Ordinario di Salisburgo, dall'8 aprile 2011


Nicanor Ascanio Soria: la vocazione al martirio



Tra gli undici martiri di Damasco che saranno canonizzati il prossimo 20 ottobre a Piazza San Pietro, figura fra Nicanor Ascanio Soria: appartenente alla Diocesi di Madrid, spese la maggior parte della sua vita in Spagna. Il Signore lo chiamò al martirio a solo un anno dal suo arrivo in Terra Santa.

La desamortización

Nicanor nacque nel 1814 in un villaggio vicino Madrid, a Villarejo de Salvanés. Educato in un ambiente di fede molto conservatore, a 16 anni vestì l’abito francescano nel convento di Santa Maria de La Salceda, in Alcarria, nella Provincia religiosa dei Frati Minori Osservanti di Castiglia.

"Il suo percorso di vita conventuale fu interrotto dalla esclaustrazione imposta dalle leggi di 'desamortización' di Mendizábal nel 1835 – racconta fra Ulise Zarza, vice postulatore e membro del Comitato di preparazione delle celebrazioni per la canonizzazione dei Martiri  –, ovvero il complesso fenomeno di azioni legali contro la Chiesa, con conseguenze disastrose per gli ordini religiosi, molti dei quali vennero soppressi.  Ecco perché fra Nicanor fu ordinato sacerdote nel clero diocesano".

La vocazione al martirio

La disponibilità al martirio fu una nota costante della sua spiritualità.

Durante la sua lunga attività di parroco, fu nominato cappellano del monastero delle Monache concezioniste di Aranjuez. Qui Nicanor ebbe l’opportunità di incontrare nel 1858 la Serva di Dio Suor Maria de los Dolores y Patrocinio, favorita da doni mistici e nota per aver realizzato la fondazione di vari monasteri con un certo spirito di riforma.

Raccontano le fonti – spiega fra Ulise – che mentre un giorno celebrava la messa all'altare della Beata Vergine d'Olvido, della cui Sacra Immagine Miracolosa era devotissimo, sentì improvvisamente vivo l’impulso ad andare in Terra Santa per dare lì la sua vita. Per sapere se quella era davvero una vocazione autentica, andò a visitare la venerata madre Patrocinio: la risposta fu che 'la sua ispirazione veniva dal Cielo'".

La "conducta de los mártires"

Quando migliorarono le condizioni politiche del paese, fra Nicanor chiese al Commissario della Obra Pía di Madrid di potersi incorporare al Collegio di Priego - dove venivano accolte le vocazioni missionarie per la Terra Santa. Il 25 gennaio 1859 salpò da Valencia con il vapore Barcino, con 14 religiosi tra cui i tre confratelli Nicolás Maria Alberca, Pedro Soler e Juan Jacob Fernández, anch’essi tra i martiri di Damasco. L'imbarcazione, che fu definita “conducta de los mártires”, ovvero “condotta dei martiri”, raggiunse Giaffa il 19 febbraio.

«Pronto a tutto, anche a morire»

In Terra Santa, Fra Nicanor venne destinato al convento di Damasco per studiare l’arabo.

Pochi giorni prima di sacrificare la propria vita il Custode di Terra Santa gli notificava una nuova obbedienza: lasciare Damasco per servire con la sua opera nella parrocchia di San Salvatore a Gerusalemme. Stava per assumere il suo incarico quando in Siria cominciarono i moti contro i cristiani e scoppiò la persecuzione a Damasco.

"La sua 'disponibilità' al martirio ‒ continua fra Ulise ‒ è nota anche da una lettera indirizzata al Custode di Terra Santa, perché decidesse egli stesso per lui. La sua disposizione d’animo era infatti quella di obbedire prontamente al superiore maggiore, essendo pronto a tutto, anche a morire. La risposta del Padre Custode lo invitava ad attenersi a quanto stabilito dal suo superiore diretto, ma a tenersi pronto a partire da Damasco una volta che le condizioni lo avrebbero permesso".

Fra Nicanor si trattenne dunque a Damasco, dove trovò compimento il suo desiderio di martirio, all’età di 46 anni.  "Le fonti e i testimoni raccontano che la notte del 9 luglio 1860 ‒ racconta fra Ulise ‒  quando i persecutori entrarono nel convento gli chiesero di abbracciare la religione musulmana, e lui rispose con fermezza: 'No! Sono cristiano! Se volete potete uccidermi'. Un aguzzino gli conficcò un pugnale al collo e così diede testimonianza della sua fede cristiana".

Ciò avvenne nel corridoio superiore meridionale del convento, dove Dio gli donò la corona del martirio, insieme al suo superiore e ad altri sei religiosi francescani.


Nicolás María Alberca Torres

Sacerdote del Collegio Missionario di Priego (Cuenca), dei Minori Osservanti (1830-1860)

Nato nel 1830 ad Aguilar de la Frontera, Córdoba (Spagna).

Già religioso tra i Fratelli dell’ospedale Jesús Nazareno di Cordoba, fu accolto tra i Frati Minori nel 1856 e ordinato sacerdote nel 1858.

Chiamato alla vita missionaria, giunse in Terra Santa nel 1859 e fu destinato al convento di Damasco per l’apprendimento della lingua araba.


Pedro Nolasco Soler Méndez

Sacerdote del Collegio Missionario di Priego (Cuenca), dei Minori Osservanti (1827-1860)


Nato nel 1827 a Lorca, Murcia (Spagna).

Dopo alcune esperienze lavorative, nel 1856, a 29 anni, fu accolto tra i Frati Minori e fu ordinato sacerdote nel 1857.

L’anno successivo inoltrò richiesta per la missione della Custodia di Terra Santa, dove giunse il 20 febbraio 1859. Destinato al convento di San Paolo a Damasco, vi trascorse poco più di un anno prima di subire il martirio.



Francisco Pinazo Peñalver

Religioso professo della Provincia di San Francesco di Valencia, dei Minori Osservanti (1802-1860)

Nato nel 1802 nel villaggio di El Chopo di Alpuente, Valencia (Spagna).

Fu ammesso al noviziato dei Frati Minori nel 1831. Come fratello laico svolse l’ufficio di sagrestano fino al 1835, anno della soppressione degli ordini religiosi in Spagna. Per poter riabbracciare la vita comunitaria optò per la Custodia di Terra Santa, dove giunse nell’ottobre 1843.

Per circa 17 anni esercitò le mansioni di cuoco e di sarto in vari conventi. Nel convento di Damasco, al momento del martirio fungeva da sacrestano.



Juan Jacob Fernández

Religioso professo della Provincia di San Giacomo di Compostella, dei Minori Osservanti (1808-1860)

Nato nel 1808 nella località di Moire, Ourense (Spagna).

Nel 1831 entrò come fratello laico tra i Frati Minori.

La soppressione degli ordini religiosi, nel 1835, interruppe per alcuni anni la sua esperienza di vita conventuale. Nel 1858 chiese di essere associato alla Custodia Terra Santa. Nel 1859 prese stanza nel convento di Damasco in qualità di cuoco.


https://www.custodia.org/it/verso-il-20-ottobre-la-canonizzazione-dei-martiri-di-damasco


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martedì 15 ottobre 2024

Verso il 20 ottobre: la canonizzazione dei Martiri di Damasco (1° parte)

I santi martiri di Damasco – otto frati francescani della Custodia di Terra Santa e tre laici maroniti - sono rappresentati come un’unica fraternità riunita intorno all’Eucaristia.  In basso, ripresa fedelmente da antiche fotografie ottocentesche, è riprodotta la città di Damasco, luogo del martirio e comunità su cui i santi martiri esercitano la loro speciale protezione. A destra, accanto a Ruiz, sono rappresentati san Carmelo Bolta e, in ginocchio san Pedro Soler, uno dei frati più giovani della comunità. Il primo era vicario della comunità e mostra la croce di Gerusalemme, simbolo della della Custodia di Terra Santa. A sinistra della composizione si trovano i tre santi fratelli Massabki: san Francesco mostra lo stemma del patriarcato cattolico Maronita, san Mooti tiene un rampo di palma, simbolo del martirio, e san Raffele, il più giovane dei tre, tiene le mani giunte, a ricordo del suo amore alla preghiera. A corona di queste figure, sono rappresentati gli altri cinque santi martiri francescani. A ciascuno di loro si è cercato di attribuire sembianze il più possibile vicine alla loro reale fisionomia, riferendosi ai ritratti autentici pervenuti alla postulazione, o alle immagini di culto realizzate dopo la beatificazione e consolidate nell’immaginario popolare.



Dal sito della Custodia di Terra Santa riprendiamo le notizie relative alla prossima canonizzazione dei Santi Martiri di Damasco, a cui affidiamo il presente momento drammatico per tutto il Medio Oriente e in particolare il futuro della amata Siria nell'oscuro disegno di destabilizzazione e ulteriore sofferenza per il popolo siriano  delle potenze del mondo ed infernali ...
Pubblicheremo dal sito della Custodia, che ringraziamo sentitamente, giorno per giorno alcune brevi biografie del Santi che saranno canonizzati, come occasione unica di conoscenza di un tratto di storia poco conosciuta della presenza cristiana a Damasco nel 1800, affinchè siano “un segno di speranza per tutta la Chiesa in Siria".
Il Custode di Terra Santa 
Fra Patton ha messo in evidenza la presenza congiunta, nel gruppo dei martiri, di frati minori e di fedeli laici:
“Sia un esempio di come bisogna collaborare tra i diversi riti all’interno della Chiesa cattolica e tra le diverse Chiese, per far conoscere Gesù Cristo e custodire la presenza cristiana in Siria, piccola ma estremamente significativa e importante”.

OraproSiria


I vostri nomi sono scritti nei cieli

L’Ordine dei Frati Minori e la Custodia di Terra Santa, insieme alla Chiesa maronita, si stanno preparando a un evento molto importante: il prossimo 20 ottobre verranno dichiarati santi gli undici "Martiri di Damasco", otto frati francescani e tre laici maroniti uccisi in odio alla fede a Damasco in Siria, nella notte tra il 9 e 10 luglio 1860.

Il contesto storico

L’evento martiriale si colloca nel contesto di persecuzione contro i cristiani ad opera dei Drusi sciiti, che a partire dalla primavera 1860 si allargò dal Libano alla Siria. Il 9 luglio 1860 la folla fanatica dei persecutori invase il popoloso quartiere cristiano di Damasco, che contava circa 3.800 abitazioni, e si abbandonò ad ogni sorta di violenza, dopo aver chiuso tutte le vie di fuga. Quella stessa notte, un commando di rivoltosi, animato da odio religioso, riuscì a penetrare nel convento francescano di San Paolo attraverso una porta nascosta indicata da un traditore: qui furono barbaramente trucidati otto frati minori – sette di nazionalità spagnola e uno di nazionalità austriaca – e tre cristiani laici maroniti

Da subito, fu evidente a tutti che si trattava di una morte martiriale: alle undici vittime, infatti, prima di infliggere i colpi mortali, gli aggressori chiesero di rinunziare alla fede cristiana e di abbracciare l’Islam, invito che fu decisamente rifiutato. Furono beatificati da Pio XI nel 1926.


Gli eroici testimoni della fede:


Il martirio si colloca nel contesto della persecuzione contro i cristiani ad opera dei Drusi sciiti, che dal Libano si era allargato fino alla Siria e che provocò migliaia di vittime. Nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1860, un commando druso entrò nel convento francescano nel quartiere cristiano di Bab-Touma, e massacrò otto frati - Manuel Ruiz, Carmelo Bolta, Nicanor Ascanio, Nicolás M. Alberca y Torres, Pedro Soler, Engelbert Kolland, Francisco Pinazo Peñalver y Juan Jacobo Fernández - e tre cristiani di rito maronita, i fratelli Massabki. Si trattò con chiarezza di martirio: alle undici vittime, infatti, prima di ucciderle, gli aggressori chiesero di rinunciare alla fede cristiana e abbracciare l’islam, invito che fu decisamente rifiutato.  Tra l’altro, i tre fratelli maroniti erano anche terziari francescani. Nel convento francescano di Bab-Touma, dove è avvenuto il martirio si conservano le reliquie dei beati.

Manuel Ruiz López

Sacerdote professo della Provincia dell’Immacolata Concezione, dei Minori Scalzi o Alcantarini (1804-1860)

Nato nel 1804 a San Martín de las Ollas, Burgos (Spagna), ed entrato nel 1825 tra i Frati Minori, fu ordinato sacerdote nel 1830.

L’anno successivo fu inviato in Terra Santa dove, dopo aver appreso le lingue locali, svolse un fecondo apostolato. Nel 1847 fu costretto a tornare in Europa per motivi di salute, ma ritornò in Terra Santa nel 1858. La notte dell’eccidio, appena i rivoltosi penetrarono nel convento, corse in chiesa per consumare le Specie Eucaristiche, in modo che non fossero profanate. Fu ucciso ai piedi dell’altare.




Fra Carmelo Bolta Bañuls:al servizio in Terra Santa per 29 anni

Sacerdote professo della Provincia di San Francesco di Valencia, dei Minori Osservanti (1803-1860)

 Nato nel 1803 a Real de Gandía, Valencia (Spagna).

Nel 1825 fu accolto tra i Frati Minori e nel 1829 fu ordinato sacerdote. Nel 1831 partì alla volta della Terra Santa dove risiedette nei conventi di Giaffa, Damasco ed Ein Karem, nel Santuario della Visitazione. Nel 1851 fu trasferito a Damasco con l’incarico di parroco e insegnante di lingua araba.

Era uno dei più anziani, tra quelli che trovarono la morte nel convento di San Paolo a Damasco a causa del violento attacco contro i cristiani, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1860.

Fra Carmelo Bolta Bañuls aveva 58 anni: parroco per i latini, insegnava l’arabo ai giovani missionari e si trovava nel convento quando entrarono i persecutori Drusi.

Carmelo Bolta Bañuls era nato in un piccolo villaggio spagnolo, Real de Gandía (Valencia) il 29 maggio 1803. Cresciuto in una famiglia di sana tradizione religiosa, da giovanissimo fu fortemente affascinato dai racconti di suo zio materno, il francescano Padre Isidoro Bañuls, di rientro dalla missione in Terra Santa. 

«Le fonti a nostra disposizione – sottolinea fra Ulise Zarza, Vice postulatore e membro, insieme a fra Rodrigo Machado Soares e fra Narciso Klimas, del Comitato di preparazione delle celebrazioni per la canonizzazione dei Martiri  – raccontano che fu dallo zio che Pascual, come si chiamava prima della sua professione religiosa, ebbe notizia dei santuari di Gerusalemme, di Betlemme, di Nazaret e del modo che avevano i frati di solennizzare il Natale e la Pasqua in questi luoghi». 

Ammesso al noviziato del Real Convento di San Francesco di Valencia dei Minori Osservanti, divenne frate minore e fu ordinato sacerdote nel 1829: una volta ottenuto dai Superiori il permesso di recarsi nelle missioni di Terra Santa, si imbarcò, insieme a Padre Manuel Ruiz, il 20 luglio 1831 alla volta di Giaffa, dove giunse il 3 agosto 1831.

«Sappiamo che era un uomo colto, cordiale e affabile nei modi, ma di salute cagionevole – continua fra Ulise –. È per questo che dovette dimettersi dopo pochi mesi dall’incarico di Superiore dell’ospizio di Giaffa perché il clima nuoceva alla sua salute». Durante la sua permanenza in Terra Santa Padre Carmelo, che padroneggiava le lingue orientali, si dedicò per lo più all’insegnamento ai confratelli religiosi che si preparavano al sacerdozio a Gerusalemme.

Fu guardiano a Damasco per tre anni (1843-1845) e successivamente, dal 1845 al 1851 fu parroco ad Ain-Karem, al Santuario della Visitazione. Nel mese di settembre 1851 fece ritorno a Damasco come parroco ed insegnante di lingua araba ai giovani sacerdoti: nel suo incarico, alla fine degli anni Cinquanta, fu affiancato da Padre Engelbert Kolland, anch’egli martire. 

«Nel caso di Padre Carmelo abbiamo un testimone de visu del suo martirio – spiega Fra Ulise –. Si tratta di Naame Massabki, figlio di Mooti, uno dei tre martiri maroniti. Naame all’epoca dei fatti era un ragazzo, e si era nascosto in un angolo della chiesa al momento dell’irruzione dei drusi all’interno del convento».

«È lui che ci parla degli ultimi istanti della vita del religioso: percosso fortemente dai suoi aguzzini, essi lo minacciarono di morte se non avesse abbracciato l’Islam. Le ultime parole di Carmelo furono: “Giammai, perché Gesù Cristo dice: Non temete quelli che uccidono il corpo, ma quello che può uccidere corpo ed anima e mandarli all’inferno”. Ecco, questa è una cosa che accomuna Padre Carmelo e Fra Manuel Ruiz a tutti gli altri martiri: perché nella loro storia c'è un momento puntuale in cui accolgono quella grazia: la grazia del martirio». 

 Oggi Carmelo Bolta è titolare dalla omonima Cofradía di Real di Gandía, che annualmente ne celebra la festa pubblica. A lui sono dedicate la piazza della chiesa parrocchiale di Real di Gandía e anche alcune istituzioni civili: la sua casa natale, le scuole pubbliche primarie e la Cooperativa Agricola Valenciana.

                                          .... SEGUE .....

domenica 13 ottobre 2024

Secondo il 'piano decisivo' di Smotrich, la terra d'Israele sarà veramente dal mare al fiume

 

Ha destato scalpore in questi giorni la dichiarazione del ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich che in una intervista afferma “è scritto che il futuro di Gerusalemme è espandersi fino a Damasco” e di volere uno 'stato ebraico che si estenda alla Palestina, alla Siria, all'Iraq, al Libano, alla Giordania, all'Egitto e all'Arabia Saudita'. Per documentare che tali affermazioni sono veritieri intenti e non pour-parler usciti in una intervista, alleghiamo qui sotto una prima parte della meritevole traduzione fatta dalla Rivista Terrasanta del cosiddetto «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza, reso pubblico nel 2017 dall'attuale ministro Bezalel Smotrich, esponente dell'estrema destra religiosa sionista. Non c'è spazio alcuno per uno Stato di Palestina, dicono chiaro e tondo Smotrich e i suoi. Per la traduzione completa del testo, rimandiamo alla rivista Terrasanta stessa che si è assunta l'incarico di tradurre e pubblicare il testo completo del 'Piano'.

Da parte della nostra amica Maria Antonietta Carta, profonda conoscitrice della realtà del Medio Oriente che ha vissuto per oltre tre decenni in Siria, questa è la considerazione suscitata dalla lettura del testo:

L’apogeo dell’ipocrisia anglosionista o soltanto la soluzione finale perfetta per il popolo palestinese? Oppure l’arroganza e la prepotenza di un ‘’Piccolo Israele’’ dall’appetito pantagruelico, giunto al suo cupo crepuscolo senza poter diventare ‘’il Grande Israele’’?

Il piano Una speranza del ministro Bezalel Smotrich, condito con il perverso uso politico della religione ebraica, può di primo acchito suscitare una risata ironica, considerazioni sull’impiego distorto del pensiero di figure degne come Einstein o del mito di Sisifo, sulle interpretazioni menzognere della storia o su quale alta meta può raggiungere la stupidità umana. In realtà, riflettendoci anche soltanto un po’, il ‘’piano’’ di questo figuro balordo risulta pericoloso nella sua esagerazione, proprio perché a una lettura ingenua, magari pilotata da giornalisti e analisti occidentali diciamo, eufemisticamente, confusi, potrebbe apparire soltanto la visione di un fanatico sconsiderato e non quel disegno sionista che si persegue da oltre un secolo. Purtroppo, per anni abbiamo assistito o ancora assistiamo alle guerre devastatrici e spietate, e all’assedio economico, contro le popolazioni dei Paesi arabi resistenti alle mire espansionistiche di Israele e condotte dai suoi patrocinatori, interessati a disgregare e razziare quell’immensa regione omogenea dal punto di vista geografico e culturale, importantissima via terrestre di comunicazione e dei commerci tra Oriente e Occidente, ricchissima di fonti energetiche e di altre preziose materie prime. Tutti i drammatici eventi che hanno interessato o interessano Afghanistan, Gaza, Iran, Libano, Siria, Libia etc. ne sono testimonianza. 

Maria Antonietta Carta

 

DA TERRASANTA 5/2024 - DOCUMENTI 

Il piano Una speranza, di Bezalel Smotrich

Nel settembre 2017, quando presentò questo suo «piano decisivo per Israele», intitolato Una speranza [anche traducibile con: Un’unica speranza], l’avvocato Bezalel Smotrich era già parlamentare e ricopriva la carica di vicepresidente della Knesset. Allora come oggi militava nell’area del sionismo religioso (all’estrema destra dell’agone politico israeliano). Nel sesto governo Netanyahu, insediatosi a fine 2022, è ministro delle Finanze (con un piede anche nel ministero della Difesa), oltre che leader di una delle forze della coalizione di maggioranza: il Partito religioso nazionale – Sionismo religioso, che nel 2023 ha raccolto il testimone di una precedente formazione politica.
Traduciamo il piano Smotrich a titolo di documentazione per i nostri lettori. Come si vedrà, all’epoca della sua stesura l’uomo politico non dedicava molta attenzione alla Striscia di Gaza. Dopo gli eccidi del 7 ottobre 2023 e il loro tragico seguito non pochi nel suo campo politico sono per un ritorno stabile degli ebrei israeliani in quel territorio. Lui si tiene sul vago, ma carezza l’idea di un’emigrazione massiccia dei gazesi.


Ecco il testo del Piano: 

«La follia», recita una famosa citazione, spesso attribuita ad Albert Einstein, «è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Nella realtà politica odierna, sembra che la follia sia all’ordine del giorno. La sinistra israeliana ripete continuamente soluzioni «semplici e sicure» per porre fine al conflitto arabo-israeliano; e sempre più spesso assistiamo al fallimento di queste soluzioni e alla loro inutilità. Non fare nulla garantisce semplicemente l’eterna continuazione di questi tentativi, pieni di false speranze e illusioni. I tempi sono maturi per dire «basta», per rompere il paradigma e per trovare una via d’uscita adeguata a questo ciclo apparentemente senza fine.

La base della mia proposta è un cambiamento di centottanta gradi rispetto al modus operandi a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni. Ripensare richiede coraggio, ma pare che non abbiamo scelta. La maggior parte, se non tutti i piani politici avanzati negli ultimi anni, sia da sinistra che da destra, forniscono “soluzioni” che perpetuano il conflitto, condannandoci tutti a continuare la sua miserabile gestione per i prossimi cent’anni. Il piano decisivo qui proposto, invece, prevede una soluzione reale, e soprattutto possibile e pratica, per porre fine al conflitto e portare una vera pace.

Ciò che distingue questo piano dagli altri è che «prende il toro per le corna», affrontando la radice del conflitto e il fallimento, passato e presente (e futuro), delle “soluzioni politiche”. Non fa differenza dove i pianificatori traccino i confini proposti, anche se provengono dalla cosiddetta destra (Sharon e Olmert avevano le loro mappe; forse anche Bibi ne ha una). La pace non sorgerà finché manterremo la nostra posizione di partenza secondo cui questa terra è destinata a contenere due collettività con aspirazioni nazionali contrastanti. Se così fosse, i nostri nipoti e i nostri pronipoti saranno inevitabilmente destinati a vivere di spada.

Nelle pagine che seguono, delineerò il mio “piano decisivo”, che ho chiamato Una speranza. Si tratta di una soluzione globale, ottimista senza essere ingenua, di quelle che non ignorano le difficoltà ma che sono accompagnate da una vera fede. Fede nel Dio d’Israele, nella giustezza della nostra causa e nella nostra esclusiva appartenenza alla Terra d’Israele; fede nella nostra forza di resistere agli argomenti che potrebbero minare la nostra convinzione; fede nella nostra capacità di mettere in campo l’eroismo necessario per vincere questa lotta epocale.

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All’inizio è necessario fare un po’ di attenzione.

Sono un credente. Credo nel Santo, Benedetto Egli sia, nel Suo amore per il Popolo ebraico e nella Sua Provvidenza su di esso. Credo nella Torah che ha predetto l’esilio e promesso la redenzione. Credo nelle parole dei profeti che hanno assistito alla distruzione e, non di meno, nella nuova costruzione che ha preso forma sotto i nostri occhi. Credo che lo Stato di Israele sia l’inizio della nostra redenzione, il compimento delle profezie della Torah e delle visioni dei Profeti.

Credo nel legame vivo tra il Popolo d’Israele e la Terra d’Israele; nel destino e nella missione del Popolo ebraico per il mondo intero e nella importanza vitale della Terra d’Israele nel rendere certa la realizzazione di questa causa. Credo che non sia un caso che la Terra d’Israele stia fiorendo sulla scia del ritorno degli ebrei, dopo tante generazioni di totale abbandono.

Credo che l’anelito di generazioni per questa terra e la fiducia nel nostro ritorno finale siano le forze trainanti più profonde del percorso del Ritorno a Sion che ha portato alla creazione dello Stato di Israele.

Tuttavia, il documento che vi viene presentato non contiene nulla che sia basato sulla fede. Non si tratta di un manifesto religioso, ma di un documento realistico, geopolitico e strategico. Si basa su un’analisi della realtà e delle sue cause profonde, e si fonda su presupposti fattuali, storici, democratici, di sicurezza e politici. Elementi che ci conducono a una soluzione che, a mio giudizio, ha le più realistiche possibilità di successo, sicuramente maggiori delle altre soluzioni proposte quotidianamente.

Questo documento è un documento pragmatico, ma si colloca agevolmente entro la mia visione del mondo basata sulla fede. Coloro che lo desiderano possono considerarlo nient’altro che una soluzione pratica e politica; gli altri sono invitati a vederlo come un incontro tra fede e realismo, visione e realtà.

Il contesto (Background) ....

sabato 12 ottobre 2024

A dieci anni dal rapimento, il vescovo Hanna Jallouf è pastore vicino al suo gregge

In quanto vescovo dei cattolici di rito latino in Siria, il francescano Hanna Jallouf conosce molto bene la situazione nel governatorato di Idlib, l'ultima roccaforte dei ribelli, dove ha svolto il ruolo di pastore per 22 anni fino alla sua nomina a vescovo nel settembre 2023. In una conversazione con una delegazione di ACS, racconta le sfide per i cristiani rimasti lì.
 

Di Sina Hartert /acninternational.org

Dei circa 10.000 cristiani che vivevano nel governatorato di Idlib prima della guerra, oggi ce ne sono solo circa 650, principalmente anziani nelle aree rurali", ha detto il vescovo Hanna Jallouf a una delegazione in visita di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACN) a Damasco. "Dopo che gli estremisti hanno preso il controllo della zona nei primi anni di guerra, la maggior parte dei cristiani è fuggita a causa delle difficili condizioni di vita". 

Per secoli, il governatorato di Idlib, al confine con la Turchia, è stato popolato prevalentemente da cristiani, ma durante la guerra è diventato la roccaforte dei ribelli antigovernativi, e lo è rimasto fino a oggi. Durante la guerra, iniziata nel 2011, padre Jallouf è rimasto con la sua gente. Il 5 ottobre 2014, il francescano, che all'epoca era parroco della città siriana di Knayeh, è ​​stato rapito dai combattenti del Fronte al-Nusra, insieme a circa 20 membri della parrocchia, e tenuto prigioniero per cinque giorni. 

Dieci anni dopo, è Vicario Apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino in tutta la Siria. "Papa Francesco probabilmente mi ha nominato vescovo perché conosco molto bene la situazione qui", dice il vescovo Jallouf, che è il primo siriano a essere nominato a questo incarico. "Come sacerdote in una parrocchia ero in contatto con i gruppi ribelli e ho sempre avuto a che fare con loro, per tutta la durata della guerra. E continuo a farlo". 

Il rispetto dei ribelli in un paese in cui il nord-ovest è ancora controllato dalle milizie islamiste è molto significativo. La vita cristiana lì è molto limitata. Secondo il vescovo, ai cristiani è proibito svolgere pratiche religiose fuori dalla chiesa o esporre simboli religiosi come statue e croci. 

Con l'escalation della guerra, tutti gli insegnanti cristiani sono stati rimossi dai loro incarichi, il che ha portato molte famiglie cristiane a ritirare i loro figli da scuola. "Ora insegnano ai loro figli a casa, per evitare l'apparenza di un raduno scolastico cristiano", ha detto il vescovo ad ACN. Il vescovo ha inoltre spiegato che per i loro esami finali i bambini devono viaggiare in altri governatorati come Aleppo e Hama, a un costo esorbitante di circa 3.000 dollari a persona per trasporto e alloggio. 

Anche in altre parti della Siria, la presenza cristiana è seriamente minacciata. Molte famiglie cristiane hanno lasciato il paese per cercare una vita migliore in Europa, Canada e Australia. Tredici anni di guerra, un'inflazione estremamente elevata e una povertà estrema hanno lasciato il paese esausto. Le stime suggeriscono che il 90 percento della popolazione siriana vive al di sotto della soglia di povertà. Ad Aleppo e Hassakeh l'emigrazione è così alta che, secondo una fonte locale, entro il 2050 non ci sarà più una comunità cristiana funzionante. 

Il vescovo Jallouf afferma che come sacerdote era un “semplice pastore” e spiega che vuole rimanere vicino alla gente come vescovo. Una delle sue priorità sin dalla sua nomina è stata quella di visitare tutte le parrocchie di rito latino, le congregazioni e le istituzioni cattoliche del paese, per conoscere direttamente le esigenze locali. 

Il vescovo afferma di essere soddisfatto della partnership con ACN. Quest'estate l'ente benefico internazionale ha reso possibile la partecipazione di oltre 1.500 bambini e giovani di rito latino ai campi estivi e, dopo il devastante terremoto del 2023 nella Siria settentrionale, ACN ha contribuito a ricostruire una chiesa e 50 case per famiglie cristiane di rito latino a Idlib. Ha inoltre sostenuto progetti di soccorso di emergenza come "Pasti a domicilio" per gli anziani che non avevano nessuno che si prendesse cura di loro. 

“Sono passati dieci anni dal mio rapimento e speriamo che gli ultimi dieci anni non si ripetano. Perdoniamo, ma non dimentichiamo, è ciò che Cristo ci ha insegnato”, ha detto il vescovo. “In questi giorni prego Dio per la compassione, il perdono e la liberazione dalla guerra e per il ripristino della pace, dell'armonia, della stabilità e della ricchezza in questo paese ferito. Speriamo che, con l'intercessione della Beata Vergine Maria, dei nostri fedeli martiri e di tutti i santi, possa tornare a essere un paese di amore, rispetto, perdono e coesistenza tra le varie comunità e religioni”.